Il Codice
Gordon ~
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{ I
}
Al suono della campanella del pranzo, noi studenti della scuola
media Hillridge ci riversammo all’unisono fuori
dalle aule, inondando i corridoi come doveva aver fatto il diluvio universale
con le città ai tempi di Noè. La stessa scena di ogni
lunedì a quell’ora. L’inizio di una nuova settimana di
scuola era sempre uno stress; specialmente adesso, con quel nuovo corso che
nessuno sembrava aver capito in cosa diavolo consistesse...
«Tecnologia
Applicata alla Comunicazione.» Miranda ripeteva queste parole da un
pezzo, come una cantilena, in tono sempre più esasperato.
«Tecnologia Applicata alla Comunicazione. C’è qualche
marziano in questa scuola che sappia
cosa accidenti significhi? No, perché io non ho mai sentito nulla del
genere in tutta la mia vita. Tecnologia
Applicata alla Comunicazione!»
Sbuffai
e scossi la testa, mentre insieme lasciavamo i libri agli armadietti e ci
dirigevamo in mensa facendoci strada nella fiumana. «Non dirlo a me. Ci
mancavano solo i corsi supplementari...» Avevo scelto quella materia
perché era l’unica che s’incastrasse bene con tutti gli
altri orari – la sola alternativa possibile era il russo; francamente,
potevo farne volentieri a meno – ma di Tecnologia Applicata alla
Comunicazione ne sapevo quanto Miranda, se non meno.
«Già»
annuì lei, avvilita. «E cos’era quella storia del comunicare
per car... cir...
crittografia? Lizzie, cos’è la
crittografia?»
«Credo
sia una specie di scrittura in codice... Ma chiedi al nostro cervellone, lui ha
sicuramente capito tutto. Non è vero, Gordo?»
Nessuna
risposta.
Miranda
ed io ci voltammo, accorgendoci solo allora che Gordo
era rimasto indietro nel corridoio: era ancora vicino agli armadietti.
Ci
raggiunse qualche istante dopo, con un sorriso che gli illuminava tutta la
faccia. «Una lezione strabiliante; non trovate, ragazze?»
Suppongo
che gli sguardi che gli rivolgemmo furono più che eloquenti,
perché lui si scoraggiò subito e ci oltrepassò con un
sospiro.
«Bah»
tagliai corto io, seguendolo verso la mensa. «Piuttosto, che eri rimasto
a fare?»
«Oh,
ma naturalmente a complimentarsi con il prof» lo stuzzicò Miranda,
con una certa perfidia. «Dicci, Gordo, quali e
quante lodi hai intessuto per lui? Scommetto che l’hai fatto persino
arrossire.»
Mentre
apriva la porta e si spostava per lasciarci passare, Gordo
le rivolse il suo sorriso sornione, quello che adottava sempre per rimarcare la
distanza tra il suo mondo di piccolo genio e quello di noi povere teenager
frustrate dagli ormoni. Parole sue, eh.
«Sono
orgoglioso che tu abbia tanta fiducia nelle mie doti oratorie, Miranda. Ma sono
certo che, se il professor Burke fosse stato più giovane, più
avvenente – e magari anche un po’ più alto – tu
saresti stata lì accanto a me a sperticarti in lodi ancora più
sentite.»
Nonostante
tutto non potei fare a meno di dargli intimamente ragione, e fui costretta a
nascondere un risolino dietro la mano, mascherandolo da sbadiglio. Miranda
forse se ne accorse, ma un qualche buon istinto la indusse a limitarsi ad
alzare gli occhi al cielo senza replicare nulla.
D’altronde
era sempre stato così. Ci conoscevamo da una vita, ci punzecchiavamo a
dovere, ma eravamo inseparabili.
Seguii
Miranda in refettorio passando davanti a Gordo, che
teneva ancora la porta aperta per noi. Gli rivolsi un sorriso di
ringraziamento; lui ricambiò.
Non
sapevo bene perché, ma da qualche tempo il suo sorriso era tornato a
piacermi come in seconda elementare.
Stufa
di rimuginare sulla Tecnologia Applicata alla Comunicazione, guardai dritto di
fronte a me e mi concentrai solo sul mio stomaco che gorgogliava dalla fame.
{ II
}
«Una gara? Che genere di gara?»
Gli
occhi chiarissimi di Gordo scintillavano. Anche alla
distanza di un chilometro si sarebbe capito che era elettrizzato. Per niente
impressionata, Miranda cercò di trascinarmi verso l’espositore dei
lucidalabbra, ma io ero curiosa.
«Era
sul sito della scuola» mi spiegò Gordo,
ignorando anche lui gli sbuffi scocciati di Miranda alle nostre spalle.
«Il professor Burke ha pensato che, per invogliare gli studenti ad
applicarsi maggiormente nelle sue lezioni, niente avrebbe potuto funzionare
meglio che una sfida al progetto migliore. Avremo una settimana di tempo...»
«Ma
abbiamo iniziato con Tecnologia eccetera eccetera da
meno di un mese!» protestai, strattonando il braccio perché
Miranda la smettesse di sgualcirmi la maglietta. «A che gioco sta
giocando? Non ne sappiamo ancora abbastanza per proporre un progetto vero e
proprio in una gara di classe! E in una
settimana, poi!»
«Non
è obbligatorio» mi fece notare Gordo,
allontanando la mano di Miranda dal mio collo, dove si era aggrappata pur di
catturare la mia attenzione. «Ma naturalmente partecipare è un
ottimo modo per entrare più in sintonia con il corso, capire con
esattezza cosa ci si aspetta da noi e...»
«Immagino
che tu parteciperai» dissi, a metà
divertita e a metà seccata. Gordo non poteva seriamente adorare quelle cose, santo
cielo.
«Naturalmente»
rispose, e mi rivolse il suo sorriso delle grandi occasioni, vale a dire i
compiti in classe a sorpresa. «Ho già in mente qualcosa.»
Scossi
la testa, sconfitta. «Vale a dire?»
«Ah,
no, non posso. È un segreto. Su queste cose sono un po’
scaramantico...»
«Gordo, non crederai mica che ti rubi l’idea? È
ovvio che io non mi sognerei mai di
proporre un mio progetto...»
Smise
di sorridere, e mi guardò come se avessi rifiutato un enorme regalo di
compleanno. «E perché?»
«Perché
io, a differenza di te, non passo il tempo a meditare su come fare a strappare
a Tudgeman il titolo di Secchione Capo della Hillridge; e inoltre io, a differenza di te, non ho un
cervello che sia in grado di capire una materia come quella e partecipare a una specie di concorso che la
riguardi.» Mi guardai intorno. Miranda aveva disertato, fiondandosi da
sola alla parete opposta del negozio e lasciando me e Gordo
soli davanti a diverse paia di occhiali da sole colorati. «E poi, tanto
per chiarire, in cosa consisterebbe questa gara? Cosa si deve fare?»
«Devi...
elaborare un mezzo di comunicazione che abbia a che vedere con la tecnologia,
ovvio» ribatté Gordo, un po’
perplesso dal mio discorso.
«Oh,
certo. Chiaro come il sole.»
«Sul
serio, Lizzie, non devi pensare di non essere
all’altezza... Voglio dire, sei... sei intelligente, e... e tutto il
resto.» S’interruppe, confuso. «Voglio dire, non hai motivo di scoraggiarti a priori. Dobbiamo
soltanto inventare un codice; come gli alfabeti in simboli che usavamo alle
elementari per passarci i biglietti, ti ricordi? Perché non provi?
Sarà divertente.»
Lo
soppesai con gli occhi, chiedendomi se fosse davvero arrossito o se si
trattasse soltanto dei riflessi aranciati delle luci del centro commerciale. Il
suo riferimento ai nostri vecchi bigliettini mi aveva un po’ intenerita,
ma non ero disposta a credere che questa gara consistesse esattamente in
qualcosa di simile. Non lo dissi, però, perché non volevo
sembrargli troppo acida: dopotutto mi aveva appena fatto un complimento. Mi
aveva detto che ero intelligente. Non
è cosa da poco se detta da David Gordon, sapete.
«Sono
contenta che la pensi così» sorrisi, «ma non credo di
riuscire a mettere a punto un... un qualche codice segreto entro una settimana.
Se proprio ci tieni, ti dimostrerò la mia bravura in un altro
modo.»
Lui
si scosse dall’attimo di timidezza – a meno che non stesse
semplicemente sognando a occhi aperti sul suo fantomatico progetto segreto – e mi guardò senza capire. «In
un altro modo?»
Sogghignai.
«Scommetto che riuscirò a decifrare questo tuo codice prima della
scadenza stabilita dal professor Burke.»
Gordo rimase per un attimo spiazzato, ma alla fine sorrise
anche lui. Sembrò animarsi, mentre incrociava le braccia e mi rivolgeva
uno sguardo di sfida.
«Mi
sta bene. Ma facciamo che dovrai riuscirci entro... mmm...
due giorni da quando l’avrò completato.»
«Due
giorni?» quasi strillai. «Adesso non esagerare, Gordo,
non ho mai detto che ci sarei riuscita in due
giorni!»
«Hai
detto che mi avresti dimostrato la tua bravura, no?»
«Sì,
ma...»
«E
dove sarebbe la sfida, se non impiegassi molto meno che una settimana?»
Lo
guardai di traverso. Riusciva sempre a fregarmi, accidenti a lui.
«Quattro giorni» rilanciai.
«Tre»
replicò, «ultima offerta. Ti darò un messaggio cifrato e
dovrai riuscire a leggerlo in tre giorni. Settantadue ore. Che ne dici?»
Non
avrei potuto ottenere di meglio; conoscevo bene quello sguardo: non la spuntavi,
quando ti guardava così. Sospirai.
«Va
bene. Affare fatto.»
«E
non dovrai chiedere aiuto a nessuno» continuò Gordo,
serio.
«E
non chiederò aiuto a nessuno» convenni.
«Intendo
proprio nessuno, Lizzie.
Non riguarda solo Miranda. Non devi parlarne neanche a tuo fratello.»
«Ti
pare che ne parlerei a Matt?!»
«Conoscendo
le sue imprese, non sarebbe insensato supporre che sia straordinariamente
preparato in materia.»
Sbuffai.
Avrei dovuto pensarci prima, a tutte queste clausole. Alla fine gli tesi la
mano.
«Non
chiederò aiuto a Matt. Sarà facile... Odio farmi superare da lui
in qualcosa.»
Gordo non guardò la mia mano; era ancora serissimo.
«Promesso?»
Lo
fissai per un attimo più del necessario. Sembrava tenerci fin troppo, a
quello stupido accordo nato così per ridere. Mi chiesi se non stesse
esagerando, ma non ebbi il coraggio di demolire il suo entusiasmo: era evidente
che voleva dimostrare qualcosa a se stesso, con quella gara di crittografia, e
non sarei stata certo io a demoralizzare il mio migliore amico. Perciò
sorrisi, e annuii.
«Promesso.»
La
sua espressione si distese e mi strinse la mano. Era liscia e calda attorno
alla mia.
«Bene» esplose una voce vicina,
facendoci sobbalzare entrambi; «io ho finito. Quando vi sarete ricordati
della mia esistenza, mi trovate al Digital Bean.»
Miranda
marciò spedita verso la porta, al braccio un sacchetto di acquisti che
dondolava furioso di qua e di là. Io e Gordo
la seguimmo subito, combattuti tra le risate e un leggerissimo senso di colpa.
{ III
}
«Lizzie, tesoro,
sei sicura che vada tutto bene?»
«Sto
benissimo!» strillai, le mani tra i capelli e la bocca premuta sul
tappeto della mia stanza. «Non preoccuparti, mamma, un minuto e
scendo!»
Sentii
che sospirava dall’altra parte della porta ermeticamente chiusa,
rivolgendosi a un qualcuno che probabilmente era il papà:
«È già la terza volta che mi dice così, e ogni volta
un minuto è diventato un’ora...»
«Non
te la prendere, mamma, pensavo avessimo chiarito da anni che Lizzie non è una persona normale...»
«In
camera tua, Matt. Subito!»
Mi
costrinsi ad escludere le loro voci, estraniandomi in un posticino nero e vuoto
in cui esistevamo solo io e il maledettissimo pezzo di carta sul tappeto
davanti al mio naso. La fila di numeri, così tondeggianti, così
aggraziati, sembrava deridermi come neppure quella peste bubbonica di Matt era
mai riuscito a fare.
6407422410549943062484731
Non avevo mai odiato
tanto la calligrafia di Gordo. Era chiaro che era
riuscito a portarmi sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Ammirevole:
per tredici anni non ce l’aveva fatta, ma d’improvviso aveva deciso
di dar fondo a tutte le sue capacità di farmi saltare i nervi.
Il
lunedì in cui era stato dichiarato aperto il concorso indetto dal men che mai amato professor Burke, mi ero ritrovata quel
foglio nell’armadietto, senza una riga di spiegazione. Avevo capito
subito che era questo il famoso messaggio che avrei dovuto decifrare, e mi ci
ero messa d’impegno, sul serio: al martedì avevo persino saltato ginnastica,
ostentando un dolore inesistente alla bocca dello stomaco, per barricarmi in
infermeria con il foglietto, una penna e un blocco per appunti, nella speranza
di riuscire a combinare qualcosa. E le avevo tentate tutte – sostituendo le vocali ai numeri dispari e le
consonanti ai pari, e viceversa; utilizzando per ogni cifra la lettera sua corrispondente
nell’alfabeto, partendo prima dalla a
e poi dalla z. Tutto inutile. Ogni
volta che avevo incrociato lo sguardo di Gordo, a
scuola, lui mi aveva rivolto il suo sorrisetto saputello, consapevole di avermi
messa più in difficoltà di quanto io non avrei mai immaginato;
ricordavo bene che il mio primo proposito era stato quello di non umiliarlo, ma
più lo vedevo sorridere in quel modo più cresceva la mia esigenza
di vincere la sfida. Lui sembrava sicuro
che io non sarei riuscita a leggere quella stupida frase; a quel punto dovevo sapere cosa diavolo avesse
scritto sotto quegli odiosi numeri.
M’imposi
di calmarmi. Mi sollevai a sedere, con le gambe incrociate, e presi un bel
respiro. Ero stata ai patti e non avevo mostrato il messaggio in codice
né a Miranda, né alla mamma – che pure non vedeva
l’ora di scoprire il motivo di quella mia improvvisa quanto inconsueta
voglia di “studiare tutto il giorno” – né a Matt, che
comunque osservava con molto divertimento i miei recenti scatti isterici, e che
mi avrebbe aiutata soltanto dietro un lauto pagamento che io non avrei certo
potuto assicurargli. Mi ero comportata più che bene, davvero. Il fatto
è che le settantadue ore stavano ormai per scadere.
Non
mi piaceva; ma che scelta avevo? Detestavo l’idea di rivedere il
sorrisetto di Gordo, al mattino dopo, quando gli
avrei detto che le sue aspettative sarebbero rimaste deluse perché io
non possedevo evidentemente la necessaria intelligenza per frequentare con
successo il corso di Tecnologia Applicata alla Comunicazione. Per un attimo di
pura follia, mi chiesi se non fosse stato quello il suo scopo fin
dall’inizio: dimostrare che ero stupida.
Ma che sciocchezza, rifiutai
energicamente quel pensiero; Gordo non lo farebbe
mai.
Il
che rendeva ancor più difficile imbrogliare.
Eppure
ero pronta a farlo. Presi di tasca il cellulare, regalo del papà –
era stufo delle quotidiane e interminabili telefonate a tre, mi aveva
bofonchiato mentre lo abbracciavo – e scorsi la rubrica. Mi venne subito
in mente Larry Tudgeman; come se, inconsciamente,
avessi già riflettuto a fondo sulla persona più adatta cui
rivolgermi. Oddio, come stavo cadendo in basso.
Avevo
già iniziato a comporre l’sms, quando mi bloccai, folgorata...
Tecnologia. Tecnologia Applicata alla
Comunicazione. Gli sms erano
tecnologia ed erano un mezzo di
comunicazione. Era questo, il codice di Gordo!
Semplice e geniale, proprio da lui.
Ehm.
Non era il momento di fargli i complimenti. Mi aveva fatto praticamente impazzire,
in fin dei conti!
Eccitatissima,
staccai l’ennesimo foglio dal notes e buttai giù le lettere
corrispondenti ai tasti indicati nel messaggio: 6 indicava m, n, o;
4 indicava g, h, i... L’1 era il tasto dei simboli, perciò supposi che
corrispondesse a un punto o una virgola, mentre lo 0 non poteva essere che uno spazio... Dopo aver stilato la lista
provai più o meno tutte le combinazioni possibili.
E a
poco a poco, lasciandomi sempre più interdetta, le parole si formarono
da sole, sotto la punta della penna che ormai mi tremava tra le mani, e io
rimasi lì a fissarle per un pezzo prima di ricordarmi come si faceva a
respirare.
Mi piaci, Lizzie McGuire.
{ IV
}
«Si può sapere che hai? È da
quando siamo arrivate che non parli. Cos’è, mal
d’auto?»
Scossi
la testa. Non avevo dormito bene, e il chiacchiericcio di Miranda non
contribuiva a schiarirmi le idee già piuttosto confuse. Lei
s’impuntò, disse che avrei fatto meglio a telefonare subito a
casa, ma la ignorai.
Gordo era in ritardo; una parte meschina e codarda del mio
essere sperava che non avrebbe varcato il cancello della scuola mai più.
Naturalmente
non fu così. La campanella d’ingresso stava per suonare quando lui
arrivò, le mani in tasca e il viso un po’ preoccupato – e
quando alzò lo sguardo avrei giurato di aver sentito distintamente il
mio cuore saltare diversi battiti. Gordo si avvicinò
al punto del cortile in cui io e Miranda lo aspettavamo; camminava senza
fretta, e anche da lontano mi parve improvvisamente nervoso e impacciato. Nel frattempo
mi chiedevo con furiosa confusione com’era
possibile che mi sentissi proprio come in seconda elementare, quando ci
scambiavamo bigliettini nei quali ogni tanto mi veniva voglia di scrivergli che cotta gigantesca mi ero presa per
lui.
«Ehi,
Gordo» lo salutò Miranda, beatamente
ignara di tutto.
«Ciao»
fece lui, guardandomi di sfuggita. Poi dovette decidere che era inutile girarci
intorno, si dipinse in faccia un sorriso da so-tutto-io
e assunse un tono di voce abbastanza studiato da suonare casuale. «Allora,
Lizzie? I tre giorni sono passati. Com’è
andata?»
Mi
sentii addosso lo sguardo curioso di Miranda, ma rimasi concentrata su Gordo: questa volta non c’erano luci artificiali a
mettermi fuori strada – era davvero
arrossito.
E in
quel momento, limpida come il colore dei suoi occhi, mi colpì la
consapevolezza che lui aveva sempre sperato che arrivassimo a questo. Aveva
saputo fin dall’inizio che sarei riuscita a decifrare il suo codice; ero intelligente, mi aveva detto. Non aveva
voluto dimostrare qualcosa a se stesso, ma a me. Quello era stato soltanto il
suo modo – silenzioso, defilato, e forse per questo così tremendamente
dolce – di farmelo capire.
Presi
fiato, e scossi la testa.
«Non
ci sono riuscita. Mi dispiace, Gordo. Ho perso la
scommessa.»
Sul
suo viso passò un torrente di cose: era sorpreso, deluso e sollevato a
un tempo, e per nascondere tutte queste verità ricorse di nuovo al
sorriso finto degli ultimi tre giorni.
«Be’,
allora sembra che tu avessi ragione. Non potevi proprio partecipare alla gara
del professor Burke.»
«No,
certo.» Mi sforzai di sorridere in risposta, frugando nelle tasche fino a
ritrovare il foglietto, tutto spiegazzato perché – dopo ore di
autentico caos interiore – mi ero addormentata stringendolo tra le dita. «Tieni...
È inutile che lo tenga se non so cosa dice. Sono sicura che a Burke piacerà
il tuo progetto.»
Gordo prese il pezzo di carta dalla mia mano, senza
più sorridere, e mi sfiorò appena. Rabbrividii e, con la paura di
tradirmi, borbottai qualcosa a Miranda a proposito del bagno e filai su per le
scale d’ingresso della scuola ancora deserta.
Ma sapevo che a Gordo
non sarebbero sfuggite le parole scarabocchiate sul retro del suo messaggio in
codice.
Difatti,
non passò neppure mezzo minuto: ero soltanto alla metà del
corridoio quando sentii qualcuno entrare precipitosamente alle mie spalle e
correre verso di me. Mi voltai col cuore in gola e un sorriso vero.
Gordo si fermò di fronte a me, ansante, le guance
paonazze; stringeva ancora in mano quel foglietto pieno di numeri. Lo lasciò
cadere soltanto quando io azzerai la distanza tra il mio viso e il suo – «L’hai
detto tu: sono intelligente» –
e, da qualche parte, la campanella suonava e Miranda strillava di gioia.
Anche tu mi piaci, David Gordon.
Nota: Ci credete se vi dico che
erano anni – anni – che avevo
in mente questa storia? xD Ho sempre procrastinato perché
avevo in mente di renderla una long, dal momento che avrei voluto inventare un
codice molto più complesso per la dichiarazione di Gordo
a Lizzie; però alla fine, lo confesso, ho
deciso di appropriarmi del sistema di Mamma Rowling che utilizza questo stesso
espediente (tasti del telefono = lettere) in Harry Potter, più semplice e più adatto all’atmosfera
di sfida nata per caso. Ormai ero stata colta dall’ispirazione, e non
sono riuscita a fermarmi dallo scrivere di getto questa shot.
Spero apprezziate... per quanto sia un po’ frettolosa, insomma. (Ah, che Lizzie abbia avuto una cotta per Gordo
in seconda elementare è assolutamente vero, lo ammette lei stessa in un
episodio – e Miranda lo farà poi sapere al diretto interessato. Grandissima! xD)