Camminava
piano, posando soffici passi sull’erba umida e verdeggiante. Tutt’attorno
non si udiva alcun rumore, se non il ronzio soffuso di qualche insetto e lo
scrosciante movimento delle fronde, mosse dal leggero venticello spirante.
Il sole tramontava dietro ai monti, inondando di un opaco color arancione la
radura sottostante, e gli alberi spiccavano maestosi verso l’alto, quasi a
voler toccare il cielo.
Gohan proseguiva
lentamente, osservando quel bucolico paesaggio senza realmente vederlo.
Conosceva ormai a memoria il breve lasso di strada, tanto che probabilmente
sarebbe stato in grado di percorrerlo persino ad occhi chiusi. Quercia.
Masso. Stagno. Quercia. Quercia. Reggeva
un fagotto in una mano ed un piccolo fascio di fiori appena colti
nell’altra, entrambi trattenuti delicatamente tra le dita come se fatti di
cristallo. Dentro al cartoccio, avvolto accuratamente in un fazzoletto blu
scuro, sua madre aveva riposto una modesta porzione di cibo, come ormai di
consuetudine. Era una piccola offerta da portare a Goku.
Da quando era
morto, al termine dello scontro con Cell, la gradevole atmosfera familiare
che permeava nella loro umile casa era scemata tutt’un tratto, lasciando
spazio solo ad un greve senso di frustrazione e di mancanza. Chichi aveva
iniziato a dedicarsi maniacalmente alle faccende domestiche, cercando
disperatamente un modo per sopperire all’asfissiante senso di svuotamento
che la pervadeva, mentre lui aveva avviato una feroce lotta contro se
stesso, i sensi di colpa e l'impotenza che avevano preso a brulicargli
famelicamente nello stomaco divorandolo dall’interno.
Si sentiva
stanco, inaridito come un deserto, totalmente privo di quell’ingenua
esuberanza che qualsiasi ragazzo della sua età sarebbe stato in diritto di
possedere. Un’anima vecchia in un corpo giovane, e nient’altro.
Fissò la strada
dinanzi a sé con sguardo apatico, lasciando che il proprio corpo si muovesse
meccanicamente oltre il dedalo di vegetazione, verso la piccola, amena
radura dove la lapide in memoria di suo padre era stata innalzata. Era
l’unica traccia che ancora rimaneva di lui sulla Terra, oltre ad un paio di
tute stropicciate abbandonate sul letto che sua madre non aveva avuto la
forza di buttar via. Di lui, del suo papà, non restava null’altro: solo
delle sporche divise sgualcite, una lastra di pietra ed un nome inciso sulla
sua fredda superficie. Segni concreti e tangibili, eppure mostruosamente distanti.
Tirò sul col
naso, raschiando nervosamente la morbida stoffa stretta in mano. Gli occhi
erano lucidi e il paesaggio al di sotto della patina liquida che era la sua
vista tremolava, ma Gohan non pianse. Si era ripromesso che non l’avrebbe
mai più fatto, per sua madre e per se stesso, e così sarebbe stato.
D’altronde, anche se avesse voluto, sembrava non avesse nemmeno più lacrime
da versare; erano tutte affogate nella stoffa del suo cuscino, l’unico
fautore in quelle notti dove la tristezza e lo sconforto lo avevano assalito
come bestie voraci, intervallando in maniera straziante l’immagine
sorridente di suo padre alla dolorosa consapevolezza che nulla,
assolutamente nulla, gli avrebbe mai più riportato indietro quell’allegra
espressione paterna che aveva sempre animato le sue giornate.
Oltrepassò un
piccolo stuolo di margherite, girandoci attorno per evitare di calpestarle.
Nella battaglia contro Cell aveva dato prova della propria incredibile
potenza, della sua forza sopita, peculiare della razza da cui derivava, ma
probabilmente ora sarebbe bastato solo un alito di vento per spezzarlo,
proprio come un fragile stelo. Si sentiva debole, privo di forze e di
qualsiasi stimolo. Anche gli allenamenti con Piccolo-san erano cessati,
oramai senza alcun senso: volontariamente aveva smesso di schivare i pugni
del suo maestro per lasciarsi colpire, nella malsana speranza che, in
qualche modo, il dolore fisico potesse espiare la profonda colpa che sentiva
dentro.
Suo padre era
morto per causa sua? Per il suo orgoglio? Per la sua irresponsabilità? Per
la sua debolezza?
Sì. Sì. È
colpa tua. È colpa tua.
In un loop
perverso, una sibilante vocina s’insinuava costantemente nei suoi pensieri,
e glielo ripeteva, mordace: è
solo colpa tua, Gohan.
Abbassò per un
istante lo sguardo, per poi rialzarlo rapidamente verso l’orizzonte. Ormai
era quasi arrivato. Le sagome degli alberi avevano preso a ridursi
progressivamente, fino a lasciare spazio solo ad un piccolo ammucchio di
grossi cespugli. Li valicò inoltrandosi faticosamente tra il fogliame, e fu
allora che se ne accorse.
Esattamente al
centro della radura tinteggiata d’arancio, dinanzi alla lapide
commemorativa, vi era Vegeta. Stava in piedi, immobile, lo sguardo apatico
fisso sulla stele di pietra e le mani mollemente chiuse in pugno, nascoste
dai guanti lerci di terra. Pareva una statua di sabbia, in procinto di
sgretolarsi da un momento all’altro.
Gohan strinse le
labbra, così forte da farle sbiancare, decidendo di rimanere nascosto tra le
fronde. L’incertezza e il disagio lo pietrificarono, formicolandogli i
muscoli, il respiro prese a tumultuare nella cassa toracica con la stessa
energia di un ciclone.
Perché Vegeta
era lì? Cosa voleva?
In risposta alle
sue domande vi fu solo un muto, torpido silenzio.
Una sgradevole
sensazione rimescolante nello stomaco non fece che aumentare il suo profondo
senso di nausea, divenuto ormai una costante in quelle abuliche giornate.
Non voleva parlare con lui. Non voleva vederlo. Non voleva farsi vedere.
Voleva solo poter stare con suo padre. O
almeno con ciò che di lui rimaneva. Da
solo.
La solitudine
nella quale si immergeva era l’unica cosa che, in qualche modo, era in grado
di dargli conforto. Necessitava di rimanere solo, di fuggire da quella
realtà crudele che gli era stata imposta e di estraniarsi totalmente da
essa. Era come desiderare di voler separarsi dalla propria ombra,
nascondendosi scioccamente nel buio, e in quel momento Vegeta rappresentava
la luce dalla quale tentava di scappare, ciò che rifletteva la sua ombra a
terra: l’essere Saiyan, l’essere destinato a combattere e a possedere una
natura ferina e bellicosa, capace solo di causare dolore e violenza. Quella
natura lo spaventava, lo disgustava. La sentiva viscida dentro il suo corpo,
come un germe infetto. Da essa era nato un malsano piacere nello scontro
contro Cell, da essa era derivata la morte di suo padre. Avrebbe mai potuto
non rinnegarla, forse?
Strinse il
pacchetto tra le dita, trattenendo il fiato. Sentiva fracasso nella testa.
Le tempie scoppiavano e pulsavano. Il cuore scalpitava, si accartocciava e
si contorceva sofferente nel petto, come se fosse in procinto di schizzare
via da un momento all’altro.
Vegeta era
distante da lui, di spalle, e dalla posizione in cui si trovava poteva solo
intravedergli parzialmente il volto. Era granitico, come sempre, avvolto in
una spirale di ombre scure che gli ottenebravano gran parte dei lineamenti,
rendendolo ancora più imperscrutabile di quanto già non fosse. Non lo
capiva. Non l’avrebbe mai capito. Ora come ora, però, non gli importava
nemmeno. Voleva solo che lo lasciasse solo.
Abbassò le
ciglia, sentendole vagamente umide contro lo zigomo, e sospirò piano. Il
respiro incespicò faticosamente tra le pareti della gola, raschiando e
vibrando come un sibilo del vento. Ad un tratto, come se fosse bastato
quell’inavvertibile rumore per palesare la sua presenza, Vegeta si voltò in
sua direzione, gli occhi di pece affilati come coltelli. I riflessi delle
sue iridi avevano la medesima, scura tonalità del sangue rappreso. Sotto
quello sguardo austero ed impenetrabile Gohan si sentì piccolo ed
insignificante, come l’essere umano dinanzi alla vastità dell’oceano o
l’immensità dello spazio. Un brivido di disagio lo percosse da capo a piedi,
facendolo barcollare. Trattenne il respiro e fulmineamente azzerò la propria
aura, rimproverandosi mentalmente per non averlo fatto prima. Fu inutile.
« Credi di voler
rimanere nascosto come un patetico topo di fogna ancora per molto, stupido
moccioso? ». La voce austera del principe sferzò l’aria statica, provocando
il medesimo effetto soffocante di un pugno scagliato in pieno stomaco.
Sguardo superbo ed incaparbito, come sempre. Parole cattive, come sempre.
Eppure vi era qualcosa di diverso. Come se al di sotto della pelle di pietra
che lo avvolgeva vi fosse qualcos’altro, delicato ed appena intravedibile
come una bianca patina di cartapesta,
Gohan si
irrigidì, stringendo spasmodicamente le dita attorno la stoffa del suo
pacchetto di cibo come se potesse da essa ricavarne l’energia per muoversi.
Fu solo un istante, perché immediatamente, e nuovamente, l’apatia riprese
possesso nel suo corpo. Era come se dentro di sé vi fosse una lotta costante
tra opposti, tra voglia di riprendere a vivere e di lasciarsi andare
definitivamente. Emerse dal fogliame con uno scrosciante fruscio sommesso,
sospirando piano.
Raggiunse Vegeta
lentamente, sbocconcellando a piccoli passi l’esigua distanza che
s’interponeva tra loro. Si soffermò dinanzi alla lapide, posando su di essa
uno sguardo malinconico e stanco. Poi si volse verso il principe e schiuse
le labbra. La voce faticò a risalire lungo la gola. Era da tanto che non
parlava.
« Volevo stare
da solo », mormorò, flebilmente.
Vegeta gli
scoccò uno sguardo indecifrabile, le braccia conserte al petto. « Che
coincidenza. Anche io ». Il suo era un tono ironico, ma al contempo pieno di
un’amara acredine che non pareva essere semplicemente finalizzata alla
derisione.
Rimasero
entrambi in silenzio, avvolgendosi all’interno di una bolla muta, estraniata
dall’ambiente circostante. Un alito di vento spirò debolmente nella radura,
accarezzando l’erba a terra e provocando un lento, assuefacente fruscio.
Gohan non poté
fare a meno di pensare, ancora una volta, al fatto che in Vegeta vi fosse
qualcosa di strano. Forse era la languida luce negli occhi, forse era
l’espressione impercettibilmente frustrata dipinta sul volto, forse era il
tono di voce apatico, o forse era semplicemente l’insieme di tutte e tre le
cose. Era come se quel sottile strato bianco di cartapesta nascosto in lui
stesse affiorando pian piano, portando con sé un’emotività e una vaga
fragilità che non gli erano mai state peculiari. Risultava innaturale,
eppure non così terribilmente stonante come avrebbe dovuto essere. Forse suo
padre aveva scorto quell’atipico lato sin da subito, e forse per quello si
era legato così tanto a lui, nonostante tutto.
« Perché sei
qui? », domandò, debolmente.
Dalla battaglia
contro Cell, Vegeta si era come volatilizzato. Era scomparso senza lasciare
traccia, come un bruscolo di polvere al vento. L’unico ponte che in qualche
modo li collegava era crollato, d’altronde. Non c’era davvero nulla che li
legasse, all’infuori di Goku. Era una consapevolezza abbastanza triste.
Il Saiyan lo
fissò, in silenzio. Avevo uno sguardo gelido come ghiaccio, e quel contatto
visivo lo fece rabbrividire. C’era così tanta tristezza impressa e malcelata
in quelle iridi scure da essere in grado schiacciarlo. Si guardarono per
qualche istante, poi Vegeta volse lentamente lo sguardo dinanzi a sé,
posandolo sulla lapide fredda.
« Che domanda
stupida », disse, sprezzante. Poi nient’altro.
Gohan titubò per
qualche istante, alzando gli occhi. Il cielo che si stendeva immenso sopra
la testa pareva ora un ammasso informe di vapore soffuso e venato, tinto dei
colori caldi del crepuscolo. Le nuvole erano grosse e compatte, incendiate
di rosso. Nelle loro forme scorgeva la sua famiglia, e Piccolo-san, e ancora
il suo papà, sorridente. Un’ulteriore ondata di malinconia lo avvolse.
« Io sono qui
per mio padre », mormorò, con un flebile tono di voce che pareva potersi
estinguere da un momento all’altro, « Tu, invece? ».
Vegeta
s’irrigidì. Fu solo per un fugace istante, ma sufficiente perché la maschera
di perfezione e rigidezza dietro alla quale era solito nascondersi
s’incrinasse visibilmente. Chi era realmente Goku, per lui? Solo un rivale?
Un amico? Un fratello? Un compagno? Ora come ora, dinanzi a quel pezzo di
pietra muto e freddo come la morte stessa, a Gohan sarebbe davvero piaciuto
poter avere una risposta.
Nuovamente,
Vegeta si voltò verso di lui. Il suo fu un vero e proprio scatto ferino che
lo fece sobbalzare. Gli occhi dardeggianti di ira e frustrazione, le labbra
strette e sottili pressate violentemente l’una contro l’altra, nel tentativo
di celarne il tremore.
« Per chi sono
qui...? ». La sua voce tremava di rabbia, le mani serrate in pugno con essa.
Era come se stesse disperatamente cercando di combattere contro ogni
emozione che minacciava di traboccare dal suo corpo, battendo con forza
contro il petto e sussultandogli in gola. « Sono qui a perdere il mio tempo
per uno stupido, dannato idiota senza cervello! Per un’insulsa, patetica
caricatura della sua razza che è andata a suicidarsi nel modo più idiota che
esiste! Per niente! Niente! NIENTE! ».
Proruppe in un
urlo tonante, che rimbombò come un tuono, propagandosi per ogni anfratto di
quei monti estranei al mondo. L’aria satura di elettricità parve farsi
ancora più soffocante, e tutto s’immobilizzò bruscamente. Il vento, il
ronzio degli insetti, il fruscio dell’erba. Per qualche interminabile
istante tutto ciò che si udì fu solo la sua voce echeggiante, che si propagò
con la medesima intensità di un incendio fino ad estinguersi come una debole
fiammella.
Gohan sussultò a
quella reazione, e il fagotto fino a quel momento tenuto stretto tra le
braccia scivolò lentamente dalla sua presa, cadendo sull’erba ai suoi piedi
con un suono ovattato. Fissò Vegeta stordito e confuso, senza nemmeno
accorgersi di stare trattenendo il fiato. Lo vide stringere spasmodicamente
le labbra fino a sbiancarle, abbassare le palpebre e coprirsi rabbiosamente
il volto con una mano. Era la prima volta che si ritrovava dinanzi ad un
principe del genere, così totalmente, irriconoscibilmente stravolto. Non
poteva vederla, né sentirla, ma era come se la maschera di pietra tenuta
costantemente sul quel volto regale si fosse sfracellata a terra, esplodendo
in mille pezzi e dimostrando la medesima fragilità di un cristallo. Non
avrebbe mai creduto che anche lo spietato principe dei Saiyan potesse venire
assoggettato dalle emozioni come un semplice, banale essere umano. Quella
consapevolezza gli strinse il petto in una presa mordace.
Poi però, alla
stessa velocità di un lampo, la sorpresa fece spazio alla rabbia.
« Non... NON
PARLARE COSÍ DI MIO PADRE! », urlò, tanto forte da sentire la gola bruciare.
Improvvisamente, come se quell’urlo liberatorio fosse stato il loro
lasciapassare, nuove lacrime cominciarono a sgorgargli lungo le guance
paonazze, pizzicandolo e accoltellandolo come tanti spilli acuminati. Il
Saiyan lo fissò in un fascio di nervi tesi, sgranando degli occhi che
parevano essere immersi in una dimensione distorta. « È stata colpa mia! È
morto per causa mia! ». Gli si lanciò addosso, e pugni privi di reale forza
presero ad affondare contro la liscia superficie della battle suit. «
Smettila di offenderlo! Non te lo permetto! Se devi prendertela con
qualcuno, prenditela con me! ».
Vegeta strabuzzò
gli occhi. Rimase immobile, lasciandosi colpire. Sentiva il corpo di Gohan
tremare da capo a piedi contro il suo, i muscoli vibrare e fremere senza
alcun controllo come molle tese. Dentro la sua mentre, il vuoto. Attorno a
sé, il nulla. Vi erano solo lui e il figlio del suo nemico in
lacrime, gli occhi gonfi, il volto stravolto e i canini affondati
disperatamente nel labbro tumefatto, nel vano tentativo di controllare i
singhiozzi.
Perché? Che
cos’era quella situazione? Cosa doveva fare?
Si sentì come un
naufrago nel bel mezzo dell’oceano: privo di forze, disorientato, debole.
Cos’era quell’ignominiosa fragilità che si sentiva addosso? Perché non
riusciva a liberarsene? Perché non si sentiva disgustato come avrebbe dovuto
essere? Perché non vi era
nulla alla quale anche lui potesse appigliarsi?
Lentamente Gohan
smise di colpirlo, abbandonandosi ad incontrollati ed affannati singhiozzi
contro il suo petto. Lui non lo respinse. Era vivo, ma non respirava. Era in
piedi, ma il corpo era a pezzi. Si sentiva inanimato come una bambola.
Rimase rigido come una statua, le braccia molli lungo i fianchi e lo sguardo
opaco posato apaticamente su quel SON
GOKU inciso
nella pietra. Qualcosa gli compresse violentemente il petto, facendogli
male. Non era il solito dolore fisico, non era qualcosa di sopportabile come
la sofferenza che il suo corpo pativa durante una battaglia. Era qualcosa
che stava germinando internamente a sé, e che non poteva vedere né
contrastare.
« È stata tutta
colpa mia », singhiozzò Gohan, mordendosi il labbro con tanta foga da
spaccarlo. Sentiva la frustrazione montargli dentro, assieme al sapore
ferroso del sangue che iniziava ad invadergli pigramente la bocca. « Se solo
l’avessi ascoltato, se solo fossi stato più forte... Ora lui non sarebbe
morto ».
Vegeta abbassò
lentamente le palpebre, respirando piano, in maniera quasi impercettibile.
Provava rabbia, frustrazione, impotenza, disgusto, odio, rimorso, rimpianto.
Forse provava tutto. O forse non provava niente. Lentamente, come squarci
frammentati di una pellicola seppellita per anni e anni in mezzo alla
polvere, stralci della battaglia con Cell presero a scorrere nella sua
mente. Ogni immagine fu un pugno nello stomaco, ogni scena un colpo al suo
orgoglio.
Rivide
il volto tumefatto e sporco di terra di quel moccioso. Nonostante l’età,
aveva dato tutto se stesso. Aveva combattuto ferocemente, andando contro la
sua stessa natura così stupidamente docile e remissiva. La ferocia dello
scontro aveva trasformato persino lui in una bestia, portandolo a desiderare
la sofferenza del proprio nemico come solo un Saiyan purosangue avrebbe
potuto volere. Era come se la sua reale persona fosse stata spezzata in due,
tra libertà e costrizione.
Solo adesso,
mentre sentiva le sue lacrime salate e i singulti spezzati contro il proprio
petto, Vegeta si domandò quanto quel marmocchio avesse potuto soffrire. Non
era poi così diverso da ciò che aveva provato lui, a suo tempo, quando a sì
e no dieci anni sovrastava cataste di cadaveri come se fossero giocattoli.
Quanto aveva potuto soffrire, il figlio del suo nemico?
E perché gli importava, dannazione?
« Non è stata
colpa tua », sospirò. « Non è stata colpa tua », ripeté con rabbia,
strizzando gli occhi.
È stata colpa
mia. Sono debole.
Combattere e
rafforzarsi, quello era il suo destino.
Combattere
innalzandosi nella gloria o affondando nel disonore.
Combattere fino
a sentire i nervi e i muscoli bruciare e crepitare come brace sul fuoco.
Combattere fino
all’ultimo sprazzo d’energia in corpo.
Combattere fino
alla morte.
Il desiderio di
vittoria doveva essere il suo ossigeno, il sangue nemico la sua seconda
pelle.
Combattere e rafforzarsi, era quello il suo destino.
Ma Kakaroth era morto, e lottare non aveva più senso.
Se
chiudeva gli occhi, Vegeta poteva ancora sentire quel liquido rosso
vermiglio, cicatrice invisibile delle infinite battaglie combattute,
bagnargli caldo il corpo in un tocco viscoso, scivolandogli lungo i
lineamenti e inzaccherandogli la pelle.
Si
passò una mano lungo volto, infastidito.
Ciò
che gli rigava la guancia in quel momento, però, non era sangue.
Era
solo una lacrima.
“Bye bye,
minna”.