Capitolo 10
Capitolo
10
La
centrifuga cominciò a ruotare rumorosamente. Era stata un’operazione
piuttosto semplice e veloce, e la certezza di aver finalmente in mano ciò che
cercava fece tirare a Bra un sospiro di sollievo, mentre si sedeva stancamente
su una sedia da laboratorio ed attendeva che la macchina concludesse il ciclo.
L’antidoto
esisteva davvero. La Wissen Biotechnologies lo aveva creato più per
sperimentazione che per un concreto scopo, dato che in casi normali la tossina
era letale, ma fortunatamente ne conservavano qualche campione in forma
disidratata. Lilian, nel bene o nel male, aveva accettato di collaborare, non
solo rivelandole dove era nascosto, ma anche aiutandola a risospendere e a
riattivare l’antidoto, lavorando accanto a lei in un professionale silenzio,
come fossero sempre state colleghe di laboratorio.
Adesso
il suo compito era finito, ma avendo capito che la sajan non aveva alcuna
intenzione di farle del male, la donna si era tranquillizzata, sedendosi accanto
al macchinario e attendendo insieme a lei.
“Posso
farti una domanda, Lilian?” le chiese Bra all’improvviso. “Quando sono
entrata…perché non ti sei difesa con la neuronina o con un gas sedativo?”.
La
donna esitò un attimo, ripiombando per un momento in quell’opprimente
imbarazzo, sparito come per magia durante la lavorazione del campione.
“Ecco…a
dire la verità…ho visto quei bambini…” mormorò, mentre un accenno di
compassione compariva nei suoi occhi castani. “Nonostante avessi avuto la
prova che sono creature fuori dal comune…con doti eccezionali e capaci di fare
cose inimmaginabili…ho visto che sono pur sempre dei bambini…con molta più
umanità di alcuni terrestri…e ho pensato che anche i genitori non potessero
essere così spietati come venivano descritti…”.
Bra
la studiava con attenzione, senza dare segno di essere colpita positivamente
dalle parole della donna.
“E
allora perché l’hai fatto?” le chiese. “Perché hai continuato a dare
ascolto alle parole di quel pazzo e a tenere i nostri figli lontano da casa?”.
Lilian
abbassò lo sguardo, incapace di rispondere, mentre un vago rossore le colorava
le guance.
Il
timer della centrifuga cominciò a trillare, indicando che il campione di
antidoto era pronto. Bra aprì il coperchio dell’apparecchio, recuperando la
piccola provetta e riponendola nella sua borsa termica.
Si
avviò verso l’uscita del laboratorio, per poi fermarsi e voltarsi indietro
verso la donna.
“Grazie”.
Lilian
accennò un debole sorriso, tornando poi con lo sguardo e con la mente in quel
turbine di conflitti che doveva caratterizzare il suo mondo interiore.
Uscì
dalla stanza, sospirando di sollievo. L’antidoto era nelle sue mani, e forse i
bambini, a quell’ora, erano già in salvo. Non rimaneva che correre a casa ed
aiutare Pan, prima che i radicali liberi formati nel suo organismo per mancanza
di ossigenazione potessero diventare letali anche per una sajan.
Stava
per imboccare il corridoio, quando si trovò davanti un uomo calvo e muscoloso,
la faccia corrugata in un’espressione rabbiosa e in mano la stessa arma con
cui l’uomo al piano terra li aveva minacciati poco prima.
“Cosa
le hai fatto??!” le gridò contro, con voce dura e penetrante. “Cosa hai
fatto a Lilian??”.
“Lilian
sta benissimo” lo informò Bra, cercando di rimanere calma e immobile.
“Sicuramente meglio di te!”.
“Tu
menti!!” continuò l’uomo, avvicinandole ancora di più l’arma con la
siringa puntata, obbligandola a retrocedere fino a toccare il muro con le
spalle.
Non
poteva fallire proprio adesso…non ora che aveva una possibilità per salvare
sua cognata…non ora che avrebbe riabbracciato suo figlio…il suo adorato
Golden…
Il
fumo dovuto all’esplosione impediva ancora una chiara visuale, ma era proprio
una galleria quella che si era formata davanti a loro, che vedeva la luce quasi
ai piedi della collina.
“Sì!!!”
esclamò Golden, soddisfatto, mentre il padre verificava la stabilità delle
pareti e Fackel, ancora in mezzo ai cuccioli abbaianti, ritrovava il sorriso.
“Ascoltami,
Golden” lo richiamò Goten all’attenzione. “Io devo correre ad aiutare zio
Gohan, di sopra. Posso contare su di te per portare tua cugina e tutti questi
cuccioli fuori da qui?”.
Il
bambino annuì, convinto. Non li avrebbe mai lasciati di nuovo soli, in
circostanza normali, ma suo fratello, probabilmente, era ancora tra le fiamme, e
non gli restava che riporre completa fiducia in suo figlio e sperare che la
sorte non serbasse loro altri pericoli.
“Aspettatemi
fuori, io vi raggiungerò al più presto!” concluse, oltrepassando la galleria
e precipitandosi nella notte, verso l’entrata principale.
Trunks
trasse un gemito soffocato per il dolore, spalancando gli occhi chiari
nell’oscurità di quel corridoio. Non era tanto la sofferenza fisica che gli
doleva, quanto la sorpresa e l’incredulità per ciò che era appena successo.
“Lux…”
balbettò, ancora sofferente. “Che….che cosa fai?”.
Il
bambino non rispose, sgusciando via dalle sue braccia irrigidite e
allontanandosi lungo il corridoio.
“Lux!
Aspetta!” gli gridò contro il padre, sollevandosi da terra indolenzito e
correndogli dietro.
Si
era fermato alla fine del tragitto senza sfondo, scrutando attentamente la
parete bianca di fronte a lui, come se vi vedesse chissà quale porta
inesistente. Trunks gli era corso incontro, appoggiandogli le mani sulle spalle
da dietro, ma una brusca mossa del bambino lo spinse a qualche metro lontano da
lui, facendolo atterrare sulla schiena.
“Lux…ma
cosa ti prende, figliolo!” mormorò appena.
Il
bambino lo guardò con disprezzo, gli occhi azzurri quasi irriconoscibili tanto
erano offuscati da una rabbia inspiegabile.
“Io…non
sono…tuo figlio!!” scandì, prima di voltargli di nuovo le spalle e
accumulare energia nei palmi delle mani.
Seguì
una forte esplosione e un bagliore accecante, per cui Trunks dovette coprirsi il
volto. Poi, al di là del fumo, solo il buio della notte, ma di Lux nessuna
traccia.
Qualcosa
era esploso dall’altra parte del sotterraneo, un fragore forte accompagnato da
una luce bianca, ma l’uomo che le puntava contro l’ago letale non reagì
minimamente, rimanendo concentrato sulla sua preda.
“Non
le ho fatto niente, te lo assicuro” ripeté Bra. “Vai a vedere con i tuoi
occhi”.
“Non
è vero!” sbraitò lui. “Tu l’hai già uccisa, e adesso vuoi che ti volti
le spalle per uccidere anche me! Ma non ne avrai modo, perché prima lo farò
io!”.
Il
suo indice si abbassò minaccioso sul grilletto, mentre Bra deglutiva
pesantemente, socchiudendo gli occhi e preparandosi al peggio. Ma qualcosa colpì
violentemente la nuca dell’aggressore, che si irrigidì istantaneamente e
rotolò sul pavimento privo di sensi.
“Ub…”
mormorò Bra sollevata, portandosi una mano al volto per ritrovare la lucidità.
“Grazie al cielo…”.
Il
campione del mondo era giunto in suo aiuto proprio nel momento giusto, e ora si
chinava verso l’uomo a terra assicurandosi di non aver colpito troppo forte e
di averlo ucciso.
“Ho
immaginato che ci fosse bisogno di aiuto, un presentimento mi diceva che erano
insorte delle complicazioni….e ne ho avuto conferma quando, venendo qui, ho
visto l’edificio in fiamme”.
“In
fiamme?” chiese Bra, spalancando gli occhi per l’incredulità, che dal quel
luogo sperduto sotto terra non poteva avere idea di cosa succedesse in
superficie.
“Già…le
entrate sono bloccate, ma ci sono due recenti aperture attraverso la collina, di
cui una conduce proprio a questo piano. E’ da lì che sono entrato”.
Ecco
cos’era l’esplosione di poco prima, pensò Bra. Qualcuno aveva fatto saltare
le mura e tutto il terreno che le circondava, per scavarsi un passaggio verso
l’esterno. Chissà se gli altri stavano bene, se i bambini erano al sicuro o
se nuovi pericoli stavano di nuovo complicando le cose. Ma adesso non aveva
tempo per assicurarsene, anche perché non c’era niente che poteva fare se non
volare veloce alla Capsule Corporation e rianimare Pan.
“Devi
fare presto, Bra” le consigliò Ub, notando la sua esitazione ed il suo
fissare assorta la borsa termica che aveva in mano. “Marron dice che la
muscolatura di Pan si sta irrigidendo…è il segno che la sua resistenza sta
cedendo, che potrebbero verificarsi dei danni cerebrali irreversibili e che la
morte vera è vicina”.
Bra
annuì.
“Ok…tu
però porta in salvo quest’uomo e la donna nascosta in quel laboratorio…e
assicurati che gli altri stiano bene”.
“Lo
farò, puoi stare tranquilla” le assicurò, mentre lei si avviava verso la
parte opposta del sotterraneo, in cerca dell’uscita.
Le
fiamme avvolgevano minacciose l’atrio iniziale dell’edificio, nutrendosi
avidamente di qualsiasi cosa trovassero sulla loro strada, e rendendo
impossibile anche il più semplice orientamento.
“Gohan!!”
gridò Goten, mentre passava quasi immune attraverso il fuoco, infastidito però
dal fumo irrespirabile e dal bruciore degli occhi.
Si
avviò verso il corridoio che avevano percorso appena arrivati lì, quello dove
aveva visto suo fratello per l’ultima volta. Ma lui non c’era, solo una
sedia giaceva in fiamme sul pavimento.
“Gohan!!
Dove sei??”.
Entrò
in quello che era stato l’ufficio di Wissen, lo stesso dove avevano incontrato
quel pazzo il giorno precedente, quando ancora non erano certi della sua
colpevolezza. E suo fratello era disteso a terra, immobile, in mezzo alle fiamme
che già gli avevano logorato buona parte dei vestiti.
“Gohan…”
lo aveva scosso, strappandosi la maglia di dosso e tamponando con essa gli abiti
fumanti del fratello. “Gohan…stai bene?”.
Non
poteva perdere anche lui…no…era tutto ciò che gli rimaneva, dopo che anche
sua madre lo aveva lasciato…non poteva abbandonarlo così…
“Goten…”
mormorò infine lui con un filo di voce. “Sei tu…”.
Goten
sorrise, mentre sul suo volto arrossato dal fuoco si faceva strada una lacrima.
“Certo…adesso
ti porto in salvo!”.
Gli
fece passare un braccio intorno al suo collo, in modo che potesse sostenerlo in
piedi mentre si dirigevano verso l’uscita, sfidando fiamme violente e
distruttrici.
“Se
solo potesse vederti nostro padre, adesso…” gli sussurrò Gohan,
rivolgendogli un debole sorriso.
Goten
distolse lo sguardo, senza rispondere, concentrandosi di nuovo sulla loro via di
fuga.
“Adesso
facciamo in fretta” propose, cambiando discorso. “Perchè questo edificio
tra poco crollerà!”.
Non
si era mai sentito così indispensabile come in quel momento. Mentre aiutava sua
cugina a raggiungere l’uscita, mentre portava due alla volta quei cagnolini
fuori da quel posto orrendo, volando con loro verso il prato esterno al sicuro,
aveva cominciato a capire a cosa servissero veramente i suoi poteri, perché la
sorte glieli aveva donati.
Era
in situazioni come quelle che ne doveva fare uso, dove nessuno poteva vederlo ma
in cui avrebbe salvato tante creature inermi da una morte certa. Aveva creduto
che la vera soddisfazione, il vero divertimento di essere un sajan fosse
potersene vantare con altri, ma catturare piccoli criminali di quartiere quando
la polizia ne era perfettamente in grado, solo per il gusto di essere acclamato
ed il rischio di essere scoperto, non era niente, ma proprio niente, di fronte
alla straordinaria sensazione che provava adesso…
Fackel
e i cuccioli erano ora tutti in salvo, lontani dal fuoco, al sicuro ai piedi
della collina, mimetizzati nell’oscurità della notte che cominciava a
rischiararsi ad est.
Li
aveva salvati…adesso era un vero eroe…
Un
eroe che era riuscito a non vergognarsi a piangere davanti ai cugini, che aveva
desiderato rivedere i suoi genitori e tornare a casa come mai prima di allora,
che aveva provato terrore e subito violenze che mai e poi mai un bambino
dovrebbe provare, sajan o non…
Si
sentiva stanco, così stanco…
I
suoi occhi si chiusero lentamente, mentre si afflosciava come uno straccio sul
prato scuro.
“Golden!”
gli corse incontro Fackel, chinandosi verso il cugino svenuto. “Svegliati,
Golden! Guarda, lo zio Goten sta tornando!”.
Fece
a tempo ad aprire debolmente gli occhi, per vedere l’edificio che li aveva
tenuti prigionieri crollare a pezzi e arso dalle fiamme, e davanti ad esso due
figure avanzanti nell’oscurità, che si tenevano l’un l’atro per
discendere la collina.
Poi
ricadde di nuovo nell’ombra.
Marron
riempì la siringa sterile del liquido contenuto nella provetta, per poi
puntarla in alto e toglierle l’aria.
Avevano
fatto voltare Pan di lato, in modo che l’infermiera potesse iniettarle
l’antidoto dritto nella spina dorsale. Era stata un’operazione piuttosto
difficile, considerando che i suoi legamenti adesso si stavano irrigidendo a
vista d’occhio.
Mentre
l’ago penetrava nella carne e rilasciava il suo contenuto nel midollo di Pan,
Videl aveva continuato ad accarezzare affettuosamente le sue guance, quasi la
figlia fosse ancora capace di provare dolore ad una semplice puntura. Bra, in
piedi poco lontano dal letto, osservava nervosamente la scena, mentre i gemelli,
che Marron aveva invitato ad aspettare fuori, si affacciavano furtivamente e con
curiosità nella stanza, abbandonando per il momento i loro giochi e le loro
piccole scaramucce.
“Spero
di essere arrivata in tempo” mormorò Bra, continuando a passeggiare su e giù
lungo il bordo del letto, le braccia giunte a scaldare il busto, come se il
freddo della notte esterna fosse penetrato anche in quella camera.
“Tra
poco lo sapremo” affermò Marron, mentre applicava una garza nel punto
dell’iniezione e portava di nuovo Pan in posizione supina. “Le molecole di
antidoto dovrebbero far staccare la tossina dai centri nervosi in breve tempo,
se tutto va bene”.
Furono
istanti lunghi un’eternità, trascorsi in ansia e in un monastico silenzio,
riponendo tutte le speranze in quei pochi microlitri di sostanza che si stavano
diffondendo lungo la rete di neuroni.
“Mamma,
mamma, guarda ha mosso una mano!” gridò Zeme balzando improvvisamente dentro
la stanza.
“Sì!
L’ho visto anch’io! E ora lo sta facendo di nuovo!” gli fece eco Nebe,
seguendo il fratello.
Marron,
spostando lo sguardo dai figli alla ragazza sul letto, notò l’indice di Pan
che si contraeva in un gesto spontaneo, quasi di riflesso.
“Marron…dimmi
che si sta svegliando” mormorò Videl, prendendo la mano della figlia e
accarezzandola maternamente, sicura che adesso potesse percepire davvero il
calore che desiderava trasmetterle.
Marron
afferrò lo stetoscopio, applicando il sensore sul petto di Pan. Un battito. Poi
un altro. E un altro ancora. Non potè trattenere un sorriso, che contagiò
subito le altre due donne al suo fianco, un sorriso di sollievo e di speranza.
Pan
trasse infine un profondo respiro, come un neonato che usa i polmoni per la
prima volta dopo nove mesi nel grembo materno, tossendo poi per il tratto
respiratorio a lungo inutilizzato.
“Pan?”
le sussurrò Videl, tenendola ancora per mano, mentre Marron le tamponava con
acqua fresca le labbra. “Sono io, tesoro, mi senti? Sono la mamma”.
La
ragazza socchiuse lentamente gli occhi, infastidita dalla luce artificiale che
illuminava la stanza. Sbattè più volte le palpebre, riacquistando gradualmente
la capacità visiva, per poi posare lo sguardo su Videl. L’aveva certamente
riconosciuta, perché le rivolse un debole e innocente sorriso.
“Mamma…”
mormorò debolmente, con un filo di voce.
“Sì,
bambina mia, sono qui” le rispose lei, mentre i begli occhi azzurri le
brillavano di lacrime.
Pan,
ancora non pienamente cosciente, immersa interiormente in un mondo che solo lei
riusciva a vedere, sembrò cullarsi sulle carezze della madre, spostando poi lo
sguardo vago e indefinito sul tetto della stanza, su Marron seduta sull’altro
bordo del letto e su Bra, in piedi di fronte a lei. Quando però i suoi occhi
raggiunsero i gemelli, seduti a terra presso la porta, qualcosa nel suo sguardo
sognante cambiò, come uno strato di velina improvvisamente strappato.
Probabilmente la vista di quei bambini, la realizzazione che essi erano i figli
di Marron, l’aveva d’un tratto riportata alla realtà, rivelandole che
quella non era una scena della sua infanzia, un’immagine ripescata nei suoi
ricordi, ma la vita reale che adesso viveva da adulta, da moglie e…da madre.
“I
bambini!” esclamò, alzando improvvisamente la schiena con uno scatto
istintivo e ritrovandosi seduta sul letto. “Dove sono i miei bambini??”.
Nei
suoi occhi c’era il terrore, adesso, forse lo stesso che aveva caratterizzato
il suo volto qualche attimo prima della sua finta morte, quando aveva già visto
i suoi figli in pericolo. Il brusco passaggio ad uno stato di agitazione le
aveva fatto aumentare alle stelle il ritmo cardiaco, ed il suo respiro adesso si
faceva faticoso ed irregolare.
“Calmati,
Pan…è tutto a posto!” cercò di tranquillizzarla Bra, facendola abbassare
di nuovo sul cuscino. “Ci sono Trunks e Goten con loro, adesso…andrà tutto
bene”.
“Lux!!”.
Nessuna
risposta al suo richiamo disperato, solo il fruscio del fuoco che divampava
dall’edificio da cui era appena uscito. Lo intravide infine correre verso il
boschetto ad est, deciso a non curarsi del padre.
Non
capiva cosa stava succedendo, come mai suo figlio si comportasse a quel modo, ma
gli corse dietro come un razzo, continuando a chiamarlo, sentendo la propria
voce farsi più tremante man mano che lo vedeva sparire nell’oscurità e
temeva di perderlo di nuovo.
“Lux,
per favore, fermati!” lo implorò, cadendo infine a terra disperato, non per
la fatica della corsa ma per l’estremo dolore che tutto ciò gli provocava.
Il
bambino arrestò la sua fuga, fermandosi in mezzo ad una serie di bassi arbusti
che delimitavano la piccola foresta. Si voltò lentamente verso di lui,
rivelando uno sguardo gelido ed incolore.
Quello
non era suo figlio…quello non era più il suo bambino…
“Cosa
ti succede, Lux?” gli chiese di nuovo, abbandonando le speranze di ricevere
una risposta.
“Tu…devi
morire!” si limitò ad esclamare con rabbia il bambino, lanciandogli una
piccola onda d’energia che prese Trunks di striscio, ustionandogli la spalla
sinistra.
Aveva
caricato l’uomo privo di sensi sulla schiena, mentre la donna, che proteggeva
al suo fianco, lo seguiva impaurita fuori da quelle rovine sotterranee, che
presto sarebbero state arse dal fuoco come il resto dell’edificio.
La
notte era ancora fredda e scura, ma il cielo si era già mangiato la luna e,
attraverso uno strato di opaca foschia, un chiarore si faceva progressivamente
strada nella volta blu.
Appoggiò
l’uomo a terra, facendolo distendere su un morbido strato di terreno, mentre
la donna, una volta al sicuro, lasciò il suo fianco per sedersi accanto al
compagno, fissando con incredulità lo stabile distrutto dal fuoco, rapita dal
divampare delle fiamme e dal bagliore che esse proiettavano in quella tarda
notte.
“Tutto
bene?” le chiese Ub.
La
donna annuì, togliendosi poi gli occhiali appannati e stropicciandosi il volto,
come se così sperasse di scoprirsi semplicemente in un sogno.
“Il
suo amico si sveglierà presto” le assicurò di nuovo lui. “Adesso devo
andare”.
Si
allontanò dai piedi della collina, avvicinandosi verso il pianeggiante parco
erboso che separava quel luogo dal resto della grigia periferia industriale.
Gohan,
Goten e i due bambini si stavano abbracciando l’un l’altro sotto le fronde
di un albero, la piccola Fackel che, colta da un inevitabile crollo emotivo,
piangeva senza sosta tra le braccia del nonno dal volto annerito di fuliggine, e
Golden, prostrato dal terrore e dall’angoscia provati in quei giorni, disteso
sulle ginocchia del padre, che gli parlava affettuosamente.
“State
tutti bene, grazie al cielo” sospirò Ub, avvicinandosi al gruppo.
“Ub…hai
visto Trunks e Lux?” gli chiese ansioso Gohan, stringendo ancora al petto la
testolina lavanda della nipote.
“Li
ho scorti uscire dal seminterrato un attimo prima di me…Lux stava correndo
verso il boschetto vicino, e Trunks lo seguiva chiamando il suo nome”.
Il
più anziano chiuse gli occhi, abbassando il volto e sospirando con
rassegnazione all’inevitabile conseguenza della follia di un invasato, mentre
Goten notava confuso l’evidente apprensione del fratello.
“Cosa
sta succedendo, Gohan?” chiese, mentre una nuova morsa di tensione
attanagliava il suo stomaco.
Trunks
si contorse a terra dolorante, tenendosi con una mano la spalla sanguinante. Non
poteva aver sentito quelle parole uscire dalla bocca di suo figlio…non erano
certamente sue, qualcun altro gliele aveva infisse nella mente…
“Lux…”
mormorò, con un grande sforzo.
Non
l’aveva mai visto guardarlo con tale odio…mai…
L’aveva
spesso trascurato, meritandosi la sua indifferenza e il suo atteggiamento
restio…l’aveva spesso sgridato, come un padre interessato usa fare per il
bene del figlio…ma non si sarebbe mai aspettato tutto ciò, non adesso che lo
aveva ritrovato, che aveva pianto per lui nella speranza di poterlo rivedere…
Il
bambino era ancora in piedi ad un paio di metri da lui, poteva facilmente
avvicinarvisi e bloccare con la forza la sua momentanea follia, ma non avrebbe
risolto niente. Suo figlio non avrebbe avuto pace finché non fosse riuscito a
fargli seriamente del male.
Si
alzò quindi da terra, mantenendo però la distanza di sicurezza.
“Sono
qui, Lux…io non mi muovo…aspetto finché sarai tu a raggiungermi”.
Le
sue parole non ebbero il risultato atteso, perché il bambino giunse i palmi
delle mani verso Trunks, cominciando a caricare una sfera d’energia.
“Io
ti odio!!” gli gridò, con la voce contorta dalla rabbia, mentre la luce
bianca si accumulava davanti alle piccole mani. “Ti odio, ti odio, ti
odio!!!”.
Il
cielo ad est era ormai tinto di sfumature rosa e gialle, mentre ululati di
sirene si facevano più vicine dall’adiacente metropoli.
“Hatch…Hatch
svegliati!” ripeté Lilian all’uomo disteso al suo fianco, scuotendolo con
decisione.
Hatch
aprì debolmente gli occhi, massaggiandosi poi la nuca con una mano.
“Cos’è
successo?” chiese, ancora confuso.
Un
furgoncino bianco uscì sgommando dal parcheggio ancora intatto dalle fiamme
dell’edificio, piantando poi una brusca frenata e avanzando a scatti
incostanti verso la strada di servizio, come se il guidatore si fosse
improvvisamente dimenticato come si manovra un veicolo.
“Dan
se la sta filando senza di noi!” esclamò la donna, intravedendo il collega a
bordo del furgone.
“Cosa??”
gridò Hatch, ritornando improvvisamente alla realtà. “Non credo proprio!”.
Si
alzò rapidamente da terra, prendendo Lilian per mano e correndo con tutta la
forza che gli rimaneva verso il veicolo stridente, afferrando la maniglia del
portello anteriore e spalancandolo davanti a se.
Dan,
stralunando gli occhi per la sorpresa, stava impugnando il volante con i polsi
legati e ravvicinati, impossibili da separare, e farfugliò una soffocata
esclamazione attraverso lo strato di nastro adesivo che gli copriva le labbra.
“Cosa
credevi di fare, sporco traditore!” lo accusò Hatch, strappandogli
violentemente la striscia dalla bocca.
“Aaaahiiii!!!”
si lamentò lui per il doloroso strappo. “Mi stavo solo salvando dal farmi
arrostire il didietro, è una fortuna che sono riuscito a liberarmi!”.
“E
te ne saresti andato senza di noi??” gli chiese Lilian, incrociando le mani al
petto e assumendo un’espressione offesa.
“Ma
no…sarei tornato a prendervi….” balbettò con un finto sguardo innocente,
prima che Hatch e la donna, non badando minimamente alle sue inutili scuse, lo
scansassero senza troppa galanteria dal posto di guida, segregandolo dietro e
salendo velocemente sul furgone.
Mentre
imboccavano la strada principale e si dirigevano ad est, lontano il più
possibile da West City, le auto lampeggianti della polizia comparvero minacciose
dietro di loro, avvertendoli con un altoparlante di fermarsi immediatamente.
“Ce
li abbiamo alle costole…è finita…” mormorò Lilian, rassegnandosi al
peggio.
“No,
finché ci sarò io alla guida!” le promise Hatch, spingendo con decisione sul
pedale dell’acceleratore e sfrecciando come un razzo verso la salvezza.
Ma
dovette frenare violentemente quando, come una minacciosa creatura aliena, un
elicottero nero della polizia atterrò proprio davanti a loro, bloccandogli la
strada.
Hatch
e Lilian rimasero ammutoliti alla vista del mezzo e dei poliziotti che uscivano
da esso puntandoli delle armi contro, mentre Dan si sporgeva rassegnato dal
sedile posteriore.
“Adesso
è finita” assentì.
Pan
era seduta sul bordo del letto, lo sguardo perso nel vuoto e i gomiti appoggiati
sulle ginocchia, mentre le mani coprivano il viso in segno d’incredulità.
“Vuoi
un altro bicchiere d’acqua?” le chiese sua madre, seduta accanto a lei.
La
ragazza fece cenno di no con la testa. Non aveva bisogno di niente, se non di
rivedere i suoi bambini sani e salvi.
Le
avevano appena spiegato come erano andati i fatti, cosa era successo dal momento
in cui l’avevano ritrovata priva di vita a quello in cui Bra aveva lasciato
l’edificio in fiamme. Ma quello che la tormentava era non sapere cosa stava
succedendo ora, perché mai la sua famiglia non era ancora tornata a casa…
“Io
vado da loro!” esclamò alla fine. “Non ce la faccio più ad aspettare!”.
Fece
per alzarsi in piedi, quando le sue gambe crollarono sul suo stesso peso,
facendola cadere a terra dolorante.
“Vedi
che non hai ancora completamente riacquistato la funzionalità degli arti?” la
rimproverò Marron, aiutandola a rialzarsi. “Devi rimanere a letto ancora un
po’, o rischierai di farti del male!”.
“Allora
portatemi voi…Bra, tu potresti accompagnarmi con l’aircar e…”.
Si
interruppe, vedendo sua cognata porsi in piedi davanti a lei, le mani incrociate
al petto, bella e minacciosa.
“Mi
spieghi cosa credi di fare una volta là?” le disse severamente. “Guarda,
non ti reggi neanche in piedi e vuoi subito fare l’eroina…Io ho fatto i
salti mortali per riportarti in vita, quindi non ti permetterò di certo di
rischiarla di nuovo!”.
Pan
abbassò lo sguardo, delusa e imbarazzata. Sua cognata mostrava il suo affetto
sempre a modo suo, anche con le minacce, se era necessario, ma riusciva sempre e
comunque ad essere efficace. Non poteva fare niente lei, debole e indifesa, fino
ad un momento prima addormentata in un sonno quasi eterno ed estranea da ogni
casa, poteva solo aspettare, come facevano inevitabilmente le altre donne nella
stanza, mogli e madri in pena quanto lei.
La
sfera d’energia cresceva a vista d’occhio davanti al bambino, riflettendo la
sua luce sul giovane volto contorto dalla rabbia.
“Non
farlo, Lux…” mormorò Trunks, guardandolo paternamente negli occhi, non
potendo far altro che rimanere lì, immobile, nella traiettoria del raggio.
“So che ti sembra giusto ciò che stai facendo…che credi di trovare la
felicità in questo modo…ma so anche che tutto quello che pensi di dover fare
in questo momento non è la tua volontà...ti è stato imposto da qualcun
altro…”.
“Stai
zitto!!” gli gridò suo figlio con voce tremante, continuando ad alimentare la
sfera, mentre i suoi occhi cominciavano a brillare di lacrime.
Trunks
non l’ascoltò, azzardandosi a compiere un passo verso di lui.
“So
che non sono stato un padre molto presente…ho fatto molti errori, soprattutto
con te, tesoro…ma adesso vorrei solo che scacciassi tutti questi pensieri e
ascoltassi per un momento il tuo cuore…”.
Un
altro passo verso il bambino…la sfera che cresceva tra le sue mani…la luce
che lo accecava ogni secondo di più…
“…Sono
sicuro che lo sai, Lux…lo sai che ti voglio bene…” disse, mentre la sua
voce si spezzava in un singhiozzo disperato. “…Perché te ne voglio più
della mia stessa vita, bambino mio…torna da me, ti prego…ti prego…”.
Lux
stava tremando in ogni muscolo del suo corpo, gli occhi lucidi che non
smettevano di fissare il padre, disposto a restare lì e morire a costo di
riavere suo figlio…poi, molto più velocemente di come era stata creata, la
sfera scomparve tra le sue mani, giunte a cogliere ormai solo l’aria, mentre i
suoi occhi cristallini si facevano opachi e cadeva sulle sue stesse ginocchia,
con lo sguardo rivolto verso il basso.
“Lux…”.
Trunks,
ancora scosso e dolorante per la spalla ustionata, si precipitò verso di lui,
abbassandosi e stringendo finalmente tra le braccia quel suo bambino confuso e
tormentato, accarezzandogli con tanto di quell’amore i suoi fini capelli
d’ebano, mentre l’aurora dai colori caldi avanzava lenta nel cielo
invernale.
“E’
tutto finito, piccolo mio…tutto finito…”.
Fronde,
foglie, arbusti, spine che si conficcano nella carne, facendogli sanguinare la
pelle, ma Frederik non le sente, tanto preso ad attraversare quel fitto bosco
quasi impenetrabile, facendosi strada attraverso quell’intrigo di vegetazione
ancora immersa nell’oscurità della notte.
Si
sta dirigendo ad est, allontanandosi dalla sua vita passata, da quell’illusione
di vita, correndo verso l’ignoto, il dolce, sublime ignoto…
Suo
figlio non lo raggiungerà, lo sente attraverso quel particolare legame psichico
che si è creato tra loro, non ha compiuto la missione richiesta e adesso è di
nuovo nelle luride mani del nemico, che lo abbindola con false promesse e verità…
Una
costruzione diroccata, forse appartenuta a cacciatori, si prospetta davanti ai
suoi occhi, coperta di rampicanti e lasciata in decadenza. Vi entra furtivo,
assicurandosi che sia deserta, per poi gettarsi stanco su una coperta polverosa
e maleodorante. Accanto a lui, come fosse un prezioso tesoro di inestimabile
valore, stringe geloso la valigetta rossa, fredda al tatto per la bassa
temperatura interna, e chiude gli occhi, abbandonandosi ad un meritato riposo.
Resterà
in quel temporaneo rifugio, lontano dalla luce e dalla civiltà, finchè non sarà
pronto…a quel punto, avrà di nuovo accanto suo figlio…e insieme solcheranno
pianure sconfinate, fino a scalare i monti più alti e le vette più impervie,
più su, sempre più su, fino alle ormai raggiungibili stelle.
Continua…
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