Kyoto, 1865

di Melitot Proud Eye
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo I ***
Capitolo 2: *** Sfavorevoli coincidenze ***
Capitolo 3: *** Prologo II ***



Capitolo 1
*** Prologo I ***


Nota dell'autrice: [editato 14/08/15]
Ebbene sì... manca ancora un capitolo alla conclusione de
La via della spada e comincio già una nuova storia XD E' terminata, per la cronaca; salvo impedimenti dovrebbero esserci aggiornamenti regolari. Sarà composta di sette parti, in paragrafi numerati alla romana - così vi tenete in pari col latino ;-) E Kenji sarà ancora il protagonista. Se vi è piaciuto Ritorno al futuro...
Buona lettura!
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Kyoto, 1865





Prologo I




Nell'aria primaverile si mescolò un soffio freddo, quella vaga ma reale presenza di pericolo che il samurai conosce istintivamente. Come l'ombra di un aggressore oltre l'angolo.
Di ombre il sole ne proiettava tante, quella mattina: pezze d'innocua frescura sull'erba del giardino e sul legno dell'engawa. Sulle prime Kenshin rimase interdetto – con gli anni era diventato naturale, per lui, associare la casa alla sicurezza e più difficile tendere l'orecchio oltre, per riconoscere un passo furtivo. Anche se non avrebbe mai scordato l'amaro sapore di una premonizione.
Distolse lo sguardo dal libro dei conti per posarlo sul portone, ancora spalancato. La strada al di là era deserta.
Shinta e alcuni amichetti attraversarono di corsa il giardino, schiamazzando. Dall'altro lato della casa provenne la voce di Kaoru che congedava gli allievi dall'ultima lezione; ridevano, rilassati. Li salutò anche la voce di Inoi, che poi comparve oltre l'angolo della palestra col suo bel kimono rosso.
Kenshin rimase in ascolto, teso. Niente.
Forse era stata un'impressione.
Un venticello sfogliò le pagine del libro mastro. Quando fu sul punto di rilassarsi, udì quei passi.
Oh, erano familiari e non troppo graditi. La loro cadenza dinoccolata gli faceva pensare sempre a cattive notizie e di riflesso quindi si alzò, corrugando la fronte. Una visita di (s)cortesia? Oppure qualche nuovo guaio, qualche nuova congiura, qualche–
Quando l'alta sagoma di Saito comparve nel vano del portone, proiettando un'ombra lupina sul sentiero, Kenshin trattenne il respiro. L'ispettore teneva fra le braccia Kenji, pallido e privo di sensi.
Kenshin lasciò cadere tutto e si precipitò da loro.


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Capitolo 2
*** Sfavorevoli coincidenze ***


Nota: [edit 21/8/15]
Qui coinceremo a capirci qualcosa ^^ a proposito, volevo dedicare la fic a Killkenny, che ha pazientemente recensito e supportato
La via della spada... e continua ad essere un fan attivo di Slayers ;-)
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1
Sfavorevoli coincidenze




I.

Non aveva previsto una passeggiata al commissariato, quel giorno. Parola d'onore.
Picchiò la punta della bokken contro l'intonaco del muro di una casa, incitando la vecchia che lo precedeva a proseguire. Anche a debita distanza, il suo fetore rischiava di soffocarlo: era fango misto a sudore e strane spezie, impiastricciati nella crocchia di capelli grigi, nei cenci che indossava, nel fagotto lercio che si trascinava dietro. Ecco il quadro dell'ultima, indesiderata fatica di Kenji Himura.
Sì, c'erano stati tempi migliori.
Giunta ai gradini grigi della stazione di polizia, la vecchia si volse con fare mellifluo, sfregando le mani nodose l'una contro l'altra. Kenji corrugò la fronte, indicandole l'ingresso con uno scatto della testa.
Dentro l'edificio trovarono manovali, una guardia e in fondo al corridoio un comune poliziotto che tentava di non provocare l'ira di Saito (tentativo inutile). Nell'incontrare gli occhi del Lupo, Kenji aggricciò il naso.
«Bene bene, guarda cos'abbiamo qui» disse Saito, laconico, dopo un tiro di sigaretta.
La megera s'irrigidì.
«Quella non è la strega di cui parlavano i giornali?» esclamò il poliziotto comune.
«Rubava dalle case» interloquì un altro. «E seguiva i bambini...»
Saito alzò le braccia, placando gli animi. «Silenzio. Tu, portala dentro.»
La guardia sopraggiunta squadrò la donna, poi le indirizzò un cenno brusco; lei si mosse strisciando i piedi. Kenji la guardò allontanarsi con non poco sollievo.
«Dove l'hai trovata?» disse Saito.
«Al tempietto.»
«Si nascondeva là?»
Kenji scosse la testa. «No, ci vado spesso. Me ne sarei accorto.»
Saito non commentò. Si limitò ad aspirare un'altra boccata di fumo e a soffiargliela in faccia. Kenji si impose di non tossire.
«Se non hai altre domande io me ne vado» sbottò.
Da quando aveva iniziato a "contribuire alla sicurezza del quartiere" e quindi ad aver incontri frequenti con Saito, capiva bene perché suo padre fosse facilmente irritato dall'individuo. Girò sui tacchi senza aspettare un congedo.
In quel preciso istante scoppiò il caos. Si volse giusto in tempo per vedere la guardia carceraria di prima cadere sotto proiettili piumati.
Che cos–
Pur muovendosi d'istinto, non riuscì a liberare la bokken dalla cintura – cozzò col gomito contro il bordo di una sedia.
Un dardo lo colpì al collo.
«Ahi!»
C'erano odore di incenso e fogli volanti dappertutto. Saito ruggiva ordini.
Kenji fissò la vecchia ad occhi sgranati: salmodiava a mezza voce e lo additò, ghignante.
«Pagherai nel Viaggio
Un poliziotto le si gettò contro e lei soffiò in una cerbottana lunga e sottile, costringendolo a gettarsi di lato. Approfittando della distrazione, Saito la mise fuori gioco con uno schiaffo.
Il mondo s'inclinò, facendo schiantare Kenji sulla scrivania dell'usciere.


II.

Sfondò l'intelaiatura con un gran fragore, rotolando fra chiodi e schegge. Quando un bordo sporgente fermò la sua caduta rimase sul pavimento a occhi chiusi, intontito; il nuvolone di polvere che aveva sollevato quasi lo soffocò. Tossì per minuti interminabili, poi lasciò ricadere le braccia sul pavimento.
C'era puzza di muffa.
«Ugh... che botta.»
Cosa diavolo gli aveva fatto la vecchia? Cosa c'era sulla freccetta?
Perché era dovuto capitare a lui, che qual giorno aveva solo voluto recuperare la sciarpa lasciata al boschetto?
E soprattutto, perché nessuno lo aiutava ad alzarsi?
Dolorante, sollevò una palpebra. Al posto della scrivania, dell'atrio soleggiato della stazione di polizia e della faccia agra di Saito, vide una finestra. Il cielo nuvoloso sopra la tettoia che la proteggeva era immenso. Si raddrizzò di scatto.
«Ow.»
La finestra era sfondata; e lui era ricoperto dei suoi frammenti. Aveva rotto quella.
Aveva sfondato una finestra invece di una scrivania, finendo fuori, su un tetto. Il tetto in questione apparteneva a una casa abbandonata e lui era quasi a filo grondaia, seduto sopra tegole malferme, appena fuori da una stanzuccia spoglia. Un po' diverso dal commissariato, come posto. Decisamente più ripido.
L'eco della caduta lo abbandonò, lasciandolo nel silenzio della sera. Kenji si tastò la fronte e si guardò intorno, confuso. Quello doveva essere un sogno, il sogno più panoramico che avesse mai fatto. Sicuramente aveva un bel bernoccolo, nel mondo della veglia. Magari era già stato portato a casa e smaltiva chissà quale impacco o infuso di zia Megumi.
Con precauzionale – pur se dubbiosa – attenzione al precipizio, si tirò verso il davanzale, entrò nella stanzetta e si appoggiò alla parete di legno. Dopodiché incrociò le braccia e chiuse gli occhi, sperando che addormentarsi nel sogno lo facesse svegliare.


III.

Vaghe impressioni di vento. Ombre di stormi.
Nel buio, caldo e silenzioso, una scia color miele. La sensazione solida del legno, un formicolio...
Il sole sul viso.
Quel tocco pungente lo svegliò, inesorabile. Si fece schermo con una manica; tanta luce poteva significare solo due cose: o si trovava ancora al commissariato nell'ora prima del tramonto, oppure era a casa, di mattina, e Inoi aveva di nuovo aperto lo shoji che dalla sua camera dava sul giardino. Sperava per lei di no.
Pian piano riacquistò sapienza corporea e corrugò la fronte: era accasciato contro una parete.
Ma che...
Era mattino, va bene. E lui si trovava ancora sul tetto del sogno. Quel maledettissimo tetto.
Nel percepire il bruciore di un graffio, fin troppo nitido, sospirò. Doveva essere uno di quei sogni pesanti, uno di quelli che non riuscivi ad abbandonare finché non erano diventati stupidi incubi.

Le camere della casa erano silenziose, intessute di polvere e tristezza; sembrava non ci entrasse anima viva da molto tempo. Su ogni piano mobili mangiati dai tarli giacevano fra stoviglie, rotoli di pitture sbiadite – fragili come ali di farfalla – e l'occasionale cumulo d'intonaco, polverizzato dall'umidità insieme alle cortine di bambù che avevano oscurato le finestre. Gli intrecci sfatti del tatami frusciavano sotto i suoi sandali.
Una scala scricchiolante dopo l'altra, raggiunse il pian terreno. Lì i segni dell'abbandono erano più marcati e intrusioni clandestine avevano lasciato ogni sorta di rifiuto: bottiglie, carta, hakama stracciati, le piastrelle di un focolare improvvisato... in un angolo, persino il fodero di una spada. Chissà quanti volti s'erano avvicendati nel recare degrado.
Chissà cos'avrebbero pensato coloro che avevano costruito e amato quella casa, se avessero potuto vederla ora.
Avvolto da una calma onirica, Kenji uscì nel giardino, ormai restituito alle erbacce e agli animali. Il sole fu coperto dalle nuvole.
Dal tetto aveva potuto scorgere poco della strada; adesso, uscito dal muro di cinta, capiva di trovarsi in un vecchio quartiere nobile, così cadente da essere deserto. Possedeva tratti familiari, ma era sicuro di non averlo mai sognato prima. Peccato. A volte, nei sogni ricorrenti, riusciva a guidare gli eventi nella direzione che preferiva. Era divertente.
Con un ultimo sguardo alla villa, imboccò la via diretto verso nord.

Sassi, muriccioli, bambini che giocavano. Nel quartiere popolare vicino i cortili avevano fili di panni stessi e donne a chiacchierare sugli usci. C'era qualcosa, nell'aria... erano gli abiti e certi negozi e il modo in cui il suo corpo riceveva ogni impressione. Era il pizzicore dei graffi. L'abbaio assordante di un cane.
Rallentò, incerto. Forse doveva prendere l'iniziativa, entrare in una casa ed esplorarla senza sapere a chi appartenesse. Di solito funzionava.
Ma in quel sogno le cose non erano facili come negli altri. Qui ogni passo era lento, misurato, e non bastava pensare a un altro luogo per trovarcisi. In realtà aveva oltrepassato pochi bivi. Sarebbe stato in grado di percorrere la strada a ritroso senza problemi.
Il sole andava e veniva. Due asini di passaggio a un incrocio, carichi di legna, alzarono nuvole di polvere che lo fecero tossire.
L'acqua della fontanella in fondo alla strada era fresca come l'ombra di un pergolato.
Il bambino che gli finì addosso sbucando da un viottolo finì per gettarlo a terra. E Kenji, mentre lui si scusava, s'accorse di non averne avuto la premonizione come doveva succedere nei sogni. Era successo e basta.

Non era un sogno. Non poteva esserlo.
Ormai era difficile fingere di non essere sveglio, perché la realtà fisica della piazza rifiutava qualsiasi illusione. Troppa gente, troppo rumore. Kenji si passò una mano sugli occhi, stanco, ma ora decisamente all'erta.
Riconosceva la città. Oh, c'era stato tante volte... e il problema non era neanche il modo in cui ci era arrivato.
Fissò il giornale, in pratica un foglio, piegato su un banchetto. La proprietaria discuteva con foga degli avvenimenti.
Avvenimenti del 1865.
Che stava succedendo? Che scherzo era?
1865.
E' un complotto. Dev'esserci di mezzo Saito...
Con la massima calma, ordinandosi di non pensare troppo a quel che vedeva, girò su se stesso e si mosse nella direzione in cui sapeva che avrebbe trovato l'Aoiya.

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Capitolo 3
*** Prologo II ***


[edit 21/8/15 dai che ci lavoro di nuovo!]
Nota
: lolol... rileggevo l'intro al primo prologo, quando me ingenua diceva che ci sarebbero stati aggiornamenti regolari. Sono passati tre anni XD

Complici un po' l'università, un po' il dover ricopiar tutto dagli appunti cartacei e il fatto che il tempo vola (ma vola davvero), questa fic è scivolata in quinto piano molto presto. In seguito il mio stile è cambiato, quindi pubblicarla significava riscriverne una bella fetta... quindi sono subentrati altri fandom... non ero più soddisfatta dello sviluppo della trama...
Non so neanche perché la stia aggiornando, tutto sommato ^^;
(Ma chi vuoi che legga, Mel?)
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Prologo II



Nubi nere incombevano sul tetto del Kamiya dojo, ancora una volta. Cinque persone erano riunite nella stanza del figlio maggiore, intorno al suo futon, chi inginocchiato chi in piedi, tutti in silenzio ad attendere il verdetto medico. Megumi abbassò lo stetoscopio e si raddrizzò con una smorfia, affaticata dalla gravidanza.
«E' un allucinogeno.»
Kaoru si protese in avanti, pugni stretti sulle ginocchia. «Che tipo di allucinogeno?»
E Kenshin, allo stesso tempo: «Che effetti ha?»
«Non lo so» rispose Megumi.
«Quando si riprenderà
Con un sospiro stanco, la donna si sfregò le palpebre. «Non lo so.»
I due genitori si scambiarono uno sguardo, pallidi. Yahiko scrutò prima Saito (appoggiato alla parete, torvo, katana al fianco) e poi il suo fratellino adottivo, febbricitante sul futon.
«Come fai a non saperlo? Sei il miglior medico del Giappone!»
«Ti ringrazio, anche se non è vero. La sostanza che ha usato la vecchia è una miscela di molte piante: ho bisogno di più tempo per scoprire quali.» Poi, a labbra strette: «Mi dispiace.»
In quell'istante, Kenji sussultò. Mentre il suo corpo si contraeva, arcuandosi verso il soffitto, sulla sua fronte si gonfiò un ematoma che si spaccò. Un rivolo di sangue gli scomparve nei capelli. Altri graffi e spellature gli segnarono le mani, una clavicola, le guance.
«Che succede?» sussurrò Kaoru, bianca. «Megumi, che sta succedendo a mio figlio
Pian piano, il respiro del ragazzo si calmò e i muscoli si rilassarono.
«Sembrano i postumi di una caduta» disse Kenshin, atono come sapeva esserlo solo nei momenti di tensione più grande. «Non è un semplice allucinogeno.»
«E... e se fosse un veleno?» azzardò Yahiko.
Megumi tacque, occhi sgranati sul suo paziente. «No» mormorò alla fine, «nessun veleno ha questi effetti... e nessun allucinogeno.»
Fu la voce di Saito a offrire una risposta. «Lo so io cos'è.»
Si volsero nella sua direzione, stupiti. Lo stupore virò presto in ostilità.
«La responsabilità è tua» fece Kenshin, sempre più calmo. «Era in questura quand'è successo. Hai permesso che quel proiettile lo colpisse.»
«Himura, io non rispondo dei figli altrui che provocano i criminali. Il tuo, se non è in grado di badare a se stesso, dovrebbe girare al largo dal lavoro della polizia. Che colpa ne ho se va a cercarsi maestri di tecniche estinte?»
In un momento del genere, con una rivelazione del genere e Saito che si comportava da Saito, la cosa migliore era incassare e rimandare.
«Una tecnica
«E' un'antica punizione creata dai ninja del periodo Sengoku. La si credeva perduta insieme al veleno che la infligge, ma qualcuno ha conservato i segreti dell'arte, a questo punto è evidente. Ne sentii parlare durante i miei anni da Shinsen.» Non si lasciò scoraggiare dagli sguardi d'incredulità, di dubbio e di sarcasmo. Anzi, sogghignò, addentando una sigaretta. «Separa lo spirito dalla coscienza. E lo manda in "Viaggio".»
«In viaggio?» ripeté Kaoru. «E non azzardarti ad accendere quell'affare!» aggiunse, riprendendosi.
Le labbra di Saito si curvarono appena più in su; ma i fiammiferi sparirono in tasca.
«La vittima sembra dormire; in realtà, il suo spirito vive una vita parallela, realistica in tutto e per tutto. La mente da una parte, il corpo dall'altra, ancora legati naturalmente, per cui il corpo subisce gli effetti che il malcapitato sperimenta altrove.»
«E' impossibile» dichiarò Megumi.
Lui continuò come se niente fosse: «Si dice che il Viaggio sia in grado di interagire con altre realtà e periodi. Che, in alcuni casi, sia stato usato per alterare il passato.» Chiuse gli occhi, mandando una risata gutturale. «Anche se su questo, naturalmente, ho le mie riserve.»
«E vorrei ben vedere» esclamò Megumi. «Perché è impossibile. Non è una cosa scientificamente provabile o plausibile. La magia non esiste, e nessun intruglio potrebbe mai provocare questo... viaggio
«Padroni di non credermi. Un medico può ignorare la diagnosi, ma affronterà le conseguenze della sua negligenza.»
Megumi continuò a scuotere la testa, torva.
Kenshin corrugò la fronte. Saito non parlava mai a vanvera e, se era noto per indulgere talvolta a provocazioni immotivate, non avrebbe mai usato la salute di un ragazzo innocente a questo scopo.
«Non ho mai sentito parlare di questa tecnica» disse, cauto. «E dubito che esista. Ma forse» continuò, cercando di chiudere fuori l'ansia e il dolore e di razionalizzare quello che aveva visto, «c'è una parte di verità, in quello che dici. Forse nel dardo c'erano sostanze usate per simulare quella "punizione". Se sapessi elencarcele...»
S'interruppe. Saito aveva scosso impercettibilmente la testa.
«E allora perché l'hai tirata in ballo?» esclamò Kaoru, furiosa.
«Perché credo che si tratti di quello.»
«Grande aiuto» ribatté lei, distogliendo lo sguardo e trattenendo a stento le lacrime.
Megumi intrecciò le dita in grembo, davanti al ventre gonfio. «Forse Shinomori potrà aiutarci.»
«Forse» disse Saito. «Ma non ci conterei. Se anche sapesse, potrebbe fare ben poco.»
Altri sguardi allarmati. «Perché?!»
«Non c'è cura. I presunti sopravvissuti si sono svegliati da soli. Non guardarmi così, Himura: non sono un esperto. Potete provare intrugli, palliativi e preghiere, e chissà che non funzionino – i progressi dall'epoca Sengoku sono stati parecchi, in medicina. Ma io non sottovaluterei le tecniche antiche.»
Pupille selvagge balenarono verso il fianco che, un tempo, aveva cinto il daisho assassino di Battosai.
«Alla prova, qui, c'è prima di tutto la forza di volontà di tuo figlio.»
«Cosa dovremmo fare, allora?» sibilò Kenshin.
«Niente.»

Impossibile. Inaccettabile.

«Una sensitiva» rispose Aoshi, arrivato il giorno dopo in treno da Kyoto, con Okina. A discapito dell'inflessione monotona, le sue spalle erano rigide. «Una sensitiva potrebbe metterci in contatto con lui.»
Okina annuì, scuro in volto.
«Tutte cose approssimative; fenomeni da baraccone» protestò Megumi. «Abbiamo bisogno di una diagnosi sicura!»
«Se la scienza è tutto, mi chiedo come abbiano fatto a sopravvivere i nostri antenati» commentò Okina, arricciandosi gravemente un baffo.
«Funzionerà?» chiese Kaoru. «L'importante è solo quello.»
«Non resta che provare. E sperare.»
Kenji, ancora supino sul suo futon, rimase incosciente ma non inerte.

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