Memories Under the Lake

di Monique Namie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rosso tramonto ***
Capitolo 2: *** Il viaggio ***
Capitolo 3: *** Il ritorno ***



Capitolo 1
*** Rosso tramonto ***




Memories under the lake

1. Rosso tramonto


Il rosso del tramonto incorniciava la foresta lontana e si mischiava armoniosamente alla preziosità del giallo oro incespicante tra le nuvole. L’immobilità estatica del momento suggeriva il paesaggio come fondale di un’opera romantica o quanto meno soave e calibrata su temi distensivi. Tutto sembrava così naturale, che nulla poteva far sorgere il sospetto che si trattasse di un mondo fatto di pixel; ogni colore era stato scelto da un team di esperti per rendere il tutto perfettamente identico al mondo reale. Per coloro che ci vivevano dentro, l'illusione era così forte che la ragione non lasciava spazio a dubbi. Nessuno sospettava che le sfumature della terra polverosa, anch’essa rossa per la luce del tramonto, fossero state create a tavolino e che le nubi seguissero percorsi prestabiliti. Ogni angolo incontaminato di quel territorio sperduto era frutto dalle menti geniali di alcuni scienziati. Una persona nata dentro a quella finta realtà, avrebbe creduto senza dubbio di vivere nell'unica indiscutibile realtà.

Tra tutta quella natura apparentemente incontaminata, cinque mezzi della Providence profanavano l’autenticità del luogo con il loro grigiore metallico. Uno di essi, più appariscente degli altri, lungo più di una trentina di metri, varcava il cielo con una sfrontatezza raccapricciante, completamente incurante del fatto che la sua presenza interrompeva drasticamente la bellezza del tramonto. Con il suo anello metallico centrale di un diametro di circa dieci metri, appariva come un pianeta schiacciato e allungato dalla forza di gravità esercitata da un potente buco nero nelle vicinanze.

Con la sua presenza sembrava quasi voler sottolineare che per la Providence il sole avrebbe potuto aspettare alcune ore in più prima di eclissarsi e, allo stesso modo, le stelle e il moto di tutti i restanti astri non avrebbero mostrato nulla di contrario nel ritardare la loro comparsa.

Al centro dell’anello metallico che costituiva il nucleo del mezzo della Providence, si spalancò una paratia, dalla quale, la figura minuta di un ragazzo si lanciò nel vuoto: Rex adorava lasciarsi precipitare nel vuoto e ammirare, attraverso le lenti degli occhialetti protettivi, lo scenario della sua prossima avventura.

Frenando la caduta con il jet pack creato con i suoi nanites, atterrò in prossimità di un enorme cratere e osservò a malincuore quell’apertura sul terreno che assomigliava tanto alla porta dell’inferno. Sospirò. Possibile che non fosse riuscito a rifiutare nemmeno una missione pericolosa come quella. Il fascino e i modi affabili della dottoressa Holiday giocavano troppo spesso un cattivo effetto sulla sua mente; in quei casi sembrava quasi che non avesse più la facoltà di decidere personalmente delle sue azioni. Tuttavia ormai si trovava lì e l’unica cosa che gli restava da fare era quella di portare a termine la missione il più velocemente possibile.

Cercò la voce di Holiday attraverso la ricetrasmittente per chiedere conferma della modalità d’azione e dei mezzi che gli erano stati forniti in dotazione. Frugò nel marsupio ed estrasse una fune.

«Wow! Alta tecnologia!» Scherzò per sdrammatizzare. La voce lasciava trasparire un certo rammarico nell’aver accettato d’introdursi nella tana del nemico completamente disarmato.

«Sai che non puoi usare le tue armi, Rex. Qualsiasi tipo tecnologia metallica attiverebbe una reazione immediata nel sistema ricettivo degli insetti.»

«Ma io sono praticamente pieno di micro macchine!»

«I tuoi nanites sono troppo piccoli e molto spaziati all’interno del tuo corpo, non saranno in grado di percepirli… stai tranquillo.»

Rex si calò all’interno della tana buia e spettrale che rappresentava la casa provvisoria di quei mostruosi divoratori di metallo. L’unica luce che filtrava dall’apertura sovrastante era fioca e si disperdeva entro due metri.

Rex avanzò con una mano posta sopra il marsupio dove teneva una specie di aggeggio che serviva per recuperare e conservare un campione di feromoni degli insetti: l'obbiettivo della missione era quello, entrare nella tana del nemico e recuperare quanto serviva a Holiday per creare un siero che mettesse ko quei mostri.
Il buio si fece più intenso e quell’abisso aveva tutta l’aria di essere una trappola mortale. Per qualche interminabile secondo le tenebre inghiottirono le pareti del luogo circostante, poi la luce candida del neon attivato da Rex rischiarò l’ambiente. La sagoma terrificante di un insetto ripugnante appeso al muro comparve improvvisamente sulla parete a lato del ragazzo facendolo trasalire. Lunghe chele aguzze spuntavano in alto irte e minacciose; artigli mortali alla base della corazza lurida e impregnata di schifoso liquido appiccicoso. Una visione magnifica per gli studiosi interessati, un incubo per Rex che sollevò d’istinto le mani per proteggersi. Riuscì a trattenere a fatica l’istinto di creare una spada gigante per tagliare a pezzetti quei mostri. Uno di quegli insetti si stava brutalmente contorcendo come colto da un’improvvisa agonia. La corazza di questo iniziò a rompersi e dalla ferita uscì un duplicato identico e ugualmente schifoso.

Rex informò la dottoressa Holiday di quanto aveva visto.

«Mitosi! Recupera un campione ed esci immediatamente da lì!»

Holiday aveva ragione. Prima recuperava il campione di feromoni prima poteva andarsene da quel posto. Con una mossa incerta infilò la punta dell’aggeggio nel punto in cui i due insetti stavano terminando la scissione. La reazione fu fulminea; prima che Rex potesse spostarsi, uno degli insetti si girò verso di lui e gli sputò contro un liquido appiccicoso e putrido. Ce l’aveva dappertutto: sui capelli, sugli occhi, in bocca, sui vestiti. Era cosparso di disgustoso feromone d’insetto.

Si pulì il viso come poté con la manica della giacca e spuntò un paio di volte.

«Bleah! Che schifo!»

«Rex, che cosa è successo?»

Il ragazzo valutò la situazione. Si accorse di aver lasciato cadere il neon, lo raccolse e vide con stupore che gli insetti si stavano animando stuzzicati dal gustoso sapore emanato dai suoi nanites.

«Credo che abbiano deciso di farmi diventare la loro cena.»

In preda al panico non mirò nemmeno all’uscita; fece crollare una porzione di terreno sbattendoci contro con le ali meccaniche appena create ed emerse in superficie. La terra polverosa gli si era appiccicata sopra allo strato di feromoni rendendo i suoi movimenti più impacciati. A stento riusciva vedere dove stava andando.

Gli insetti ora sbucavano ovunque, salvano fuori dalla terra con l’agilità di spregevoli grilli assassini. Uno di essi addentò l’ala destra del mezzo volante di Rex e lo fece precipitare al suolo. Dal polverone sollevato in aria sbucò, pochi istanti dopo, una moto: Rex la guidava cercando di portarla alla massima velocità. Continuò così a procedere sempre dritto evitando gli innumerevoli attacchi degli insetti che sbucavano dal suolo, finché non notò davanti a sé una fitta foresta. Si preparò ad entrare fra la vegetazione sperando di seminare i suoi nemici una volta per tutte, ma la corsa durò poco.

Dopo qualche metro di boscaglia, il terreno terminava bruscamente lasciando il posto ad un immenso lago. Rex non riuscì a frenare in tempo e finì catapultato nel bel mezzo di esso. Sprofondò sott’acqua per qualche metro assieme al gruppo di insetti che lo seguivano a distanza ravvicinata. Sentì subito l’ossigeno mancargli; nuotò spasmodicamente per raggiungere la superficie e una volta riemerso prese una boccata d’aria a pieni polmoni. I capelli neri fradici gli erano finiti davanti gli occhialetti protettivi, se lì sollevò sopra la testa e osservò il cielo. Una squadriglia di insetti volava in formazione sospetta pronta a tuffarsi al recupero della cena appena perduta. Rex li vide fiondarsi a tutta velocità verso di lui. L’unica cosa che gli rimaneva da fare era immergersi di nuovo. Prese una boccata d’aria e si lasciò avvolgere completamente dall’acqua. Nuotò verso il fondo e dopo qualche bracciata si arrestò.

Doveva resistere, doveva rimanere sotto in apnea, ma non era per niente sicuro di potercela fare. Sentiva che stava per cedere e, una volta respirata l'acqua del lago, sarebbe stata fine. Rivide in un flash tutta la sua vita, tutti i suoi amici, i sorrisi delle persone care: il suo primo incontro con Circe, i suoi capelli neri con le punte rosse che ondeggiavano al vento; Holiday che lo rassicurava amorevolmente con il suo camice bianco impeccabile; Six che invece non sorrideva mai, ma che riusciva a modo suo a dimostragli affetto; Bobo il suo insostituibile compagno d’avventure. Tutti sembravano essersi riuniti lì per dirgli addio, mentre scivolava giù verso l’abisso del lago, sempre più in fondo.
I battiti cardiaci diminuirono progressivamente fino ad arrestarsi del tutto. Momento di stasi: l’attimo in cui tutto finisce, la luce sparisce, la voce si spegne e il mondo si annulla.

Rex smise di esistere pur non essendo mai esistito; perché anche lui, assieme al paesaggio e ai colori del cielo, faceva parte di un mondo di pixel confinato dentro una macchina, un mondo che era stato pensato e studiato per intrattenere. Sarebbe dovuta finire così: la dottoressa Holiday si sarebbe dimessa addossandosi tutta la colpa e, senza il siero da lei sintetizzato, gli insetti mangiaferro avrebbero lacerato le città del mondo per anni.








Note autore:
Come ho scritto nell'introduzione, questo primo capitolo è molto fedele allo svolgersi della vicenda narrata nel cartone. Nei prossimi capitoli invece troverete i nuovi personaggi di mia invenzione e la storia che conoscete sarà completamente stravolta. Commenti e critiche costruttive sono sempre i benvenuti. Probabilmente questo è stato un tentativo di convincere me stessa del fatto che, nonostante Rex sia solamente un personaggio inventato, è possibile che esista qualcuno come lui in una realtà alternativa.

Note sulla revisione:
Ho deciso in data 14/05/2015 di apportare alcune modifiche al racconto. Ci tengo ad assicurarvi che la revisione della storia non implica e non implicherà nessun stravolgimento totale della trama iniziale per come l'avete letta. Nella rilettura di ciò che avevo scritto a distanza di tempo, ho trovato degli errori che mi erano sfuggiti e che ora ho provveduto a correggere; oltre a questo ho modificato alcune parti per renderle più scorrevoli e ho aggiunto delle righe all'inizio del primo capitolo per accompagnare il lettore in modo meno brusco alla realtà che si prospetterà nei due capitoli seguenti.



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Capitolo 2
*** Il viaggio ***


2. Il Viaggio

Shona, venticinque anni compiuti da poco, si scosse sulla sedia tormentata dalla visione che le si era presentata allo schermo. I lunghi capelli di un biondo scuro tirati indietro e legati in una coda molto alta si accostavano perfettamente agli occhi verdi, così luminosi che sembravano scolpiti nella giada. Il corpo magro ma slanciato che testimoniava lunghi periodi di allenamento, era coperto da un abbigliamento semplice costituito da un paio di jeans e un maglione nero in fibra sintetica. A differenza di tutti i suoi colleghi, lei non indossava mai il camice perché lo considerava una costrizione imposta dall’eccesso delle regole.

«Chi ha avuto la brillante idea di strutturare i fotogrammi in questo modo?!» Proruppe con tono alterato, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

«Quelli della Men of Action1, credo.»

Shona si girò di scatto verso l’uomo che aveva parlato e lo fulminò con lo sguardo. Lasciando cadere quella discussione si rivolse direttamente al suo fidato collaboratore; un ragazzone enorme sui trent’anni, capelli folti e ricci, un paio di occhiali che lo facevano sembrare un secchione di prima categoria. Era soprannominato da tutti "il gigante buono".

«Rog, mi serve il tuo aiuto. Sai cosa fare in questi casi. Protocollo Tre.»

Il ragazzo si alzò dalla postazione su cui era chinato e si girò verso Shona sgranando gli occhi.

Rog era uno dei migliori tecnici del laboratorio. Conosceva a memoria più di una trentina di coordinate photospaziali2 e sapeva il rischio che si correva attuando il Protocollo Tre.

«Quel protocollo non è mai stato utilizzato fin’ora, non credi sia…»

«L’occasione giusta per iniziare? Sì, lo penso anch'io!» Disse Shona avvicinandosi sorridente. Poi lo afferrò per la manica bianca del camice e lo condusse verso il laboratorio dov’era custodita la strumentazione per i viaggi. Lui si lasciò trascinare: non poteva fare altro, il capo era lei.

La stanza era accessibile solo a Shona. Lei era la sola che potesse aprire la porta che conduceva verso quello che era il nucleo segreto dell’organizzazione; il computer posto all’entrata rilevò le sue impronte digitali, confermò il timbro della voce e scansionò la sua retina. Rog inserì il codice d'approvazione in suo possesso, così la porta automatica si sbloccò e schiudendosi lasciò intravedere al suo interno un mucchio di cianfrusaglie impolverate.

«Più ordinata della mia camera. Adoro questa stanza!» Scherzò Shona con un lieve sorriso sulle labbra. Rog era dietro di lei con espressione accigliata. «Spero tu sappia quello che fai.» Disse.

«Non ti preoccupare. Vai nella sala controlli, accendi le apparecchiature e tieniti pronto al mio segnale.» Poi si ricordò di un'altra cosa e tornò a rivolgersi a Rog che era rimasto lì immobile. «Ah, voglio un vestito verde per questa missione. Ci vuole equilibrio e armonia. Lascio decidere a te il modello e il design.»

Il ragazzone avvolto nel suo camice esitò qualche istante, poi annuì e sparì dentro una porta a qualche metro dalla stanza per i viaggi. Shona varcò il portone blindato appena aperto; le luci automatiche si accesero con un lieve ronzio mostrando il grosso blocco di ferraglia posto al centro della stanza. Un mucchio di cavi scendevano dall’alto e andavano a immettersi in appositi adattatori elettrici sulla sommità del marchingegno. Sulle pareti vi erano scatoloni sigillati e armadi di legno traboccanti di roba strana. Shona usava quel posto come cassaforte personale, era stata proprio lei a riempire gli armadi e a depositare quegli scatoloni dal contenuto top secret sul pavimento grigio e impolverato.

La ragazza aprì il portellone ermetico del macchinario facendo pressione su di una placca invisibile. I vecchi cardini arrugginiti cigolarono nel silenzio surreale di quelle quattro mura. Shona guardò verso la parete est dove Rog doveva essere appostato oltre il vetro oscurato della sala controlli. Alzò un braccio e fece segno con la mano di attivare il congegno entrò un minuto, poi entrò e si chiuse la porta alle spalle escludendo la luce dei neon che poco prima filtrava opaca all’interno del congegno.

Il tempo sembrava passare a rallentatore. Shona attendeva che succedesse qualcosa. Era la prima volta che provava quella macchina e al suo interno non c’era niente che potesse indicare con certezza se lo spostamento photodimensionale fosse effettivamente già avvenuto o no.
Era possibile che Rog nella sala controlli stesse esitando ad attivare il meccanismo.

«Diavolo, Rog! Dopo facciamo i conti se non ti sbrigh!» Sussurrò Shona mentre si passava la manica della maglia sulla fronte un po' sudata per la tensione.

Improvvisamente fu invasa da una stranissima sensazione di smarrimento. Cercò le pareti con le mani, ma non le trovò più. Non sentiva più nemmeno il pavimento sotto ai piedi. L’atmosfera era buia e impregnata dal classico odore tipico degli ambienti rimasti chiusi per troppo tempo. Ogni volta che inspirava, quello schifoso gusto d’aria malsana sembrava arrivargli fino al cervello.

Dopo i primi attimi la sensazione cambiò: ora a Shona sembrava di essere in un ascensore che scendeva a tutta velocità verso terra. Era un po’ come buttarsi da un aereo in piena notte, una notte senza luna, senza stelle e senza vento.

Finalmente l’odore dell’atmosfera stantia sparì. Il nero si fece meno denso e comparvero delle graziose sfumature blu e azzurre. Gli occhi iniziarono a bruciarle come se fosse entrato del sapone. Provò a muoversi, ma aveva le braccia e le gambe intorpidite. Quando cercò di trarre un altro respiro per poco non soffocò, perché l’acqua gli entrò nel naso e nella bocca. Una marea di bollicine d’ossigeno l’avvolsero offuscando tutto per qualche lunghissimo secondo. D'istinto cercò di nuotare verso la superficie che sembrava lontanissima, ma i movimenti risultarono un goffo divincolarsi privo di direzione. Nella confusione e nella foga andò a scontrarsi contro qualcosa. Con la vista intorpidita riuscì a distinguere solo un vago colore rosso, quello che bastò per farle capire di cosa si trattava, o meglio di chi. Fu lui, Rex, a darle la forza necessaria: lo afferrò e si lasciò spingere in superficie dalla pressione dell’acqua.



La dottoressa Holiday controllava meticolosamente gli ultimi dati rilevati dall’apparecchiatura di bordo. Non lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma si sentiva terribilmente in colpa per aver mandato Rex contro un così grande pericolo. Si portò le due mani sulla testa e chiuse gli occhi cercando di calmarsi e ragionare con lucidità. Quando sul monitor del computer comparve la faccia del Capitan Calan, Holiday tornò improvvisamente ricomposta, appoggiò le mani sul tavolo e trasse un profondo respiro.

«Abbiamo qualche novità dalle squadre subacquee?» Chiese diretta verso lo schermo.

La risposta di Calan non fu per niente tranquillizzate. «Non lo abbiamo ancora trovato, sembra quasi che si sia volatilizzato.»

Lo sguardo Holiday lasciò trasparire un misto di rammarico e speranza.

«Manda sotto altre due squadre di uomini e avverti la terza di stare pronta. Io stessa mi unirò a loro.» Holiday chiuse così la comunicazione e si lasciò scivolare sullo schienale della poltroncina. Non c’era modo di scendere a terra con i mezzi perché la zona era ancora presidiata da centinaia di insetti mangia-ferro. Era necessario tenersi a distanza di sicurezza e paracadutarsi con indosso la muta e le bombole direttamente sopra al bacino lacustre, sganciare poi l'imbragatura del paracadute e immergersi velocemente nell'acqua. L’impresa era parecchio rischiosa, ma non poteva abbandonare Rex, in qualunque stato esso si trovasse. In fondo era stata tutta colpa sua.



A qualche metro dalla sponda opposta del lago, nascosta dalla vegetazione, Shona giaceva immobile sul terreno polveroso. Il viso rivolto verso il cielo dove iniziavano di già a comparire le prime pallidissime stelle in un cielo ancora troppo chiaro.

Era scossa dai brividi, i capelli fradici appiccicati al viso, gli abiti anch’essi inzuppati lasciavano penetrare la brezza serale fino alle ossa. Appoggiò la testa di lato sul terreno polveroso: Rex giaceva prono in parte a lei con la faccia sporca di terra, i capelli neri che gocciolavano. Vedendolo per la prima volta, il volto di lei s’illuminò e non riuscì a trattenere un sorriso d'ammirazione. La missione era stata un successo.

«Rex! Rex Salazar svegliati, sto parlando a te!»

Shona si sollevò da terra con i gomiti e scosse il ragazzo afferrandolo per la giacca rossa. Rex non dava segni di vita. Tentò per qualche minuto di rianimarlo ma fu tutto inutile; il sorriso le si spense lentamente e profondò nello sconforto. Non poteva finire così. Doveva attuare la seconda parte del piano.



Mini-glossario:
1-
Men of Action è lo studio di produzione del cartone animato di Generator Rex.
2- Le coordinate photospaziali fanno parte della tecnologia photodimensionale, una particolare tecnologia fantascientifica inventata da me che permette alle persone reali di entrare nei pixel dei cartoni animati e interagire con i personaggi dell'animazione.

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Capitolo 3
*** Il ritorno ***


3. Il ritorno

Quando Rex cominciò a svegliarsi avvertì il terreno aspro sotto di lui. Strinse i pugni nella polvere iniziando lentamente a riacquistare la sensibilità delle gambe. La testa gli doleva e i timpani gli rimbombavano come se fosse stato per ore davanti ad una potentissima cassa stereo dalla quale uscivano onde sonore superiori a centodieci db.

Non sapeva per quanto tempo avesse dormito, lo shock gli aveva fatto perdere la cognizione del tempo. Aprì impercettibilmente gli occhi e i raggi del sole lo accecarono come un flash. Rimase immobile per qualche minuto, il tempo necessario perché gli occhi si abituassero all’intensità delle onde fotoniche. Alzò la testa, poi facendo leva con i gomiti si portò seduto.

Davanti a sé c’era un lago ma era diverso da quello in cui ricordava di essere annegato. Annegato? Il pensiero gli provocò un lieve malessere che riuscì a controllare abilmente. Ricordava ancora gli attimi prima di perdere i sensi in fondo al lago: la vita ripercorsa in pochi ma intensissimi frammenti.

«Ti sei svegliato finalmente!»

Rex si voltò a guardare alla sua destra da dove era arrivata la voce. Non si era accorto che di fianco a lui era inginocchiata una ragazza vestita di verde. Appena la vide avrebbe voluto porle un’infinità di domande, ma con la mente confusa e annebbiata riuscì a pronunciare solo due misere parole.

«Chi sei?»

«Io sono venuta per salvarti. Anche se sarebbe più corretto dire che sono qui per convincere i tuoi nanites a salvarti.»

La ragazza sorrise fissandolo per qualche istante, poi fece scendere lo sguardo in basso per esaminarlo dalla testa ai piedi. Rex si accorse dell'espressione perplessa con la quale veniva osservato e controllò a sua volta cosa c’era che non andava in lui. Era completamente fradicio e sporco di fango, la maglietta gli si era appiccicata al corpo, la giacca sporca e imbrattata era diventata un peso inutile, la tolse e la lasciò cadere.

«Devo tornare alla base!» Disse improvvisamente alzandosi in piedi. Shona si alzò a sua volta e gli prese un braccio per fermarlo.

«Qui non c’è nessuna base. La Providence non esiste ancora e i nanites che sono parte integrante degli esseri viventi, non sono ancora stati sparsi nell’atmosfera. Tu sei l’unico che ha dentro di sé microtecnologia intelligente. Hai rischiato di morire per colpa della negligenza operativa di un gruppo di scienziati smidollati.» Quell'ultima frase era scollegata al resto e l'aveva pronunciata in un impeto di rabbia subito celato.

Rex si portò un mano sui capelli che gocciolavano arruffandoseli un poco perché il sole glieli asciugasse meglio.

«Scusa, ragazza misteriosa, ma non ti seguo. Ricordo di essere venuto qui in missione per recuperare qualcosa.»

«Beh, lascia perdere tutto quello che la mente ti suggerisce e ascoltami. Questa realtà è diversa dalla tua. È un posto di stasi fuori dal tempo, è l’attuazione della seconda parte del Protocollo Tre... »

« Protocollo Tre?!»

«Voglio dire che quello che vedi è un mondo controllato dagli scienziati della mia organizzazione.»

«Ma bene, pensavo che Breach fosse l’unica a parlare in modo strano.» Replicò Rex. Poi si alzò e controllò in giro. Non c’era anima viva. Spirava un lieve venticello da nord, il lago era immobile quasi l’acqua fosse stata dipinta su una tela. Gli alberi erano troppo perfetti, davvero troppo perfetti. Ogni foglia pareva la copia dell’altra, stesso colore, stessa dimensione, nessuna imperfezione causata dalle intemperie. L'aria era pura ed effettivamente priva di nanites.

«Rex, ti prego abbiamo poco tempo. Devi ascoltarmi. Lo so che non hai mai permesso a nessuno di dirti cosa fare, ma questa volta devi mettere da parte la testardaggine e l’orgoglio.»

Il ragazzo si girò con un sguardo confuso. Decise che chiunque fosse quella ragazza, valeva la pena di sentire cosa voleva da lui. «Non so nemmeno come ti chiami.»

«Shona.» La ragazza fece qualche passo verso Rex e gli porse la mano sorridendo speranzosa. Lui esitò qualche istante e poi afferrò sua la mano.

***

Quante persone ci sono al mondo! Ogni persona segue una strada, incontra qualcuno, si crea una storia. Il tempo e lo spazio dividono le vite che si sono unite. Alcuni si rincontreranno, altri si saluteranno come tutti i giorni per poi non rivedersi mai più. E il mistero che tiene unito questo sistema di regole incasinatissime sta tutto in una formula matematica.

«Mancano dieci minuti al ritorno.» Disse Rog controllando le apparecchiature. L’eco delle sue parole rimbombò nel vuoto della stanza.

Shona stringeva la mano di Rex i cui nanites cominciavano a rispondere. La sensazione di calore che l’avvolgeva era un’illusione. Lasciò la presa e avvicinandosi un po' di più gli mise la mano destra sulla fronte.

«Chiudi gli occhi. Dovresti sentire i tuoi nanites attivarsi dentro di te. Sei tu che glielo ordini, loro non possono disubbidirti. Attivali e ricomincia a vivere!» Shona chiuse gli occhi a sua volta. Quando li avrebbe riaperti, sapeva che Rex non sarebbe più stato lì e che si sarebbe ritrovata dentro al macchinario fantascientifico da cui era arrivata. Nel mondo reale non c’era posto per Rex, come in quel mondo di mezzo, fatto pixel non c’era posto per Shona.

Stava per lasciarsi cadere nell’oblio quando sentì sulle labbra qualcosa di morbido, umido e piacevole: un bacio.

Aprì gli occhi di scatto e si ritrovò nell’interno buio di quattro mura metalliche. Shona spalancò la pesante porta in ferro del congegno per i viaggi dalla dimensione reale a quella dei pixel e l’interno fu invaso da una luce bianca. I neon erano rimasti accesi da quando era entrata la prima volta. Chissà in realtà quanto tempo era passato?

Il silenzio e il senso di smarrimento che le stringevano l’anima cessarono quando dall’interfono gracchiò la voce di Rog. «Shona. Chiedo aggiornamenti sulla missione.» Disse il ragazzo, che non aveva lasciato per un secondo le apparecchiature della sala comandi.

Shona esitò un attimo assaporando quello strano sapore che si stava affievolendo sulle labbra.

«Shona? Mi senti?»

«Sì... Missione compiuta. Ma avresti dovuto capirlo dai dati negli schermi di riflesso.»

«Sono saltati! Proprio qualche secondo prima che tu ritornassi!»

Shona si diresse verso l’uscita e una volta in corridoio attese Rog che non tardò a chiudere le apparecchiature e a raggiungere la collega con un sorriso compiaciuto. «Dopo questa avventura quelli della Men of Action dovranno come minimo darci un compenso straordinario.»

«Io non ci conterei.» Replicò Shona. «Salvare uno dei loro personaggi principali da un paradosso photodimensionale è una faccenda seria, ma i creatori troveranno una scusa per criticare il nostro lavoro… come sempre.»

La ragazza abbassò lo sguardo pensierosa.

«C’è qualcosa che non va?» Chiese Rog.

«Pensavo… chissà se Rex si ricorderà di me.»

Rog non aprì bocca e il dubbio pervase i corridoi della sede segreta dei collaboratori speciali della casa di produzione di cartoni animati americani. La triste verità era che Rex non avrebbe mai ricordato. Shona lo sapeva, ma non voleva crederci. Sapeva del sistema di protezione degli eventi che impediva, in casi come quelli, al personaggio tratto in salvo di ricordare quanto accaduto nella dimensione di stasi. Se il ricordo fosse sopravvissuto, probabilmente la continuità degli eventi sarebbe stata in serio pericolo.
Shona si occupava di quel lavoro da qualche anno, ma quella era la prima volta che scendeva in campo di persona. Gli universi secondari creati dalla fantasia dell’uomo avevano i loro eroi nascosti sotto le spoglie di una comunissima centrale per il convoglio dell’energia elettrica e lei ne era a capo. Si diresse verso il laboratorio dove le spettava il lavoro di sempre. Sorrise mentre nell’inconscio sperava di affrontare presto una nuova missione speciale nel mondo di Rex.

***

Rex si svegliò in un lettino freddo circondato da apparecchiature diagnostiche. Holiday gli si fiondò addosso sorridendo sollevata.

«Rex! Come ti senti?»

Il ragazzo si guardò attorno cercando di capire. «Cos...Cos’è successo?»

«Ti abbiamo recuperato dal lago. È un miracolo che tu sia ancora vivo. Nessuno è mai resistito tanto.»

Rex fece per alzarsi ma, non appena il lenzuolo che lo copriva scivolò giù, si accorse di non avere niente addosso. «Dove sono i miei vestiti?!»

Holiday indicò una cabina di vetro con degli abiti appesi. «Dovrò esaminarli nella speranza di trovare una minima traccia di feromone d’insetto.»

Rex si nascose di nuovo sotto al lenzuolo imbarazzato al pensiero che Holiday lo avesse visto nudo. La dottoressa sorrise e uscì della stanza.

C’era qualcosa che non tornava nei ricordi di Rex. Ricordava l’inseguimento, l’essere finito dentro al lago e poi la comparsa misteriosa di quella ragazza, Shona. E le sue labbra morbide che lo avevano attratto un momento prima che tutto svanisse nel buio. Poteva essere stato tutto un sogno o il frutto di un’illusione. Tuttavia il ricordo gli diede una sensazione positiva.
Indossò il primo camice che trovò a disposizione per coprirsi quanto bastava e andò verso la sala di comando immerso nei pensieri.




The end





Note e ringraziamenti

Non mi stupirei se qualcuno mi facesse notare che in realtà il finale non è un finale. Odio i finali. Mi piace che il lettore continui a pensare per trovare da sé la conclusione che più gli aggrada, per questo la fine del racconto è lasciata aperta a varie interpretazioni. Spero di avervi suscitato un minimo di interesse e di non avervi deluso. Leggerò molto volentieri i vostri pensieri, se avrete voglia di farmeli sapere. Sono benaccetti commenti e critiche costruttive.

Un grazie speciale tutti quelli che si sono trovati a passare di qui e hanno deciso di leggere i tre capitoletti fino alla fine. Un altro sentito "grazie" va anche a chi ha deciso di dedicarmi un po' del suo tempo lasciando una breve recensione. :)


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