Avevo questa storia in una cartella e non l’ho mai
pubblicata, non so perché. L’ho ritrovata oggi, l’ho riletta e stranamente mi è
piaciuta abbastanza, quindi l’ho postata. Spero piaccia anche a voi :)
sorry
PLAY
Il tempo porta sempre la verità. Peccato che non la porti sempre
in tempo.
(Choderlos
de Laclos)
Mark ha sempre
capito tutto al volo.
Potrebbe non
sembrare così, dal modo in cui si relaziona con la gente, da come si comporta con
gli amici, con le ragazze e con le altre persone in generale. Qualcuno è
addirittura arrivato a definirlo “ritardato”, almeno per quando riguarda la
socialità. Il problema in realtà è che la mente di Mark spesso è troppo veloce
rispetto a quella delle persone “normali”, troppo concentrata su argomenti “più
importanti” di stupide feste o stupide confraternite. Certo, un tempo Mark
avrebbe dato tutto pur di entrare al Club Phoenix, ma allora non aveva ancora
pensato a Facebook, non aveva ancora trovato un modo per migliorare la propria
vita che non includesse il dover portare a spasso una gallina per Harvard per
una settimana. Da quando l’idea di FaceMash aveva fatto capolino nella sua
mente, poi, questa era stata completamente allagata e invasa da quel pensiero e
lui era arrivato ad esserne totalmente assorbito per la maggior parte del tempo
in cui era sveglio e persino per buona parte di quello in cui invece avrebbe
dovuto dormire. In ogni caso, Mark era sempre un passo più avanti di chiunque e
questo secondo lui spiegava perché non fosse mai sulla stessa lunghezza d’onda
degli “altri”. Non era vero che non li capiva: li capiva troppo e troppo in
fretta ed era quasi sempre istantaneamente annoiato da quello che arrivava a
capire, perciò semplicemente smetteva di prestare attenzione.
Con la scuola
prima e con Harvard poi non era stato troppo differente. Se l’era sempre cavata
in ogni materia in cui avesse voluto cavarsela, ma non aveva mai frequentato le
lezioni con interesse o attenzione. Quello che gli insegnanti spiegavano mentre
lui avrebbe dovuto prendere appunti ed annuire di tanto in tanto al momento
giusto, lo avrebbe imparato da solo e nella metà del tempo nella sua camera a
casa o, qualche anno più tardi, nel dormitorio dell’università. E quando si era
trasferito a Boston, dopo qualche tentativo di presentarsi in classe per
provare a vivere appieno l’esperienza del college (più per accontentare Wardo
ed i suoi genitori, a dire il vero), Mark si era trovato a tornare al metodo
originale, ovvero evitare le lezioni come la peste e studiare da solo quel
tanto che bastava a superare gli esami. E gli era sempre andata bene, anzi più
che bene, tanto che ad un certo punto si era trovato a domandarsi quale fosse
il limite della sua mente, se ci fosse qualcosa che non sarebbe stato in grado
di capire.
Ma, certo, Mark
è sempre stato un po’ troppo pieno di sé.
In questo
momento infatti, mentre seduto davanti a lui dall’altro lato del tavolo il suo
ex migliore amico sta confabulando con il suo avvocato e cercando in ogni modo
di evitare il suo sguardo, Mark ha un solo pensiero, che lo disorienta e gli
toglie il fiato.
Non capisce
perché lui e Wardo si trovino lì.
Non che non gli
sia chiara la dinamica degli avvenimenti che li ha condotti fino a quel punto,
ad affrontarsi in una causa legale milionaria; anzi, quella è decisamente
definita nella sua mente, anche se un paio di punti come la storia della
gallina sono ancora confusi. Ma, no, non è questo.
È che in fondo
loro due erano amici. E il fatto è anche che secondo Mark tutto quello che è
successo non aveva il potere, semplicemente non poteva rovinare
un’amicizia e lo ferisce o più che altro lo offende, perché Mark non è il tipo
da essere ferito da qualcosa, il fatto che invece per Wardo non sia stato così.
Erano affari, era Facebook: loro due erano amici e soci, non amici in
conseguenza del fatto di essere soci. Solo, ad un certo punto non potevano
più essere soci e quindi secondo Mark avrebbero dovuto rimanere solo amici.
Compartimenti stagni. Era la conclusione logica, secondo lui.
Invece non era
andata così. Per una volta, Mark non aveva capito niente. E sarebbe stato
persino sopportabile non capire in quel particolare frangente, ma la cosa è
continuata e ormai dura da troppo tempo. Il problema, il vero problema, è che
fa male più del dovuto pensare che per Wardo non fosse così. Che per lui la
loro amicizia valesse così poco, che Mark valesse così poco.
Qualche miliardo
di dollari.
Il pensiero che
qualcosa di così insignificante abbia potuto intaccare quello che loro avevano avuto
in passato é un pensiero che lo coinvolge più di quanto avrebbe mai voluto. Va
oltre la ragione, in quello spazio che Mark non ha esplorato spesso ma che era
comunque abituato a dare sempre per scontato e che aveva ritenuto
inattaccabile, immutabile: quello dell’amicizia e dei sentimenti che lo
legavano ad Eduardo. Riteneva la cosa reciproca, allora, ma si era dovuto
ricredere.
Non capisce
perché ora Wardo lo stia osservando come si osserva un pesce tropicale che
sembra avere un’espressione buffa ma in realtà ha solo una strana conformazione
per uno scherzo di madre natura; non capisce perché il ragazzo che gli sta di
fronte non sembri più nemmeno Eduardo, né come da qualche tempo si sia trasformato
da Ward nel “signor Saverin”, quando al college anche dietro ai suoi completi
firmati, alle sue citazioni di Keynes e ai suoi tentativi di darsi un tono serioso
riuscivi sempre e comunque a scorgere un ragazzino brasiliano dolce, un po’
impacciato e in fondo sempre gentile con chiunque. Mark non capisce, davvero
non capisce e la cosa lo irrita infinitamente, perché non è abituato a non
capire.
Ma c’è una prima volta per tutto e stavolta Mark deve cedere
alle circostanze, ammettere la sconfitta. Accettare il fatto di non capire in
quel momento e accettare anche il pensiero, molto più preoccupante, che ci sarà
una cosa al mondo, questa, che probabilmente non capirà mai.
E poi c’è quella
cosa, quella che Mark non ha mai fatto nella sua vita.
A dire il vero,
ci sono tante cose che non ha fatto, ma ce n’è una in particolare che sembra
accomunare il resto del genere umano e che invece a lui risulta sconosciuta.
Non perché non ce ne sia mai stata l’occasione, anzi; semplicemente c’è chi non
è portato per gli sport, chi non ha orecchio per la musica, chi non ha talento
per l’arte… e poi c’è Mark. Che, come spesso gli capita, anche in questo caso è
una categoria a sé stante.
Wardo, il suo
migliore amico – ex migliore amico – l’ha portato in tribunale per ottenere da
lui dei soldi che lui ha guadagnato grazie alla sua idea. E questo a Mark
sembra peggio di un tradimento, peggio di qualunque cosa lui abbia mai fatto,
perché implica che Eduardo vuole avere un pezzo del patrimonio che lui si è meritato
come risarcimento per qualcosa che Mark è stato costretto a fare, come se dei
soldi possano risarcire un’amicizia finita. A Mark tutta questa storia sembra
solo un enorme pretesto.
Oltretutto, la
colpa è di Eduardo. La loro amicizia, se così si poteva chiamare, è finita per
colpa sua. Perché lui riteneva che potesse finire a causa di una stupidissima
percentuale. E se è questo il valore che lui dava a Mark, a loro, allora Mark
proprio non riesce a capire come lui possa essere visto da tutti come la
vittima del “mostro insensibile”, del robot… che poi sarebbe lui, Mark. La cosa
sarebbe persino ironica, se non fosse così ingiusta.
Quando però
Eduardo – Wardo – lo guarda dritto negli occhi con quel suo sguardo triste e
deluso da cerbiatto appena rimasto orfano a causa del cacciatore cattivo,
quando lo fa, a Mark non importa più se sia tutta una scena orchestrata dai
suoi avvocati per farlo apparire la vittima della situazione e fargli ottenere
un risarcimento maggiore. Non gli importa più che sia vero o no, se davvero
lui, Wardo, era “il suo solo amico” o se anche quella sia una battuta scritta
da qualcuno e recitata alla perfezione dal ragazzo.
Gli si forma un
groppo in gola, mentre sente quelle parole ed osserva quello sguardo con
un’espressione neutra, quasi indifferente. Per la prima volta fa esperienza del
famoso groppo in gola, di cui prima aveva solo sentito parlare e che ora non
gli permette di ribattere, di deglutire, di respirare perché sa che se
solo aprisse la bocca, se anche solo la dischiudesse di qualche millimetro, non
potrebbe più evitare di fare quello che non ha mai fatto prima in tutta la sua
vita. Quello che ora ha bisogno di fare così disperatamente, quello che vuole
fare a discapito di tutto il casino che è successo, di tutta l’indifferenza in
cui si è racchiuso come in un bozzolo che lo proteggesse dal mondo, perché,
Wardo questo lo sapeva, lui ha bisogno di essere protetto. Solo che lo stesso
Mark se n’è accorto troppo tardi. E davvero non vuole che sia troppo tardi ora,
ma non ha idea di come fare a lasciar uscire quelle semplici parole che gli
stanno ostruendo la gola, bloccando il respiro, schiacciando il cuore.
Non ha idea di
come fare qualcosa che non ha mai fatto prima.
Chiedere scusa.
«Scusa» mormora
allora Mark, incapace di distogliere lo sguardo da quello di Eduardo. Lo dice
piano, come se fosse imbarazzato, come se fosse qualcosa che sia uscito per
sbaglio dalla sua bocca e lui stesso ne sia stupito. Ma il suo sguardo racconta
un’altra storia. Perché in fondo anche lui sa che è la cosa giusta e se subito
dopo tornerà a recitare la parte del ragazzo freddo e indifferente sarà solo
perché, be’, lui è Mark e questo è quello che fa.
E solo per un
attimo, ma Mark lo coglie perfettamente, anche Wardo ritorna Wardo, il suo
Wardo, il suo migliore amico, quello con gli occhi più calorosi di chiunque
altro al mondo, gli unici che l’abbiano mai guardato con una sorta di tenerezza
mista ad ammirazione. È solo un attimo, però, perché il silenzio breve ma
totale che segue quella parola è immediatamente colmato dalle voci degli
avvocati di entrambi.
«Mark» sussurra
l’uomo in giacca e cravatta alla sua sinistra «non credo che questa sia la
tattica migliore per…»
«Signor
Zuckerberg», dice l’avvocato di Eduardo dall’altra parte del tavolo «se lei
crede che questo cambi qualcosa, allora ha decisamente…»
Basta che
Eduardo alzi una mano, però, per riportare tutti al silenzio. Fa un gesto in
direzione del suo avvocato, una mano distesa con il palmo rivolto verso di lei,
e per Mark quel gesto è tutto. Significa «Un attimo», oppure «Sentiamo cos’ha
da dire»; in ogni caso, significa che Wardo ha ancora voglia di ascoltarlo.
«Non ho chiesto
scusa ad Erica, quella volta al pub» dice Mark.
Questa frase non
ha senso per nessuno, a quello stupido tavolo, se non per loro due. Mark però
sa che Eduardo ha capito. Solo loro sanno cosa quella frase significhi e soprattutto
quanto significhi: è il modo contorto e oscuro di Mark di dire al suo migliore
amico che sta facendo un grande passo verso di lui, un passo che non è stato in
grado di fare neanche per la sua ex ragazza.
«Credo che, uhm,
andremo un attimo fuori».
Eduardo
pronuncia quelle parole lentamente, con attenzione, quasi come se pensasse che
in quel momento un errore qualsiasi potrebbe trasformarsi in un disastro,
provocare una valanga. Il suo avvocato apre la bocca, sta per dire qualcosa e
Mark la guarda impotente senza riuscire a dire niente.
«È tutto a posto»
dice per fortuna Eduardo prima che lei possa intervenire e Mark lo sa che non
sta parlando con lui ma con i suoi avvocati e che li sta semplicemente rassicurando
a proposito della causa e non… della vita in generale, ma quelle parole hanno
lo stesso effetto calmante che hanno sempre avuto su di lui se – quando, ogni
volta che ne aveva bisogno - venivano pronunciate da quella voce calma e al
tempo stesso decisa. Come se Wardo avesse sempre avuto il potere di rimettere
tutto a posto, di far andare tutto bene. Ed in un certo senso, era così, o
almeno è questo che Mark ha sempre pensato.
Si alza in
fretta dalla sedia con dei gesti scoordinati, come se avesse paura che l’altro
possa cambiare idea; Eduardo lo osserva intrattenere quella piccola lotta con
la sua sedia e per una frazione di secondo sembra che stia per scoppiare a
ridere, ma passa subito. Si alza anche lui, ma lo fa con grazie ed entrambi escono
dalla stanza, da soli, seguiti dagli sguardi attoniti dei loro legali. A dire
il vero a Mark sembra di cogliere un sorriso accennato nella sua direzione di
quella ragazza che deve avere la sua età, più o meno, e che accompagna il suo
avvocato. Ma subito ha altro a cui pensare.
Perché Eduardo è
di fronte a lui e adesso che non ci sono tavoli a separarli il suo sguardo lo
ferisce ancora di più, non perché Mark vi veda delusione o dolore, ma perché è
così diverso da quello che ricordava che si ritrova a chiedersi se sia in
effetti possibile riportare tutto indietro a quando… be’, a quando Facebook non
esisteva.
Ed è proprio
allora che realizza qualcosa: darebbe persino Facebook per riavere Wardo.
Darebbe
qualsiasi cosa e, sì, persino Facebook. Wardo è più importante di Facebook e
lui non se n’era mai accorto. Wardo è sempre stato più importante di qualsiasi
cosa ed è proprio per questo che Mark non riusciva a capacitarsi di averlo
perso, perché per lui era sempre stato sopra tutto e lui l’aveva dato per
scontato, non aveva mai messo a fuoco quel pensiero ed invece eccolo, ora,
eccolo lì, in tutta la sua scintillante chiarezza.
E gli sembra
solo ora di capire, di capire davvero tutto e gli sembra di essere stato così
cieco, così ottuso, sempre così vicino alla verità eppure così fuori strada,
perché le cose più grandi si possono vedere solo facendo un passo indietro ed
osservandole da lontano, così da poterle vedere nella loro interezza.
Mark di passi
indietro ne ha fatti parecchi, forse anche troppi, ma adesso finalmente lo
vede. Adesso vede tutto. E probabilmente ha un’espressione assurda dipinta in
faccia, perché mentre il suo assurdo giro mentale arriva finalmente ad un
conclusione, Wardo lo sta osservando con crescente curiosità e quasi non riesce
più a non sorridere.
«Bentornato»
dice ed è solo una parola ma vuol dire anche che lui sa: sa dei viaggi mentali
di Mark, sa che lui ne ha appena avuto uno e forse sa persino cosa abbia
pensato. Perché se Mark scoprisse che Eduardo sa leggere nel pensiero non se ne
stupirebbe troppo: in fondo ha sempre pensato che lui sia un supereroe o
qualcosa del genere.
E a quel punto
per Mark è tutto troppo chiaro e accecante e travolgente, quasi soffocante che
senza quasi accorgersene inizia a parlare, a vomitare il solito fiume in piena
di parole, perché vuole che anche Eduardo veda, che capisca. Solo che, anche in
questo tentativo disperato di spiegare qualcosa di vitale importanza come
questo, rimane sempre il solito Mark.
«Prendi per
esempio il sistema binario, Wardo« inizia, ma gli parla quasi come se stesse
continuando un discorso iniziato chissà quando, forse anni prima. Come se nulla
fosse cambiato, come se fossero ancora nella stanza di Mark ad Harvard ed
Eduardo gli avesse appena fatto una domanda.
«Immagina»
continua con foga «di avere una sfilza di zeri… Non sai ovviamente cosa
fartene, sono solo degli stupidi cerchietti senza senso messi uno accanto
all’altro, sono totalmente inutili, inservibili, non vogliono dire niente… uno
spreco di zeri».
Mark gesticola
frenetico e Wardo segue anche i movimenti delle sue mani con attenzione e quasi
con tenerezza.
«Se però
aggiungi un “uno”, anche uno solo, se lo aggiungi da qualche parte, non importa
dove, in mezzo a quegli zeri, ecco che, bam!, quell’ammasso di cerchietti ora
ha un senso, un significato».
Fa una pausa,
sperando di essere riuscito a trasmettere quanta magia ci sia secondo lui in quel
processo. Respira forte come gli ha insegnato il suo psicologo la prima e unica
volta che l’ha visto e, quando ricomincia a parlare, la sua voce è più lenta,
più calma, meno impetuosa. Ma non meno decisa.
«Basta un uno,
Wardo, e si può fare tutto. E tu…»
Mark sospira, a
fatica frena per qualche secondo la sua parlata nervosa, come se sapesse che
quello è il momento più importante di tutti.
«Tu sei il mio “uno”…
l’uno che dà senso alla mia sfilza di zeri».
E magari sarà la
metafora informatica, o il romanticismo che racchiude, o solo il suo essere
particolarmente “da Mark”, ma appena questo smette di parlare, Eduardo lo
bacia.
Ed evidentemente
gli legge nel pensiero o forse è solo una cosa che gli andava di fare in quel
preciso momento e per pura casualità è proprio quello che andava di fare anche
a Mark.
E poi si stacca
e gli dice «È da quando mi hai chiesto scusa che volevo farlo« e poi lo bacia
ancora e si stacca di nuovo solo per correggersi: «Non è vero, è da quando ti
ho conosciuto che volevo farlo» e a Mark viene da ridere ma quando le sue
labbra incontrano ancora quelle di Wardo gli passa la voglia perché questo, oh questo,
è decisamente meglio di qualunque risata al mondo.