NDA: Niente, ho deciso di darmi per un po’
alle one-shot. Mi sa che le long
non fanno per me, sono troppo pigra per
continuarle. Però chi lo sa, magari prima o poi le
riprenderò, le idee che mi
ronzano in testa ce le ho...
Comuuunque! Questa è
una breve shot dal POV di Fujimoto, scritta di getto, senza
pretese particolari. E’ ambientata dopo la fine
dell’anime, quindi dopo che
tutti i personaggi si sono scordati di Kobato...
a parte il nostro Kiyokazu. =v=
Allora, so che alla fine sembra che a Kobato torni la memoria.
Però, non
essendoci un seguito, chi mi dice che non sia stato per un breve
intervallo, e
che dopo i ricordi della sua vita precedente non siano svaniti?
Sì, vabbè, ci
ho fantasticato un po’ su e cambiato un po’ la
storia, LOL. Tenete conto quindi
che qui Kobato non si ricorda della sua vita sulla terra, né
nessun’altro si
ricorda di lei.
E’ come
se... ricominciasse tutto da capo.
Beh, buona lettura! E
spero di aver reso bene Kyokazu, che sinceramente adoro con tutta me
stessa.
;V; ♥
~
Non si ricordava
niente.
Niente.
Né l’asilo Yomogi,
né
il suo appartamento, né Sayaka, né la signora
Mihara e le sue figlie, né... lui.
Eppure gli era corsa
incontro, l’aveva abbracciato, aveva... pronunciato il suo
nome.
Ecco, quello era l’unica
cosa che sembrava ricordare, ricordare veramente. Tutto il resto erano
ricordi
falsi.
Da quello che aveva
capito, era convinta di essere la nipote del signor Hanagawa, di avere
diciannove anni, e di essersi appena trasferita da chissà
dove per svolgere le
pratiche relative alla vendita della villa che aveva appena ereditato
dal suo
fantomatico defunto nonno. Sì, fantomatico. Kiyokazu aveva
controllato tra i
documenti dell’ufficio legale presso cui stava facendo
l’apprendistato, e da
nessuna parte risultava il nome di questo signor Hanagawa. Il
proprietario
dello studio aveva replicato accusando la precedente segretaria di
incompetenza,
quanto gliel’aveva fatto presente. Ma lui non ne era
così convinto.
Le cose non
quadravano.
Quella non poteva
essere un’altra Kobato, con un altro passato, che aveva
vissuto un’altra vita.
La somiglianza con la sua Kobato era troppo grande per accettare una
spiegazione
del genere e lasciar correre.
Un momento... la sua
Kobato?
Kiyokazu scosse la
testa, contrariato dai suoi stessi pensieri. Era colpa della
stanchezza, tutto
qui. Era ormai da due settimane che non si riposava come si deve,
perché le sue
notti erano occupate da sogni, o forse incubi, che la mattina non si
ricordava
neanche, ma che lo lasciavano spossato per tutta la giornata.
Da due settimane... Da
quando era ricomparsa la... beh, la sua
Kobato. Per forza di cose doveva dire così. Per
distinguerle. Sì, per quello.
Sfregandosi un occhio,
si lasciò andare a uno sbadiglio. Aveva sul serio un gran
sonno. Però... non
poteva permettersi di dormire.
Perché quella
Kobato aveva pensato bene di
addormentarsi nel suo buco di appartamento.
Non sapeva neanche
come ci fosse finita, lì dentro. L’aveva aiutata a
riaffittare – o affittare
per la prima volta, secondo lei e la signora Mihara che sembrava
altrettanto affetta
da quella amnesia collettiva e non si ricordava di nessuna Kobato
– il suo
vecchio appartamento, quello della porta a fianco.
Forse era venuta per
chiedergli del detersivo per il bucato, non ricordava. Ormai erano
talmente
tante le volte che quella Kobato lo
aveva
importunato bussando alla sua porta per chiedergli qualcosa, e poi
finendo per
passare lì la serata, che non la stava neanche
più a sentire.
Quella volta, però, si
era addormentata lì.
Per un attimo aveva
pensato scuoterla per svegliarla e cacciarla fuori. Quando si era
trovato sul
punto di farlo, però, si era bloccato e aveva lasciato
cadere la mano.
Forse non voleva che
se ne andasse.
Distolse lo sguardo da
lei, sempre più seccato da se stesso. Eppure non
passò molto tempo prima che i
suoi occhi tornarono a posarsi su di lei. Era... più forte
di lui.
Aggrottò le
sopracciglia e chinandosi su di lei le soffiò sul viso,
spostandole leggermente
la frangia che le ricadeva in ciuffi ribelli davanti agli occhi chiusi.
Kobato
fece una piccola smorfia, arricciando il naso, poi si
rilassò nuovamente.
Era buffa, quella
Kobato. Come la sua.
Avrebbe potuto passare
la vita a guardarla dormire e fare facce ridicole, senza annoiarsi un
solo
istante.
«
Fu-... Fujimoto-san... »,
mormorò all’improvviso nel sonno, allungando la
mano come per cercare la
sua.
... Doveva essere lei.
Aveva bisogno che fosse lei. Lei che
rideva e piangeva come una bambina, che si offendeva a morte quanto la
prendeva
in giro, ma che era sempre disposta a perdonarlo e a ricominciare da
capo, come
niente fosse. Lei fastidiosamente ingenua, fin troppo spensierata,
assurdamente
sincera, dolce in modo nauseante, altruista come pochi, lei che ogni
volta che
cantava riusciva a toccare il suo cuore barricato con la quella voce
che
sembrava appartenere a un angelo.
La sua
Kobato. Quella che aveva imparato ad
amare sotto ogni aspetto, anche il più irritante, con tutto
se stesso.
« Sono
qui... », le rispose, anche se probabilmente la sua voce non
l’avrebbe
raggiunta nel suo mondo dei sogni pieno di arcobaleni e unicorni.
Così le
sfiorò la mano.
E gli angoli della sua bocca si piegarono
in
un piccolo sorriso.
Anche se in quel momento non si ricordava,
le
avrebbe fatto ricordare. E se non ci fosse riuscito, avrebbe fatto in
modo di
costruire nuovi ricordi insieme a lei.
Qualsiasi cosa. Avrebbe fatto qualsiasi
cosa.
Tutto... ma non avrebbe permesso più a niente e a nessuno di
portargliela via.
Mai più.
|