Il sera pronuncé avec le plus grand respect
Il sera prononcé avec
le plus grand respect [Dunkerque]
Il fucile gli rimbalza sui
fianchi, mentre si getta ventre a terra per evitare la raffica di spari diretta
al suo indirizzo. Arranca tra il fango e la sabbia, trascinandosi dietro
l’arma, puntellandosi sui gomiti, fino a raggiungere un ammasso roccioso dietro
cui ripararsi; poi, esausto, si lascia andare, rotolando prima su un fianco e
poi supino, annaspando alla ricerca di aria che non sia offuscata dalla cenere
delle bombe per riempirsi i polmoni. Sopra di lui, l’azzurro del cielo del
Pas-de-Calais pare ardere, straziato dalle macchie nere delle fusoliere che si
rincorrono nel loro mortale gioco; e per quanto assurdo possa essere, non gli è
mai parso così… bello. Respira, battendo più volte le palpebre, e il groppo in
gola si fa quasi soffocante.
Allora Francia si tira seduto, di
scatto, lasciando da parte pensieri troppo grandi per essere sopportati in quel
frangente, e prova a concentrarsi su questioni più urgenti. Deve pensare a
qualcosa. Magari anche in fretta. Non può farsi sconfiggere, non lì, non così.
Deve pensare, maledizione.
Niente. Dopotutto, lui è sempre
stato un tipo d’azione, che combatte col cuore e non con la mente. Inghilterra
gliel’ha sempre rinfacciato, e gli pare quasi di sentire la sua voce ciabattare
qualcosa riguardante la sua incapacità di gestire una guerra. La cosa lo fa
sorridere, per un istante, prima che la consapevolezza che forse, il dannato, ha ragione, lo faccia trasalire.
Nervoso, decide che la pausa è
durata anche troppo, ed è arrivato il momento di ripartire. Ma come fa per
alzarsi, una fitta impietosa alla gamba lo costringe ben presto a desistere,
piegato in due da un gemito di dolore.
Maledizione.
In fretta, si sfila dalle spalle lo
zaino sbrindellato che fino a quel momento ha portato sulla schiena, poi si
china e arrotola più volte il pantalone della divisa su sé stesso, fino a
scoprire una lacerazione sanguinante e un gonfiore purulento che gli deformano
il ginocchio destro; un conato di vomito gli torce lo stomaco, ma si costringe
a non pensare alla sua povera pelle ormai mutilata mentre estrae una pezza e
dell’acqua dalle tasche stracolme.
Imbeve la stoffa, passandola poi
sulla ferita aperta, sussultando appena per la fitta di dolore. Non sa di
preciso dove finisca il solco del proiettile che l’ha colpito di striscio e
dove inizi invece la piaga causata dal suo legame con la terra, a dir la
verità, ma non è che la cosa lo turbi più di tanto. È normale. È normale che il
suo corpo reagisca in qualche modo, se le sue frontiere vengono violate, i suoi
soldati trucidati, la sua gente terrorizzata. È normale che quel ginocchio
dolga come se vi si fosse aperto dentro l’inferno, perché quella spiaggia lo è;
è normale che ad ogni uomo che cade venga scosso da uno spasmo che gli
spezza il fiato nei polmoni; è normale che il sangue continui a scorrere, a
raggiungere la terra che l’ha generato: perché quella stessa terra non può
piangere in altro modo. È normale.
Se c’è una cosa che l’esperienza
gli ha insegnato, è che tutto, prima o poi, si ripercuote in qualche modo,
tutto ha un effetto. Se il popolo patisce la fame, lui patirà la fame. Se il
popolo si sente oppresso e smania per liberarsi dalle catene, lui le sentirà
spezzarsi, dentro di sè.
Se il popolo è in preda al
panico, e c’è un intero esercito di tedeschi senzadio che dilaga calpestandolo
senza pietà, e gli inglesi sono in rotta e se la stanno dando a gambe levate,
non può stupirsi, che sia messo tanto male.
Stringe forte le labbra, mentre
strappa un lembo di stoffa dalla divisa e lo arrotola in qualche modo attorno
alla gamba, a mo’ di fasciatura provvisoria per arrestare il deflusso del
sangue. Attorno a lui, l’aria si fa sempre più rovente e il rombare dei cannoni
percuote l’udito a riprese cadenzate, non può più indugiare. E ha un piccolo
teppista dalle sopracciglia abnormi da recuperare, lì da qualche parte, prima
di tornare all’assalto e ricacciare les
allemands da dove sono venuti.
Non ha il tempo di pensarci
troppo. Grida rauche e dal suono sgraziato lo avvisano che ormai il nemico è
prossimo, quindi prende un respiro profondo e si slancia in avanti,
caracollando malamente giù per la rena sabbiosa senza una meta precisa che non
sia una che lo porti a un riparo più sicuro. La gamba regge. Ha lasciato
indietro lo zaino, tanto non gli serve più. Dove cavolo è Angleterre, dannazione?
Non fa in tempo a finire di
formulare il pensiero, passando accanto a un corpo sventrato scaraventato a
terra, che, alzando lo sguardo nel tentativo di orientarsi per ritrovare il suo
corpo d’armata, intravede poco distante una figura conosciuta che sta tentando
di rialzarsi, imprecando con voce stridula in mezzo a tutto quel pandemonio. Il
cuore inizia a galoppare talmente forte, nel petto, da rimbombargli in gola,
nelle orecchie, nel cervello, e, mon
Dieu, non è mai stato più felice in vita sua di vedere quello stupido.
Allora avanza, il più rapidamente possibile, fino a fermarsi a un passo di
distanza.
-Angleterre?-
Non ha ancora richiuso le labbra,
che Arthur scatta talmente velocemente in piedi da farlo sobbalzare. Lo
abbranca per le spalle e lo scuote con vigore, manco fosse una fascina di
paglia, cercando come un forsennato il suo sguardo.
-Damned frog! Si può
sapere dove ti eri cacciato? Dobbiamo andarcene di qui, subito!-
Francis ci mette quaranta secondi
netti, a cancellare quella maledetta sensazione ebete dal cuore, giusto il
tempo di recepire le parole di Arthur. Soprattutto, il suo inconscio si ribella
a quel “subito”, che ha l’odore di una sentenza inevitabile e che proprio non
riesce ad accettare. No, non può andarsene. Come potrebbe?
-Non posso, devo restare!-
replica, febbrile, provando a sottrarsi da quella presa che improvvisamente è
troppo stretta, cercando di allontanarsi da quegli occhi che, improvvisamente,
sono troppo verdi e freddi e gli stanno dicendo qual è la realtà - Se ce ne
andiamo, ci trucideranno, non posso permetterlo!-
Ma Inghilterra non molla, non
ascolta come suo solito e s’impunta. Lo afferra più stretto, alzando la voce a
un livello insostenibile, con un tono gracchiante che gli lacera il cuore.
-Cosa vuoi fare, idiota? Moriremo
tutti sul serio, se restiamo! Dobbiamo andarcene!-
Gli piacerebbe immensamente
chiedergli che cosa farebbe lui, al suo posto. Se i tedeschi fossero sbarcati a
Dover e lui gli stesse dicendo di mollare a sé stessi la sua terra e i suoi
uomini. Cosa gli risponderebbe Inghilterra, se fosse lui quello occupato e
sull’orlo del collasso, e lo vedesse pronto a tornare a casa? Davvero, gli
piacerebbe. Non gli costerebbe nulla farlo, basterebbe aprire la bocca e
lasciar sciolta la lingua. Invece Francia non riesce a parlare,
quell’oppressione e il senso d’impotenza sono troppo forti e non vuole
accettarli, no, li vuole salvare, vuole salvare ogni anima, ogni giovane, ogni
singolo uomo che stringe ancora tra le mani un’arma; pertanto si getta ad
armacollo il fucile e fa un passo indietro, fissandolo come stralunato.
Fa improvvisamente più freddo, su
quel campo di battaglia, le grida dei soldati sembrano farsi fioche come
fiammelle tremolanti battute dal vento e c’è solo la risacca del mare, mentre
Francia lo capisce, che non c’è più scampo…
Una bomba esplode a
pochi metri
di distanza, proiettando una nube di terra e detriti nell’aria, come un
enorme
fiore che si schiude sbocciando gigantesco dal terreno; l’onda d’urto
li fa
barcollare uno addosso all’altro, tanto che ad Arthur cede una gamba, e
rimette
violentemente a posto tutti i tasselli, assordando entrambi per degli
istanti
lunghi secoli. Sbalordito, Francis rimane a fissare lo scempio che ha
dilaniato la terra, immobile e attonito, avvertendo a malapena la
gomitata con cui
l’inglese tenta di scuoterlo e il rivolo di sangue caldo che cola lungo
il
polpaccio, sgorgando dalla ferita tra i lembi della benda. Morte,
dolore e
disperazione, e non riesce a pensare, a connettere, a capire.
A valle, verso la linea del mare,
qualcuno urla, senza che riesca a afferrare cosa stia dicendo.
Un battito di ciglia dopo, una
mano lo afferra con dita gelide per il braccio e lo trascina violentemente in
avanti, cogliendolo talmente alla sprovvista che per poco non cade nuovamente a
terra, sbilanciato. Barcolla malamente, poggiando a casaccio i piedi, ma la
mano non gli dà tempo di chiedere, o urlare, o di domandare spiegazioni, perché
Arthur, animato da chissà cosa, ha iniziato a correre, giù per la duna, e Francis
si costringe a seguire il suo ritmo, il cervello che pulsa doloroso ad ogni
colpo delle suole degli stivali sul terreno morbido, la mente vuota, soffice,
sperduta.
La prima sensazione certa che
prova, è il sollievo. Sollievo, perché Inghilterra l’ha preso per mano – o
meglio, per il polsino strappato della giacca, reso viscido dal sangue che lo
inzuppa- e non l’ha abbandonato quando gli sarebbe bastato assai poco per
lasciarlo dove l’aveva trovato; l’ha preso per mano – per il maledetto polsino,
ma perché sta sanguinando? – e lo sta
portando con lui, via da lì, e il pensiero in condizioni normali lo farebbe
sorridere come un ebete. Poi subentra l’orrore, e allora il sorriso si
cristallizza per poi distruggersi, mentre capisce. Perché Inghilterra sta
portando via lui, persona lui, Francis Bonnefoy, ma sta lasciando indietro
tutta la Francia. Tutto
quello che rappresenta, che è parte di lui dalla prima all’ultima molecola,
ogni singola stilla di ciò che lo costituisce sta restando al di là di una
striscia di mare tempestata di navi, preda del nemico; case, strade, donne,
bambini, anziani, la sua Parigi, son beau
Paris, son cœur, la terra, il vino delicato della Borgogna, i sentieri
sperduti che portano ai piccoli villaggi della campagna e i dolci sorrisi delle fanciulle in fiore, i fiumi che
scorrono placidi all’ombra delle colline, i gigli dorati accarezzati dal vento
della sera…
Inghilterra inizia a urlare come un
invasato, continuando ad arrancare a rotta di collo giù, verso la spiaggia,
mentre intorno a loro i carri armati tuonano e gli aerei della Luftwaffe
inquinano l’aria gareggiando nel portar morte con l’aviazione alleata, ma
Francis smette di sentire tutto quello, così, all’improvviso, un’altra volta.
Corre, sì, sente le sue gambe muoversi, Arthur lo trascina, tenendolo stretto
quasi temesse di poterlo perdere, ma non sente voci, o rimbombi, o salve di
spari. Come in un sogno, in un incubo orrendo dal quale non riesce a
svegliarsi, Francis smette di opporre resistenza a quel lento avanzare,
sbarrando gli occhi e annaspando l’aria bruciante.
Un passo, un altro, e dalla collina
appare un bambino, poi un altro, i capelli biondi sparsi nel vento e tuniche
leggiadre a coprire i corpicini. Corrono, i due, lieti e danzanti, pregni
dell’innocenza di un tempo remoto, e le loro risate tintinnanti distruggono
lentamente il suo cuore.
Quello davanti alza lo sguardo,
gioioso, e Francia si ritrova a correre guardando negli occhi il fantasma
bambino di un se stesso che quasi ha scordato, tremando al sorriso
dell’Inghilterra che lo supera senza che quello che lo sta trascinando con
tanta foga lo degni di una sola occhiata. Il suo sguardo li segue, invece, quei
due bimbi che scorrazzano ignari del dolore e delle tremende profondità della
guerra, li guarda correre di nuovo nel loro vento di ricordi lasciando dietro
di loro solo un manto di presagi che non vorrebbe mai vedere.
-Arthur!- vorrebbe davvero che
Arthur li vedesse, quei due bimbi, lui che blatera sempre di fate e fantasmi,
vorrebbe che gli dicesse che è tutto irreale, ma Arthur non lo ascolta, non lo
ascolta mai e non riesce a capire
quello che pensa, così impermeabile e distante, e Arthur rallenta, barcolla,
scivola, supera l’ultima duna, i bimbi spariscono dalla sua vista e qualcuno
grida di nuovo qualcosa, qualcosa che riesce a sentire, che esplode nelle sue
orecchie mentre il tempo ritorna a scorrere normalmente, e lo capisce perché
quel maledetto inglese che dalla barca si sta agitando come un dannato gli urta
i nervi, è così antiestetico e sgraziato, e perché Inghilterra lo sta
strattonando tanto forte?
E… e Dio, vorrebbe solo che
finisse, che la facessero finita, potersi fermare e piangere, dannazione.
Invece Arthur continua a correre trascinandoselo dietro fino alla battigia e
poi nell’acqua salmastra mentre la barca si allontana piano dalla sponda, per
poi riuscire, aiutato dai suoi uomini, a salire a bordo.
Le sue dita sul polsino si fanno
più molli. Scivolano, senza riuscire a trovare un appiglio, e se ne accorgono
entrambi nello stesso momento. Troppo sangue, e poi l’acqua, non fanno più
presa sulla stoffa pesante.
Il panico esplode nel suo petto
come una girandola di petardi, tanto da spingerlo avanti con troppa foga.
Inghilterra si agita, si volta per la prima volta da quando ha iniziato a
scappare e cerca in ogni modo di afferrarlo, di trattenerlo, di non perderlo,
ma si stanno entrambi agitando troppo, e Francis non respira, non è possibile,
non può, Angleterre, non può, e
trema, e sente la disperazione cancellare ogni altra cosa mentre si tende, con
ogni fibra, verso Inghilterra.
I loro occhi s’incontrano per un
attimo soltanto, e Dio, Francis è certo di non aver mai visto quelle iridi
verdi tanto spalancate, di non averle mai viste tanto spaventate, di non averle
mai viste tanto straziate, mentre le
sue dita perdono il contatto.
Poi il mondo esplode in un nugolo di
terra, acqua e sangue, all’impatto di una granata col suolo, e tutto diventa
nero.
Avverte un parlottio indistinto,
un brusio di suoni che urtano l’udito, un sottofondo che lo strappa dall’oblio.
Apre piano le palpebre,
battendole lentamente, e la fitta di dolore che lo attraversa dalla nuca alla
schiena è quasi insostenibile, tanto da fargli rimpiangere di aver osato
tornare alla vita. Il brusio si fa più concitato, suoni secchi e rapidi che
paiono colpi di tosse e digrigni senza senso, poi si ode uno scalpiccio veloce,
altri ordini, e finalmente una figura si sporge su di lui. È sicuro di
conoscerlo, quell’ometto baffuto, è sicuro di averlo già visto ma non riesce a
concentrarsi, per ripescare l’identità precisa dai meandri dei suoi ricordi.
-Où… où suis-je?- Sussurra, roco, richiamando un flebile filo di
voce alle labbra secche e spaccate. L’uomo però non gli presta molta
attenzione, voltandosi subito e piegandosi rapido a parlottare fitto coi pochi collaboratori che lo
circondano, almeno finché una voce imperiosa non impone il silenzio a tutti i presenti ponendo a
gran voce una domanda di cui non comprende il senso. Vede l’uomo sussultare,
malamente, e rispondere frettolosamente in un tedesco sbocconcellato. Allora,
riesce a riconoscerlo.
Fa per tentare di mettersi
seduto, ma la fitta si fa subito più intensa e lo fa immediatamente desistere.
Pètain si volta subito al suo indirizzo, allarmato, e inizia a tempestarlo di
domande frenetiche, sempre più pressanti, almeno finché, al giramento che gli
impone di chiudere gli occhi, Francis non riesce a fargli cenno di smetterla.
-Dove sono? –ansima, di nuovo,
esausto, e il Primo Ministro annuisce, chissà perché.
-A Parigi, ma patrie. L’abbiamo riportata indietro-
Indietro? Indietro? Quindi… oh,
ma perché c’è ancora tutto quel baccano, lì attorno? Vorrebbe chiedere che la
smettano e che inizino a comportarsi da persone civili, magari cominciando a
parlare in una lingua decente, ma la frase è ancora solo un abbozzo di pensiero
quando nella sua visuale entra il profilo rigido e gli occhi di vetro di
Germania.
Germania. A Parigi.
Francia annaspa. Stringe le
lenzuola, terrorizzato, e si agita nel letto, i suoi uomini tentano di calmarlo
ma lui non respira, non è possibile, dov’è Angleterre?
Petàin sembra leggergli nella mente, perché si schiarisce la voce, afferrandolo
forte per mano.
-I signori sono qui per negoziare
i termini della nostra resa-
E Francis urla, da qualche parte
nella sua mente, urla il suo cuore, urla la sua anima, urla ogni singolo atomo
della sua carne, mentre gli occhi gelidi di Germania non hanno il minimo
turbamento, squadrandolo come farebbero con un cadavere all’obitorio, nel
vedere andare in frantumi l’orgoglio, l’onore, il prestigio, la libertà, la
fraternità, l’uguaglianza della Repubblica di Francia.
Prima
che qualcuno se lo chieda, sì, questa storia era già stata postata, ma
mi sono accorta con mio sommo errore che mancava di un apparato di note
tali da renderla comprensibile. Visto che poi avevo individuato anche
una serie di errori in corpo di storia, piuttosto che smanettare come
una scema sui codici ho pensato fosse meglio optare per ripostarla da
capo. Indi, scusatemi vivamente. Questa storia è una side dal punto di vista di Francia di "And they call it a miracle -Dunkirk".
L'avvenimento trattato è sempre la Battaglia di Dunkerque, che vide le
forze anglofrancesi soverchiate dagli invasori tedeschi, causando un
esodo di massa dei soldati via mare. Per le info al riguardo, vi
rimando qui. Philippe
Petaìn fu uno dei diplomatici che negoziarono l'armistizio con il Terzo
Reich. In seguito, l'11 luglio fu nominato presidente della
Repubblica collaborazionista di Vichy. Il titolo proviene da uno stralcio di articolo pubblicato dal New York Times riguardo all'accaduto ( il frammento completo è: "Tant que l'on parlera anglais, le nom de Dunkerque sera prononcé avec le plus grand respect ". Fonte: WikiFrance) Per chi riesce a coglierli, infini, ci sono velati rimandi a opere e avvenimenti puramente francesi, ma niente di che. Dedicata, di nuovo, alla mia adorata Danna <3
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