Nickname:
OperationFailed
Titolo:
E’
in certi sguardi che s’intravede l’infinito
Fandom:
Sherlock
BBC
Personaggi:
John
Watson, Sherlock Holmes
Rating:
Pg13
Avvertimenti:
What
if?, Pre-slash
Conteggio
parole:
1553
(fiumidiparole)
Note: Partecipa
alla prima
giornata della Sherlock Week @
sherlockfest_it
Disclaimer: I
personaggi di John Watson e Sherlock Holmes non mi appartengono, per
loro
fortuna, in quanto sono stati ideati da Sir. Arthur Conan Doyle, senza
il quale
noi non saremmo qui a consumarci cuore e cervello. Questa fanfiction
non è a
scopo di lucro (anche perché ci guadagnerei ben poco) e non
intende offendere
la sensibilità di nessuno. La fanart appartiene
a me.
E’
in certi sguardi che s’intravede
l’infinito
[Quando cade un
quadro. Quando ti
svegli un mattino e non lo vedi più. Fran.]
Lo
aveva pensato l’istante stesso in cui lo
aveva tirato fuori dal Tamigi.
Quest’uomo
ha l’infinito negli occhi.
Se
solo qualcuno lo avesse avvertito…
Davanti
a loro adesso scorre il fiume, e
John sa. Aveva intuito qualcosa già in taxi,
perché Sherlock era un pezzo di
marmo e le sue dita scivolavano veloci sui palmi.
Adesso
il mondo non respira e se non fosse
per l’acqua che gorgoglia sonora, sembrerebbe una bella opera
romantica. Magari
una tela di Turner, perché c’è il
tramonto che gocciola sangue sull’orizzonte
muto, oppure di Constable, per le fronde cariche di colori e le
impronte
d’uccello sulla fanghiglia. Invece è solo
un’assenza apparecchiata per cena.
Sherlock
dà le spalle al dottore. L’acqua
gli lambisce la punta delle scarpe, lo sguardo è naufrago
nella corrente. Pochi
passi dietro di lui, John espira piano, con le mani artigliate alla
trama
grezza dei jeans. E’ il paio più brutto e scomodo
che ha, ma era il primo a
portata di mano e non ha avuto il tempo di cercare i vestiti giusti per
un
addio.
Sherlock
invece è impeccabile nel suo cappotto
scuro. La sciarpa ha intrappolato qualche ricciolo contro il collo e il
bavero
è abbassato, perché adesso non
c’è bisogno che faccia quella
cosa, il misterioso con gli zigomi affilati e tutto il
resto, perché sono loro due soli. John vorrebbe sistemare
quelle ciocche,
allungare un braccio e stringerle forte.
«Non
sei abbastanza coperto»
Holmes si volta, togliendo con cura
il guanto destro. Sotto, il candore della mano è violenza
per lo sguardo. Un
passo e Sherlock toglie l’altro, tirando dito per dito la
pelle scura del
guanto, lentamente. Li accoppia, facendoli combaciare, poi li lascia
cadere a
terra.
Rialzato
lo sguardo su John, senza
interrompere il contatto visivo neppure un istante, Sherlock toglie la
sciarpa
e libera i ricci intrappolati, che sembrano gli scarabocchi di un
bambino. La stringe
in una mano e con l’altra sbottona il cappotto lentamente,
con l’infinito
agganciato agli occhi del dottore. Terrestri. Sconcertati.
«Ti
avevo detto che avrebbe fatto freddo»
due passi avanti e sfila
il cappotto volteggiante, che appoggia sulle spalle di John. Sotto, una
camicia
leggera riluce nel tramonto. Con la sciarpa lo cinge, lo trae a
sé. La fronte
di John è calda, il contatto è un brivido su cui
le ciglia si sfiorano.
Sherlock sfrega forte le mani sulle spalle del dottore e stringe la
sciarpa con
le dita affusolate, per poi appoggiare le labbra su quelle morbide
dell’altro. Egoismo,
una violenza gratuita, un marchio di possessione. Un posto assicurato
in cima
ai pensieri di John, ora e per sempre – indolore è
la bocca mai stata
assaggiata.
«Ti
ho scelto per un motivo, John Watson».
La sciarpa scivola a
terra, come cielo usa e getta accartocciato e buttato via. Le mani
tornano
lungo i fianchi, pallide, bellissime. La destra ha un fremito, come di
farfalla
bianca che vorrebbe volare e non può, perché John
contrae il viso in una
smorfia di dolore e quel cappotto sulle spalle lo fa sembrare un bimbo
smarrito.
E’ il grido di una carezza nata e morta schiacciata nel palmo.
«Sapevo
che supererai tutto questo»
Sherlock si avvicina al fiume e si piega,
slaccia le scarpe con la minuzia di un chirurgo.
«Non
puoi deludermi ora»
guarda indietro, verso John. Si raddrizza
e i suoi occhi sono sempre lì, con tutto
quell’infinito. Lui è sempre lì,
impassibile, sfrontato, con le iridi macchiate di crepuscolo.
Immobili.
Affollate.
Imbavagliate.
John
lo vede togliersi le scarpe eleganti e
preferirebbe non averlo mai guardato, perché quello che
ignori non può
strapparti il cuore.
Chinatosi
ancora, Sherlock continua a
svestirsi con i gesti morbidi di un felino. Come un gatto che arrotola
la coda,
ripiega con cura i calzini vinaccia sulle scarpe e ci sistema sopra la
cintura,
come fossero preziosi riposti nel portagioie a fine giornata.
Si
risolleva e John ha una mano sugli
occhi. Il capo pende appena, le dita della sinistra sono artigliate al
cappotto
che Sherlock gli ha lasciato sulle spalle. La mascella è
costretta in un morso
rigido, la vena sul collo è gonfia di silenzio.
«Guardami,
John»
Il
fruscio dei pantaloni che scivolano spezza
il silenzio, gli occhi sempre fissi sul dottore.
«Ti
ho detto guardami»
John
scopre il viso e le labbra si colorano
di stupore.
Sherlock
lo fronteggia.
Le
cosce madreperla sono sottili e lunghe
nell’aria, lo sguardo arde sul suo volto algido.
«Non
puoi. Non puoi andartene, Sherlock. C’è bisogno di
te, il mondo–»
Sherlock
si accarezza i palmi con le dita
affusolate, mentre un sorriso mesto gli piega le labbra.
«Come
puoi dire che la tua verità sia migliore della
mia?»
Attende
ancora un istante, poi i suoi slip
sono a terra e John ha il fuoco nel cervello. Sposta lo sguardo sui
piedi
scalzi tra la ghiaia, sulle caviglie sottili, di nuovo sui piedi.
«Devi
guardare, John. Guardami»
Il tono autoritario è appena
infastidito, gli occhi sono nuvole in tumulto. Il dottore solleva il
mento,
come quando stava sull’attenti durante
l’alzabandiera. Gli occhi però sfuggono,
si appoggiano sul rossore sempre più cupo
dell’orizzonte, sui rami spogli che
sfiorano l’acqua, sui calzini ripiegati come foglie rosse
d’autunno.
«John»
lo richiama impaziente Holmes, facendo un passo avanti. Watson blocca
infine lo
sguardo sui suoi zigomi pronunciati, con i denti affondati nella
guancia e i
pugni stretti forte. Sul suo volto e lì solo, dove Holmes lo
pretende.
«Ti
voglio vigile»
lo ammonisce, iniziando a slacciare i
bottoni della camicia bianca con estenuante lentezza. John lo guarda
con
resistenza titanica, ma si distrae e lo sguardo scivola giù,
alle dita sinuose
che si fanno strada sulla stoffa. Sotto ad essa, il petto sembra
rilucere e
catturare a gocce quell’ultimo giorno stanco, mentre i
bottoni si aprono sulla
pelle.
«Mi
stai guardando, John?»
I
brividi sulla schiena sono di freddo e
forse di vuoto incombente, la nebbia sale piano dal fiume e si aggrappa
ai loro
vestiti, alle vene chiare sui polsi di Sherlock, un reticolo di strade
che John
non ha ancora percorso.
«Eliminato
l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che
sia, deve essere la verità. Ricordi
John?»
Il
dottore ricorda. Ha in mente le folli
corse per i quartieri di Londra, tutti i casi risolti e archiviati,
ogni segno
della noia sul muro.
«Non
sono l’impossibile. Non sono un sogno, John. Da qualche
parte, esisterò sempre»
John
stringe i pugni e i palmi non
sanguinano solo per la buona abitudine di tenere le unghie corte. La
vista di
Sherlock è un tormento di cui non si priverebbe mai, ma
questi si volge al
fiume e la visione sfuma lenta. La camicia aperta ondeggia sul
fondoschiena, le
natiche sode sono un disegno da colorare, le gambe affusolate
svaniscono nella
nebbia. John trattiene il respiro mentre Holmes mette i piedi
nell’acqua, uno
dopo l’altro, subito divorati dal fiume gelido e famelico. Le
gambe affondano
sempre più nella corrente, le caviglie svaniscono, le
ginocchia scompaiono.
L’acqua gli abbraccia le cosce, la vita, smussa gli angoli e
li fa
rilucere. John ha i
denti stretti, ma a
tradimento una parola sfugge al controllo, un gemito condensa nel
freddo.
«Sherlock…
»
le ginocchia cedono appena sotto il peso di un tale abbandono, gli
occhi
salgono al cielo e si serrano in rifiuto, richiamati subito dopo alla
stessa
figura soave.
Scomparsa.
«Sherlock!»
il grido echeggia sulle foglie e sopra ai sassi, il cappotto cade a
terra
mentre il dottore si lancia in avanti. L’acqua è
gelida, il respiro mozzato in
gola è uno spasmo, gli abiti s’incollano alla
pelle e lo trascinano in basso,
sulle ginocchia. Gli occhi vedono quello che il cervello sapeva e che
sempre si
è rifiutato di elaborare.
Un
cigno reale scivola dolce sull’acqua,
vestito di una camicia leggera che gli cinge il dorso e gli ondeggia
intorno.
Con una virata l’animale torna a John, il collo superbo
allungato verso di lui.
L’uomo allunga una mano esitante, sfiora il becco, trepida
verso le ali. Il
cigno si avvicina ancora e, chinato il collo in un cenno
d’assenso, si lascia
togliere la camicia incastrata alle ali, che si apre nella corrente
come un
bocciolo di gardenia fiorito.
E’
una creatura maestosa, dal piumaggio
folto e candido. Il corpo è vigoroso, il collo sottile ed
elegante. Intorno e
sotto alle vivide pupille, le piume nere sembrano lacrime
inconsolabili. Niente
della sua figura esula dall’apparire umano.
Dall’essere umano.
Con
un’ultima spinta in avanti, l’animale fronteggia il
dottore. Lo guarda, sembra ammonirlo bonariamente con quel baluginio
degli
occhi che gli era proprio. Poi, china il collo e piano sfrega il becco
contro
la guancia di John, ad occhi chiusi. Si fermano un istante
così, circondati dal
gelo di un inverno rigido e di un addio definitivo, nel calore breve di
un
contatto nuovo. Ancora un secondo e il cigno si volta, allontanandosi
lieve sul
pelo dell’acqua.
«Sherl–Oh
Cristo, Sherlock!»
incerto muove due passi avanti, barcolla in
acqua e trema nel freddo. La nebbia sembra solidificarsi e il cigno
sfuma in
lontananza, avvolto dalla bruma.
Un
cappotto crocifisso al suolo, scarpe e
calzetti come frutti mai colti, pantaloni e slip che sono memorie in
bianco e
nero. Una cintura che non cingerà che un vecchio
appendiabiti. E l’orizzonte
scuro, e un crepuscolo divorato ancora prima di fiorire.
Accanto
a John una camicia, sacchetto
ferito che fluttua soave.
~
1. Il
titolo è la citazione di un verso di “Tutto
l’universo obbedisce all’amore”, ma
con la canzone di Battiato non ha nulla a che fare. Io l’ho
presa estraniandola
completamente dal contesto in cui era per rendere chiaro, sin
dall’inizio, un
concetto che in questa storia è importantissimo:
l’infinito. Proprio questo viene
reiterato più volte nel corso della fic, per segnare il
distacco tra Sherlock e
John. Qui non è una banale differenza tra esseri umani, che
hanno
caratteristiche fisiche e comportamentali diverse. Qui è un
abisso tra un uomo
e un essere soprannaturale – se così si
può chiamare (è personalmente una
definizione che non mi piace). Sherlock è infinito proprio
perché immortale,
perché viene da un luogo che non ci è dato sapere
e se ne è andato dalla Terra
dopo aver portato a termine la sua missione. (Quale missione? Non vi
è dato
saperlo, se mai ne avrò la voglia lo scriverò in
un prequel che ho già in mente).
Il sottotitolo è invece un piccolo omaggio a
“Novecento” di Baricco.
2. Eliminato
l’impossibile, ciò che
resta, per improbabile che sia, deve essere la verità. Così
scriveva Doyle nel capitolo sesto de “Il segno dei
quattro”, e io mi sono
permessa di stravolgere un po’ il significato della frase a
mio uso e consumo.
Sherlock vuole fare riflettere John e chiude in un pugno di parole un
concetto
smisurato, cioè quello del soprannaturale –
ancora, definizione che non mi
soddisfa. Non ci sono mezzi che escludano al 100% l’esistenza
di fenomeni
paranormali. Se vi fossero, Sherlock sarebbe
“impossibile”, non potrebbe
esistere. Ma esiste, per quanto la sua esistenza sia improbabile, e
quindi John
deve crederci. Capito? No? Tenterò di spiegarlo meglio in
separata sede, a
coloro i quali interesserà.
3.
Uso
del presente. Difficile quanto soddisfacente, era l’unico
tempo che mi avrebbe
permesso di rendere vivide le immagini che avevo in mente.
Perché sì, questa
storia era essenzialmente una sola, incredibile visione, e
cioè Sherlock che si
spoglia e si dilegua nell’acqua.
4.
Sherlock
e John non hanno mai avuto rapporti fisici prima di quel che avete
letto. Non
un bacio, non una sveltina, niente. Per questo John è
così incredulo. Sherlock
invece è perfettamente impassibile, come suo solito. In
realtà è un’apparenza,
ma non ho indagato le emozioni dei personaggi, perciò quello
che c’è in
profondità non ci interessa. Non ancora.
5.
Il
paesaggio ha una funzione introspettiva, perché per quanto
io non abbia voluto
indagare nel profondo, la natura che li circonda è in
realtà lo specchio dell’anima
di John. Tramonta il sole così come il tempo a loro
disposizione, e la nebbia
non è altro che la mente offuscata di John, che –
forse per protezione – si lascia
confondere e trasportare dalla situazione, senza rifletterci troppo.
Senza
agire, perché sa che tutto è deciso e nulla si
può contro forze più grandi di
sé. Quando infine Sherlock scompare, arriva
l’assenza di luce.
6. Se
non ci sono mai stati rapporti fisici tra i due, perché
iniziare proprio ora?
Perché Sherlock pretende di essere ricordato, vuole un posto
d’onore tra i
ricordi di John. Senza rendersi conto, forse, del mucchio di macerie
che così
facendo si lascia alle spalle. L’inciso che segue quella
scena è la semplice
constatazione che non si rimpiange quel che non si è mai
avuto. Ma vogliamo
risparmiare a John qualche sofferenza, noi? Quando mai!
7. Il
consulting
detective non è così gelido come sembra. Non lo
è affatto, anzi. Le sue iridi,
il suo infinito, sono affollate di sentimenti, di pensieri, di cose che
vorrebbe dire e che deve tacere – per questo imbavagliate
– e di azioni che
vorrebbe fare – come la carezza che gli muore in mano
– e che deve trattenere.
Più la situazione lo sconvolge, più lui si fa
distante e imperscrutabile.
8.
John
deve guardare e Sherlock lo pretende vigile, attento. La motivazione
è un po’
quella che c’è effettivamente nella Reichenbach
della BBC, oltre al solito desiderio
– pretesa, per meglio dire – di non essere
dimenticato mai da John. Qualcuno
gli vada a dire che il povero dottore non lo avrebbe dimenticato
comunque!
9.
«Come
puoi dire che la tua verità sia migliore della
mia?» Citazione
rivisitata di una canzone dei Mumford and sons (I gave you all, per la
precisione). Cos’è la verità? Con che
criterio riteniamo una migliore dell’altra?
E poi, esiste la verità? Sì, sono in
modalità pirandelliana, perdonatemi XD
10. Alla
fine, gli abiti. Il cappotto, sacrificio di un’amicizia che
poteva durare una
vita. Le scarpe e i calzetti, frutti maturi lasciati marcire
sull’albero e mai
gustati davvero. Pantaloni neri e slip bianchi, ricordi di corse e casi
incredibili. Perché il cigno aveva trovato
un’applicazione effettiva alla sua
intelligenza, ed anzi l’aveva usata per portare a termine la
missione (non ve
lo dico quale, no!). E la cintura, inutile, perché costretta
a cingere il
vuoto. Insomma, questi abiti sono un’immagine di desolazione,
nella vita di John
e un po’ di tutto il mondo. Ma Sherlock ci ha avvisati, lui
non è un sogno. Lui
è reale e da qualche parte esisterà sempre.
Perché è uno spirito, che sulla
Terra ha dovuto annientare il suo gemello (che o lo indovinate o vi
arrangiate).
11. A
conti fatti, questa è una Reichenbach bella e buona!
PS La figura del cigno ha molteplici
significati. Per i greci cantavano in punto di morte e di notte
trainavano il
carro di Apollo. Nella mitologia, un giovane di nome Cigno si
trasformò in questo
animale a seguito della troppa sofferenza, metamorfosi accordatagli da
Poseidone. Nel medioevo è considerata
l’incarnazione dello spirito e dell’animo
umano. In alchimia è colui che insegna ad accettare il
cambiamento con grazia –
come avviene nel passaggio dall’anatroccolo al cigno vero e
proprio. E’ un
simbolo androgino, che indica lo spirito e non ha sesso. E’
infatti la
realizzazione dell’Unico maschile e femminile. E’
considerato Uovo del mondo,
con in sé i due poli opposti. Indica il punto di inizio, la
ciclicità del
cosmo, la fertilità.
#Elencorandomicoefrettoloso
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