L'attimo in cui apre gli occhi
L’attimo in cui apre gli
occhi
...to my amazing guy
“ E anche
per questa mattina è fatta”, borbotta fra sé e sé mentre, con un
ultimo sbuffo di vapore condensato, varca la soglia nel suo
appartamento. Subito il tepore della stanza semibuia l’avvolge
benevolo, provocandole un piacevole formicolio alle estremità
semicongelate; per quanto possa essersi coperta, non ci sono cuffia o
sciarpa di lana che possano mettere al riparo dal freddo pungente il
suo povero naso. Strizza lievemente gli occhi, nel doppio tentativo
di mettere a fuoco l’ambiente e liberarsi della sottile patina di
lacrime che li ha ricoperti dopo l’ultima raffica gelida. Le dita
si muovono ancora a fatica, la piena sensibilità dei polpastrelli le
tornerà forse qualche minuto più in là, magari sotto le lenzuola.
E’ ancora presto, non sono nemmeno le dieci e la stanza è ancora
satura degli odori della notte: il torpore denso del sonno,
l’intossicante pungere dei sensi che rimane nell’aria dopo il
sesso, così densa di anidride carbonica da rallentare il pensiero al
risveglio.
Posando
leggera piccoli passi uno innanzi all’altro, si fa avanti piano,
accostando la porta dietro di sé, attenta a non far troppo rumore.
Solo il lievissimo scatto della serratura. Non riuscirebbe a
perdonarsi di averlo svegliato al suo ritorno, lasciandosi così
sfuggire la rara opportunità di vederlo dormire in quella sua buffa
posizione, a pancia in giù e le braccia aggrappate al cuscino, le
mani artigliate alla federa candida, con la stessa disperazione con
la quale la notte stringe possessivamente i suoi fianchi
bianchissimi. Ama disperatamente il suo uomo, ogni volta come se
fosse l’ultima, come se dovesse sfuggirgli tutto fra le dita,
dissolversi improvvisamente. Troppe volte aveva visto andare in
frantumi quel poco che faticosamente si era costruito, aveva
conquistato e,
col tempo, aveva quasi smesso di lottare. Un cuore in ipotermia
preventiva, questo gli era sembrato al primo sguardo; bellissimo ma
straziato internamente, l’animo più volte dilaniato e rappezzato a
fatica. Due occhi infinitamente tristi, mal celati al mondo da fredde
lenti specchiate. Ferite mai rimarginate e la pretesa di nasconderle
con un’indifferenza non sua.
Si muove
sicura nella penombra fumosa della stanza; casa sua non è grande,
poco più di un monolocale e, a dirla tutta, non è nemmeno sua, solo
in affitto. Ma è ciò che le basta, non vuole altro. E’ la sua
indipendenza, e la conosce come il palmo delle sue mani, la sente, vi
si riconosce ad occhi chiusi. Posa il palmo contro la parete ed
individua, coi polpastrelli ancora intirizziti dal freddo che i suoi
guanti tagliati non riescono a schermare, i contorni squadrati
dell’interruttore. Indugia. Accedere la luce cambierebbe tutto,
spezzerebbe quell’incantesimo sospeso che è la quiete mattutina,
quel sopore vago che già la sta cogliendo mentre, ritirando la mano,
decide semplicemente di liberarsi di cappotto, sciarpa e cuffia,
abbandonandoli sul pavimento.
In fondo
alla stanza, al riparo dai primi raggi nebulosi di sole invernale, il
suo letto pare chiamarla; i lievi riflessi del copriletto sgualcito
le ricordano cosa l’attende sotto le coperte, avvolto dal tepore
delle lenzuola scure. Amaranto,
le aveva detto quasi con orgoglio la commessa. Come
i miei capelli, aveva pensato subito lei.
Quasi
sovrappensiero, rapita dal senso d’attesa e dalla visione che i
suoi occhi ormai abituati al buio le stanno regalando, si spoglia
silenziosamente, attenta a non urtare nulla, ma al contempo con un
sottile senso di impazienza che nell’animo va crescendo. E non è
il freddo che si impossessa delle sue membra sempre più scoperte a
provocarle quell’urgenza. Sfila gli stivali facendo leva sui
talloni, poi le calze pesanti, il vestito di lana nero, la maglia, la
canotta, poi infine anche il reggiseno. Troppi indumenti tuttavia
necessari per combattere il freddo delle mattinate di lavoro. Infila
i pollici oltre l’orlo degli slip, indecisa se lasciarli o
liberarsi completamente di tutto ciò che avrebbe potuto separarla
dalla sua pelle una volta sotto le lenzuola. Fa scorrere il dito
lungo tutto il ricamo, soppesando la cosa come fosse di vitale
importanza, mentre ancora guarda il letto; poi, con un rapido gesto,
li sfila. Nuda, via tutto. Rapida ma attenta, quasi sinuosa, aggira
il letto e vi si infila dentro, adattando la propria posizione alla
presenza di una piccola palla di pelo nera proprio al centro della
sua piazza. Anche lui ronfa beato, non le va di spostarlo malamente.
Sotto le lenzuola è rimasto imprigionato
ancora parte del tepore di quella notte e
lei, riconoscente per questa inaspettata coccola, vi affonda con
soddisfazione, lasciando alla stoffa il compito di scaldarle il corpo
ancora in parte insensibile. Si sistema come un gatto, quasi
acciambellandosi, socchiudendo gli occhi per il sottile piacere e la
soffice consistenza del cuscino sul viso. Poi li riapre e finalmente,
consolata la pelle offesa dalle intemperie, può dedicarsi a lui.
Lo guarda in
silenzio, con semplice dedizione, quasi lo vedesse per la prima
volta. Dorme mostrando la schiena, ma il viso, seppur affondato nel
guanciale, è rivolto verso di lei. Una spalla nuda fa capolino da
sotto le coperte; la sua pelle liscia le fa venir quasi voglia di
assaggiarlo, mordicchiarlo lievemente lasciando piccoli segni al suo
passaggio. I capelli, lunghi e scuri, gli ricoprono la nuca e parte
delle spalle, ricadendo sul cuscino e sul volto in ciocche scomposte:
è completamente spettinato, perché nel sonno si agita, di notte si
rigira, non trova pace.
Osserva le
coperte alzarsi ed abbassarsi impercettibilmente seguendo il ritmo
del suo respiro, ora regolare e quieto. Una sottile ciocca di
capelli, sfuggita davanti al viso, oscilla piano, mossa dal respiro
di lui.
Si è
riaddormentato una volta solo, dopo averla destata con una carezza,
al suono della sveglia che lei puntualmente non aveva sentito. Ancora
la sorprende il fatto che lui non si sia mai lamentato dei suoi
orari, del
fatto che ogni santa mattina lei lo sveglia, seppure
involontariamente, mentre si prepara per andare al lavoro.
Semplicemente socchiude gli occhi e, senza nemmeno parlare, le dedica
i primi attimi della sua giornata. Piccole cose, come due braccia
nude, calde, che ti accolgono in un abbraccio morbido, o un leggero
bacio dato a fior di pelle sulla tempia, hanno, con lui, acquistato
un nuovo ed inaspettato valore. Momenti preziosi ed inestimabili solo
per loro: semplici gesti carichi d’affetto prima di affrontare il
mondo.
Ora riposa
come un bambino e lei, per quanto senta urgente il bisogno di essere
nuovamente stretta nel suo abbraccio, proprio non trova la forza di
svegliarlo. Allunga timidamente una mano per accarezzarlo, esitando
un attimo col braccio sospeso su di lui. Non vorrebbe interrompere
questo suo momento di tranquillità ma, contro ogni pensiero
razionale, si trova a sfiorare delicatamente la guancia punteggiata
dalla barba incipiente, lasciata un po’ incolta. Non avrebbe mai
pensato che potessero piacerle gli uomini con la barba; l’aveva
sempre trovata un inconveniente piuttosto fastidioso, ispida e
sgradevole da toccare ma, deve ammetterlo a se stessa, ora non può
più farne a meno. La sua poi è morbida, irresistibile anche quando
leggermente trascurata. Forse la trova persino sexy. Forse. O
probabilmente bisognerebbe chiedersi cosa non trova affascinante nel
giovane uomo che le ha riempito la vita ed i pensieri, pezzetto dopo
pezzetto, conquistando ogni giorno una parte sempre più grande del
suo essere, sconvolgendone gli equilibri, sino a reclamarne il cuore
come legittimo rifugio.
Immersa in
tali pensieri non si rende nemmeno conto che qualcuno, accortosi
della presenza della sua padrona, si è svegliato e le è salito
sulla pancia in cerca di attenzioni. Lei abbassa lo sguardo ed
intercettando il bagliore dorato delle sue iridi gli sorride, affonda
una mano nel pelo morbido e si sistema meglio sul letto, a gambe
incrociate, mentre lui le si acciambella in grembo con gli occhi
socchiusi, già pronto a fare la fusa. Che gatto ruffiano. Il suo
adorabile gattaccio nero. Elegante e bastardo,
proprio come un Uchiha. Ed infatti, proprio di un Uchiha porta il
nome. “Sas’ke”, sussurra in un respiro quasi muto, avvicinando
il viso al musetto del felino e lasciandosi regalare una leccatina
sul naso, riconoscente
per il trattamento riservatogli, una volta tanto. Le sue mani si
muovono quasi da sole, in autonomia, come riconoscessero il
territorio nel quale si stanno avventurando, ed in effetti è proprio
così. Sasuke è stato la prima compagnia di Dafne in quella casa, il
suo primo coinquilino possiamo dire, l’unico col quale condividere
i pensieri, nel quale cercare conforto nei momenti tristi, quelli
veramente difficili. O almeno fisicamente, perché nei pensieri,
invece, lui già c’era. Fortemente. Anche quando ancora c’era
l’altro.
L’altro…
il fidanzato storico, quello da sposare, quello con il quale avere un
futuro, condividere le responsabilità, un mutuo, i figli. Quello con
cui fare “Il Passo”. Quello che piace a tutti, quello giusto.
Talmente giusto e perfetto da essere lontano anni luce dalla sua
anima, dalla sua comprensione. Lei era quella che pensava troppo,
quella che si perdeva in inutili dissertazioni, quella che esagerava.
Lui era quello con la soluzione pronta, con la chiave giusta sempre a
portata di mano. Lei triste, ciclicamente in crisi. Lui sempre
sorridente, solare. Lei pallida, riflessiva, intorta… lui la sua
speculare immagine. E lei per tanto tempo aveva pensato che lui
potesse essere il sole dal quale attingere la luce da riflettere, il
muro da frapporre fra sé ed il mondo, la roccia sicura alla quale
aggrapparsi. La sua cura. E per sei anni lo era stato. Devoto,
fedele, presente. Forse anche troppo. Sei anni di sicurezza, sei
anni di spalle larghe, di stabilizzante e
prevedibile quotidianità. Sei anni di morte interiore… poi?
Una presa di
coscienza improvvisa, una riflessione incessante di giorni e notti
insonni, una sola possibile decisione. La rottura. Perché non si può
vivere una vita di palliativi, perché non si può sempre contare sul
sostegno di chi non ti vuole libera, ma ti lega a sé con
l’allettante promessa di sorreggerti per sempre… purché tu
rimanga senz’ali.
L’avrebbe
salvata dalla sua famiglia, sì, ma a quale prezzo? Rinunciare al
lavoro della sua vita, alla propria realizzazione, alla libertà di
scelta per rincorrere un sogno di normalità familiare, forse
desiderata solo perché mai vissuta? Ne valeva veramente la pena?
Rinunciare ai propri sogni per rincorrere una sicurezza? Una scelta
che avrebbe pagato a caro prezzo in un giorno non troppo lontano. Il
giorno in cui, aprendo gli occhi all’improvviso, si sarebbe resa
conto di aver vissuto una vita non sua ma di aver fatto tutto per
inerzia, trascinata dai “è giusto così” e dai “una brava
ragazza lo fa”. Una vita facile. Fidanzamento, villetta con piccolo
giardino, lavoro magari part-time, un figlio o forse due, magari un
cane, ed un marito fedele che torna a casa ogni sera giusto per cena.
Ed un blister di Prozac nel primo cassetto del bagno. E, perché no,
prima o poi un cappio al collo. Una vita facile, una vita non sua.
Come già detto… la morte interiore.
Ma
veramente, se quel giorno non avesse posto un freno a quella
relazione, se non avesse detto basta, cosa sarebbe potuto accadere?
Dove,
e soprattutto,
cosa sarebbe potuta essere? Moglie? Forse madre? Sicuramente con un
lavoro fisso, magari da commessa, e addio ai suoi sogni da lettino di
analisi.
La grande
psicoterapeuta con le tasche piene di sogni. Ma con quelli non ci
paghi un mutuo. Con quelli non ti sposi un meccanico, perché lei non
sa ancora chi è, non riconosce nemmeno la sua forma allo specchio,
mentre lui sa benissimo dov’è e dove sarà fra vent’anni.
Esattamente nello stesso punto. E lei, avrebbe retto vent’anni
ferma nello stesso punto? E pensare che era già tutto programmato:
le prime case da andare a vedere, le rate del mutuo concordato con
quell’amica di famiglia che lavora in banca, i soldi che avrebbero
dovuto sborsare i rispettivi genitori, il nome dei bambini e, perché
no, anche quello del cane. Peccato che lei odiasse i cani. Persino il
nonno sognava già i nipotini, magari aveva anche qualche idea sui
nomi, mentre lei sognava solamente una via di fuga.
Poi era
arrivato lui, la sua mente acuta, le riflessioni spiazzanti, la
dolcezza infinita, il riconoscimento della propria forma riflessa
negli occhi dell’altro e la spinta a volare con le proprie ali.
L’aveva incoraggiata ad osare, a cercare di non accontentarsi, ma
rincorrere la vera felicità, la propria realizzazione. Le aveva
parlato dell’ape, quell’insetto tanto laborioso e pieno di forza
di volontà da riuscire a volare nonostante di fatto questa sua
caratteristica violi tutte le leggi della fisica. Perché il suo
corpo è troppo grosso, perché le ali sono troppo piccole e fragili,
strutturalmente inabili a sostenere il peso di quel corpo,
figuriamoci a volare di fiore in fiore. Eppure lei lo fa, e ogni
giorno sfida le leggi della fisica con la sua forza di volontà. Le
aveva fatto capire che lui credeva nelle sue capacità, che anche lei
sarebbe stata in grado di volare alto, nonostante tutti cercassero di
convincerla del contrario. Ce l’avrebbe fatta. E lui le sarebbe
stato accanto, se solo lei gliel’avesse permesso.
Forse questa
era stata la molla che doveva scattare per convincerla a prendere in
mano la sua vita. E così aveva fatto. Aveva mollato tutto:
fidanzato, casa, mutuo e parenti. Aveva preso un appartamento in
affitto, minuscolo ma tutto suo, uno spazio vitale nel quale poter
avere respiro e prendere le proprie decisioni con consapevolezza.
Aveva cominciato a fare due, anche tre lavori contemporaneamente per
poter pagare affitto, bollette, studio e scuola di specializzazione
privata. Quella che aveva sempre sognato di fare, quella di Milano,
la migliore. Ed a quel punto era arrivato anche Sasuke, primo
compagno di quel nuovo viaggio apparentemente in solitaria.
Dafne ora ha
trent’anni, sta ancora studiando, non ha un lavoro fisso, non ha
una casa sua e, al contrario di molte sue coetanee, non è sposata e
non ha chiassosi bambini che le riempiono la giornata ma guarda la
sua vita, tutto ciò che la circonda in questo mattino freddo
d’inverno, e lo trova bellissimo, di una bellezza commovente. Tutto
è esattamente dove dovrebbe essere. Profondamente giusto e perfetto
nella sua umana imprecisione. Si guarda intorno e con gli occhi
vorrebbe abbracciare quello che è il suo mondo, il suo piccolo
universo,
tanto duramente conquistato. La sua felicità.
Colta dal
momento non si accorge di aver stretto la presa sul morbido manto
nero del suo gatto, il quale, preso alla provvista dal gesto
avventato, spalanca gli occhi fino a quel momento chiusi e con un
balzo si allontana dal letto, alquanto indispettito, premurandosi di
lasciarle un segno del suo passaggio in forma di artigli proprio
sulla mano colpevole. Poco male, ormai c’è abituata. Tornerà fin
troppo presto, già lo sa.
Guardando
fuori dall’ampia portafinestra un timido sole farsi largo fra le
fenditure degli scuri, si stiracchia pigramente lasciandosi sfuggire
un sonoro sbadiglio e, soddisfatta, si lascia cadere indietro sul
materasso con le braccia ancora alzate. Si volta verso di lui,
sorpresa del fatto che stia realmente ancora dormendo. Poi decide di
svegliarlo, ha pensato abbastanza, ora vuole vivere un po’ di
quella vita che a lungo ha agognato. Gli si avvicina al viso, incerta
se posargli una carezza sulla mascella ispida o se cedere alla
tentazione di definirne il profilo morbido con la punta della lingua…
ma forse sarebbe un po’ troppo. Deve ancora imparare a controllare
la bestiola inselvatichita che è in lei. Lentamente, posa il viso
accanto al suo, sul cuscino ancora sgualcito, abbastanza vicino da
poter sentire il suo respiro sulle labbra e lo osserva ancora per un
lungo attimo. Ripercorre con gli occhi le linee scure e sottili che
si disegnano sotto le palpebre, segno indelebile di troppe notti
insonni. Soffre d’insonnia il suo amore, da tanto tempo ormai. Ora
però pare dormire profondamente, sul viso la spensieratezza del
riposo che solo i bambini sanno avere e che, lo ammette, lei stessa
gli ha visto di rado.
Allunga una
mano e gli accarezza dolcemente la guancia, dapprima quasi con
timidezza, il tocco accennato di due dita appena, poi sempre più
audace, col dorso ed il pollice che, quasi per riflesso, ne delinea
il contorno delle labbra sottili.
Lui dapprima
muove impercettibilmente le sopracciglia, gli occhi che si agitano
sotto le palpebre ancora chiuse, poi ha un lieve sussulto, come se,
nel risvegliarsi, non riuscisse a rendersi conto di cosa gli sta
accadendo intorno, una curiosa forma di sorpresa coscienziale.
L’attimo in cui apre gli occhi. Poi tutto si ricollega e,
guardandola quasi di sottecchi, le sorride.
“ Ehi…”,
biascica con la bocca ancora impastata dal sonno, mentre inspira
profondamente nel tentativo di ossigenare i polmoni intirizziti da
una notte d’immobilità, “sei tornata…”.
Poi è tutto
come sempre: lui protende le braccia verso di lei e la stringe,
accogliendola in un abbraccio che ha tutto il calore di un istante
prezioso da trascorrere insieme. Lei poggia la schiena sul suo petto,
mentre lui, avvolgendole le braccia attorno alla
vita e alle
spalle, prende le sue mani ormai calde
stingendole nelle proprie, intrecciando le loro dita saldamente e,
prima di lasciasi nuovamente cullare dall’irresistibile richiamo
del sonno, le posa un singolo bacio sulla spalla nuda, proprio sul
suo ultimo tatuaggio: un bocciolo di rosa ancora socchiuso.
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