YSM
Una botta secca alla porta, come
se qualcuno l’avesse colpita o ci avesse gettato qualcosa contro.
Mi asciugai frettolosamente le
lacrime che continuavano a scendere e, cercando di non fare rumore, mi
avvicinai alla porta per capire se ci fosse qualcuno dietro. Sì, sentivo dei
movimenti e delle voci nonostante la parete: qualcuno stava discutendo di
qualcosa, ma non riuscivo a capire le parole.
Appoggiai l’orecchio al legno,
sperando di avere qualche indizio per capire chi ci fosse, ma urlai spaventata
quando ci fu un nuovo colpo.
Bene, ora tutto il palazzo sapeva
che ero in casa.
«Apri» ordinò
una voce dietro la porta.
Indietreggiai spaventata,
guardandomi attorno in cerca di qualcosa che potesse ferire chiunque ci fosse
là dietro. Dubitavo di riuscire a colpire veramente qualcuno, ma magari sarei
riuscita a spaventarlo.
Dentro a uno scatolone, che avevo
aperto pochi minuti prima, vidi un mestolo di legno che presi subito in mano,
tenendolo alzato. Mi avvicinai lentamente alla porta, il respiro fermo nel petto.
Non mi ero resa conto, però, che
prendendo il mestolo, avevo spostato lo scatolone: ora era pericolosamente in
bilico. Sentii all’improvviso un rumore dietro di me che mi fece sobbalzare
spaventata.
Le poche pentole che avevo portato da casa erano sparse su
tutto il pavimento della piccola cucina. Per qualche secondo rimasi a
guardarle, non sapendo che fare.
«Apri, sappiamo che se lì
dentro». Di nuovo la voce fuori
dal mio appartamento, seguita subito dopo da un altro colpo che fece vibrare
tutta la parete.
Socchiusi gli occhi, spaventata,
stringendo più forte tra le mani il mestolo di legno e avvicinandomi alla
porta; puntai il piede contro il legno: una volta aperta, con il mio piede
dietro a bloccarla, se ci fosse stato qualcuno intenzionato a farmi del male,
sarei riuscita a chiuderla subito.
«Sono armata»
mentii, sperando che lo sconosciuto sul pianerottolo potesse credermi.
Abbassai la maniglia lentamente,
tenendo alto il mestolo e avvicinando ancora di più il piede.
Il cuore mi batteva all’impazzata,
talmente forte che rischiava di uscirmi dal petto. Perfino il dolore al labbro
passava in secondo piano.
Quando riuscii ad aprire uno spiraglio,
il mio cuore si fermò per un secondo, riprendendo a battere subito dopo con un
ritmo un po’ più regolare.
Abbandonai la testa all’indietro,
togliendo il piede e spostandomi di un passo.
«Quella sarebbe la tua arma?» ghignò Ryan, indicando il mestolo che continuavo a stringere
nella mano destra.
I ragazzi dietro di lui
scoppiarono a ridere, senza pensare minimamente di nasconderlo.
«Scusa, non ho finito di sistemarmi e la pistola è ancora in
qualche scatolone» sbottai,
stizzita dal loro prendermi in giro.
Perché non potevo farlo anche io?
In fondo, loro l’avevano fatto quando mi ero svegliata nel loro appartamento.
«Hai una pistola?»
chiese Brandon –mi sembrava di ricordare che si chiamasse così – sorpreso.
«No che non ho una pistola» esclamai, spalancando gli occhi sorpresa.
Credeva davvero che ne avessi
una?
«Dovresti»
sbottò Ryan, sedendosi sul divano sgangherato che avevo trovato in casa.
Era vecchio, sporco e rotto, ma
per le poche centinaia di dollari che pagavo al mese di affitto, non mi ero di
certo aspettata un divano nuovo.
Rabbrividii quando Ryan si
distese sul divano, appoggiandoci i piedi sopra. I miei occhi saettarono su i
suoi scarponi sporchi e mi avvicinai a lui, appoggiando le mani sui fianchi,
arrabbiata.
Chi gli aveva dato il permesso di
entrare in casa mia? Perché si era seduto come se io gli avessi detto che
poteva farlo?
«Ehi, alzati subito da lì! E non appoggiarci i piedi. Chi ti ha
detto di entrare?» strillai,
indicando la porta di casa prima di prendergli le gambe e costringerlo ad
appoggiare i piedi per terra. Quel gesto causò le risate dei ragazzi che erano
ancora sul pianerottolo.
«Che modi»
sbottò Ryan, prendendo una sigaretta e portandosela alle labbra. Si alzò per
qualche secondo, cercando l’accendino nella tasca dei jeans e cominciando
subito dopo a fumare.
«Possiamo entrare anche noi?» domandò Brandon, con un ghigno divertito sulle labbra.
«Io non gli ho detto che poteva entrare» mi giustificai, iniziando a raccattare i pezzi della sedia
che avevo rotto; erano ancora per terra, avevo preferito pulire l’armadio prima
di disfare le valigie.
«Grazie» esordì Brandon, sedendosi di
fianco a Ryan sul divano e accendendosi una sigaretta.
Cominciarono a parlare, prima che gli altri li
raggiungessero, occupando anche le altre due poltrone marroni, a pezzi anche
quelle.
Dollar, l’ultimo a entrare, si chiuse la porta alle spalle, avvicinandosi
poi a me, con le mani dentro alle tasche dei jeans. «Siamo venuti a farti un po’ di compagnia, visto che sei appena
arrivata e non conosci nessuno»
azzardò, prima di cominciare a giocherellare con la sciarpa che portava al
collo.
Mi soffermai a guardarlo in viso, cercando di non notare la
sua vistosa cicatrice: era giovane, molto. Non ne ero sicura, ma sembrava non
avere nemmeno vent’anni.
«Che c’è?» bofonchiò, divertito,
accucciandosi per prendere un pezzo di sedia e appoggiandolo poi sopra al
tavolo.
«Chi siete?».
Formulai la domanda prima ancora di pensarla, ma
probabilmente usai un tono di voce troppo alto, perché tutti gli altri si
zittirono per guardarmi.
«Devo
ripetere tutti i nomi? Io sono Ryan»
sogghignò, aspirando una nuova boccata di fumo e causando uno scoppio di risa
generale.
Quando parlava tutti pendevano dalle sue labbra; se ordinava
qualcosa tutti eseguivano, se faceva una battuta ridevano, se chiedeva silenzio
si ammutolivano. Chi era?
«No, chi
siete?» mi intestardii,
appoggiandomi al tavolo con la schiena, in attesa di una risposta seria. Volevo
una risposta vera, non mi interessavano i loro nomi, piuttosto ero curiosa di
sapere perché tutti avessero il viso segnato da piccole cicatrici e da ematomi
in via di guarigione.
«I tuoi
vicini. In California non vi portano i dolcetti, appena vi trasferite? Mi
dispiace, noi non abbiamo dolcetti».
Il ghigno di Ryan mi innervosì talmente tanto che strinsi i
pugni, respirando a fondo per non ribattere qualcosa di volgare e fuori luogo.
«Dovete
essere anche qualcos’altro. Perché altrimenti mi avrebbero presa a pugni quando
ho detto l’indirizzo di questo palazzo?»
chiesi, rabbrividendo al ricordo di quello che mi era successo. Ero ancora
scossa, volevo solo farmi una doccia calda e distenermi a letto per poter
riposare qualche ora; rilassarmi, insomma.
«Devi
prestare attenzione a chi c’è qui attorno. Mai parlare con i blu» mormorò criptico Ryan, ricevendo
l’assenso di tutti.
«I blu?».
I loro occhi mi guardarono stupiti, come se avessi appena
fatto una domanda stupida. Sentire i loro sguardi addosso mi fece arrossire e
mi concentrai su un mobile giallo della cucina.
«Ryan, non
credi che dovremmo…» cominciò
Brandon, prima che il biondo imponesse di fare silenzio con un gesto della
mano.
«No» disse con tranquillità, la
sigaretta tra le labbra. «Non
è il momento».
A quell’affermazione, Dollar aprì la bocca per dire
qualcosa, poi però scosse la testa, ripensandoci.
«Però,
insomma, lei vive qui»
ritentò Brandon, guardando Ryan che stava spegnendo la sigaretta sul pavimento.
«Ehi» strillai, avvicinandomi a grandi
passi a loro, che mi guardarono stupiti. «Questa non è casa tua e la sigaretta non la spegni sul mio
pavimento, ok? Cerca uno stupido posacenere e poi gettala nel cestino». Indicai un sacco dell’immondizia
di fianco alla tavola, dietro di noi. La mia sfuriata li fece ridere tutti, di
nuovo.
Cosa c’era di tanto divertente in quello che facevo o
dicevo?
«Forse ci
ho ripensato. Se magari lo sa, smette di fare la sapientina» sghignazzò, seguito dagli altri, «o magari, meglio, ci ringrazia per
averle salvato il culo, visto che deve ancora farlo» aggiunse, soffocando ogni mio proposito di rispondere di
nuovo.
Aveva ragione, non li avevo ancora ringraziati. Mi avevano
salvata da quei ragazzi che volevano rapinarmi e non solo; si erano dimostrati
gentili, portandomi a casa loro e offrendosi di accompagnarmi nel mio nuovo
appartamento, prima ancora di sapere che era dall’altra parte del pianerottolo.
«Io… be’…» bofonchiai, abbassando lo sguardo
sulle dita che continuavo a torturarmi. Mi sentivo tremendamente in imbarazzo
perché aveva ragione e soprattutto non era da me: ero la prima a ringraziare
per qualsiasi cosa, anche per un piccolo gesto, e non l’avevo fatto con loro,
che mi avevano salvato la vita.
«Brandon,
hai per caso sentito grazie? Perché io credo di non aver sentito quelle sei
lettere».
Il sottile umorismo di Ryan mi irritò, facendomi esplodere.
«Se prima
volevo ringraziarvi, adesso mi è passata la voglia, ma siccome sono una persona
educata, credo sia giusto farlo lo stesso. Grazie Dollar». Incrociai le braccia sotto al seno, piccata, concentrandomi
solo sul suo viso senza però guardare troppo la cicatrice.
Dollar, all’inizio stupito, cominciò a ridere, seguito dagli
altri subito dopo.
Bene, di nuovo tutti a prendermi in giro.
«Qualcuno
può spiegarmi cosa c’è di divertente in tutto quello che dico? Così magari
posso ridere anche io»
sbottai ironica, peggiorando la situazione: Ryan si portò una mano alla pancia,
ridendo di gusto. Tutti gli altri, invece, cercavano di sorreggersi a vicenda.
«Sì, bene.
Fate come se fosse a casa vostra visto
che non siete a vostro agio. Io intanto continuo a sistemare le mie cose» borbottai tra me e me, prendendo
la seconda valigia e dirigendomi verso la camera.
«Se vuoi
io ti sistemo il cassetto della biancheria». Mi ritrovai Dollar di fianco, con un sorriso divertito.
Quella strana smorfia gli increspava la pelle attorno alla cicatrice,
deformandogli il viso.
«Dollar,
lasciala stare, è troppo grande per te»
lo canzonò qualcuno, tirandogli un cuscino sulla nuca.
«Sta
zitto, Brandon» sbottò
Dollar, lanciandogli il cuscino addosso di rimando.
Quel gesto mi fece sorridere perché sembravano un gruppo di
amici che scherzava, divertendosi.
«Quello
l’ho già sistemato» spiegai,
aspettando una reazione da parte di quelli seduti sul divano.
«Non
importa, controllo che sia in ordine»
ritentò Dollar, facendomi ridere.
Quel suo sorriso fu in grado di rallegrarmi. Sì, perché
riuscivo a vedere qualcosa, sotto a quella cicatrice, che mi faceva tenerezza:
un bel viso, distrutto per chissà quale motivo.
«Doll,
lascia stare, non sei il suo tipo. Credo le piacciano gli uomini, non le mezze
cartucce» ghignò Ryan,
causando l’ennesimo scoppio di risa. Tutti stavano ridendo; tutti tranne Dollar
che incurvò le spalle, indispettito.
«Sinceramente
mi sembra un uomo. Se vuoi, Dollar, puoi aiutarmi a sistemare l’armadio, visto
che non riesco a spostarlo».
Volevo aiutarlo, sembrava davvero quello preso in giro da
tutti. Che fosse perché era il più giovane?
«Faccio io.
Dollar non sa spostare nemmeno una sedia»
sbuffò Ryan, alzandosi dal divano e scostando con una spallata Dollar, che gli
impediva di passare dalla porta. «Qual
è la camera?» chiese,
guardando lungo il piccolo corridoio.
«L’unica
porta a destra». Non era poi
così grande la mia nuova casa: entrata con cucina, un piccolo corridoio che
portava alla mia camera e al bagno.
Raggiunsi Ryan in camera mia e lo trovai a osservare
l’armadio davanti a lui con uno strano ghigno. «Sarebbe questo l’armadio che non riesci a spostare?» chiese, cercando di non ridere.
«Be’, per
me è alto e pesa». Solo perché lui era alto poco meno dell’armadio non doveva farmi
sentire una nanetta.
«Credevo
che in California le ragazze fossero alte, bionde e con le tette grandi. Ci
deve essere qualcosa di sbagliato in te»
commentò, tirandosi su le maniche della maglia che indossava e lasciando
scoperte le sue braccia muscolose.
«Mio padre
è australiano» mi
giustificai, punta sul vivo.
Possibile che dovesse essere così scortese da offendere? In
fin dei conti non lo conoscevo da nemmeno un giorno.
«Questo
non ti giustifica. Dovresti essere alta almeno così». Indicò un punto all’altezza del suo naso, molto più in alto
rispetto a me.
«Senti,
vuoi spostare questo armadio o sei qui solo per dirmi che sono bassa?» sbottai irritata, incrociando le
braccia al petto in segno di irritazione.
Non mi faceva di certo piacere sentirmi prendere in giro
solo perché raggiungevo a malapena il metro e sessanta.
«Piccola
ma cattiva, eh?». La voce,
proveniente alle mie spalle, mi fece sussultare spaventata.
Brandon, Dollar e uno dei due gemelli entrarono in camera
mia, distendendosi subito dopo sul mio letto.
«Hai
sentito Brandon? Ha gli artigli»
disse Ryan, appoggiando la schiena contro l’armadio. «Dove devo metterlo?»
continuò poi, guardandomi.
«Qui, mi
piacerebbe qui». Indicai un
punto a qualche metro da Ryan, a pochi passi da me.
Ryan cominciò a spostare l’armadio, da solo, stupendomi.
«Ti farai
male» urlai, avvicinandomi
per aiutarlo; non che potessi fare molto, ma almeno non si sarebbe sforzato
troppo.
«Alexis,
Ryan ogni tanto aiuta suo zio a fare i traslochi, è abituato» mi spiegò Brandon, accendendosi
una sigaretta.
«Potreste
almeno non fumare sul mio letto? Le lenzuola sono pulite» lo informai, trattenendomi dal non spintonarli giù dal materasso.
«Su, da
bravi, la signora non vi vuole sul suo letto» ridacchiò Ryan. Naturalmente, come mi aspettavo, la sua
battuta li fece ridere, tanto che un po’ di cenere della sigaretta di Brandon
finì sul copriletto. «Alzatevi» ordinò subito dopo, facendoli
alzare infastiditi.
«Grazie» mormorai, tenendo lo sguardo
basso. Non sapevo se ringraziarli perché si erano alzati dal mio letto o
ringraziare Ryan perché glielo aveva ordinato.
«Miss
California ha detto grazie, ragazzi. Dovremmo aspettarci una tormenta di neve a
giugno?» ironizzò Ryan.
Non mi scomposi nemmeno, intenta com’ero a cercare di non
arrossire.
«Qui
l’armadio va bene?» chiese,
indicando l’esatto punto in cui me l’ero immaginato.
«Sì,
grazie». Accennai un debole
sorriso, guardandolo di sottecchi.
«C’è altro
che ti serve?». Si piegò
leggermente in avanti, girando il busto.
Temevo che si fosse fatto male alla schiena, spingendo da
solo l’armadio.
«Ti sei
fatto male?». Mi avvicinai a
lui istintivamente, facendo un passo per guardare la sua schiena.
«No» sbottò, allontanando il mio
braccio di colpo, come se avesse avuto paura di me. «C’è altro che ti serve?»
insisté, prendendo una sigaretta e accendendola.
«Io… credo
di no. Non ho controllato in bagno, ma dovrebbe essere tutto ok» spiegai, guardando i loro volti.
C’era qualcosa che li accumunava; erano tutti diversi ma la
luce nei loro occhi sembrava la stessa.
Qualcosa, dentro di loro, li legava, come se fossero fratelli.
«Andiamo a
controllare il bagno. Ryan, dovremmo andare a lavorare».
Brandon sottolineò l’ultima parola, incuriosendomi.
Guardai l’ora: erano quasi le undici di sera; dove potevano
lavorare? In un bar, forse. O in qualche locale.
Oddio, e se fossero stati degli spogliarellisti?
«Do-dove
lavorate?» domandai,
imbarazzata; non ero sicura di voler sapere veramente la risposta.
«Aiutiamo
i bambini ad attraversare la strada quando escono da scuola» borbottò Ryan, accendendo le luci
del piccolo bagno con le mattonelle blu, e aprendo tutte le ante dei mobiletti
per controllare che fosse tutto apposto.
Per fortuna non avevo ancora sistemato il bagno.
«Aiutate i
bambini ad attraversare la strada quando escono da scuola?» ripetei, meravigliata. E perché
stavano uscendo di notte?
«Sì, solo
che siccome di mattina c’è traffico, ci prepariamo già lì» continuò Ryan, facendo ridere
Dollar e Brandon, appoggiati allo stipite della porta, dietro di me.
«Mi stai
prendendo in giro, vero?» esplosi,
irritata per non essermene accorta prima e aver fatto la figura della stupida
ancora una volta.
«Sì,
Alexis, ti sto prendendo in giro. Qui è tutto apposto, ti serve altro?» chiese, scostandomi appena per
uscire dal bagno dopo aver spento la luce.
Mi ritrovai al buio. Corsi verso la cucina e mi fermai
appena in tempo per non sbattere contro Ryan.
«Ecco… in
verità, io… dovrei trovare un lavoro»
confessai, giocherellando con il bordo della mia maglia.
«Lavoro?
Credi di trovare lavoro qui?»
proruppe Ryan, di nuovo quel ghigno sulle labbra, per prendermi in giro.
«Sì, mi
andrebbe bene tutto, devo riuscire a pagare l’affitto e… insomma. Voi dove
lavorate?». Magari erano camerieri in qualche locale lì vicino. Di
sicuro conoscevano la zona molto meglio di me.
«Sai
cambiare la gomma a una macchina?».
Brandon cercava di rimanere serio, con pochi risultati.
«Io… no,
ecco. Ma, ma posso fare qualcos’altro».
Non mi interessava entrare in un ospedale o trovare un lavoro che c’entrasse
con la mia laurea. Volevo solo riuscire a essere indipendente.
«Se non
sai cambiare gomme, scordati di trovare un lavoro a Hunts Point». Per la prima volta, forse,
riuscii a scorgere un’espressione seria. Nessun ghigno nel volto di Ryan.
«Ok,
troverò qualcosa qui attorno, allora»
azzardai, appoggiandomi al tavolo dietro di me e guardando i ragazzi in mezzo
alla piccola cucina.
«Non credo
sia il posto più adatto per uscire di sera, questo. Hai visto anche tu cosa è
successo». Il riferimento di
Ryan alla mia aggressione mi fece rabbrividire, facendomi ricordare quella
banda di ragazzi e i loro volti.
«Ma devo
pagarmi l’affitto. Ci sarà un bar, qualcosa, qui vicino. Anche commessa… va
bene tutto, non mi interessa qualcosa che riguardi quello che ho studiato,
davvero»
mi giustifica, sperando che potessero aiutarmi.
Ryan sembrò sorpreso: il suo sguardo saettò da Brandon a
Dollar, per poi tornare su di me. «Cosa
hai studiato?» chiese, una
nota di curiosità nella voce che non riuscì a nascondere.
«Medicina» mormorai, socchiudendo gli occhi.
Non nominai nemmeno i due esami mancanti; sapevo che ci sarebbero state altre
domande e non volevo rispondere.
«Ci
serviva» bisbigliò Brandon,
dando dei leggeri colpi con il gomito sul fianco di Ryan.
Dollar cominciò a ridere, nascondendosi poi le labbra con la
sciarpa, probabilmente perché cercava di non farsi vedere.
«Non c’è
niente per te, qui» sbottò
Ryan, utilizzando un tono di voce duro, che mi fece rabbrividire.
«Non mi
interessa lavorare in un ospedale. Va bene anche un bar, davvero. Anche se devo
fare un’ora di strada». Avrei
lavorato anche di notte, non era un problema.
«Cazzo se
è testarda, ho detto di no».
Ryan prese una nuova sigaretta, accendendosela senza nemmeno chiedere il
permesso.
«Chiederemo,
magari qualche bar ha bisogno di una cameriera». La proposta di Brandon sembrò voler zittire Ryan, e ci
riuscì.
«Grazie» mormorai, grata perché almeno ci
avrebbero provato. «Non
voglio farvi tardare, se dovete andare al lavoro. Io… ecco, grazie comunque» bofonchiai, non riuscendo a
sostenere lo sguardo di nessuno di loro tre.
Ricordai che quando erano arrivati c’era anche Paul, uno dei
due gemelli, e Sick, mi sembrava di ricordare; che fossero tornati nel loro
appartamento? Mi guardai attorno, sicura che non potessero essere né in bagno
né in camera.
«Non
dobbiamo timbrare cartellini»
rise Ryan, seguito subito dopo da Brandon e Dollar.
Non riuscivo a capire che lavoro potessero fare. Lavoravano
di sera, non timbravano cartellini e potevano cominciare a qualsiasi ora.
Qualcosa dietro di me sbatté, facendomi urlare per lo
spavento.
«Scusate» sussurrò Dollar, cercando di
trattenere una risata, «cercavo
qualcosa da mangiare» spiegò,
chiudendo per la seconda volta l’anta di un mobile della cucina, senza però
sbatterla.
«Non c’è
niente da mangiare, non ho fatto la spesa e… ho solo un pacchetto di cracker». Camminai velocemente fino al
divano per prendere la mia borsa; quando tornai da Dollar, con i cracker tutti
rotti a causa del viaggio, lui cominciò a ridere, portandosi una mano sullo
stomaco.
«No no…
grazie. Era solo per uno spuntino: una bistecca, un po’ di patate fritte, cose
così».
La mia espressione, dopo la spiegazione di ‘spuntino’ da
parte di Dollar, mutò, facendoli ridere ancora di più.
Non sapevo che cosa avessero visto sul mio volto, ma tutti e
tre continuavano a sghignazzare, appoggiati al tavolo, o alla cucina.
«Che c’è?» domandai, sperando che la
smettessero di mettermi in imbarazzo e si decidessero a parlare.
«Nie-niente» bofonchiò Ryan, tra una risata e
l’altra, asciugandosi una lacrima con il braccio.
«Vuoi
qualcosa da mangiare per questa sera?».
Brandon smise di ridere, sistemandosi anche la maglia.
«No, ho i
cracker, grazie. Farò la spesa domani mattina». Ero abituata a mangiare poco di sera e a causa del jet lag
non avevo poi così fame.
«Portate
qualcosa da mangiare, se ne abbiamo»
ordinò Ryan, indicando, con un gesto del capo, la porta di casa.
«No,
davvero, non importa» mi
giustificai, inutilmente: Dollar e Brandon erano già sul pianerottolo, pronti a
entrare nel loro appartamento. «Non
serviva» mormorai, guardando
Ryan, davanti a me.
«Ci
ripagherai in qualche modo»
ghignò. Brandon e Dollar rientrarono con un paio di birre e qualche pacchetto
di patatine.
«Ecco,
così puoi mangiare e anche bere»
borbottò Dollar, appoggiando le birre sopra al tavolo.
Avrei voluto dire che di solito non bevevo birra, ma si
erano dimostrati così gentili che non me la sentii e li ringraziai solamente.
«Ryan, è
tardi, dobbiamo andare». Brandon
indicò l’orologio che aveva al polso, guardando subito dopo Dollar.
«Sì. Be’,
chiudi la porta, non aprire a nessuno e… buona serata». Ryan cercò di sorridere, ma ottenne solo una strana smorfia,
che mi fece ridere.
«Grazie.
Buon lavoro». Non sapevo cosa
dire, mi sentivo tremendamente in imbarazzo.
Nonostante tutto, si erano dimostrati gentili con me. Questo
mi insegnava che, in qualche modo, dovevo guardare oltre alle apparenze di
quelle cicatrici e di quegli ematomi.
Uscirono dal mio appartamento chiudendosi la porta alle
spalle e io chiusi subito il catenaccio per sentirmi più sicura.
Un silenzio improvviso calò dentro alla mia piccola cucina,
facendomi rabbrividire.
Cominciavo lentamente a rendermi conto di quello che mi era
successo, forse perché lo shock stava lentamente svanendo.
Mi serviva una doccia calda, per cercare di scaricare lo
stress e per allentare i miei muscoli.
Lasciai che l’acqua calda scaldasse un po’ l’ambiente e,
dopo aver cercato un paio di pantaloni e una maglietta da una delle valigie che
non avevo finito di sistemare, mi abbandonai sotto al getto di acqua,
circondata dal vapore: potevo sentire le ultime tracce di Los Angeles scivolare
via per lasciare il mio corpo.
Una nuova vita: nuovo lavoro –che non avevo ancora trovato–,
nuovi vicini, nuova casa.
Rimasi sotto al getto d’acqua calda per un tempo indefinito;
decisi di uscire solo quando vidi che il bagno era completamente avvolto dal
vapore.
La stanchezza cominciava a farsi sentire, così lasciai i
capelli sciolti, senza nemmeno asciugarli: era giugno, estate; in California mi
asciugavo i capelli solo in inverno.
Camminai svogliatamente fino alla cucina: volevo prendere i
cracker e distendermi a letto, per mangiarli in tranquillità. Il mio sguardo,
però, si posò sui pacchetti di patatine e sulle birre che mi avevano portato
Dollar e Brandon.
«Tanto» bofonchiai tra me e me, facendo
spallucce. Presi una birra e un pacchetto di patatine, abbandonando l’idea di
mangiare i cracker a pezzetti, e avanzai fino alla mia camera, distendendomi
poi sul letto con uno sbuffo.
Puzzava di fumo e c’erano delle tracce di cenere sparse sul
copriletto, ma ero talmente stanca che non mi interessava.
Gli avrei vietato di fumare ancora sul mio letto, pensai,
sorseggiando un po’ di birra fresca.
Anzi, non sarebbero più entrati in camera mia, perché non ce
n’era bisogno.
Erano i miei vicini, pronti a prestarmi un chilo di zucchero
quando ne avevo bisogno, o a indicarmi la strada più corta per arrivare a
Trafalgar Square.
Sì, senza dubbio il nostro rapporto sarebbe stato quello.
Buongiorno
ragazze! :)
Intanto
vi ringrazio per la risposta che avete dato al primo capitolo, sono felice che
l’idea vi sia piaciuta e spero che la vostra risposta sia sempre così positiva.
Ma
siete ancora vive alla fine di questo capitolo così noioso o siete tutte
addormentate? Se siete vive battete un colpo per favore! :)
Dunque,
capitolo (noiosissimo) di passaggio che mi serve per descrivere un po’ meglio i
personaggi e per farvi capire alcune cose.
Per
quanto riguarda HUNTS POINT,
è il quartiere del Bronx in cui ho deciso
di ambientare la storia (le due strade Whittier Street e Randall Ave
sono di
questo quartiere). La scelta è ricaduta proprio su Hunts Point
per svariati
motivi. Highbridge e West Farm, altri quartieri, hanno decisamente
troppa
malavita e troppi crimini, Alexis non sopravvivrebbe nemmeno un giorno;
Mount
Eden, che di solito viene definito come quartiere, in verità
è un quartiere-strada,
e volevo qualcosa di più ‘vasto’. Morris Heigh
è un quartiere troppo
tranquillo, tutti vivono felici e gli uccellini cantano…
insomma, un quartiere
tranquillo, troppo. Soundview è solamente povero, non
c’è malavita o altro,
quindi risultava strano ambientare la storia con tutte le vicende che
descriverò lì. L’ultimo quartiere era Morrisania, e
fino
all’ultimo ero indecisa. Alla fine però ho scelto Hunts
Point, che, tra
l’altro, nel giro di due isolati ha 2 officine con ricambi di
gomme (da qui la
battuta di Brandon sul lavoro di Alexis).
Mmm,
direi che non ho altro da aggiungere, se non ringraziare chi ha aggiunto la
storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare. Ringrazio anche chi ha avuto il
coraggio di inserirmi tra gli autori preferiti!
Come
sempre per le foto dei protagonisti e per gli spoiler questo è il gruppo: NERDS’ CORNER, e se
volete aggiungermi agli amici: Roberta RobTwili (ma vi
prego, ditemi che siete di EFP, mi basta sapere che siete lettori se non volete
dire il nick, perché comincerò a non accettare richieste, se non mi dite
nemmeno che leggete le mie storie).
Spero
di riuscire a scrivere il capitolo per la prossima settimana e scusate per le
note lunghissime!
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