1. dfdsc
La Famosa Cura
Da tre anni il mondo era silenzioso, troppo silenzioso.
L'uomo
aveva tentato per molto tempo di trovare una cura contro il cancro
senza risultati degni di nota, fino a quando la Dott.ssa Alice
Krippin dichiarò di esserci riuscita in diretta
televisiva.
In un certo senso l'aveva trovata.
La razza umana non era forse definita il cancro della terra?
Avevo diciotto anni quando mi diagnosticarono un cancro maligno al
cervello e, dopo mesi di chemioterapia, il Dr. Bennett mi
parlò di questa nuova cura sperimentale che stava ottenendo
degli ottimi risultati sugli animali ed era pronta a passare alla
sperimentazione umana.
I miei genitori non furono subito d'accordo, ma riuscì a
convincerli con poche e dure parole. << Morirò in ogni
caso, che sia per la cura o per il cancro non fa differenza >>
Dopo una settimana conobbi la famosa Dott.ssa Krippin.
Provai subito una inspiegabile antipatia nei suoi confronti che
aumentò drasticamente quando mi separò dalla mia
famiglia dicendomi che era soltanto per il mio bene, ma non
le credetti e nemmeno mio fratello Ryan che provò in tutti i
modi di restare al mio fianco, ma quella donna fu irremovibile.
Vidi per la prima volta uno di loro, quando venni trasferita nel suo ambulatorio privato.
Era un uomo, rinchiuso in una cella di vetro, spessa quasi venti
centimetri ed era tenuto costantemente controllato. Passava le giornate
a sbattere violentemente la testa calva contro il vetro e a fare dei
versi mostruosi che giungevano chiari fino alla mia stanza. Un giorno
mi arrischiai a chiedere che cosa avesse, ma non ricevetti mai risposta.
Quando incominciai la terapia era nervosa e felice allo stesso tempo; sfortunatamente nulla andò come speravo.
Inizialmente la cura sembrava funzionare: riacquistavo le forze e dalla
risonanza che mi fecero dopo una settimana di terapia risultò
che la massa tumorale si stava lentamente rimpicciolendo, ma man mano
che il tempo passava, sviluppai una fame
incontrollabile.
Sentivo costantemente il bisogno e, il desiderio, di
nutrirmi e non di una semplice minestra. Volevo carne, carne
fresca e cruda e, sebbene, provavo un forte disgusto nel trovarmi
davanti ad una bistecca completamente al sangue, impiegavo non
più di una manciata di secondi per divorarla, per poi
richiederne subito un altra.
Dopo la fame, iniziai ad amare la notte e ad odiare la luce.
Dove la luce colpiva la mia pelle mi sentivo bruciare e dopo pochi
minuti si formavano delle piccole vesciche che pulsavano
dolorosamente non appena le sfioravo. Non riuscivo
più a parlare ed incomincia ad esprimermi con dei versi
mostruosi, da animale; identici a quelli dell'uomo in cella.
Eppure la Dottoressa continuava a sostenere che tutto procedeva per il meglio.
Era al limite della pazzia quando conobbi il suo assistente, il Dr. Thomas Wood, un ragazzo simpatico, dai corti capelli
biondi e dagli occhi color cioccolato.
Spesso veniva a farmi visita, parlandomi del suo recente matrimonio,
della sua nuova casa e di quanto adorasse la medicina. Io lo ascoltavo
rapita e i miei istinti animaleschi sembravano svanire davanti a quella
dolcezza.
Perciò non mi allarmai quando venne da me, nonostante fosse in
compagnia di quella donna. << Credo di aver trovato il modo di
aiutarti, Samantha >> mi aveva detto estraendo una piccola siringa.
<< Mi sono reso conto che i sintomi del virus sono molto simili a
quelli della rabbia e... >>
<< Non perdere tempo a darle spiegazioni, Wood >>
l'aveva interrotto la Dott.ssa con impazienza. << Ormai non
è altro che un animale e noi non parliamo con le nostre cavie
>>
<< Mi scusi, Dottoressa >>
Con un movimento deciso mi aveva inserito l'ago nella vena del braccio,
senza provare la minima paura nei miei confronti, perché
sapeva che non avrei mai potuto fargli del male.
Passarono circa ventiquattro ore quando iniziai ad avvertire i primi
miglioramenti. La fame era diminuita di colpo, anche se continuavo a
desiderare la carne cruda, ma con molta meno frequenza.
Riuscivo a sopportare l'esposizione alla luce, purché non
eccessivamente intensa, ma anche allora mi bastava coprirmi il corpo
con degli abiti lunghi e non avvertivo nessun dolore. Anche il continuo istinto di aggredire gli altri
sembrava del tutto scomparso e avevo persino ricominciato a parlare.
Ero felice, nonostante i numerosi test a cui venivo sottoposta,
perché iniziavo finalmente a sentire vicina la mia
libertà.
Dopo quattro giorni, però i sintomi si ripresentarono e, prima
che potessero fermarmi aggredii uno degli infermieri, staccandogli a
morsi tre dita della mano destra, provando un piacere immenso nel
sentire il sapore del sangue caldo nella mia bocca.
In seguito all'accaduto, Thomas mi disse che dovevo ricevere un dose quasi
giornaliera di antirabbica se non volevo ritrasformarmi in una bestia e le mie speranze andarono in frantumi.
Nemmeno scoprire che avevo acquisito una forza maggiore di quella di un
normale essere umano e dei sensi più raffinati riuscì a
rianimarmi perché significava che il virus era ancora
in circolo nel mio corpo, in attesa di
riprendere il controllo.
Solo le visite di Thomas riuscivano a non farmi deprimere e, lo
aspettavo sempre con ansia, soprattutto da quando ero di nuovo in grado
di parlare.
Lo bombardavo di domande, chiedendogli se stavano facendo progressi,
come avevano reagito gli altri alle cura e all'antirabbica e lui
rispondeva sempre con sincerità, senza mai nascondermi nulla,
tranne quando gli domandavo dei miei genitori.
Mi disse che erano in un vicolo cieco e non sapevano che cosa aveva
innescato la guarigione nel mio corpo e che cosa impedisse al vaccino
di completarla.
Rimasi sconvolta quando mi confessò che sugli altri malati
l'antirabbica non aveva funzionato e, che erano morti nel giro di poche
ore. Passai tutta la notte a pensare a quante persone erano morte per
colpa di quella donna e quante ne sarebbero ancora state uccise.
Quella stessa notte, Thomas si intrufolò in camera mia e chiuse
la porta blindata, facendomi segno di tacere; in mano aveva una piccola
tv.
<< Cosa ci fai qui? >> gli avevo chiesto incuriosita e
spaventata dalla sua insolita espressione nervosa. << Sono venuto
per rispondere alla tua ultima domanda >>
<< Vuoi dirmi come sta la mia famiglia? >> mi eccitai
all'istante, felice di poter finalmente avere loro notizie. <<
Allora? >>
Per tutta risposta lui aveva appoggiato il televisore sulle mie ginocchia e l'aveva acceso sul telegiornale di New York.
Avevo guardato con nostalgia le immagini della città addobbata per il
Natale, ma mi ero accorta subito che, nelle strade, qualcosa non andava.
Si vedeva la gente correre, gridare e implorare aiuto. La
telecamera inquadrò il viso di una donna che perdeva
sangue dagli occhi, mentre di avvicinava ad una velocità
sorprendente al cameraman.
Restai ad ascoltare le urla dell'uomo intanto che veniva divorato vivo,
provando un brivido di terrore lungo la schiena. La città era
invasa da infetti.
Avevo iniziato a piangere, capendo che cosa intendesse Thomas con quelle
immagini raccapriccianti. << La mia famiglia è stata
contagiata, vero? >>
<< Si >> aveva risposto in un sussurrò cingendomi dolcemente le spalle.
<< N-non... non si sono trasformati? >>
<< I tuoi genitori no >>
<< E Ryan? >>
Era rimasto in silenzio, aspettando paziente che la verità
facesse breccia nella mia mente e, quando capii che mio fratello
si era trasformato in uno di loro,
piansi più forte nel ricordare il mio fratellone
iperprotettivo salutarmi con un sorriso triste, mentre venivo
trasportata in
ambulatorio.
<< Loro non erano malati di cancro >> avevo detto quando mi
ero ripresa. << Come hanno fatto a contrarre il virus? >>
<< Sono state le persone sottoposte alla cura a contagiare le altre >>
<< Ma voi sapevate quello che ci era successo dopo il trattamento. Perché avete continuato?! >>
<< La Dottoressa Krippin sosteneva che non era nulla di grave,
che saremmo riusciti a trovare una soluzione grazie ai soldi che gli
ospedali di tutto il mondo ci avrebbero pagato per la cura >> si
era alzato, prendendo la tv. << Mi dispiace, Sam >>
<< Vattene >>
Da quel giorno erano trascorsi due mesi, due mesi di continui
esperimenti, due mesi senza Thomas poi, la vigilia di Natale tutto
andò a rotoli.
L'ambulatorio fu evacuato e, tutti gli esperimenti tranne me, furono
eliminati; avevo ascoltando le loro urla di dolore cercando di non
provare pietà per quegli assassini, ma come potevo? Ero stata
anch'io uguale a loro e sapevo quando forte ed incontrollabile fosse il
desiderio di uccidere.
Durante l'evacuazione finì in un furgone con Thomas e altre otto
persone e, nonostante non ci parlavano da quella lontana notte non
avevo potuto resistere alla tentazione di sapere che diavolo stava
succedendo.
<< Sigillano l'isola >> era stata la sua cupa risposta.
<< Perché? >>
<< Per cercare di bloccare l'avanzamento del virus >>
Era rimasta in silenzio per un po', con un'altra domanda che desideravo
fargli, ma avevo troppa paura per esprimerla. Alla fine avevo preso coraggio.
<< Dov'è tua moglie? >>
<< E' morta >> una risposta secca, incolore.
<< Per colpa del virus? >>
<< No, è stata fatta a pezzi da uno di loro >>
<< Mi dispiace >>
Mi aveva guardata e aveva aperto la bocca per rispondermi quando
qualcosa aveva fatto ribaltare il furgone, mandandolo fuori strada.
Era stato Thomas a farmi riprendere conoscenza e, guardandomi intorno, avevo visto cinque corpi senza vita ed un uomo che si
teneva la gamba dalla quale gli usciva un pezzo di osso, gemendo di
dolore.
All'esterno qualcuno stava tentando di sfondare le pareti del mezzo gridando e colpendo senza pietà.
<< Sono loro >> aveva sussurrato impaurita una giovane infermiera. << Che cosa facciamo? >>
<< Prendete qualunque cosa che potete utilizzare come arma
>> avevo risposto senza esitazioni, strappando il freno a
mano con un unico gesto. Non era il massimo, ma con un colpo
ben assestato poteva far perdere conoscenza anche a quegli esseri.
Avevo guardato il resto del gruppo, soffermandomi sul ferito. << Tu non può venire >> non dimenticherò mai lo
sguardo shoccato e terrorizzato che mi rivolse nel sentire le mie parole. << Non potete
lasciarmi qui! >>
<< Mi dispiace, ma rallenteresti soltanto la nostra fuga >>
<< Io non abbandono un ferito! >> aveva protestato l'infermiera.
<< Allora morirai con lui >>
Era stato allora che Thomas aveva posato una mano sulla mia spalla
sussurrando il mio nome, era bastato quello a farmi tornare in me.
<< Va bene, lo porterò io >> poi avevo guardato
l'ultimo sopravvissuto dell'incidente, un giovane agente di sicurezza.
<< Tu hai una pistola? >>
<< Si, ma ho solo due colpi e quattro pallottole in tasca
>> aveva risposto mostrandogli i proiettili.
<< Allora vedi
di non sprecarli >>
Mi ero messa in spalla l'uomo, ignorando i suoi lamenti e avevo
guardato lo sportello davanti a me. << Non appena
l'aprirò, iniziate a correre più forte che potete >>
Di quello che era successo dopo, ho solo un ricordo confuso. C'erano
state grida umane e non, e senza guardarmi indietro avevo capito che
l'infermiera non aveva retto alla vista di tutti quei mostri che adesso
se la stavano mangiando viva. Avevamo corso, senza fermarci, senza
perdere tempo a guardarci alle spalle
Due colpi partirono dalla pistola del ragazzo, andando a centrare in pieno i bersagli.
Ricordo che avevo guardato di sfuggita Thomas, per assicurarmi che
fosse ancora con me e avevo visto che portava a tracolla un enorme
borsone e sulle spalle uno zaino. << Lasciali, ti rallentano
soltanto! >>
<< Non posso >> aveva risposto lanciandomi una sguardo
eloquente e subito avevo capito cosa contenessero: l'antirabbica.
Dopo circa un'ora avevamo rallentato l'andatura. Io non ero stanca, nemmeno
per il peso che avevo sulla schiena, ma i due uomini alle mie spalle
iniziavano a non farcela più, così trovammo rifugio in un
piccolo edificio a tre piani.
Annusai attentamente il suo interno per assicurarmi che non contenesse
pericolo e al mio via libera Thomas e il ragazzo avevano sospirato
felici di poter finalmente riposare.
Restammo in quell'edificio per giorni, ad ascoltare le grida delle
persone lasciate in città cercare di sfuggire agli infetti, ai
balordi e al virus e ad assistere come meglio potevamo il ferito, ma
dopo quattro giorni di agonie era spirato, ringraziandoci di aver
tentato di salvarlo.
Non lo avevamo seppellito, avevamo semplicemente cambiato edificio,
cercando cibo, acqua e armi ed evitando i luoghi troppo affollati, per
non imbatterci in loro durante le ore di buio.
Imparai ad apprezzare il giovane agente di sicurezza per la sua ottima
mira e il suo intaccabile ottimismo. << Mi chiamo Ian Prince
>> si era presentato porgendomi la mano. << Lavoravo al
laboratorio e fino ad ora la pistola era solo una decorazione della
divisa, niente di più >>
<< Avrei preferito che continuasse ad esserlo >>
aveva osservato Thomas mentre tentava di preparare una zuppa con i miseri ingredienti che eravamo riusciti a procurarci.
<< Io mi chiamo... >>
<< Samantha Gray >> aveva concluso al posto mio,
sorprendendomi. << So chi sei e anche perché eri
lì >>
<< Prova ad ucciderla e ti ammazzo >> Thomas si era parato
davanti a me, in un gesto protettivo. << Lei non è come loro >>
<< Fino a quando ha l'antirabbica >>
<< Ho quasi cento flaconi in quelle sacche ed ognuno le basta per quasi un mese >>
Il ragazzo era rimasto in silenzio per poi aprirsi in un ghigno.
<< Quindi non dovrò ucciderti per circa quattro anni se ho
fatto bene i calcoli >>
Avevo ricambiato, spostando Thomas con una lieve spinta. << Va a
cucinare, tu >> gli avevo detto scherzosa prima di continuare a
parlare con quello strano ragazzo.
Da
allora passammo le giornate a cambiare continuamente nascondiglio e
città, alcune volte a piedi e, quando eravamo fortunati in
macchina, trovando morti, infetti e.... persino alcuni superstiti.
|