2.
"Scusa"
“Cercherò
di passare sopra la scarsa
cura che ha delle sue cose, Watson!”
“Lei è detestabile!”
“Il genio regna nel caos, caro
Watson, ma non è il suo caso.”
“Mi sta dando del rimbecillito?”
“Lo ha detto lei.”
Se
c’era una cosa che il Dottore amava fare nelle miti sere
primaverili era passare le ultime ore della giornata sulle panchine in
ferro
battuto di Hyde Park, apprezzando il sole che gli stuzzicava i baffetti
e i
piccioni che beccavano briciole ai suoi piedi.
Quella sera, il vento era quasi assente e gli alberi mandavano
profumi esotici. Seduto presso il lago, Watson chiuse gli occhi,
inspirò
profondamente e assorbì gli
ultimi raggi
del giorno.
La mente corse veloce a quella mattina e al disastro a cui era
stato costretto ad assistere.
Holmes aveva superato il limite dell’indecenza.
Aveva trovato la sua collezione di provette e alambicchi,
appositamente acquistata in uno dei suoi viaggi in India, distrutta sul
pavimento. Holmes, con il sorriso sulle labbra aveva alzato le spalle
in un
gesto arrendevole e i suoi occhi dicevano: “Non ho fatto
apposta, erano
pericolanti.”
Dopo aver sbattuto talmente forte la porta dello studio e aver
schiantato
la colazione che aveva comprato per entrambi contro il muro, schiumoso
di
rabbia era uscito dalla casa del suo migliore amico, gridando sulla
scelleratezza dei comportamenti umani.
La voce di Holmes gli era arrivata flebile dalla finestra
dell’ultimo
piano quando ormai lui aveva superato l’angolo di Baker
Street.
La città non gli era mai sembrata tanto piccola:
l’aveva attraversata
a passi da gigante, urtando i passanti e colpendo ripetutamente i piedi
sull’asfalto,
assumendo di tanto in tanto comportamenti schizofrenici degni
dell’uomo che
aveva appena rovinato la sua mattinata.
Ed era stato con immenso sconforto che aveva preso posto sulla
panchina sulla quale, adesso, accettava a braccia aperte il calore
della sera.
“Se
posso permettermi, ridere è un buon metodo per terminare la
giornata.”
Watson aprì gli occhi. Dissimulò un grido
sorpreso in un colpo di tosse alla vista della
creatura che gli si parò dinanzi. Era umana, ma la faccia
era pitturata di
bianco e sulle labbra un rosso acceso che terminava sulle guance. Sotto
l’occhio
sinistro, una lacrima finta e ciglia lunghissime disegnate con una
matita nera.
La testa era sormontata da una parrucca arancione, riccioluta e enorme.
E per
completare l’opera, un naso rosso di plastica grande come
un’arancia.
“Vedo che l’ho piacevolemente stupita. Sono
interessante, eh?”
Watson boccheggiò e cercò di assumere
un’aria seria.
“E lei cosa dovrebbe essere? Un qualche mendicante
eccentrico?”
“Meglio. Sono un…pagliaccio!”
rispose quello, inchinandosi
al cospetto del Dottore, mentre dal taschino che aveva sul petto
estraeva un
fiore rosso.
“Un giullare? Non le sembra finito il tempo dei banchetti
medievali?”
La strana figura sorrise, enigmaticamente. Watson socchiuse gli
occhi per osservare quel viso mascherato dalla tintura bianca.
“Dicevo,”- proseguì il pagliaccio,
sedendosi di fianco a Watson che
si spostò involontariamente quanto più lontano
possibile “non vorrebbe ridere
alla fine di una giornata?”
Aggrappato al lato della panchina, Watson rimase immobile a soppesare
le parole dell'uomo. Ridere? In quel momento era l'ultimo dei suoi
obiettivi. Sarebbe stata gradita la solitudine, ma a quanto pareva,
l'uomo di fianco a lui non dava segno di volersi allontanare.
Lambiccandosi sulle possibili opzioni, si umidì le labbra
con la lingua, distogliendo gli occhi da quelli scuri del clown.
Proprio quando si stava per voltare a chiedere gentilmente ma con
fermezza di lasciarlo solo, l'altro gli aveva appoggiato una mano sulla
spalla. Watson non riuscì ad arretrare: nell'espressione di
quello strano figuro riconobbe uno sguardo familiare.
Watson osservò la struttura fisica dell’uomo. Non
doveva essere
giovane, ma i suoi occhi erano accesi e vivi. Stranamente, a dispetto
delle sue
fattezze grottesche, quella figura gli
ispirò un senso di fiducia.
"Forza, me lo dica. Non si dice che ridere sia la miglior medicina?"
Watson suo malgrado, si ritrovò ad annuire, e non se ne
accorse fino a che il pagliaccio si mise a battere le mani con
espressione gioviale.
“Ecco! Io sono qui per questo!”
La panchina cigolò quando si alzò e Watson
scivolò di nuovo al
centro. L’uomo davanti a sé si esibì in
un balletto osceno, seguito da
imitazioni animalesche e trucchi di magia
improvvisati. Watson rimase a
fissarlo, l’espressione neutra sotto il cappello e la bocca
contratta. Non era
divertente: era ridicolo. Ma poi vide che, sul viso del pagliaccio, il
sorriso
era eterno. Suo malgrado, nonostante la rabbia scorresse nelle sue
vene, si
ritrovò a sorridere a quel sorriso. Il perché di
uno sconosciuto abbigliato a
quel modo l’avesse avvicinato non lo sapeva. Ma gliene fu
grato. Watson rimase
ad osservare le movenze scoordinate, i versi volgari, ma sotto a tutto
questo,
un senso di pace lo invase. Non era felice, ma sentiva di poterlo
diventare.
Sorridere era la chiave, alla fine. Per un momento
si dimenticò di Holmes e della sua disattenzione,
così simile alla scordinatezza
di…
“Un momento.”
Il pagliaccio si fermò, tra un salto e l’altro.
Rimase in
equilibrio sulla gamba sinistra, il ginocchio leggermente piegato e il
sudore
che pian piano stava scivolando sul suo viso.
Watson si soffermò sugli occhi scuri, sulla piega del labbro
superiore. Sotto al trucco da pagliaccio, forse si nascondeva il genio.
Il clown sorrise, ancora una volta, e improvvisamente scattò
sulle
gambe. Watson cercò di gridare qualcosa, alzandosi dalla
panchina, ma le parole gli erano rimaste
impigliate in gola. La figura colorata sparì oltre gli
alberi, lasciando il
Dottore solo in compagnia dei piccioni che elemosinavano ai suoi piedi.
L’uomo si sedette, sprofondando nei suoi dubbi. Gli era
sembrato di
riconoscere una ruga familiare, sotto tutto quel bianco.
Era assurdo. Holmes non si sarebbe mai impegnato in atteggiamenti
osceni per farlo ridere. E non c’era neppure riuscito
pienamente. Watson si
perse con lo sguardo oltre la fila degli alberi dove
quell’uomo era sparito:
Holmes non era uomo da chinare il capo e chiedere scusa. I segnali del
suo
corpo e la sua follia bastavano a scagionarlo da ogni colpa.
Umanamente era un disastro, ma sapeva come sfruttare,
involontariamente,
la sua vena artistica.
Un piccione si avvicinò alla sua scarpa e lui lo
scacciò con il
bastone. Il sole stava scendendo lentamente, per lasciare spazio alla coperta della notte, che
avrebbe
abbracciato il mondo. Gli avvenimenti della giornata erano stati
sfiancanti, ma tutto sommato, quell'ultimo incontro era stato
piacevole.
In un modo totalmente trasfigurato.
Si alzò, mugugnando, e fece per andarsene.
Poi vide qualcosa, un oggetto piccolo e marrone che risaltava sul
manto verde del prato.
Si chinò accigliato per esaminarlo. Alla luce del lampione
che si
accese, lo stupore e la sorpresa si dipinsero sui suoi lineamenti.
Una
pipa annerita, con due iniziali impresse nel bordo.
~
Lo
studio di Baker Street stava sprofondando nelle ombre. Holmes era
seduto alla finestra, con le spalle alla porta e il
tavolo dinanzi a sé e la fiammella tremolante della
candela creava giochi di luce sui suoi lineamenti, rendendoli
irriconoscibili. Le mani stavano massaggiando il viso con un fazzoletto
bianco, quando un insistente battere alla porta lo destò dai
suoi ingarbugliati
pensieri.
“Porti la sua persona lontana da lì, Miss Hudson.
Sta sostando sul
mio cerchio magico.”
La porta si aprì cigolando e il fazzoletto con cui
portò via gli
ultimi residui bianchi e rossi dal viso, finì
precipitosamente nel cassetto.
“Buonasera, Holmes.”
La voce scura e bassa era ben lontana dal gracchiare della
governante e Holmes si girò per sorridere al nuovo entrato.
“Oh, è lei Dottore.”
Watson rimase in piedi sulla soglia. Il ticchettio
dell’orologio a
muro fungeva da intermediario per i due che non osavano rivolgersi
altre
parole. Holmes si stuzzicò le unghie con un fermacarte,
prestando poca
attenzione ai movimenti dell’altro.
Quando sentì il rumore distinto di
qualcosa appoggiato sul tavolino, alzò gli occhi, per
incontrare quelli azzurri
di Watson.
“Dovrebbe sprecare il suo tempo in più fruttuose
occupazioni.”
Holmes lo guardò accigliato. Le mani dell’altro si
allontanarono
dal tavolino, alzandosi verso il volto per calare il cappello sugli
occhi.
Holmes non vide il sorriso che delineò la sua bocca sottile.
Quando Watson si allontanò per raggiungere la porta e
uscire,
riconobbe la pipa marrone.
“Scuse
accettate, Holmes.”
Angolino
nell'armadio:
Buonasera
cari lettori! Ringrazio in primis chi ha lasciato una recensione e chi
ha messo tra le seguite questa raccolta.
Ero
in crisi per questo capitolo. Non uno straccio di idea! Poi oggi,
tornando a casa da una mini-vacanza in Piemonte, l'ispirazione
è sbocciata. Qui mi sono divertita a sfruttare le doti da
travestito (si, avete capito xD) di Holmes per scusarsi con il suo
Dottore preferito. Lui non è tipo da arrivare alla porta di
qualcuno e chiedere scusa a semplici parole. E' troppo poco rispettoso
dei sentimenti umani per farlo xD A suo modo, ha cercato di
destreggiarsi. Il pagliaccio è una figura che risale ai
tempi antichi, ed è sempre stata sinonimo di ironia e
satira. Oggi, soprattutto grazie a esperimenti ospedalieri, la sua
figura rappresenta la felicità e il sorriso.
Spero vi sia piaciuto nella sua stranezza! Ricordatevi di sorridere,
sempre :)
Un bacione,
Tony P.
Argomento:
"Ringraziamento e Perdono"
1. Grazie
2. Scusa
3. Giustificazioni
4. Perdono
5. Scelte
L'immagine presente nel Banner appartiene alla seguente autrice: http://sadyna.deviantart.com/. Date un'occhiata alla sua galleria, soprattutto alla sezione Sherlock Holmes :D |