Si diceva che l’Impero più temuto d’Occidente non fosse
che un trovatello.
“Due gemelli allattati da una lupa” amava raccontare
questi, seduto davanti al focolare sul pavimento della casa: un tempo avrebbe
potuto accomodarsi sul suo triclinium, ma l’era sfarzosa dei suoi domini si era
da tempo conclusa a favore di una decadenza dilagante. Teneva sulle ginocchia
possenti i due nipotini e nei loro occhi sgranati intravedeva la sua unica
speranza di riscatto. “E uno di quei due bambini, piccoli miei, ero proprio io:
Romolo.”
Nonno Roma, così lo chiamavano i suoi pargoli. Da quando
gli erano stati affidati gli si erano affezionati subito, e in effetti Romolo
non faceva mancare loro niente: li coccolava, li viziava, gli raccontava delle
fiabe proprio come avrebbe fatto la loro madre. Feliciano e Romano non avevano
mai conosciuto i loro genitori e, quando domandavano di loro o cominciavano a
piangere e strillare perché sentivano la loro mancanza, lui era sempre pronto a
tirare fuori storielle come quella per poterli distrarre e strappare loro un
sorriso.
Vedendo che il minore era distratto e sognante in quel
momento, l’uomo gli pizzicò affettuosamente il naso.
“E da bambino ero proprio come te, Feliciano. Chissà,
magari un giorno diventerai proprio come me:
un grande Impero, rispettato e temuto da tutti. Ho tanta fiducia in te.”
Feliciano rise, e così fece anche Romolo. Romano invece
cominciò a sentirsi scomodo sul ginocchio di quell’uomo – forse si sentiva
semplicemente di troppo- e desiderava più di ogni altra cosa poter scendere
giù: sapeva benissimo che Feliciano era
il preferito del nonno e, anche se non poteva farne una colpa al fratello e
prendersela con lui, nutriva un certo astio nei confronti di entrambi. La mano
affettuosa di Romolo si posava sempre prima su Feliciano e, quando si ricordava
di avere anche un altro pargoletto da crescere, cercava la testolina di Romano
che per orgoglio rifuggiva le coccole strepitando che a lui certe smancerie non
piacevano. Sin da piccolo Romano non desiderava altro che essere indipendente.
“ E Remo?” sbuffò il piccolo, volgendo al nonno
un’occhiata sagace. Se Feliciano era come Romolo, lui certamente doveva essere
come Remo: che anche questo Remo fosse un disgraziato come lo era lui?
Al vecchio tremarono le ginocchia.
Lo stesso Romano non avrebbe mai potuto sperare di
ottenere un effetto tale sul nonno: da sereno che era, improvvisamente mutò e
divenne molto turbato, al punto che gli fu difficile mentire subito e inventare
uno scherzo sul momento. Tuttavia
avrebbe dovuto aspettarsi quell’osservazione su Remo: il suo amato fratello,
che egli stesso aveva respinto negandogli la condivisione della città –divenuta
poi l’Impero- di cui era così follemente geloso. Una gelosia che lo aveva
portato a punire l’invidia di Remo con la morte, e che poi, negli anni, lo
aveva spinto nel baratro del pentimento: aveva a lungo cercato un sostituto, un
simulacro di suo fratello, e credeva bene di averlo trovato nella sua
conquista, la sua nuova metà, l’Impero d’Oriente; ma la somiglianza era scarsa
e il ricordo insostituibile. Sospirò, augurandosi che ai suoi nipoti non
toccasse la triste sorte da lui dolorosamente sperimentata d’esser divisi per
sempre.
“Te lo racconterò domani. Ora è tardi, andate a dormire.”
E Romano si rabbuiò, zitto: sapeva che il domani non
arrivava mai, e non sarebbe arrivato nemmeno quella volta. Ma, mentre veniva
posato nella culla dalle forti braccia di Romolo, prima di assopirsi, promise a
sé stesso che avrebbe cercato Remo e avrebbe risolto l’enigma.