Sarah
guarda l’orologio. Sono le due del pomeriggio, passate da un
paio di minuti.
Il
tempo scorre, veloce e fluido. Stagioni passano lasciando qualche
traccia qua e
là in questo mondo. Il tempo porta con sé
l’amore. Il tempo lo fa appassire. Il
tempo si porta via i ricordi, a volte anche quelli più
belli, quelli che si
tenta a tutti i costi di conservare. Il tempo è un fiume che
rompe gli argini e
travolge tutto. Anche ciò che si vorrebbe salvare.
Ma
il tempo con lei non ha fatto la stessa cosa. Lei ricorda tutto.
Non
si sente in colpa. Sa quello che ha fatto. Sa perché si
trova lì, vicino al suo
avvocato, in un’aula di tribunale, circondata dal mormorio di
persone che non
conosce, che sono venute per vederla in faccia, per vederla da vicino,
per
leggere le sue espressioni, per scattare delle foto.
Non
si sente in colpa. No. Ma i ricordi la tormentano. Sono i ricordi della
sua
vita insieme a Jo, la sua compagna. Sono ricordi che non la lasciano in
pace. I
ricordi che non la abbandoneranno mai.
Anche
adesso ricorda. L’attesa la costringe a ricordare.
“Ci
sei mai stata a
Parigi, Sarah? Non sai quante cose mi hanno raccontato di Parigi.
Potremmo
andarci. Sarebbe bello”.
La
dolcezza di quella
voce è incredibile.
“Parigi...”,
mormora
Sarah.
“Non
ti piace?”.
“Non
lo so. La trovo
banale. Ci vanno tutti”.
“Che
sciocca che sei. È
romantica”.
“Se
lo dici tu”.
Non
dovrebbe continuare a pensarci. Solo che non ha la forza di reprimere
quei
pensieri. Riemergono. Sono ricordi che sopravvivono, che la sommergono.
Il
vuoto che sente dentro è troppo grande. Per quanto Sarah
sappia di aver fatto
solo ciò che lei ha chiesto, l’assenza di Jo
è terribile. È uno schiaffo sul
viso ogni mattina. È sale gettato su una ferita aperta.
Jo.
Sarah l’ha sempre chiamata così. Jo. Ha sempre
scritto il suo nome così.
Le
sembra di sentire le sue mani sulle spalle, le braccia che circondano
la sua
vita... e poi i suoi occhi scuri ed intelligenti. Occhi da cerbiatta. I
capelli
biondi che accarezzava spesso. Le era sempre piaciuta la sensazione dei
suoi
capelli che scivolavano fra le dita.
“Perché
tu e Stefano
non cercate di andare d’accordo?”.
Sarah
scuote la testa.
“Perché è una causa persa. Tuo fratello
non capisce”.
“Spero
che il nostro
rapporto non sia una causa persa”.
“Ma
che dici, Jo...”.
“Ti
amo. Lo sai, vero?
Non voglio perderti solo perché Stefano, questo, non riesce
a capirlo”.
“No,
Jo. Tu non mi
perderai. Io ti amo”.
Dolce
bacio sulle
labbra. Jo ha bisogno di essere rassicurata e lei lo fa volentieri.
“Dimmelo
di nuovo”, chiede
Jo, sorridendo.
“Ti
amo, Jo. Sei la mia
vita”.
Stefano,
il fratello di Jo, è lì. Sta aspettando il
verdetto, come tutti. Lui vorrebbe
che la giuria la condannasse. Lui la considera un’assassina.
Non ha mai
accettato il fatto che sua sorella si fosse innamorata di una donna. Di
una
donna che, per di più, fino a pochi mesi prima, si
guadagnava da vivere servendo
ai tavoli di un pub e partecipando a mostre d’arte
contemporanea con i suoi
“stupidi quadri”.
L’accusa
ha chiesto dieci anni. Dieci lunghi anni in una cella.
Ma
Sarah non sta pensando a quello. Sta pensando a Jo.
Perché
lei? Perché doveva capitare proprio alla donna che amava?
Perché doveva
capitare proprio alla sua unica ragione di vita?
“Cos’è
successo?”.
Stefano
la guarda, gli
occhi lucidi di lacrime. I genitori di Jo sembrano statue di granito.
“Un
incidente...”,
risponde lui.
“Che
incidente? Quando?
Come...?”.
“L’hanno
investita,
Sarah. Un uomo. Credono... credono fosse ubriaco”.
Sarah
vede rosso. Un
lago rosso. Un abisso rosso. Le pulsano le tempie.
“Come...
come sta?”,
riesce a chiedere.
“Non
lo sappiamo. La
stanno operando”.
Poi
era arrivato un
medico. Un medico dall’aria stanca, con gli occhi scuri,
arrossati.
Aveva
spiegato loro
l’entità del danno. Jo era paralizzata dal collo
in giù.
“Guarirà,
vero?”,
chiede Sarah. “Vero che guarirà?”.
No.
Non sarebbe
guarita.
Era
proprio quello il
punto. Non sarebbe mai guarita.
Voci
nella sua mente. Echi. Una moltitudine di echi.
Si
massaggia le tempie. L’atmosfera intorno a lei si
è fatta sonnacchiosa. Come
durante una lezione, a scuola, sul finire di una giornata grigia e
uggiosa.
Lontana,
lontanissima, sente la voce del suo avvocato e una mano sulla spalla.
-
Stai bene, Sarah?
No,
non sta bene.
-
Sì - risponde, meccanicamente.
Nemmeno
il suo avvocato, per quanto bravo e gentile, può immaginare
che cosa stia
provando o pensando. Ma non importa. Lo sa lei. Ed è
più che sufficiente. Nessuno
conosceva Jo come la conosceva lei. Neanche quel saccente di suo
fratello.
Nessuno...
“Quindi
lei ammette di
aver staccato le macchine?”.
Le
hanno già fatto
quella domanda. Un milione di volte.
“Sì”.
“Amava
Giovanna Mancuso,
signorina Ferri?”.
“Certo”.
“Ne
è sicura?”.
“Sì”.
Prova
rabbia. Collera.
L’avvocato che rappresenta l’accusa è un
uomo alto, brizzolato, sicuro di sé.
La guarda con aria di sfida. Desidera il suo crollo.
“Allora
perché l’ha
uccisa?”.
“Io
non l’ho uccisa. È
stata lei a chiedermi di farlo”.
“Perché?”.
“Diceva
che... non
voleva vivere così. Che quella non era più la sua
vita. Diceva... diceva che
non riusciva a sopportare il suo stato”.
Confusione.
Baccano.
Stefano
si alza in
piedi. È furioso. Piange.
“Sei
una bugiarda!”,
grida. “Sei solo una sporca bugiarda, Sarah!
Nient’altro”.
Il
giudice ordina di
fare silenzio. Il martello batté sul legno. Una volta. Due.
Nessuno
lo ascolta.
“Ordine!
O faccio
sgombrare l’aula!”.
“Voi
non capite!”,
grida Stefano. “Non credetele. Non dice la verità.
Mia sorella...”.
“Ordine!”.
Sì.
Lei ha staccato le macchine. Lei ha fatto quello che Jo le aveva
chiesto di
fare.
Non
voleva. All’inizio, non voleva.
Non
sopportava l’idea di vivere senza Jo.
Non
sopportava neanche di vederla ridotta in quello stato, per colpa di un
uomo che
una sera aveva bevuto troppo.
Odia
quell’uomo. Lo odia con tutto il cuore e tutta
l’anima. Lo odia talmente tanto
che, a volte, il suo odio la spaventa.
Devi
farlo, Sarah. Solo
tu puoi farlo, aveva
detto Jo.
Solo
lei.
Ti
prego.
Quelle
erano state le due parole che l’avevano maggiormente colpita.
Ti prego. Quelle
erano state le parole decisive.
L’aveva
fatto. L’aveva aiutata.
Io
ti amo, Sarah. L’ultima
cosa che aveva detto, prima che la sua voce si spegnesse e i suoi occhi
si
chiudessero per sempre.
Anch’io
ti amo, Jo.
-
La corte! - annuncia una voce imperiosa.
Rumore
di passi. Porte che si aprono e si chiudono. Sarah si riscuote e vede i
membri
della giuria che rientrano, ordinati, con le facce inespressive. Facce
giovani,
facce vecchie, facce barbute, facce pulite. Uomini e donne.
Entra
anche il giudice e subito inforca gli occhiali.
Tutti
si alzano in piedi. Anche Sarah. Si sente ancora stordita, frastornata.
-
La giuria ha raggiunto il verdetto? - domanda il giudice.
Un
attimo di silenzio. Breve.
L’incaricato
si alza e si schiarisce la voce. Ha un foglietto bianco in mano.
-
Sì, vostro onore.