Titolo:
L'appartenenza
Personaggi:
Principali: Fem!Danimarca/Ester Nexø (agente
Ørsted); compare, nei flashback, anche
Male!Danimarca/Jørgen Nexø (agente Andersen);
Fem!Macao/Amàlia Liu (agente Aviz).
Comparse: Vietnam/Pham Lan, Hong Kong/Li Xiao Chun, Norvegia/Lars
Nesbø, Svezia/Berwald Oxenstierna, OC!Scozia/Walter Doyle.
Pairing:
Danimarca & Macao.
Rating:
Giallo.
Avvertimenti:
Linguaggio volgare, Genderbender, AU.
Genere:
Azione, Introspettivo, Malinconico.
Note: La
canzone cantata da Ester è «007 is also gonna
die», dei Nephew.
Degli stessi autori, ma della canzone «Danish way to
rock», sono le citazioni che ho utilizzato per dividere i
flashback dal resto del racconto e sono, in questo capitolo:
«Og hvis de sparker os ned» --- «E se
loro ci buttano a terra a calci»,
«Så si’r vi / Op igen – den
sved» --- «Diremo - in piedi di nuovo, fa
male».
[1] «Drømte mig en drøm i
nat» significa «Ho fatto un sogno,
stanotte.»
Vi auguro buon lettura! C:
L'appartenenza
Capitolo I
«What is black, and what is brown.»
Uno, due, tre giri di
bende lungo il braccio.
«What is field, and what is town.»
In un lasso di tempo
pari a poco più di un minuto lo straccio bianco ripiegato
sul polso era già screziato di sangue.
«What is silence, what is shout.»
Con un sorriso
sofferto, che si rifletteva sulla mano libera, strinse quella
medicazione affrettata. Le sembra di avere un laccio emostatico al
braccio.
«What is fear, and what is doubt.»
Non era paura,
nè dubbio. Era un'angoscia che le raspava la gola, che le
mordeva il sorriso, che le corrodeva le labbra. Era una furia che
l'allegria aveva sempre scacciato, che il buonumore aveva schiacciato e
sbattuto in uno scantinato profondo, dove essa s'era alimentata di buio
e di silenzio.
Era un dolore esploso
come una bomba a orologeria. Il ticchettare nervoso era solo un
sussurro che Ester aveva preferito accantonare, come si dimenticano le
raccomandazioni preoccupate delle madri in una notte di follia e
frammenti di pelle misti a sangue.
Edimburgo era penosa e
offensiva, nel suo grigio nebbia, quella notte.
«Double-oh-seven is also gonna
die.»
«Jørgen!
Dov'è Jørgen!»
«Nell'infermeria
del QG. Agente Ørsted, datti una calmata.»
«No che non
mi calmo, capo! È mio fratello, accidenti!»
L'altra figura si
sedette sulla sedia al di là della scrivania, con un
profondo respiro.
«Agente
Ørsted. Non voglio capricci da marmocchi, nella mia
agenzia.»
«Capricci? Capricci?!»
Mi prende in giro, capo?!,
pensò. Ma per evitare un licenziamento in tronco, tacque.
Sarebbe stato il colmo.
«Il taccuino
degli appunti.» Ordinò, con un cenno della mano.
Ester gli porse il quaderno con la trascrizione in danese delle
informazioni fornite loro dalla macaense. «E poi mi hai
parlato di una prova lasciata dal killer.»
«Dalla killer,
capo.» Precisò Ester, adagiando sulla scrivania un
fiore di loto chiuso in uno di quei sacchetti di rito dei suoi colleghi
poliziotti.
L'uomo
sembrò soddisfatto del materiale, ma non altrettanto della
propria agente - in evidente stato di shock. «Bene. Ora va'
all'infermeria anche tu, e fatti dare una tisana. Sei sollevata dal tuo
incarico di agente speciale a tempo indeterminato.»
La danese non rispose
immediatamente; e quando parlò, si limitò ad un
«Ja»
fermo. Deciso, sì, ma per un altro motivo: era determinata a
ritrovare quella bastarda che aveva ridotto in fin di vita il fratello.
Lei aveva ricavato
solo una ferita al braccio, benché profonda, in quella
missione ad Edimburgo; suo fratello vi aveva trovato la Morte, seduta a
qualche tavolo più in là rispetto al suo, in uno
di quei pub scozzesi. E grazie al cielo Ella non s'era accomodata al
suo fianco, perché Ester non avrebbe mai più
potuto riabbracciare il suo amato fratello - tre volte avrebbe tentato
di cingergli il collo, e tre volte le sue mani avrebbero smosso
soltanto aria, e non capelli.
«Non
lasciare la Danimarca.» Ordinò l'altra figura.
«La pena la conosci perfettamente.»
Dopo aver varcato la
soglia dell'ufficio del proprio capo, l'agente Ørsted
sbattè la porta. Che l'allegria gliela strappassero pure!
Che le proibissero di partire per l'estero! Nessuno avrebbe mai vinto
contro di lei in grinta e forza di volontà. Soprattutto nel
caso in cui avesse a disposizione un indizio in più rispetto
alla propria agenzia.
Il foglietto
spiegazzato nella tasca del suo cappotto s'era appisolato tra la carta
di una caramella per il mal di gola e il mozzicone di un carboncino, ma
rimaneva leggibile.
Era un biglietto di
sola andata per Macao. Ed era un regalo di quella bastarda, lasciato
accanto al suo corpo, quando era ancora incosciente, in quella notte
scozzese. Come poter resistere a quel dono tanto invitante?
Similmente a una barca
a vela incagliata nella bonaccia, dove i marinai s'apprestano a remare
pur di perseguire la loro meta, Ester si armò di pazienza,
perizia, e di un computer portatile.
Avrebbe raggiunto
quell'assassina nella sua tana, e lì l'avrebbe colta di
sorpresa. La rabbia per non essere stata in grado di proteggere un
affetto le maciullava spirito e nervi. Sapeva perfettamente che il
dolore non può essere disperso da altro dolore; sapeva che
due azioni cattive non ne fanno una buona. Tuttavia, voleva vedere in
viso quella bastarda.
Voleva guardarla
dall'alto in basso, con il disprezzo di chi è combattuto tra
l'odio e la più sporca compassione; avvicinarsi fino a
trafiggere il suo sguardo con i propri occhi di ghiaccio; e
sì, anche darle una sonora gomitata tra le costole,
all'altezza del diaframma.
[Og hvis de sparker os ned]
«Jørgen!»
«Oh, agente
Ørsted!» Disse il ragazzo, dandole un pizzicotto
su una guancia. «Ora sono l'agente Andersen, non
Jørgen!»
«Tu sei il
mio fratellone. Non posso chiamarti agente Andersen!»
Chi era ad avergli
detto che sarebbe stato meglio non lavorare con dei familiari? Oh, non
lo ricordava. In ogni caso, non si sarebbe mai ricreduto: lavorare con
la propria sorella minore era uno spasso!
«Andersen
è un cognome importante! Ricordi Hans Christian Andersen,
no?»
«Certo che
lo ricordo! Ma non lo trovo giusto.»
Le
stropicciò i capelli. «Non fare come la
principessa sul pisello! Muoviamoci, piuttosto!»
L'aria di Edimburgo
era satura di rumori, fumo e cenere, quella sera. E lo era quel pub,
stretto in una morsa di sigarette e bicchieri di alcol, dove avrebbero
dovuto incontrare il loro informatore.
Jørgen ed
Ester non erano stupidi. Certo, potevano sembrarlo, ma erano tutt'altro
che poco svegli. Uno dei loro talenti era illudere i nemici di trovarsi
davanti a una coppia di idioti ubriachi dal sorriso grande e dal
prurito forte alle mani.
Tuttavia, se loro
erano i proiettili infiammabili di un caricatore, se erano il re e tre
in una partita di briscola, Amàlia era un asso nascosto
dall'uniforme di una regina inglese. Alta, dall'aria attenta e
raffinata, come un'orchidea all'apice della fioritura, quando i petali
intrappolano con un caleidoscopio di colori i piccoli insetti
impollinatori, si era seduta al loro tavolo; e con lei s'era accomodato
il sentore di un ricordo, quello degli amici che si incontrano solo al
bar, raccontandosi quelle vecchie avventure tra un crostino intinto
nella zuppa e una pinta di birra. Un profumo rilassante, senza dubbio:
che ebbe tuttavia l'effetto opposto, dal momento che non avevano mai
frequentato una donna asiatica tanto affascinante - in
realtà, il tempo non era sufficiente perché
potessero costruirsi una vita sociale al di fuori dell'agenzia.
«Agente
Aviz?»
«In
persona.»
[Så si’r vi
Op igen – den sved]
Aveva programmato
tutto.
Copenaghen-Hong Kong,
Hong Kong-Macao. Con l'aiuto e la connivenza di Berwald, uno degli
agenti in sonno dell'agenzia, che aveva attraversato il ponte di
Øresund per aiutarla a lasciare il Paese, era sicura di
poter compiere il primo passo di quella missione. Inizialmente
controvoglia, poi coinvolto dalla situazione in cui versava il fratello
di Ester, lo svedese le fornì un nome, un cognome, una vita
nuova.
I giorni erano
scanditi con esasperante lentezza dalla macchina che monitorava le
condizioni di Jørgen, incosciente ormai da più di
settantacinque ore. Ore che scivolavano come delle lacrime mai espresse
sulle guance e sul collo.
«Drømte mig en
drøm i nat [1].»
Non si considerava
più un agente segreto. Tutto ciò che aveva scelto
di conservare della propria carriera nel settore erano le tecniche
insegnate nella palestra e al poligono di tiro.
Il suo nuovo cellulare
vibrò - era una sveglia che aveva inserito giorni prima.
Aveva già chiuso nel cassettone del proprio studio il
telefono che le avevano dato appena entrata nell'agenzia, e la chiave
di esso era stata fusa e buttata sul fondo del Mar Baltico.
Si alzò
dalla poltrona della propria casa, con un sospiro. Mentre attraversava
il salone, il suo sguardo accarezzò una fotografia sbiadita
di quando Jørgen e lei erano due marmocchi. Chiusasi alle
spalle la porta, scrollò la testa, riacquistando
lucidità e ottimismo.
Avrebbe stravolto le
strategie a cui erano abituati tutti i suoi colleghi. Si sarebbe mossa
al di fuori delle previsioni del proprio capo, e ne avrebbe pagato le
conseguenze con un sorriso strafottente e felice. Al diavolo il mondo
intero.
Una risata divertita
sbatté sulle sue labbra dalla gola. Tino e gli altri agenti
in sonno erano rimasti interdetti dai soldi che aveva chiesto loro in
prestito, ma anche loro, come Berwald, apprese le condizioni del
danese, si dissero che non avrebbero mai potuto persuadere Ester a non
partire per quella follia extracontinentale.
L'automobile cinerea
di Berwald l'aspettava all'uscita del condominio - lo svedese aveva la
solita espressione impassibile, come se non avesse mai imparato dai
sorrisi dei due fratelli danesi.
Gli occhi color
lapislazzulo di Ester adocchiarono una nuvola bianca, morbida come la
panna montata su una crêpe - da bambini, ricordò,
un giorno Jørgen e lei ne avevano fatto indigestione.
Amàlia si
tolse l'asciugamano dai capelli, adagiandolo sul tavolo del proprio
bagno.
Prese un pettine di
legno, e inforcò la prima ciocca di capelli scuri -
guardandosi allo specchio, sospirò per quei tagli sulla
gamba e sul collo. Adagio, si vestì e lasciò la
camera per recarsi nella cucina - un dim sum
l'attendeva, bollente.
Finalmente le avevano
concesso la possibilità di recuperare dei giorni lavorativi,
così avrebbe potuto dedicarsi a una delle proprie passioni
con la razionalità necessaria. In fondo, abitava vicino a
uno dei vecchi casinò, e da tempo non vi aveva messo piede:
era la buona occasione per distrarsi dalla frenesia della vita che
conduceva, e dall'offesa che il suo orgoglio aveva subito qualche
giorno prima.
Similmente a un
operaio che solo la notte può trovare la pace, tra le
lenzuola della propria camera o tra l'aria intrisa di frammenti di
grano e fumo di un locale, Amàlia lasciò, qualche
manciata di minuti dopo, il proprio quartiere, alzando lo sguardo verso
il cielo cobalto, illuminato a giorno dalle lampade degli alberghi e
dalle luci al neon dei locali, sparsi per la città come
lucciole metalliche in un bosco di slarghi e grattacieli.
Le strade erano
affollate, e vomitavano gente come tanti affluenti in piena.
Amàlia non era né particolarmente alta,
né facilmente riconoscibile, tra quei volti tutti
pressoché identici; però da quando mise piede
fuori dal proprio appartamento sotterraneo non abbassò mai
la guardia.
Quell'uomo di Hong
Kong poteva nascondersi dovunque. Nel giovane che l'aveva sorpassata
dandole uno spintone al braccio, nel gruppo di ragazzi là,
all'angolo di un vicolo, che gridavano e sghignazzavano per
chissà quale motivo. Non poteva permettersi un passo se non
ben misurato, non aveva il diritto di fermarsi a pensare, né
tantomeno quello di parlare con persone all'esterno del
casinò.
Nel palazzo dov'era
diretta, dopotutto, c'erano persone a cui interessava
l'incolumità della macaense; per quello che sapeva,
certamente, ma anche per la rapidità delle sue pistole e del
suo intuito. Per questo, una volta entrata, poteva ritenersi al sicuro.
Tanti turisti
ruggivano a voce bassa seduti ai vari tavoli da gioco - pochi i visi a
lei noti. Quasi le parve di aver vissuto assorbita dal proprio lavoro,
fino a quel momento, e fu difficile raggiungere le scale che portavano
ai piani superiori, dove avrebbe potuto osservare la situazione
più agevolmente.
«Signorina
Liu.» Una voce finalmente riconoscibile raggiunse la
macaense, che stava salendo proprio gli ultimi gradini.
Amàlia
alzò lo sguardo. «Signorina Lan.»
Rispose, con un inchino e un sorriso serafico.
«Per stasera
non potrò farvi compagnia. Sono attesa altrove.»
«Macao
sarà sempre sveglia per voi, signorina Lan. Ma non fatela
aspettare troppo.»
«Voi state
attenta. Chi colpisce per primo deve mantenere gli occhi aperti come
una civetta, signorina Liu.»
L'altra donna le
lanciò un cenno di cortesia, infine scomparve alle sue
spalle.
Non si
stupì delle parole di Pham Lan. Era una donna che conosceva
bene il mondo, e i suoi parassiti: qualcuno di quei vermi era
strisciato fino alle gambe della vietnamita e le aveva raccontato di
quella notte a Edinburgo. Poco male. Non avrebbe sprecato tempo a
spiegarlo ai suoi superiori.
Prese posto al suo
tavolo preferito - blackjack
- con l'aria composta e rilassata di chi ha previsto tutto, e si
sistemò gli occhiali.
Era abituata a sfidare
la sorte - ogni singolo giorno; giocare una partita con la sfortuna era
pericoloso, vero, ma divertente allo stesso modo.
Chiuse gli occhi, per
concentrarsi. Nel buio della gabbia delle palpebre, però,
lampeggiarono dei cerchi luminosi di vari colori, il cui raggio
aumentava e diminuiva mentre si spostavano disordinatamente nella sua
visuale, per poi formare un vortice di colori indefinibili
perché fusi insieme.
Appena le ciglia
inferiori e superiori si divisero, il sogno scomparve, e la luce
soffusa abbracciò i suoi occhi scuri. Erano trascorsi forse
dieci secondi, e i giocatori stavano aspettando la sua puntata, con
degli sguardi che avrebbero messo in soggezione uno di quei turisti
novellini.
Ma Amàlia
sorrise, indecifrabile, mentre le sue mani spostarono vicino al banco
le fiches.
Non aveva mai lasciato
perdere un sogno, che sembrasse premonitore o meno. D'accordo, forse
lei non avrebbe mai comunque abbassato la guardia, ma quella breve
visione la rese ancora più vigile, come un cane da guardia
che, quando scende la notte, appoggia il muso sulle zampe e gli occhi
sulle orecchie, pronto ad avvertire qualsiasi pericolo e rumore che
fosse anormale.
Tuttavia, nonostante
un udito sensibilissimo, non avrebbe mai potuto udire il suono di un
battello al largo dell'isola di Macao.
Era abituata alle
capitali europee, vecchie, inebrianti per quel loro profumo antico, che
sa di vecchio, ma un vecchio buono, come un vino d'annata o un liquore
maturato nell'inerzia di una bottiglia.
Invece, Macao era
frenetica. Era tutto un fervore, un tremito continuo e improvviso, che
rendeva le persone nervose; era un gioco di lampi fluorescenti, di
grattacieli che non tendevano più verso il cielo,
perché credevano di averlo raggiunto.
Non che le
dispiacesse. Amava il divertimento, le uscite e le bevute con gli
amici, le follie raccontate nelle storie da ubriachi; ma in quel
momento aveva solo voglia di raggiungere l'albergo, di stendersi sul
letto per concentrarsi e ripartire dopo un breve momento di riposo.
Arrivare a Macao non
era stato un viaggio comodo, specie nell'ultimo tratto, che aveva
dovuto percorrere su un battello partito da Hong Kong: ma tutto, tutto,
pur di trovare l'agente Aviz.
«What is less in less is more»,
canticchiò, buttandosi sul letto della propria stanza,
«What if God
won't bless the whore. What if words like boy and girl did not rhyme
with joy and whirl.»
Che cosa succederebbe
se, quelle parole la tormentavano, che cosa sarebbe successo se, che
cosa, che cosa. Ester aveva capito che la propria anima s'era agitata
fino a scatenare una tempesta, in cui era sbattuta in lungo e in largo,
senza trovare riposo, né pace. E anche quando la sua piccola
barca sarebbe affondata, quel maledetto disastro non l'avrebbe mai
lasciata andare, fino all'arrivo di quella nera compagna che
Jørgen aveva appena scorto.
A volte le sembrava
che le acque si calmassero. Però era solo una minuscola
consapevolezza, che ancora non sapeva ben definire; allora,
perché Ester non potesse esaminarla, le tempeste
riprendevano con più vigore, turbinando come il vento che
s'era spostato nella deflagrazione di quei tre maledetti proiettili.
Note
Autrice:
Bien, eccomi qui con
una piccola fanfiction - tre capitoli - tutta dedicata, ancora una
volta, a un ambiente di spie e agenti segreti.
L'idea di questa storia è nata per il contest a cui alla
fine ho partecipato, indetto da _Ayame_
e reilin
sul forum di EFP, [Hetalia]
La Fiera del Crack.
Inutile dire che prima di realizzare il risultato sono partita di testa per
la gioia, ecco! xD
Oltre al giudizio - che mi ha fatto notare che, nonostante le millemila
riletture, gli orrori mi scappano lo stesso -, le due giudici hanno
preparato dei banner adorabili sia per le storie che per i premi
speciali.
Il titolo della storia è anche il titolo di una canzone di Giorgio Gaber a cui sono molto legata: è speciale. Ecco, si spiegherà alla fine il motivo per cui è stato scelto questo titolo; tutto (o quasi) verrà al pettine, parola di Jo! C:
Questa storia ha anche ricevuto i premi Best Plot e Best
Couple Award, rispettivamente:
E questo penso sia tutto. C:
Vi ringrazio per esser giunti fin qui, che abbiate solo dato
un'occhiata alla pagina o meno.
Infine, al prossimo venerdì! E ricordate: Thank God It's Friday!
xD
See you soon! :D
claws_Jo
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