Redemption.
Dedicata a chiunque si senta
inadeguato
e porti il peso di colpe
inesistenti.
Immaginatevi
una struttura bianca, dai muri perfetti -la cui candidezza è
interrotta ogni tanto da qualche cartello rappezzato- che si erge in
tutta la propria imponenza, stagliandosi contro un cielo plumbeo e
minaccioso.
E dentro
questa struttura bianca immaginatevi infinite stanze, con tante persone
quante ne può vantare un formicaio, intervallate da corridoi
lunghi, larghi e dal caratteristico odore di disinfettante, che pare
iniettarvisi tra le pieghe della pelle da quanto è pungente.
In una di
queste stanze, piazzateci un bambino.
Aveva circa
otto anni e quindi si può intuire che non sapesse cosa
fossero avvenimenti effimeri come la vita e la morte, giusto?
Giusto.
Nonostante
avesse rischiato la vita poco tempo addietro, non aveva ancora distinto
la linea sottile che la separava dalla pace eterna.
Questo bambino
fissava un foglio bianco, una matita stretta tra le pallide mani, gli
occhi oscurati dalla frangia corvina che gli ricadeva scomposta e
disordinata sulla fronte increspata da rughe di pura concentrazione.
Mordicchiava
il retro della mina con fare pensieroso, perso nei propri ragionamenti.
I piedini si
muovevano leggermente, uno sopra, uno sotto alle coperte. Si stringeva
nel pigiama grigio, timidamente.
"Ciao."
Alzò
la testa di scatto, con lo sguardo incuriosito: un bambino. L'ennesimo.
Si aggrappava a una lunga asta con delle rotelle, una sacca contenente
del liquido trasparente era agganciata ad un'estremità e un
lungo tubicino -anch'esso decolorato- andava ad unirsi alla sua pelle.
Aveva occhi
cerchiati, capo perfettamente raso, fisico gracile infagottatato in un
ampio pigiama blu e una vestaglia riccamente decorata. Si reggeva a
stento, sorreggendosi all'asta della flebo.
Lo osservava
impassibile, non un alito di emozione trapelava da quegli occhi verdi
di taglio indiscutibilmente occidentale.
La pelle
diafana era resa ancor più fragile dal contrasto che
esercitava il colore scuro del corredo.
Aveva un'aria
indifesa, spaurita... sola.
Si chiamava
Daniel. Aveva nove anni, ma ne dimostrava sei. Il bambino non sapeva
altro. Non aveva idea del perchè Daniel fosse lì
con lui, vicino di stanza. Non aveva idea del perchè avesse
un ago piantato nel braccio. E a dire il vero non se lo chiedeva
neppure.
Non pensate
che fosse per egoismo o chissà...
... era un
bambino. Per lui non esisteva nulla al di fuori delle proprie
conoscenze.
E forse era un
bene. Neppure Daniel pareva conoscere il male da cui era afflitto, ed
entrambi si astenevano dal parlarne, come anche non discorrevano del
perché il corvino si trovasse in quella stanza.
L'occidentale
non lo sapeva. L'orientale sì.
Oh, lui
l'aveva capito benissimo perché era lì dentro.
Sapeva a cosa servivano i complicati macchinari e congegni che
utilizzavano per frugargli nel cervello e che l'avevano tenuto sveglio
notti intere a lambiccarsi.
Aveva smesso
da settimane di porsi quella fatidica quanto stupida domanda:
perché?
I
perché non funzionavano, l'aveva capito.
I
perché facevano male, scavavano una ferita molto profonda.
I
perché non avevano mai una risposta, ma facevano battere
forte il cuore punto di sofferenza.
Le cose
capitavano e basta. Forse scoprirlo a otto anni lo avrebbe risparmiato
da immani sofferenze... o forse no.
"Ciao."
rispose celermente, ritornando con una punta di rammarico a
concentrarsi sul foglio immacolato.
Sentì
lo strusciare delle rotelle sulle piastrelle fredde e piedi infagottati
in pantofole di pelo arrancare verso il letto sul quale era seduto.
Non distolse
lo sguardo dalla pagina bianca.
"Cosa fai?"
domandò Daniel osservando che l'amico non aveva tracciato
neppure un puntino.
"Scrivo."
"... che cosa?"
"Un finale
allegro per una storia triste."
Il biondo
rimuginò un poco sulle parole del compagno, per poi
sorridere "Se ha un finale felice è tutto a posto allora...
puoi sorridere."
"E invece no."
ribattè seccato l'altro, ancora col capo chino.
Daniel si
espresse in una muta richiesta di spiegazioni, piegando lievemente la
testa di lato.
L'altro lo
guardò spazientito e parlò dopo aver sospirato
"Anche se ha una fine felice prima ci sono tante cose brutte da
passare."
"E ti
spaventano?" domandò con una naturalezza che poteva essere
propria solo di un bambino.
Si prese
alcuni secondi per rispondere e quando lo fece parlò in modo
amareggiato, quasi gli costasse parecchio ammettere quel particolare
"... molto."
Percepì
una tiepida mano posarsi sulla sua. Alzò il capo inciampando
negli occhi smeraldini dell'altro.
Si
scostò con poca grazia, mugugnando, tornando a nascondersi
dietro le ciocche seriche.
"La mia mamma
dice sempre che non bisogna aver paura." disse infine Daniel, dopo
lunghi minuti di leggero silenzio.
"Lo dice
perchè è stupida." rispose con ben poca
delicatezza l'altro.
L'amico non
raccolse la provocazione, continuando ad elargire le proprie personali
perle di vita "Se una cosa deve succede, succede. La paura ti fa
solamente passare male il tempo felice che hai."
Il corvino si
immobilizzò. Quelle parole l'avevano colpito, in
profondità. Gli si erano rannicchiate nel petto o in
qualunque altro posto contenesse le emozioni.
Non rispose,
celandosi dietro il mordicchiare inquieto della matita.
Rimasero
infiniti attimi così: Daniel che puntava lo sguardo sul capo
chino dell'altro, che dal canto suo non desiderava assolutamente
incontrare la potenza di quegli occhi abbaglianti.
"Anche i tuoi
genitori ti vogliono bene."
Un sussulto.
Daniel aveva
parlato quasi in tralice, fissandosi i piedini con naturalezza
paranormale.
Il corvino
strinse il foglio fino a strapparlo.
"Tu non sai
niente." scandì con una rabbia che andava acuendosi ogni
secondo che passava.
"Anche se ti
hanno messo qui dentro ti vogliono bene." proseguì Daniel.
"Ti ho detto
di smetterla!"
"... tutti i
genitori vogliono bene ai propri figli."
Sciaff!
Il biondo
capitolò a terra, fissando negli occhi il corvino con uno
stupore disarmante.
L'altro si
guardò la mano che aveva colpito l'amico, e poi il profilo
rossastro che andava sempre più scurendosi sulla guancia
dell'altro.
Chinò
il capo, l'arto che tremava lievemente.
Rimasero
lunghi minuti così, uno a terra e l'altro con la rabbia che
scemava sempre più.
"I miei
genitori non sanno niente. Come i tuoi. Come tutti qui dentro. Credi
che ci abbiano messo qui a fare una vacanza? Sei malato. Sono malato.
Stanno cercando di curarci. Ma non ci riescono e forse mai ci
riusciranno per quello che ne sappiamo." il corvino parlò
con voce bassa e calma, nonostante le dure parole vendute.
Daniel si
alzò a fatica, gli occhi smeraldini che si velavano di
lacrime.
"Questo io lo
so. Non c'è bisogno che me lo ricordi." e detto
ciò uscì dalla stanza, passandosi uno scheletrico
braccino infagottato sulle palpebre chiuse.
I giorni
passavano e Daniel non tornava. Il corvino era sinceramente pentito del
gesto compiuto e voleva avere l'opportunità di scusarsi.
Peccato che fosse provvisto di un non indifferente orgoglio, che non
gli facilitava assolutamente il compito. Una parte di lui voleva
alzarsi e andare nella camera attigua alla propria, fissare negli occhi
il bambino biondo e recitare una piccola promessa di pace, sincera.
Eppure non ci
riusciva. Ammettere in quel modo di aver sbagliato era un colpo troppo
duro da impartire al proprio subconscio, e lui era abbastanza piccolo
per non rendersene conto.Tra lui e Daniel, in tutti quei mesi che
avevano condiviso alla Clinica, si era cucito poco a poco un rapporto
intenso di amicizia, che li aveva uniti indissolubilmente, contro un
destino che pareva essergli avverso.
Il biondo
aveva preso l'abitudine di far visita all'amico almeno un paio di volte
al giorno, per giocare, chiaccherare o semplicemente farsi compagnia
vicendevolmente.
Non percepire
la sua presenza era davvero un peso tremendo, quasi il freddo
dell'inverno si fosse acuito e fosse riuscito a penetrare le finestre
sigillate della camera.
Passarono
più o meno cinque giorni prima che il corvino si decidesse
ad abbattere il proprio smisurato orgoglio.
Era una fresca
mattinata, il cielo minacciava pioggia da un momento all'altro e nella
Clinica regnava una pace e una quiete quasi paranormale, dato il
significante vociare che solitamente la riempiva.
Era inquieto
da quando si era svegliato. Non riusciva a stare fermo un attimo. Si
contenne appena per la visita settimanale dei suoi genitori e quando
vide la chioma abboccolata di sua madre sparire dietro la porta bianca
-come tutto il resto- scostò le calde coperte azzurrine e
scese dal letto, prendendo tra le piccole mani un fagotto avvolto in
una carta leggera, un tovagliolo forse.
Un piccolo
dono per suggellare la ritrovata amicizia. Una fetta di torta
gelosamente conservata dalla sera prima sotto il cuscino.
Aveva fretta
nelle ossa, però il proprio corpo sembrava di tutt'altro
parere. Si sentiva gli arti pesanti come piombo e faticò non
poco a trovare il coraggio sufficiente per giungere alla maniglia,
abbassarla e far capolino sul corridoio immacolato e deserto. Si
avvicinò in punta di piedi alla camera dell'amico.
Trovò
una porta socchiusa e una flebile luce mattutina rischiarare il poco
che si scorgeva.
Prese un
profondo respiro e poggiò una piccola mano sulla lastra di
plastica.
Gli si
mozzò il fiato: Daniel era steso sul letto, che pareva
inghiottirlo. Un incessante bip intervallato da pesanti secondi di
pausa proveniva da una macchina lì vicino. Aveva gli occhi
chiusi, ancor più cerchiati del solito. Era talmente pallido
che pareva una luna ammalata, adagiato tra i marmorei cuscini.
Mosse qualche
piccolo passettino avvolto dalla candida pantofola azzurra verso
l'amico che sembrò percepire la sua presenza, aprendo gli
occhi faticosamente.
Sorrise nel
vederlo, nonostante paresse in punto di morte.
Era
peggiorato, si vedeva.
"Ciao." questa
volta fu il corvino a salutare, subito ricambiato debolmente.
Poggiò il dolce sul comodino al suo fianco con delicatezza e
poi si accucciò accanto al letto dell'amico e lì
rimase per lunghi minuti, tenendogli la mano pallida e scarna che
spuntava dall'ammasso di pail e lenzuoli.
Non sapeva
come dirglielo.
Era tentato di
ripercorrere la strada appena fatta a ritroso e tornare a imbacuccarsi
nel piumone della propria camera austera e incolore.
Ma non lo fece.
Rimase
lì per almeno dieci minuti buoni.
Poi, spinto da
chissà cosa, aprì bocca e fece per parlare.
"Daniel io.."
Bi-bip.
Bi-bip- Bi-bi-bi-bi-bi-bi.
La strana e
rumorosa macchina collegata all'amico prese a dare di matto, suonando a
intervalli irregolari e protraendosi celermente.
Daniel si
contrasse, tra le coperte, e gli strinse spasmodicamente una mano.
Si
stupì di quanta forza possedesse.
Una nicchia
esigua di infermiere irruppe nella stanza, con gridolini isterici e
poco consoni, armeggiando con siringhe e quant'altro, sotto gli occhi
spalancati del corvino.
Fu allora che
Daniel gli sorrise. Un sorriso sincero.
E in quel
momento capì di aver ottenuto la propria redenzione.
Mentre le
infermiere chiamavano a gran voce i dottori in camice lindo, dall'aria
sacra, che si atteggiavano a semi-dio, Daniel continuò a
sorridere, emanando una flebile luce, proprio come una timida luna.
Il bambino
rimase impalato di fianco al letto dell'amico, le lacrime che gli
scendevano dagli occhi spalancati e morivano sulla bocca dischiusa.
A poco a poco
Daniel si spense, con gli occhi aperti a fissarlo, la smeraldina intesa
che moriva nel tiepido abbraccio della nocciola del compagno.
E il corvino
rimase lì. Il fischio prolungato della macchina del battito
cardiaco gli giunse ovattato, così come le frasi sconnesse
di dottori e infermiere, che a poco a poco si fermarono e uscirono.
Rimase
lì.
Le lacrime che
poco a poco gli si seccarono sul volto, evaporando e fermandosi.
Aveva circa
otto anni e quindi si può intuire che non sapesse cosa
fossero avvenimenti effimeri come la vita e la morte, giusto?
Errore.
Satoru Okabe
conobbe la morte nel giorno stesso in cui vide il suo migliore amico
perire per mano di un male incurabile, che l'aveva portato via pezzo
per pezzo, lontano da lui.
Aveva otto
anni.
Note.
Il congiuntivo
inesistente, ogni errore nei dialoghi di Gackt e Daniel, è
assolutamente voluto, essendo loro dei bambini. Comunque, allora, non
voglio dare una versione veritiera del periodo passato in ospedale di
Gackt, ne insinuare nulla ovviamente. Lui sa, io no, quindi questa
è da prendere solo come una fanfiction (e che altro?).
L'ho ripescata dopo due anni dalla prima stesura e l'ho
lasciata com'era. Non ho cambiato una virgola, quindi lo stile
è ancora immaturo (come se ora fosse meglio) e probabilmente
abbastanza sciatto. Grazie per l'attenzione, lasciatemi un pensierino :)
guren.
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