Solo un fiore di ciliegio Grande
Capitolo 1
Here's a song
It reminds me of when we were young
Looking back at all the things we've done
You gotta keep on keepin' on.
Oasis, I’m Outta Time
La testa poggiava leggera sui fili d’erba, distesa infinita
accarezzata dal vento. Morbida culla per l’anima nella mano di
madre natura.
Il silenzio, attorno. Musica che gli mancava da mesi, ricercata pace interiore.
Ventisei anni di rumore nella sua vita, e doveva ancora abituarsi alla folla che spezzava ogni suo attimo di solitudine.
No, non era esattamente un ragazzo silenzioso. Molti lo definivano
timido, altri a tratti asociale, in tanti semplicemente a ritroso verso
la contaminata società moderna; la maggior parte uno
coscienzioso di sé e di ciò che aveva intorno. Pochi;
ridicolo nella sua disperata, malriuscita azione di auto isolamento.
Loro, invece, sapevano che era malato.
Di ricordi.
Guardava il cielo di un blu terso talmente bello da sembrare irreale.
Era una sensazione comune, questa dell’irrealtà. Ci si
affidava abbastanza spesso, per caso o necessità, volente o
nolente. C’era sempre lì con lui un soffio di sogno
perduto, e Lui non aveva alcuna intenzione di cambiare le cose.
Lei lo avrebbe schernito all’infinito, se si fosse comportato
così per anche solo due giorni di seguito in sua presenza.
“Piccolo snob permaloso affetto
da megalomania, pomposo dedito e praticante del culto di Narciso con
preoccupanti tendenze maniacali verso il proprio aspetto ed il proprio
ego, tenero amante del proprio riflesso, che si diverte a fare la diva
asociale.”, una cosa tipo questa. Parole ruvide e sfumate
di malinconia, un tono ormai rassegnato alla consapevolezza di non
poterci fare un bel niente. Parole che allora, avrebbero contato ben
poco. Parole come tante.
“Sarebbe ora che tu imparassi a
leggere, sai? Dovresti comprarti un bel libro. Quei caratteri che tanto
odi potrebbero sorprenderti, nel loro significato. Così almeno
mi risparmi l‘analfabetismo acuto della tua parlantina.”
“Guarda che so leggere, stupida.”
“Le riviste sportive non valgono, idiota! E nemmeno quelle di PlayBoy!”
“E chi le legge quelle, quando bastano le immagini?”
Il parco era completamente deserto.
Il vento si era alzato, il cielo adombrato. Nuvole danzavano sopra di
lui, fregandosene di quell’anima sperduta sotto di esse.
Si prospettava pioggia.
Ad osservarle, l’astratta sensazione di soffice morbidezza
invadeva completamente i sensi. Ma Lui sapeva che prima di tutto li
ingannava. Quelle forme astratte sbiadite controllate dal vento
avrebbero potuto uccidere con la loro distruttiva potenza. Così
come sarebbero potute svanire con un soffio di troppo, lasciando il
nulla dietro di sé; solo la consapevolezza di essere stati
ingannati dal pregiudizio che spontaneamente nasceva verso cose
relativamente poco importanti.
Quello era stato sicuramente uno degli errori più grandi della
sua vita: non dare importanza all’irrilevante, a ciò che
passava vicino non pretendendo nulla, non un’occhiata, non un
respiro.
Non un briciolo d’interesse.
Si confondeva schiva nella massa, senza pretendere attenzione dalla superficialità e dalla superbia.
Eppure, ti abbagliava nella sua modestia.
Lei, che nella sua fiera umiltà, lo faceva sentire un fallito.
Lui, figlio borioso che si nutriva d’orgoglio, messo di fronte
alla realtà, costretto ad ammettere la sua spontanea
superficialità.
“Non è vero. Se non lo vedi non significa che non c’è. Perché ti ostini ad essere cieco?”
“Perché non sono come
te, ecco perché. Una stupida ragazzina che vive di sentimenti,
abituata ad ingigantire ogni piccolo segno del destino, pronta a
fantasticarci sopra dimenticandosi che non c’è NIENTE in
una parola detta per caso, dimenticandosi di vivere la vita reale per
com’è veramente!”
“Essere realisti non vuol dire dimenticare i propri sogni, le proprie speranze!”
“Sono i sogni che rovinano la gente, stupida! Ci si consumano dentro, e non riescono più a liberarsene.”
“Non esiste solo materia a
questo mondo, lo vuoi capire? Esistono anche questi fottuti sentimenti
che eviti tanto! Ma evidentemente un’anima nera come la tua
è incompatibile anche solo con l‘idea in
sé…”
“Certo che esistono: si
chiamano illusioni. Perché non cominci a vivere la vita per
com’è, invece di perdere tempo a fantasticare su cose
inesistenti?”
“Sei solo un fottuto nichilista ottuso e ignorante!”
Si ricordava vagamente le sue lacrime, dopo quel litigio. In fondo, era
normale amministrazione. Nulla di straordinario nelle loro vite
premeditate. Era semplice routine. La faceva piangere spesso, da un
tempo a quella parte. Lacrime di nervosismo da post-litigio con lo stronzo, diceva Lei.
Lei, che non piangeva davanti a nulla, se non Lui.
A Lui importava ben poco delle sue lacrime.
Era stronza, e basta.
Stronza e arrogante.
Una stronza arrogante che amava sbraitargli contro e picchiarlo con la
racchetta da tennis. Perciò gli veniva piuttosto naturale farla
esasperare a furia di insinuazioni, critiche e dispetti. Specie quando
gli rimproverava qualcosa con quel suo linguaggio da intellettuale
vissuta.
“E basta, voi due. E’ mezz’ora che andate avanti così.”
“Beh, fosse per me
l’avrei evitato, ma questo bamboccio ignorante se le cerca con le
sue disquisizioni da orco all’ennesima potenza!”
“Ma non potresti offendere in maniera più semplice, tu?”
“E abbassarmi al tuo livello da orco? Mai!”
“Dio, non ti sopporto quando fai così. Ti diverti così tanto a irritarmi?”
“Vuoi la verità? Si!”
“Eddai, ragazzi.”
“Stanne fuori!”
Anche volendo, non avrebbe potuto dimenticare la furia con la quale si
era battuta, quella volta. La grinta nel difendere i propri ideali,
così differenti dai suoi.
Avevano dato scandalo all’entrata del cinema, per
l‘ennesima volta. Era stata la sera in cui aveva intravisto per
la prima volta l’ombra di preoccupazione passare sul volto dei
loro amici, ormai da tempo abituati a certi litigi.
“Si, sono orgogliosa. Ma c’è differenza tra orgoglio
e vanità! Quindi scusami, se non mi sento in colpa davanti a
te!”
“E con questo cosa vorresti insinuare, eh?“
“Prova ad indovinare, genio!”
Quella sera, sul tardi, aveva cercato sul dizionario il termine
“nichilista”. Non si ricordava precisamente quando e dove
l’aveva sentito, ma era sicuro di un paio di cose: era stata Lei
ad averglielo affibbiato, e non gli era sembrato essere un complimento.
Non che Lui fosse così suscettibile, ecco.
Conseguenza: furioso inveire stile scaricatore di porto da parte di Lui, doloroso colpo in testa tramite lattina di Pepsi da parte di Lei. E tutto appena il giorno dopo.
Ancora nitido il ricordo della rabbia che incendiava i suoi occhi
mentre con mira precisissima lo colpiva abbattendolo definitivamente al
suolo e facendo crollare un religioso silenzio, a metà tra
commiserazione - per Lui -, e ammirazione - per Lei - nel bar che erano
soliti frequentare da ormai svariati anni.
Ne erano scorse di lacrime, quel giorno. Dalle troppe risate, ovvio. I
loro cari amici avevano pensato bene di alleggerire la tensione con
mormorii singhiozzanti e rischi imminenti di soffocamento, che si erano
protratti anche durante il viaggio verso il Pronto Soccorso e per tutto
il tempo della visita dal suo patrigno Ric, che era di turno, per poi
continuare il giorno dopo e l’altro ancora.
Lo aveva mandato in ospedale, letteralmente.
“Beh, devi ammettere che
è stata gentile. Aveva il casco di Ian a portata di mano, ma
alla fine ti ha tirato solo la lattina.”
“Si, una stupida lattina piena.
Che però, come ha detto Ric, mi ha procurato un bernoccolo
grande quanto l‘Himalaya.”
“L’ho sentito mentre
diceva che ce ne sono poche, di ragazze intelligenti come lei. E se non
sbaglio ha mormorato qualcosa sulla speranza che a furia di prendere
lattine in testa, quella “scatola vuota che ti ritrovi per
testa” cominci a funzionare correttamente, una buona
volta.”
“Oh, ma certo! Perché
non prendermi a lattinate ogni volta che ne avete l’occasione?!
In fondo è per il mio bene, no?!? Io quella la metto sotto
appena la vedo, dovessi andare a costituirmi subito dopo.”
“Come vuoi. Ma io non lo farei, fossi in te.”
“La galera non mi spaventa. Basta saperla sotto terra.”
“Se sotto terra non ci finisci
prima tu, cosa del tutto scontata; se con una misera lattina ti ha
steso al tappeto, immagino che il casco di Ian nelle sue mani sarebbe
letale, per te.”
La Stronza non gli aveva nemmeno chiesto scusa.
Lui ci era andato pesante, e Lei inaspettatamente non gli aveva rivolto
la parola per più di una settimana dopo l”incidente”
della lattina, dimostrandosi indifferente a tutte le sue battutine e
non battendo ciglio per ogni patatina lanciata nei capelli.
Aveva resistito all’incirca sei giorni alle sue provocazioni, innervosendolo più del necessario.
Certe volte aveva la sensazione di esasperarla a tal punto da scalfire
quella compostezza che aveva quando erano in pubblico, e di conseguenza
se ne profittava ogni qualvolta la vedeva più stanca o nervosa
del solito, provocando la sua ira suprema e talvolta, raramente, quando
le cose precipitavano, le temute lacrime.
Allora l’aveva vista come una sorta di vendetta, solo in seguito
aveva capito che il vero problema era la sua indifferenza che,
chissà perché, lo irritava più del lecito.
E Lui, davanti alle sue lacrime storceva la bocca, chiamandola
inconsciamente “stupida ragazzina”, anche se di ragazzina
non aveva più niente. A diciannove anni, dopo una turbolenta
adolescenza passata a stretto contatto e un’infanzia più o
meno in comune, Lui si era finalmente accorto che Lei era diventata una
donna. Una bella, dolce, sensuale donna.
Sospirò, cercando per l’ennesima volta di capire come
avesse potuto essere così cieco. Nonostante i suoi bel capelli,
nonostante le sue labbra sensuali, lui, per tutto il tempo passato
insieme aveva sempre visto la ragazzina dai capelli lunghi e ribelli,
che gli faceva la linguaccia e lo mandava graziosamente a quel paese ad
ogni suo dispetto e presa in giro.
Non aveva mai dato molta importanza ai suoi innumerevoli corteggiatori,
sicuro del fatto che Lei, come da prassi, li avrebbe lasciati tutti con
l’acqua in bocca. Era proprio da Lei, nascondersi e ignorare i
complimenti, evitare i corteggiamenti per difendere invece con forza e
coraggio le sue idee.
Orgogliosa della sua persona e non della sua bellezza.
In molti le avevano rimproverato questo suo comportamento menefreghista verso il suo stato di bella ragazza.
E lui ci aveva fatto l’abitudine senza neanche accorgersene.
“Dovresti metterti più in tiro, tesoro.”
“Mhh?”
“Già. Più sexy,
più provocante. Forse un po’ di trucco in più non
sarebbe male, con un vestitino più scollato. Faresti un
figurone..”
“Non mi va.. e poi scusa, siamo
in un pub e indosso una minigonna striminzita che farebbe svenire il
Parroco. E questo perché mi hai costretta tu, scema. Che altro
vuoi di più?”
“Si, ma vedi laggiù? C’è uno che ti gur..”
“Jess, è inutile. Questa qui è un’incapace in certe cose.”
“Attento, Macho-Man. Non tutti
dobbiamo per forza essere altezzosi puttanieri come te per piacere o
sedurre la gente.”
“Beh, te no di sicuro, dico bene? Sarebbe una missione suicida fin dal principio.”
“Cioè, secondo te non sarei adatta a fare la diva boriosa dai facili costumi come te?”
“Perché? Vuoi provare? Se vuoi ti aiuto negli elementi base.”
“Dio! No, grazie tante
comunque. A fare la puttana in questo gruppo ci pensi già tu, e
sinceramente preferisco non averti come concorrente.”
“Oddio, ricominciano..”
“Brava, pulce. D’altronde, se lo facessi, sappiamo bene che vincerei io.”
“Idiota. Su, vai a fare il tuo
lavoro! C’è una quattordicenne lì che ti sta
fissando da mezz’ora, e ha la borsetta di Gucci. Promette buona
paga, non farla aspettare.”
“Sai, credo che ci andrò per davvero. Jessica, attenta a non affogare nella sua stronzaggine.”
“E tu nella tua libidine, tesoro!”
“Invece penso proprio che lo farò!”
In effetti non era stato molto carino con lei. Niente di personale, si
era sempre detto, gli dava semplicemente sui nervi, quindi agiva di
conseguenza.
Le immagini di quelle serate insieme al solito scapestrato gruppo
avevano il sapore amaro dei ricordi qual‘erano, che lo stordivano
ogni volta, malgrado il tempo trascorso.
“Hai sentito?”
“Ciao anche a te, Ian. Si, sto benissimo, grazie.”
“Parlo sul serio, idiota. Hai visto Cris, stamattina?”
“No. Doveva venire a casa ad
aiutarmi col cambio della moto, ma non si è fatto vedere.
Promette e poi se ne frega. Scommetto che è andato da suo
fratello per farsi dare una mano per il saggio di Letteratura. Che
razza d’dingr..”
“Ma non ti ha chiamato, né niente? Non hai sentito nessuno di noi da ieri sera?”
“No, Ian, no. Ti sto dicendo
che sono stato in garage fino a mezz’oretta fa, finché
Marie non mi ha chiamato in casa per passarmi la tua chiamata.”
“Idiota! Non potevi rispondere al cellulare?”
“Calma, calma, che ti prende? La pulce ti ha contagiato con le sue crisi isteriche?”
“Non riderai più appena saprai cosa è successo, te lo garantisco.”
Piccole gocce scendevano dal cielo, piccole lacrime sul suo volto. Non seppe dire se erano tutte gocce d’acqua piovana.
Stava guardando in alto, non pensando a niente se non a Lei.
Trascorrere il suo tempo così, immerso nei ricordi, era il suo passatempo preferito degli ultimi anni.
Nonostante le fitte di dolore che questo comportava, Lui era cosciente che non avrebbe potuto fare altrimenti.
Non doveva dimenticare.
O semplicemente, non voleva.
Il rimorso stringeva lo stomaco, mentre la Sua immagine,
l’ultima, più nitida ed intensa delle altre, abbagliava
gli occhi della sua memoria.
No, non quella. Non poteva sopportare di vederla così.
***
Don’t go too deep into the flood
Don’t wade too long, you’ll poison my love
Don’t shut me out, don’t hold it all in
Don’t let my venom get under your skin
‘Cause every word and every turn
Every sign points to your hurt
With every hour your drifting futher away.
Powderfinger, Drifting Futher Away
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