PRIMO GIORNO
“Finirai per mangiartelo con gli occhi, Francesca”. La voce
squillante di Loretta mi aveva ridestato dai miei pensieri. Mi si erano
asciugate le labbra a forza di guardare a bocca leggermente aperta e con uno
sguardo da pesce lesso il gruppetto di giornalisti che aveva assalito come un
branco di avvoltoi il signor Russell Crowe appena aveva messo il naso fuori
dall’ascensore. “Oh…”, seppi solo ribattere. Mi lasciai andare nella poltrona
di pelle nella hall dell’hotel Hollywood Roosevelt e sospirai.
“Non lo stavo mangiando con gli occhi, come dici tu. È solo
una celebrità e le celebrità suscitano sempre attenzione”; “Sì certo, come
no?”, fu il suo commendo, chinando di nuovo il capo sulla sua copia di Rolling
Stones. Ripresi anch’io la mia rivista e, nascosta dietro una pagina, sbirciai
ancora Russell che rispondeva freddamente ad altre domande dei giornalisti, al
fianco della moglie Danielle, che tradiva tutta la sua impazienza. Non potevo
negarlo, la mia amica Loretta aveva ragione: lo divoravo con gli occhi.
Ero arrivata nella Città degli Angeli da qualche giorno per
una vacanza all’insegna del “cerchiamo di dimenticare le delusioni d’amore”.
Ero venuta a trovare la mia ex compagna di liceo, che abitava lì dopo essersi
sposata con un americano di origini spagnole. E solo dal giorno prima il noto
attore australiano aveva messo piede nel mio stesso hotel, teatro delle prime
cerimonie dell’Oscar. Da subito avevo cercato in tutti i modi di avere di lui
anche il più piccolo scorcio.
Non riuscivo a togliere lo sguardo da Russell, pur non
avendo nulla del mio Principe Azzurro ideale. Ma tanto… che importanza aveva?
Probabilmente i giornalisti lo stavano bersagliando di
domande sul suo arresto, avvenuto qualche mese prima per aver aggredito un
receptionist in un hotel lanciandogli dietro un telefono. Lo vidi fare un gesto
di saluto con la mano verso i giornalisti prima di allontanarsi con la moglie.
Sicuramente era in città per la consegna degli Oscar, che si sarebbe tenuta
dopo pochi giorni al Kodak Theater, sull’altro lato della strada. Sospirai.
Possedevo tutti i suoi cd (che voce meravigliosa e sensuale!) e avevo visto
quasi tutti i suoi film. Mi chiedevo spesso che persona fosse in realtà.
Dubitavo che fosse realmente come lo dipingevano i giornalisti. “È arrivata la
nostra guida, Fran. Esci dal mondo dei sogni… Beverly Hills, here we come!”.
Nel pomeriggio, rientrate dal tour delle case delle star e
salutata Loretta, mi fermai a prendere una bottiglietta d’acqua in un negozio
di alimentari gestito da una famiglia di filippini. Avevo appena messo il piede
in ascensore e schiacciato il pulsante per la chiusura delle porte che un “La
prego, lo fermi!” mi costrinse a mettere una mano di fronte alla fotocellula
per riaprire le porte. “Sale o scende?”, chiesi senza guardare troppo bene la
donna che era salita. “Salgo”. Solo allora la riconobbi. Era Danielle, la
signora Crowe, elegantissima nel suo tailleur blu. Io stavo scendendo (la mia
camera era una cabana, vicino alla piscina), ma non seppi resistere. “Che
piano?”, “Ultimo”, “Anche il mio”, mentii.
Non seppi trattenermi, volevo sapere quale fosse la loro
camera. Danielle appariva imbronciata e impaziente. La consideravo una bella
donna. Vedendola nelle foto sui giornali, avevo sempre pensato che avessimo un
profilo molto simile, ma il colore dei capelli (lei bionda, io mora) ci
distingueva nettamente.
Danielle appariva imbronciata e impaziente. L’ascensore
aveva fatto appena un paio di piani che sentimmo un forte scossone. Ci
bloccammo. “No, non è possibile! Anche questa!”, sbottò Danielle. Io cercavo di
non pensarci, pur soffrendo di claustrofobia. Schiacciammo il pulsante di
allarme. Una voce ci avvisò di stare calme, i soccorsi sarebbero arrivati al
più presto. “Calme? Ma come è possibile calme?”. E Danielle prese a prendere
nervosamente a pugni la pulsantiera. “Non credo che questo sia il modo migliore
per…”, “Non ne posso più!”, sbottò. Eravamo bloccate solo da un paio di minuti,
dopotutto.
Per la prima volta si voltò a guardarmi, anzi, per la verità
mi squadrò da capo a piedi. “Noi due ci assomigliamo”. Prese il mio viso tra le
mani e lo girò prima a destra e poi a sinistra. “Ehi, cosa sta facendo?”,
“Senti… ti farebbero comodo duemila dollari?”.
Ero seduta sullo sgabello di un parrucchiere. La ragazza
stava raccogliendo i miei capelli neri sparsi sul pavimento. Guardai la mia
immagine riflessa nello specchio. Di lì a poco mi sarei vista bionda. “dobbiamo
fare anche un giretto dalla mia estetista. Quelle sopracciglia fanno davvero
schifo! Ovviamente a lei dovrò accennare qualcosa ma è una ragazza fidata”. Era
stata Danielle a parlare, seduta su una poltrona, mentre sfogliava una rivista.
Ancora non mi capacitavo dell’accaduto. Avevo accettato la proposta di quella
donna di prendere il suo posto per qualche giorno in cambio di soldi. Beh, per
dirla tutta avrei accettato anche gratis, piuttosto di conoscere Russell.
Dubitavo che la cosa potesse funzionare, in realtà. Anche con un altro look,
Russell si sarebbe accorto della differenza, ma Danielle mi aveva assicurato
che lei e il marito erano in rotta da un po’. E Loretta era fuori città per
qualche giorno. “Ormai ci parliamo molto poco”, si era giustificata Danielle. E
nella penthouse al Roosevelt che era stata di Gable e la Lombard dormivano in
letti separati. Non si sarebbe mai accorto dello scambio, mi aveva rassicurata.
E poi si trattava solo di pochi giorni. Mi aveva dato l’impressione che ci
fosse un altro uomo. Pazza, sei una pazza, continuavo a ripetermi. “Per i
vestiti non c’è problema, portiamo la stessa taglia!”.
Nell’ascensore, sola, salii fino all’ultimo piano,
guardandomi allo specchio, cercando di capire chi fosse quella donna riflessa.
Ero io? Oppure no? Pazza, pazza. Presi dalla borsetta la chiave magnetica ed
entrai. Mi schiarii la voce. “Sono tornata!”, dissi, con un tono di voce
deliberatamente basso. Nessuna risposta. Meglio così! Avevo un po’ paura di
incontrarlo. Paura mista a desiderio. Iniziai a guardarmi intorno per prendere
confidenza con l’appartamento. Due camere da letto si affacciavano su un
salotto comune. Aprii l’armadio della prima camera e vidi alcuni completi da
uomo scuri, tute altrettanto scure e altri abiti sportivi. Sorrisi vedendo la
felpa bianca con la scritta North Bergen che avevo visto indosso a Russell in
molte fotografie apparse sui giornali.
Richiusi subito l’armadio. Mi sentivo in colpa a violare
così la sua intimità. Mi recai nell’altra camera. Mi buttai sul letto e dopo
un’esitazione iniziale accesi il televisore. Su un canale a pagamento
trasmettevano uno dei suoi ultimi film e mi misi a guardarlo. “Ah, sei già
tornata”. Ero così presa dalla trama che non udii Russell entrare. Mi sorprese
la sua calda voce profonda, che questa volta non proveniva dal TV di fronte a
me ma dalle mie spalle. Mi voltai e, vedendolo, mi sentii in preda al panico.
Lasciai cadere il telecomando, con un’agitazione tipica di un ladro colto in
flagrante. Ci chinammo entrambi simultaneamente per prenderlo. Le nostre mani
si sfiorarono e io istintivamente mi ritrassi.
“Credevo non ti piacessero più i miei film”, disse Russell,
gettando uno sguardo allo schermo. Il mio cuore batteva all’impazzata. “Non
c’era nient’altro”, ribattei, cercando di indovinare cosa avrebbe risposto la
moglie. Russell aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse subito. Annuì e
uscì dalla camera. Rimasta sola mi guardai attorno. Non sapevo cosa fare.
Sentii la TV accendersi in salotto. Sbirciai fuori dalla porta senza farmi
vedere. Russell era seduto in poltrona, di fronte al televisore. Indossava
pantaloni scuri e una camicia azzurra, portata fuori dai pantaloni. Trovavo che
l’azzurro lo facesse apparire ancora più bello. Io suo sguardo però era perso
nel vuoto, triste. Ero combattuta. Quel suo sguardo mi invitava a raggiungerlo
per fargli compagnia, stimolarlo in una conversazione, ma temevo che stando a
stretto contatto potesse capire che non ero Danielle.
Bussarono alla porta. Sussultai. Russell si voltò di colpo e
mi vide. “Vado io”, dissi, imbarazzata. Mi ritrovai davanti un uomo sulla
cinquantina, non tanto alto, stempiato. “Ah, ciao Dany. Lui c’è?”. Chissà chi
era! “Sì”, mormorai. Mi scostai per lasciarlo entrare, poi mi chiesi subito se
avessi fatto bene, se Russell avesse davvero voluto vederlo. Tornai nella mia
camera, ma mi nascosi dietro la porta per ascoltare la conversazione. Non
volevo essere curiosa, cercavo solo un modo per conoscere meglio la situazione
e il mio ruolo. L’uomo doveva essere il suo manager o qualcosa del genere.
Parlarono del film, degli Oscar e del famoso lancio del telefono.
“Non preoccuparti. Una pubblicità negativa è sempre meglio
di nessuna pubblicità”. Lo sguardo di Russell era sempre vago e triste. “Ci
vieni stasera al party, Russ?”, “No, Mickey. Non ho voglia di vedere nessuno”;
“Ehi, ma che ti prende campione? Questo non è certo il momento per
eclissarsi!”, “Va tutto bene, il lavoro va alla grande. È solo che… non sono in
vena, tutto qui”. Per la prima volta si voltò a guardare quel Mickey negli
occhi, che appariva rassegnato. “Ok, come vuoi. Ma domani sera devi assolutamente
venire al party della Universal”, disse, avviandosi verso la porta d’uscita.
“Anche tu, Dany”, disse, indicandomi. Cavoli! Mi aveva vista! Divenni rossa
come un peperone quando Russell si voltò e mi vide. “Scusatemi, volevo bere
qualcosa”, farfugliai e tossii. “Questo mal di gola non mi dà tregua”. “Domani
voglio vedervi assieme, non accetto scuse”, continuò prima di uscire. Rimasi
lì, un po’ impacciata, senza sapere che fare. “Non avevi sete?”, mi disse
Russell. “Ah, sì”. Mi avvicinai al frigobar e presi una bottiglietta d’acqua.
“come mai non esci stasera?”, mi chiese. Mi bloccai. Forese Danielle aveva
qualche appuntamento che io avrei dovuto sapere? “Perché dovrei uscire”,
ribattei, bevendo dalla bottiglia come amavo fare. “Perché sei sempre fuori la
sera. E non so nemmeno dove vai…”, aggiunse, con voce sempre più bassa.
Scolai velocemente più di metà bottiglia. “Non ti avevo mai
vista bere a canna. Quando lo faccio io mi rimproveri sempre!”. Divenni rossa
come un peperone. Evitai di rispondere. “E tu perché non esci?”. Che bella
conversazione che stavamo facendo, pensai. Così interessante! “Non ne ho
voglia”, fu la sua risposta. Annuii. Non era certo un uomo di molte parole.
“Beh io ho fame. Scendo al ristorante a mangiare qualcosa”. Russell fece un
gesto con la mano. “Fa pure, io ordinerò qualcosa al room service”. Tornai in
camera mia, presi la borsetta, pi cambiai idea e la rimisi sul comodino. Tornai
di là. “Ripensandoci non ho voglia di scendere. Ordinerò qualcosa anch’io al
room service”. Non so cosa mi fece cambiare idea. Semplicemente non volevo
lasciarlo solo, desideravo stargli vicino, fargli compagnia, sperando che me ne
desse la possibilità. Mi avvicinai al telefono, presi il menu del ristorante e
gli diedi un’occhiata veloce. Ormai lo conoscevo a memoria. “Un double texan
burger con patata al forno. E una Bud. E tu?”, chiesi porgendogli il menu. Lui
mi guardò con occhi stralunati. “Sei sicura? E la tua dieta?”. Ecco, avevo
commesso già due errori in meno di cinque minuti. Inizio promettente! “Oh, beh,
sai com’è. Si cambia a volte!”. Presi in mano il telefono. “Allora?”. Per lui
ordinai un quarter pound, patatine e una birra.
Cenammo davanti alla TV. Io seduta per terra, incollata allo
schermo a guardare Chi vuole essere milionario, lui sulla poltrona, da cui non
si era più mosso. A volte sentivo i suoi profondi occhi azzurri su di me e
allora il mio cuore iniziava a correre dentro il mio petto. “Non ricordo di
averti mai vista ordinare una cena in camera”. Mi voltai verso di lui. Era piegato
leggermente in avanti, con le braccia appoggiate alle gambe. Osservai il suo
viso, i suoi occhi, il suo labbro superiore un po’ nascosto dalla barba. “A
volte…”, iniziai, reprimendo un brivido. “Sì, lo so. Si cambia”, mi interruppe,
con il tono di chi non ci credeva. Si alzò. “Io vado a dormire. Vieni anche tu
domani?”, “Alla cena? Sì certo”, “Intendevo alla cerimonia”. Cerimonia? Che
cerimonia? Non potevo chiederglielo, altrimenti sarei scesa ancora nella scala
delle sue simpatie! “Ma certo! A che ora?”, “Alle 14. dopo ci sarà un piccolo
rinfresco al chiuso. Buonanotte”. Me ne andai poco dopo in camera mia e finii
di guardare la TV nel mio letto.
SECONDO GIORNO
Mi svegliai l’indomani con i raggi del sole che facevano
capolino da dietro la tenda. Mi stiracchiai, beata. Poi mi riaffiorarono alla
mente gli avvenimenti del giorno prima e provai di nuovo un senso di colpa.
Forse dovevo alzarmi, andare da Russell e raccontargli tutto. Se la sarebbe poi
vista sua moglie. Ma non fui capace di farlo. Quegli occhioni tristi della sera
prima mi avevano teneramente colpito. Pensai che, se avesse saputo, il gesto di
Danielle lo avrebbe ulteriormente ferito e forse per il suo bene era meglio
continuare a fingere.
Mi alzai e, con ancora indosso il pigiama, andai in salotto.
Notai il carrello del room service e piatti per due, ma non quelli della sera
prima. Mi guardai attorno, accesi la TV e udii subito dei passi che si
avvicinarono. “Bene sveglia. Dormito bene?”. Il tono di Russell tradiva
dell’imbarazzo. Annuii. “Sì e tu?”, “Non molto. Troppo agitato. Ti va un french
toast?”, chiese, scoperchiando i piatti. “Oh, sì, con tanta panna”. Ci sedemmo
al tavolino. Riempimmo i nostri piatti, in silenzio. Tenevo il capo chino sulla
mia colazione, ma di tanto in tanto lo alzavo per guardare di sottecchi l’uomo
di fronte a me. Mi perdevo nel colore caldo dei suoi capelli e nei suoi piccoli
occhi azzurri, nelle ruchette attorno agli occhi e nel profilo delle labbra. A
un certo punto i nostri sguardi si incrociarono e io arrossii. Mi sentivo come
Kevin Klein in Dave. Chissà se avrebbe capito che non ero sua moglie
ammirandomi le gambe o guardandomi fare la doccia!
“Coraggio, non ti devi agitare troppo. Devi solo presentare
agli Oscar. Non sei candidato!”, scherzai. “Lo sai cosa mi dà da pensare”. Mi
sentii un verme, proprio come se fossi stata davvero sua moglie. Avrei tanto
voluto chiedergli di più, domandargli di più, raccontargli di me. “Ho un
appuntamento con Mickey”, disse all’improvviso. “Mi prenderà tutta la
mattinata. Vengo a prenderti alle 14, per andare alla cerimonia. Va bene?”, “Ma
certo!”. Annuii sorridendo. “Come mi consigli di impegnare il tempo
stamattina?”. Non avevo voglia di lasciarlo andare via, volevo continuare a
parlare con lui. “Cosa?”. La mia richiesta lo aveva colto di sorpresa. Non
sapevo come comportarmi, non sapevo nulla di com’era Danielle. “Non ti va di
fare shopping?”, “Naaah. Ne ho fatto già abbastanza. Me ne starei volentieri in
piscina a leggere un buon libro, ma ho finito la mia scorta”, “Leggere?”. Altra
gaffe. Forse a Danielle non piaceva la lettura. “Aspetta un attimo”. Corse in
camera sua e ne uscì poco dopo con un libro. Me lo porse. “Il profeta. Ho
appena finito di leggerlo e mi ha colpito molto. Dà da pensare”. Mi sorrise e
io gli sorrisi di rimando. Era la prima volta che lo vedevo sorridere,
rivelando i suoi denti bianchi. Era splendido vederlo più sereno. Il mio cuore
si allargò. “Allora…”, “Allora…”, feci eco io. “Ti vengo a prendere nel primo
pomeriggio. Buona lettura”, disse, prima di andarsene.
Dopo pranzo passai al setaccio l’armadio di Danielle,
cercando qualcosa che fosse adatto. Ma adatto per cosa? Una cerimonia
all’aperto per chi sa che cosa. Scelsi un tubino glicine e un giacchino di
jeans. Scesi ad aspettare Russell nella hall. Arrivò con 10 minuti di ritardo.
Il mio cuore iniziò a battere forte quando lo vidi. Era ancora vestito come la
mattina, completo scuro e tshirt a girocollo di una tonalità più chiara. “Sei
in ritardo”, lo rimproverai, scherzosa. “Hai ragione. Si erano affezionati a
me, non volevano lasciarmi andare! Per fortuna non dobbiamo andare lontano.
Vieni, l’auto ci aspetta nel parcheggio”. Scendemmo le scale e uscimmo nel
parcheggio, dove trovammo ad attenderci una limousine bianca. “Adoro le limo
bianche!”, commentai. Ero salita in limousine una volta sola e non l’avevo più
scordato. Mi sorrise. “Anche a me”. Il valletto aprì la portiera e ci fece
salire. L’auto partì, uscì dal parcheggio dell’hotel e girò a destra. Fece il
giro dell’isolato e, svoltando ancora a destra, si immise nuovamente
sull’Hollywood Boulevard.
Percorremmo il viale fino quasi a metà e ci fermammo, nei
pressi di una piccola folla. “La stella”, mormorai, capendo per la prima volta
di quale cerimonia si trattasse. Scendemmo dall’auto. Mi sentivo emozionata per
lui, ma ero contenta. Russell si avvicinò alle sue fan per un piccolo bagno di
folla. Ci furono un paio di discorsi seguiti dalla deposizione della stella.
Russell sorrideva e io mi sentivo fiera di lui, come una madre oppure proprio
come una moglie. “Una foto con sua moglie, prego”, gridarono dei giornalisti.
Mi sentivo tra l’imbarazzo e l’orgoglio. “Vieni, cara”, mi sussurrò
all’orecchio. Sentii un fremito quando, pronunciando quelle parole, mi sfiorò
il viso con la sua barba. Mi chinai accanto a lui e Russell mi cinse
delicatamente la vita. Il mio cuore riprese a martellare dentro il mio petto.
Ero così vicina a lui che, in mezzo a tutta quella confusione, riuscivo a
sentire il suo caldo respiro. E la cosa mi piaceva da morire.
Dopo le foto, Russell fu accerchiato dai giornalisti. Poche
domande riguardavano il suo ultimo film, molte l’uomo che aveva cercato di
aggredire col telefono. Da qualche parte mi arrivava l’eco delle parole di
Madonna in Sorry. Sentivo la rabbia crescere dentro di me. Perché quella gente
non lo lasciava in pace? Poi un rappresentante della stampa si rivolse a me.
“Signora Crowe, come giudica il gesto di suo marito?”. Non ne potevo più,
cercai di trattenermi… Sbottai. “Come lo giudico?”. Allargai le braccia. “Ma
guardatevi! È tutto questo che sapete fare? È solo questo che per voi fa
notizia? Mio marito diventa interessante solo quando lancia un telefono contro
qualcuno, non si presenta alle interviste o ruba la moglie a qualcun altro? Non
vi interessa l’uomo che c’è dietro? L’amore per la sua famiglia e per le cose
semplici? Questo no, non fa notizia vero?”.
Avevo riversato queste parole tutte d’un fiato, presa dalla
rabbia, che ora si era spenta dentro di me. Guardai Russell che mi osservava
con dolcezza. Sentivo le mie gote in fiamme. Gli sfiorai la mano. “Io me ne
vado”, sussurrai. Mi allontanai tra la folla verso l’hotel. Attraversai gli
incroci a kamikaze ed, entrata in albergo, mi sedetti a riprendere fiato sulla
panchina nell’ingresso secondario sul Boulevard. “Cosa ho fatto, eh Charlie?”,
dissi alla statua di Chaplin, seduta accanto a me. Mi sorrideva e io mi misi a
ridere. Ma dove l’avevo trovato quel coraggio? Io , di solito sempre riservata
e schiva. Forse nello stesso posto dove avevo trovato quello di prendere il
posto di un’altra persona. In fondo al mio cuore. Rimasi seduta lì fin quando
vidi arrivare l’ascensore e uscire Russell dalle sue porte. Si guardò attorno
nella hall poi mi vide. Mi mancava il respiro mentre lo vidi avvicinarsi a me.
“Ero salito in camera ma non c’eri”. Il modo in cui lo disse
mi ricordò quello che aveva avuto mio padre dopo che aveva ritrovato il mio
cane quando era scappato, il giorno del mio tredicesimo compleanno. “Ero qui,
con Charlie”, gli sorrisi e lui si sedette accanto a me, appoggiando i gomiti
sulle gambe e chinando la testa in avanti. Rimanemmo in silenzio. Anche se non
parlava, mi piaceva averlo accanto, mi confortava. “Allora Charlie, hai tenuto
degna compagnia a questa signora?”, chiese alla statua, intavolando una finta
conversazione. “Dice che ha fatto del suo meglio e vuole sapere come si sente
la signora adesso”. Risi. Non me l’aspettavo. Si preoccupava per me quando era
lui a essere stato bersagliato. “Digli che sto bene, che sto meglio”. Un’altra
pausa di silenzio. “Ti va sempre di venire a cena?”. Annuii. “Dove si va?”,
chiesi, senza timore di destare dubbi. “Da Spago”.
Pensai che la Universal avesse riservato tutto il ristorante
per festeggiare l’ingresso di Russell nella Walk of Fame perché quando
arrivammo persi il conto delle persone che lui salutò e a cui strinse la mano.
Prendemmo posto a un tavolo da quattro assieme a Mickey e consorte nella sala
interna, da cui potevo benissimo vedere i cuochi al lavoro dietro la vetrata.
Le luci erano basse e facevo fatica a esaminare la lista dei vini, che poteva
benissimo fare concorrenza alla Bibbia. “Preferenze?”, “Vorrei un bicchiere di
Zinfandel”, “Solo un bicchiere?”, ammiccò Russell. “È anche uno dei miei
preferiti, ottima scelta”. Gli sorrisi e lui ricambiò. Mi sentivo quasi felice.
Cenammo con antipasto di mare, garganelli all’aragosta e salmone dell’Alaska al
forno. “Scusatemi, ma il dovere mi chiama”, fece Russell, prendendo il
pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca. “Avvisatemi quando
arriva il dolce”.
“Allora Dany, come trovi la Città degli Angeli in questa
stagione?”, mi chiese Mickey. “Sorprendente”, risposi. Non avevo voglia di
parlare con lui. Mi scusai e mi alzai. Raggiungi Russell fuori dal ristorante.
Fumava da solo. Era così strano non vederlo in compagnia. Mi sorrise e si
avvicinò. Sentii le piacevoli note di Crazy in love di Byoncè uscire da un’auto
che i valletti stavano parcheggiando in quel momento. So crazy in love…
“Hanno già portato il dessert?”, “No, ma avevo bisogno
anch’io di una boccata d’aria”, “Io avevo bisogno invece di una boccata di
fumo”, scherzò. “Ti stai divertendo?”, continuò. “È una serata piacevole”.
Buttò la cicca per terra, la schiacciò col piede e se ne accese un’altra.
“Grazie, per oggi”, “Di cosa?”, “Di aver preso le mie parti”, “Non ho fatto
nulla di speciale, ho solo espresso i miei pensieri”, “Ma è stata la prima
volta che i tuoi pensieri erano pieni d’amore nei miei confronti” e così
dicendo mi sfiorò una mano. Le sue mani erano calde e forti, potevo vedere le
vene in evidenza, così mascoline. Provai un brivido. Mi sentivo così attratta
da quell’uomo e provai un impulso irresistibile di dirgli chi fossi in realtà,
di smettere con le bugie. “È amore che ti meriti”, sussurrai. Mi sfiorò la
guancia con un dito. “Stai tremando, piccola”. Piccola, com’era sensuale quel
termine pronunciato dalle sue labbra. “Ho freddo… forse è meglio che rientri”,
“Io finisco la mia sigaretta”.
Di ritorno da Beverly Hills, in auto, non parlammo. La mia
mente andava al brivido che avevo provato quando mi aveva sfiorato la guancia.
Lo guardai di sottecchi e notai che mi stava guardando le gambe. Ripensai a
Kevin Klein. Sorrisi.
“Balla con me, ora”, fu la prima cosa che mi disse quando
entrammo nella penthouse. “Come?”, “Balla con me”, ripeté. La sua voce mielosa
mi fece rabbrividire. Si avvicinò all’impianto stereo, scelse un CD dal
tavolino e lo fece partire. Poi si avvicinò di nuovo a me e mi sfilò la giacca
jeans, mentre nella stanza iniziavano a riecheggiare le note di Dream a little
dream of me. La giacca cadde per terra e le sue caldi mani possenti mi
accarezzarono le spalle. “Aspetta…”. Corsi verso la finestra e chiusi gli
scuri, in un tentativo imbarazzato di celargli i dettagli del mio viso e del
mio corpo. “Vieni qui”. Mi aprì la lampo dell’abito. Un brivido attraversò il
mio corpo quando sentii le sue mani virili sulla mia schiena. Il vestito
scivolò per terra e andò a fare compagnia alla giacca. Poi mi prese le mani e
le guidò sulla sua camicia, sbottonando i primi bottoni. Mi lasciò le mani e
finii di aprirgli la camicia. Mi baciò, con le labbra leggermente aperte.
Sapeva ancora di buon vino. Mi piaceva il contatto con la sua saliva. Mi prese
il labbro inferiore con le sue e me lo mordicchiò leggermente. Poi mi prese in
braccio e mi condusse in camera sua. Non avevo più paura, né più voglia di
dirgli la verità. Desideravo solamente amarlo. Anima e corpo. Più di ogni altra
cosa.
Mi adagiò sul letto. Sentii le sue mani armeggiare con il
reggiseno. Mi sfilò le mutandine e mi dette un affettuoso bacio sull’ombelico.
Russell mi guardò con tenerezza e ammirazione. Quasi potevo sentire il suo
sguardo accarezzarmi i lineamenti del mio corpo. Poi mi si avvicinò e mi
strinse a sé. Cercai di assaporare la sensazione dei miei seni premuti contro
il suo petto, mentre Russell prese a baciarmi teneramente la spalla destra,
l’interno del collo e più su verso l’orecchio. Mi accarezzò la schiena, scese
verso i fianchi e seguì la rotondità delle mie natiche. “Quanto sei bella!”,
mormorò, non smettendo di accarezzarmi il collo con piccoli e affettuosi baci.
A quelle parole, ogni più piccola resistenza che avevo avuto fino a quel
momento scomparve del tutto per abbandonarmi completamente, ma consciamente.
Cercai la sua mano e la guidai fino al mio seno, invitandolo ad accarezzarmi
anche lì. Poi sentii la sua bocca mordicchiarmi il lobo e la sua lingua
affondare nell’orecchio. Mi lasciai andare a un gemito di piacere e mi strinsi
di più a lui. Con un po’ di inesperienza e goffaggine, gli sfilai i pantaloni e
presto ci trovammo nudi l’uno nelle braccia dell’altra, coperti solo da una
molteplicità di emozioni e sensazioni. “Ti voglio, piccola, fa l’amore con me”,
mi sussurrò all’orecchio. Premetti il mio corpo contro il suo, accarezzandolo
dolcemente in ogni dove, le spalle, la schiena, le natiche, cercando di
prendere confidenza con la sua virilità. Le labbra di Russell esploravano
intanto il mio corpo, dapprima con piccoli e teneri baci, poi con sempre più
passione. “Sei così bella”, mi disse, con voce strozzata dal desiderio, mentre
con la bocca scendeva piano verso il mio seno, il ventre e le cosce. Russell mi
accarezzò i capelli teneramente e posò una mano sulla mia gola, premendola
leggermente. Poteva così sentire il mio cuore battere all’impazzata. E quando
entrò in me, mi parve quasi di morire, travolta da un turbine di emozioni che
mi si avvicendavano dentro come in un’esplosione. E l’esplosione ci fu, così
travolgente, per entrambi. Dopo, rimanemmo così abbracciati, fin quando sentii
le palpebre pesanti e pian piano scivolai in un calmo e dolce sonno.
TERZO GIORNO
Mi svegliai con i primi raggi del sole che filtravano dagli
scuri. Russell era già sveglio, accanto a me, e mi sorrideva. Ricambiai il
sorriso e mi avvicinai per baciarlo. “Buongiorno. Come è stato il risveglio?”,
“Uno dei più belli della mia vita”, risposi. Misi la testa sul suo forte petto
e glielo accarezzai. Adoravo il petto negli uomini. Potevo sentire il suo cuore
e per un attimo feci finta che stesse battendo per me. “Cosa ti va di fare
oggi?”. Appoggiai il capo alla mano sinistra e iniziai a guardarmi intorno,
pensierosa. “Mi piacerebbe andare al mare… e anche al luna park”. Russell prese
a tracciare il contorno delle mie labbra con un dito. “Possiamo fare tutte e
due le cose”. Mi mordicchiò teneramente un capezzolo, facendomi il solletico.
Risi.
Noleggiamo un’auto al concierge, una Pontiac Vibe
decappottabile. Adoravo le Pontiac. Guardavo Russell mentre guidava al mio
fianco verso l’oceano. I capelli scompigliati dal vento e gli occhi coperti da
occhiali da sole scuri. “Sei sexy con gli occhiali”, “Quando non lo sono per
te?”, “Domanda retorica!”. Lasciammo l’auto nel parcheggio sotto il pier di
Santa Monica. Ci togliemmo le scarpe e iniziammo a camminare in riva
all’oceano. A volte dovevamo correre precipitosamente verso l’interno per non
farci bagnare le gambe dalle onde. Altre, dovevamo schivare dei bambini intenti
a giocare con la sabbia o a pallone. La spiaggia era tranquilla, qualcuno che
prendeva il sole, qualcun altro che faceva surf. Russell mi avvolgeva le spalle
con un braccio. Com’era bello in jeans e camicia bianca! Continuano ad ammirare
il suo profilo. “Mi canti una canzone?”. Mi baciò sui capelli. “Ma certo!
Faccia una selezione dal jukebox, signora!”, “Other ways of speaking. Tra le
tue canzoni è quella che amo di più”.
You know there’s other ways of speaking
Words are just the deep end
I’m not good at keeping your secrets from you
Sussurrava quelle parole al mio orecchio, mentre eravamo
abbracciati. Le fresche onde che ci accarezzavano i piedi, le sue calde labbra
che a volte sfioravano la mia pelle. “Ti va di fare un giro sulla ruota
panoramica?”. Alzai lo sguardo sull’enorme ruota che troneggiava nel luna park
sopra il pier. “Mi piacerebbe ma…”, “Ma?”, “Ho paura di soffrire di vertigini”,
“Non ti preoccupare. È meno alta di quel che sembra. Eppoi ci sono io”. Mi
prese per mano e risalimmo sul molo. Russell acquistò due biglietti e prendemmo
posto sulla ruota. “Dovresti tenere gli occhi aperti. Così ti perdi il paesaggio”,
disse Russell quando la ruota partì.
Mi strinse la mano e io timidamente aprii un occhio. Quando
presi coraggio aprii anche l’altro. L’oceano appariva di fronte a me in tutta
la sua bellezza. “Visto? Non c’è niente di cui avere paura”, “E’ perché tu sei
al mio fianco”. Mi dette un bacio sui capelli. “Domenica sera mi accompagni
alla cerimonia?”. Questa volta sapevo di quale cerimonia stesse parlando! “Come
potrei non essere al tuo fianco?”. Sorrise.
“Mi piacerebbe avere un peluche”, dissi quando tornai coi
piedi per terra. “Agli ordini mia signora! Quale bancarella preferisce?”,
“L’ultima in fondo. Ho visto che hanno Winnie the Pooh. Sempre che il mio
cavaliere sappia sparare col fucile!”, ammiccai. Russell totalizzò quasi il
massimo del punteggio, regalandomi un peluche che facevo fatica a tenere in
braccio, ma di cui andavo terribilmente fiera mentre passeggiavamo sul molo.
Quella notte dormimmo ancora assieme. In verità, riuscii a
dormire ben poco. Osservato nella penombra il corpo di quell’uomo che dormiva
tranquillamente di fianco a me. Non era il mio uomo, dovevo farmene una
ragione. Presto sarei tornata alla mia vita. Il fatto era che me ne stavo
innamorando. Dopotutto, c’era crisi tra lui e sua moglie, quindi perché no…
“Coraggio, dormi”, mi dissi.
QUARTO GIORNO
“Martini con ghiaccio, signora”, mi disse il cameriere,
porgendomi il mio drink in piscina. Lo pagai in contanti. “Non desidera
caricarlo sulla camera?”. No, non volevo. Quello che riuscivo volevo pagarlo
coi miei soldi. Russell era andato a fare jogging, avevo appuntamento con lui
nella penthouse alle 11.30. Finii il mio drink e salii. “Tesoro, un signore in
piscina mi ha detto che…”. Finii la frase a metà, trovandomi di fronte a
un’altra me appena entrata in salotto. Danielle stava fumando nervosamente
accanto alla finestra e Russell era appoggiato al mobile del televisore.
“Volevo fare un salto al teatro per vedere come procedevano
i preparativi per domani sera, quando ho visto mia moglie da Gucci… con un
altro uomo…”.
Guardò Danielle, poi me. “Pensavo di averla lasciata in
piscina”. Mi si avvicinò. “Solo che quella non era mia moglie…”, sussurrò al
mio orecchio. “Ma guardati, Russell! Sei patetico”, sibilò Danielle, con fare
sprezzante. “Fuori!”, gridò lui. “Fuori di qui, tutte e due!”. Corsi in camera
mia e, senza dire una parola, raccattai quelle poche cose che mi appartenevano.
Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Russell mi raggiunse mentre mettevo la
mia roba in una borsa. Ci guardammo ma non aprimmo bocca. Mi lasciò uscire
dalla sua vita silenziosamente. Abbandonai lì il mio Winnie, assieme ai miei
ricordi. Assieme al mio amore.
QUINTO GIORNO
Loretta entrò nella caffetteria guardandosi attorno con aria
spaesata. Poi mi notò a un tavolino accanto alla vetrata e mi raggiunse. “Man,
Fran. Quasi non ti riconoscevo con i capelli così corti”. Prese posto di fronte
a me. Io le donai un sorriso triste. “Dovevi vedermi fino a ieri, coi capelli
biondi. Oggi non ce la facevo più”. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e
scoppiai a piangere. Veri e propri singhiozzi smossero il mio corpo. “Oh,
tesoro. Hai preso proprio una bella batosta, non è vero?”. Cambiò posto e si
sedette accanto a me. Mi abbracciò. “Non posso lasciarti sola qualche giorno e
guarda che mi combini!”
“Io lo amo”, piagnucolai. Era la prima volta che lo dicevo
ad alta voce e la cosa mi fece uno strano effetto. Loretta mi sorrise ancora.
“Sembri una liceale alla sua prima cotta!”. Quell’associazione mi fece
divertire e risi. Piangevo e ridevo come una bambina. Non riuscivo a parlare,
tra i singhiozzi e le risate. Poi finalmente le parole uscirono dalla mia
bocca. “Gli ho mentito e l’ho tradito, esattamente come sua moglie. La fedeltà
non è solo andare con un altro uomo, ma anche venire meno alla fiducia riposta
nell’altro e all’amore su tutti i livelli. Mi sono resa complice di un inganno.
Con me aveva ritrovato il sorriso e per colpa mia l’ha riperso. Se solo non
avessi accettato…”. Scoppiai di nuovo a piangere. Loretta mi abbracciò. “Se tu
non avessi accettato, non l’avrebbe più ritrovato”.
Alzai lo sguardo verso il televisore agganciato sopra il
bancone del bar. Una coppia sorridente di presentatori vestiti in abiti
supereleganti stava intervistando i primi arrivati sul red carpet. Al di là
della strada… I miei occhi si riempirono di nuovo la lacrime. Pensai a Russell,
a come avrei voluto essere al suo fianco, quella sera, come promesso. Ma più di
tutto volevo averlo accanto a me, udire la sua calda voce avvolgente, sentire
il suo respiro sul mio collo, accarezzare i suoi forti capelli, saggiare la sua
bocca con la mia.
Quella sera nemmeno cenai. Mi infilai sotto le coperte senza
accendere il televisore nemmeno una volta. C’era una parte di me che avrebbe
voluto vederlo, anche solo sullo schermo, ma prevalse quella razionale, che
riteneva fosse meglio non soffrire oltre. Dopo pochi giorni sarei di nuovo
salita sull’aereo per tornare a casa, dove forse, riprendendo la vita di tutti
i giorni, sarebbe stato più semplice dimenticare quell’avventura nella Città
degli Angeli.
SESTO GIORNO
Quando mi svegliai l’indomani avevo mal di testa, gli occhi
ancora gonfi dal pianto. Mi stiracchiai. Avevo sognato di essere al mare e di
nuotare. Avevo proprio voglia di fare una bella nuotata, di sguazzare sul
dorso, osservando il cielo infinito sopra di me, lasciandomi cullare dalle
onde. Mi accontentai di una doccia calda, che mi parve interminabile. Il
piacevole contatto con l’acqua mi ricordava Russell. Era calda, ma protettiva.
Vigorosa, ma vellutata. Mi infilai l’accappatoio e, senza asciugarmi i capelli,
uscii sul balcone. Era presto ma in piscina c’era già molta gente. Forse potevo
accontentarmi di quella vasca, pensai.
Sentii bussare timidamente alla porta. Indugiai. Forse era
la camera accanto. Dopotutto avevo messo fuori il cartello Non disturbare.
Tornai a guardare la piscina, assorta. Bussarono di nuovo. Mi alzai,
stringendomi l’accappatoio al petto. Guardai nello spioncino, come è buona
norma in tutti gli alberghi americani prima di aprire. Corrugai la fronte.
Guardai una seconda volta. E una terza.
Dallo spioncino vidi il mio Winnie the Pooh, che muoveva una
zampa, in segno di saluto. Mi sentii il cuore in gola. Aprii la porta. Russell
scostò il pupazzo dal suo viso e mi guardò con occhi tranquilli. Anzi, quasi
sereni. “Buongiorno… Francesca. Giusto?”. Il suo tono era esitante. “Fran,
preferisco. Buongiorno”, “Fran”, ripeté. Imbarazzo. “Posso entrare?”. Annuii e
mi scostai per lasciarlo entrare. Seguì una pausa di silenzio che a me parve
interminabile. Perché era venuto da me? Io volevo solo dimenticarlo.
“Hai lasciato… hai lasciato questo”, disse porgendomi
Winnie. Lo presi in mano. Non sapevo cosa dire. “E’ tuo, l’ho vinto per te”,
“L’hai vinto per tua moglie”, ribattei. Sapevo che stavo entrando in un campo
minato. “No, Fran. L’ho vinto per te”, ribadì. Mi guardò dritto negli occhi, ma
io non fui capace di reggere il suo sguardo e abbassai il capo. “Avevo capito
che non eri Danielle”. Fu come una doccia fredda. Sgranai gli occhi e lo
guardai. Ma certo! Come avrebbe potuto funzionare quel piano strampalato?
“Non sapevo chi fossi, né perché fossi lì, ma mi andava
bene. Solo che, quando ho incontrato per caso Danielle e lei mi ha detto la
verità, non ci ho visto più… sapendo che si era trattata solo di una questione
di soldi”, “Oh, Russ. Mi sento così meschina per averti ingannato. Non merito
il tuo perdono, né la tua comprensione e nemmeno la tua amicizia. Ma sappi solo
che non l’ho fatto per denaro. Non ho preso un solo centesimo da tua moglie”,
sbottai. Non sapevo per quanto ancora sarei riuscita a trattenere le lacrime.
Sentivo di avere gli occhi lucidi. “Ora lo so. Me l’ha detto in seguito. È per
questo che sono qui. Vorrei sapere perché l’hai fatto”. Le gambe mi tremavano.
Mi sedetti sul letto.
“Io… sentivo che dovevo farlo, che dovevo incontrarti”. Lo
guardai fisso negli occhi. “E mi perdoni Dio, ma non rimpiango nemmeno un
minuto dei giorni trascorsi assieme”. Russell si sedette accanto a me e mi
prese una mano. “Nemmeno io, piccola, nemmeno io”. Mi sorrise e io mi sentii
sciogliere in un brivido, proprio come mi capitava tutte le volte che vedevo il
suo sorriso. “Quando l’hai capito?”, “Sul Boulevard, quando hai preso le mie
difese con i giornalisti”. Mi strinse di più la mano. “Siamo partiti con il
piede sbagliato. Ma tu in questi giorni non sei stata mia moglie. Sei stata
Francesca, una donna stupenda e interessante, che mi ha regalato splendidi
momento. E vorrei stare ancora con questa donna, conoscerla di più, se lei è
d’accordo”.
Sentii le lacrime rigarmi le guance. “Ehi, è una proposta
così brutta?”. Risi asciugandomi una lacrima con il dorso della mano. Russell
si chinò su di me e baciò la mia guancia, asciugandomi così le altre lacrime.
Eravamo così vicini da poter sentire l’odore della sua pelle. Scese di più fino
ad arrivare alla mia bocca. Mi baciò e io ricambiai quel bacio con passione,
con desiderio. Con amore.
“Accetto volentieri la sua proposta, mio signore”. Lui mi
sorrise e mi baciò il collo, facendomi provare un brivido. “Cosa ti va di fare
oggi?”, “Mi piacerebbe andare al mare… e restare per sempre al tuo fianco”,
risposi, baciandogli le piccole rughe attorno ai suoi occhi. “Possiamo fare
tutte e due le cose, piccola”.
THE END