Light in the Darkness (Here with you)

di Lacus Clyne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ISABEL ***
Capitolo 2: *** COLE ***
Capitolo 3: *** ISABEL ***
Capitolo 4: *** COLE ***
Capitolo 5: *** ISABEL ***
Capitolo 6: *** COLE ***
Capitolo 7: *** ISABEL ***
Capitolo 8: *** COLE ***
Capitolo 9: *** ISABEL ***
Capitolo 10: *** GRACE ***
Capitolo 11: *** SAM ***
Capitolo 12: *** COLE ***
Capitolo 13: *** GRACE ***
Capitolo 14: *** ISABEL ***



Capitolo 1
*** ISABEL ***


Angolo dell'autrice: Cosa dire sulla meravigliosa trilogia di Shiver? <3 E' sicuramente una delle storie più belle e profonde che mi sia capitato di leggere in questi mesi, e ho voluto scrivere qualcosa su Isabel, il mio personaggio preferito. <3 I fan di Shiver la conosceranno bene, la bella, spregiudicata, difficile, cinica e fragile al tempo stesso Isabel Culpeper. <3 Ovviamente, nello stile della storia, ci saranno più voci narranti. Parto dal presupposto che il finale di Forever mi ha lasciata in sospeso come tantissimi lettori... soprattutto per la coppia Cole/Isabel. ç_ç E così, eccomi qui! Aspetto qualche parere! :D Buona lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

ISABEL


 

 

 

Se qualche anno fa mi avessero detto che il Minnesota sarebbe diventato la tomba di mio fratello, non ci avrei mai messo piede. Ma questo avrebbe significato non incontrare delle persone decisamente fuori dal comune, e nemmeno permettere al mio destino di intrecciarsi con quello di un gruppo di licantropi d’inverno e umani d’estate.

Avrei vissuto la mia vita nella soleggiata e intrigante California, a godermi l’abbronzatura e la patetica esistenza da ragazza-più-popolare della scuola, a vivere spensieratamente giorni che adesso mi apparivano vuoti, grigi e  senza senso, anche nel Golden State. “Qui tu sei un’aliena”, mi aveva detto qualche mese fa un arrogante ed esibizionista ragazzo dagli occhi verdi e dalle labbra di un dio, che aveva messo a nudo la mia anima, col suo tono saccente, divertito a ogni punzecchiatura, un ragazzo che detestavo, ma da cui mi ero sentita sin da subito pericolosamente, impossibilmente attratta. E confesso che guardavo spesso il cellulare che in questi mesi di esilio forzato non aveva mai suonato. Né una telefonata, niente di niente, muto silenzio.

“Vaffanculo, Cole.”, sentenziai, quando mi decisi a non darla vinta a quell’egocentrico bastardo. E quando finalmente i miei genitori, il sanguinario principe del foro, l’anti-lupo Tom Culpeper, il padre più stronzo del mondo, e mia madre, vino-pasticche-non-voglio-saperne-niente-di-mia-figlia, decretarono la fine della mia punizione (confino a tempo indeterminato a casa dei nonni dopo il diploma), decisi di tornare in Minnesota a visitare la tomba di Jack.

Erano trascorsi diversi mesi da quando mio padre aveva deciso di sterminare i lupi che popolavano Mercy Falls, e Natale era alle porte. E nonostante la contrarietà dei miei, ero riuscita a strappar loro il permesso di tornare, anche se solo per qualche giorno. Dio, pochi mesi lontana da quel gelido inverno e mi sembrava di viverlo per la prima volta. Imprecai diverse volte quando il troppo ghiaccio sembrava aver trasformato la strada in una pista di pattinaggio, e io, che portavo stivali col tacco, trovai piuttosto scomodo il dover percorrere la strada che portava al cimitero. Avevo gli stivali da neve nel portabagagli, ma avventurarsi a prenderli non mi sembrava affatto una buona idea, in quel momento, tanto più che era già pomeriggio e non avrei avuto tempo e luce a sufficienza per entrambe le cose. L’aria ghiacciata mi sferzava il viso, e avrei scommesso che avrei avuto un cerchio alla testa una volta tornata al caldo, così, tirai su il cappuccio bordato di pelliccia del piumino ed entrai nel cimitero, alla ricerca della tomba di Jack. Tutto intorno, quel reverenziale silenzio che fa da sfondo alla morte. Solo il suono dei miei passi, nient’altro.

“Jack…”, dissi, quando mi fermai davanti alla sua tomba. “Scusa il ritardo, sarei dovuta venire molto prima”, continuai, notando che a differenza delle altre tombe, quella recante l’iscrizione “Qui giace Jack Culpeper, figlio e fratello amato”, era più pulita delle altre, quasi fosse stata tenuta in ordine in nostra assenza. Sapevo per certo che l’ultima visita dei miei risaliva a circa tre settimane prima, troppo per giustificare quell’attenzione.

“Sembra che qualcuno ti voglia bene nonostante il bastardo che eri, eh?”, domandai, e una folata di vento mi rispose. Sembrava quasi una beffarda risposta. Grace… Sam… forse anche Cole, non potevano essere lì. Col gelo di quei giorni, avrebbero dovuto trovarsi in chissà quale bosco, ignari del loro essere umani, felici di essere lupi.

“Sai, Jack… ho preso una cotta per uno stronzo qualche tempo fa. Uno stronzo che avrebbe potuto salvarti, forse… uno che ritiene che la propria vita sia qualcosa di cui fare a meno, ma che avrebbe potuto impedirmi di toglierti la tua. Vorrei averlo conosciuto prima… forse saresti ancora vivo adesso.”

E poi all’improvviso, un’eco lontana, una voce lupesca si sollevò nel silenzio, sommessa e poi più forte, nel cuore del bosco di Mercy Falls, e mi riportò alla realtà.

“Che siano loro?” Mi domandai, mentre il mio cuore silenzioso prese a palpitare al risveglio dell’emozione. Dovevo andare, dovevo sapere. Rivolsi un’ultima occhiata alla tomba di mio fratello. In fondo, ero tornata per visitarla. “A presto, Jack.” Dissi, per poi andar via.


Arrivai alla baracca di Beck che il sole era ormai tramontato. L’incombere della sera rendeva quel rifugio nel cuore del bosco una sorta di oasi spettrale, completamente isolata nel bianco inverno. Mi sentivo proprio una Biancaneve d’oggigiorno, scappata dal giogo di una famiglia odiata e opprimente. Quando varcai la soglia, mi sembrò di essere tornata indietro nel tempo. C’era odore di lupo, un odore che conoscevo bene, ma nessuna traccia dei miei amici.

Eppure, tutto era rimasto esattamente come prima che partissi, a cominciare dal casino di videocassette buttate per terra, file di bicchieri disposti in ordine crescente sul tavolo, fogli e tovaglioli scritti ovunque. Attraversai le stanze colorate della casa, carezzando con la mano i divani su cui spesso eravamo buttati durante i mesi passati. Raggiunsi la cucina, che Cole aveva trasformato più di una volta nel suo laboratorio. Il pensiero di quando avevamo ballato per festeggiare il buon esito dei suoi esperimenti mi strappò un sorriso, e quando i miei occhi si posarono sul taccuino disordinato, il mio cuore sussultò. Lo ammetto, fui tentata di vedere a quando risalissero le ultime prove, ma per orgoglio non lo feci. Che facesse come voleva, non gli avrei dato più la soddisfazione di interessarmi a ciò che faceva. Invece, mi misi a frugare nel frigo. Non che avessi troppa fame, nonostante mia madre si fosse raccomandata di mangiare. Ormai era dalla morte di Jack che avevo problemi alimentari, e certo, la mia stupenda famiglia trovava più facile impormi la sua volontà piuttosto che capire che dietro ai miei comportamenti c’era un disagio. Avevamo provato persino con la terapia. Che Dio me ne avesse scansata, ore e ore di chiacchiere al vento davanti al dottor Nasodicarota  quando la mia famiglia doveva essere esorcizzata e preferibilmente chiusa in un manicomio per il resto della sua vita, in modo da non potermi più nuocere. Inutile, il pensiero dei miei mi aveva tolto l’appetito. Chiusi lo sportello e optai direttamente per le stanze da letto. Quella di Sam si riconosceva subito. Era piena di origami e la sua chitarra troneggiava in un angolo vicino alla finestra. Entrai. Il mondo di Sam Roth era in quella stanza, così come il suo amore per Grace. I libri di poesia tedesca, gli appunti delle canzoni, una foto, dolce e complice, con la sua ragazza d’estate. Grace e Sam, per quanto questo mi facesse male, erano nati per stare insieme. Io non avrei mai potuto essere niente più di un’amica e questo rendeva la mia vita ancor più insignificante. Lasciai la camera per quella che era stata di Beck. Un grande letto, stile sobrio, molto legno e molto blu, custodie di cd buttate dappertutto, il modellino della Mustang sul comodino e, cosa che mi lasciò perlessa, una catenina d’argento con un ciondolo a forma di croce. Chiusi la porta alle mie spalle e tolsi il piumino. Si stava bene, nonostante la puzza di cane bagnato. Tolsi gli stivali, ringraziando il cielo del sollievo che provai in quel momento e mi sedetti sul materasso morbido. Quando mi sdraiai, puntai lo sguardo verso la finestra. Era buio pesto, e dopo il volo la notte prima, avevo passato ore e ore a guidare a noleggio per venire qui, in mezzo al nulla, nella solitudine più assoluta, nel gelo imperversante di una notte d’inverno. Per giunta, dei miei amici non c'era neanche l'ombra.

“Fanculo.” Borbottai, e fu l’ultima parola, prima che il sonno mi reclamasse.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** COLE ***


COLE
 
 
Per quanto la mia vita fosse migliorata negli ultimi mesi, adoravo essere un lupo. Scordi tutto, non ci sei più per nessuno. Tic tac e tutti i tuoi problemi vanno a farsi fottere, il mondo intorno a te diventa solo colore e rumore, la tua unica prerogativa è cacciare e trastullarti. Nessuna delle droghe che avevo provato mi aveva mai fatto sentire così libero e così fuori dalla gabbia del mio corpo umano. Dimenticavo di essere Cole St. Clair, ero una bestia senza capacità di raziocinio, ero totalmente, incondizionatamente libero.
Eppure, nonostante fossi completamente slegato dalla mia umanità, negli ultimi mesi avevo fatto di tutto per potenziare il controllo della mente sul corpo. Volevo provare che con la concentrazione e con l’allenamento, non solo i soggetti predisposti, ma chiunque avrebbe potuto conservare pensieri umani anche in forma animale.
Cole. Cole. Sei Cole. Sei Cole. Sei Cole St. Clair, bestia.
E così, quando l’effetto delle St. Clair (avevo dato il mio nome alla tossina del lupo che avevo scoperto) e dell’epinefrina che mi ero iniettato cominciò a svanire, gli spasmi nel mio corpo animale diventarono più forti e frequenti, ritrasformandomi. Avrei potuto rimanere sul manto candido a congelare come avevo fatto già in passato, ma dovevo annotare gli effetti del test e in più, stavo morendo di fame. Notai un SUV blu parcheggiato fuori casa, targa del Minnesota. Che l’agente Koenig avesse fatto fortuna? Oppure quello stronzo di Culpeper era tornato per assicurarsi che non ci fossero altri problemi? C’era una terza possibilità: ero ancora sotto l’effetto del mix e la mia mente mi giocava strani scherzi. Mi avvicinai al SUV dai vetri scuri, era vuoto all’interno, la marcia in folle. Ma la mancanza di ghiaccio sull’auto rendeva quel corpo assolutamente reale. Entrai velocemente, battendo i denti a causa del freddo. L’aria calda (tenevo i condizionatori accesi quando ero a casa), mi investì, facendomi rabbrividire. Raggiunsi la cucina, afferrai taccuino e penna e scrissi durata ed effetto del nuovo test.
 
 
Esperimento 25
 
2° max   – 20° min
 
Iniezione endovenosa di epinefrina/pseudoepinefrina/tossina
 
Effetto: il sistema nervoso è più stimolato. Mantenuto il barlume di coscienza. Sensi acuiti post-trasformazione.
 
Effetti collaterali: nessuno rilevante.
 
 
Chiusi il taccuino e cercai qualcosa da mangiare. Fui fortunato, trovai un pezzo di pane vecchio di un paio di giorni e lo trasformai in un malriuscito hamburger. C’era solo carne cruda in frigo e nessuna scorta, ma per quanta fame avevo avrei mangiato di tutto. Lo divorai in pochi bocconi e trangugiai una birra che avevo lasciato semiaperta, poi mi diressi nel bagno a piano terra e optai per un bagno. Ero ancora nudo, e nessuna traccia di intrusi. Nei minuti liberi che occorrevano per riempire la vasca d’acqua, seguii il meraviglioso profumo di rose e raggiunsi la camera più lontana, quella di Beck, ufficialmente diventata la mia ora che ero tornato e fu allora che vidi Isabel. Era rannicchiata, le lunghe ciocche biondo ghiaccio che le adombravano il viso rilassato. Indossava un maglioncino a dolcevita bianco che le lasciava scoperta la pancia e dei jeans attillati blu scuro che mettevano in risalto le lunghe gambe e il fisico da pin-up. Dio, quant’era bella. Rimasi imbambolato a fissarla per qualche istante. A giudicare dal movimento delle palpebre, era nel mezzo della fase REM, mi avrebbe ucciso se l'avessi svegliata nel bel mezzo di un sogno. Per giunta ero stanco, così, cambiai programma e decisi di fare una doccia veloce. Afferrai i vestiti e tornai in bagno. Voltai la manopola dell’acqua e lasciai defluire quella in eccesso, poi mi guardai allo specchio. Avevo già avuto modo di verificare che l’assunzione di droghe e alcool garantiva la rimarginazione dei tessuti danneggiati, e stavolta, il mix dell’epinefrina con le St.Clair aveva cancellato i segni della stanchezza e dei giorni trascorsi a vagare nel bosco, a dispetto del fatto che mi sentivo davvero esausto. Feci la doccia e mi rivestii, dopo tornai in camera, sdraiandomi accanto a Isabel e la osservai, persa nel suo sonno. Quanto l’avevo desiderata in questi mesi? Sollevai lentamente la mano e le scostai i capelli dal viso, delicatamente, perché non si svegliasse. Mi erano mancati i suoi occhi azzurri bordati del nero pesante del mascara, mi erano mancate le sue labbra lucide, mi era mancato il suono della sua voce, il suo profumo di rose e d’estate, mi era mancata ogni cosa di lei. Ma non l’avevo mai chiamata. Avrei potuto farlo, ma lo scopo che mi ero prefissato aveva la precedenza. Mi avvicinai, aveva il respiro regolare e caldo. Nel guardarla, mi resi conto che era davvero trascorsa una vita da quando avevo dormito con una ragazza. Solitamente, ci facevo sesso e finiva lì, tanto che non ricordavo nemmeno i loro volti, troppo perso nei fumi dell’alcool o sballato per una pasticca. La sola con cui l’avevo fatto era Angie, ormai molto tempo fa, ma a quel tempo, non ero ancora del tutto l’anima dannata che sarei diventato, sebbene fossi sulla buona strada. Eppure, Isabel, che sotto quella maschera di cinismo nascondeva la sua fragilità, era diversa. Fino a qualche mese fa non avrei saputo spiegare cosa mi attraesse. Certo, era la ragazza più bella che avessi mai visto, ma c’era qualcosa in più in lei. Il fascino che esercitava su di me attraversava tutte le variazioni musicali. “Bentornata…” sussurrai. Per tutta risposta, fece una smorfia e temetti di averla svegliata, ma quando compresi che la causa era il mio odore di lupo, tirai un sospiro di sollievo. Si mosse, e osservai il suo braccio sollevarsi fino a cingermi. Lasciai che continuasse, troppo ero stanco per reagire in alcun modo, e quando posò la guancia sul mio petto, l’avvinsi a me e chiusi gli occhi, inebriandomi del suo profumo. Mi addormentai, mentre fuori aveva ricominciato a nevicare.
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:

Secondo capitolo, in ritardo, ma c'è! <3 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** ISABEL ***


Angolo dell'autrice: Grazie a tutte per le recensioni, ragazze, son contenta che la storia vi stia piacendo!! Posto oggi il terzo capitolo, buona lettura!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ISABEL

 

 

Fu l’aroma del caffè a svegliarmi. Quando riaprii gli occhi impiegai qualche istante a rimettere a posto i pezzi. Ero a casa di Romolo, nel letto di Beck che era passato a Cole, faceva caldo e avevo la sensazione di aver dormito avvolta in un piumone nonostante le coperte non fossero state minimamente aperte. Mi tirai su, stiracchiandomi, e feci mente locale. Chi diavolo c’era in casa? Poco male, quando sentii il crescendo di una delle sue canzoni non ebbi dubbi. E se ancora me ne rimaneva qualcuno, quando vidi Cole St. Clair affacciarsi sulla soglia della porta, con solo un paio di pantaloni da tuta grigi addosso e con in mano una tazza di caffè fumante, tutto fu fugato.

“Ben svegliata, principessa. E’ quasi mezzogiorno.” Mi informò, educatamente. Ma il ghigno sulla faccia meravigliosa che si ritrovava stava a significare “Sei stata alla mia mercè per una notte”. Fissai quegli occhi verdi incastonati come smeraldi nella perfezione di quel volto, il suo sguardo tradiva la sfida. Ed era alto, le sue spalle erano un invito a cingerle. Non so nemmeno cosa mi trattenesse dall’alzarmi da quel letto e correre a baciarlo. Eppure, mi lasciai cadere pesantemente sul materasso.

“Grazie.”

“Caffè?” Domandò, servizievole.

“L’hai fatto tu?” Chiesi, sollevando pigramente una palpebra, lui arricciò sensualmente le labbra, gesto che mi provocò il batticuore.

“Allora farà schifo.” Dissi, decisa a non dargliela vinta.

“Sempre meno di quello che mi hai trascinato a bere l’ultima volta. E comunque l’hai già provato, e ti è piaciuto.” Rispose lui, ponendo enfasi sul doppio senso di quell’ultima frase. Lo seguii con lo sguardo mentre si avvicinava e mi porgeva la tazza. Era incredibilmente sensuale, con quelle braccia lunghe e il modo in cui le spalle si inarcavano mentre si avvicinava. Tuttavia, mi ero ripromessa di non farmi più illudere, sebbene devo dire, mi costasse uno sforzo sovrumano.

“Non ti stanchi mai di ciondolare per casa mezzo nudo?” Chiesi, afferrando la tazza. Doveva essere roba di Grace, considerando la faccia di un alce stampata sopra.

“Mi pareva che avessimo già discusso a questo proposito, una volta.” Ribattè divertito.

Sollevai lo sguardo fino a incrociare il suo e feci spallucce.

“Sarò felice quando ti verrà una broncopolmonite.” Sibilai, bevendo il caffè. Forte e con molto zucchero. Non aveva dimenticato cosa mi piaceva.

“Vorrà dire che quando accadrà chiederò a Grace di occuparsi di me.” Continuò come se nulla fosse. Sollevai un sopracciglio. “Sempre se Romolo non deciderà di ucciderti prima.”

“Non potrebbe mai uccidere il suo vero amore.” Disse con teatrale sarcasmo.

“Contento tu.” Replicai guardandolo di sottecchi. Posai la tazza. “Da quanto sei tornato?”

“Da un po’. L’agente Koenig ci ha avvisati del trasferimento dei tuoi in California.”

“Finora siete rimasti nella penisola allora…”

“Elementare, Watson.” Mi pungolò. Io lo ignorai.

“Ma la domanda è… “Perché sei tornato solo tu e non Sam?”, non è così?”

Il modo in cui la voce si enfatizzava su quel non Sam mi fece innervosire. Dopo tutto questo tempo, credeva ancora che mi piacesse Sam? O forse, era un altro dei suoi giochetti mentali? Decisi di non dargli corda.

“Va’ all’inferno, Cole. E restaci. Sono più che certa che Satana sarà ben felice di cederti il trono.” Risposi, voltandomi su un fianco.

“Ha chiamato tua madre.” Mi comunicò serafico.

Brutalmente strappata alla vita, fui costretta a rivoltarmi.

“Stai mentendo, spero. E sappi che non è un bello scherzo.”

Per tutta risposta, estrasse il mio cellulare dalla tasca dei pantaloni. In quel momento, inorridii.

“Hai frugato nelle tasche del piumino… e per giunta mi hai rubato il cellulare… tu sei un deficiente, Cole!” Protestai.

“Può essere, ma continuava a squillare e non è la mia sveglia ideale.” Disse lui, sedendosi sul letto.

Detestavo che avesse frugato nel piumino, ma soprattutto, che avesse parlato con mia madre.

“Che le hai detto?” Domandai seccata, afferrando il cellulare.

“Innanzitutto ho constatato che si ricordava ancora di me, il ragazzo nudo sulle scale di casa. Quando ha capito chi ero mi ha scongiurato di lasciarti andare senza farti del male, e che non avrebbe detto niente a tuo padre. Però devo ammetterlo, nonostante tutto vorrei proprio rivederla la faccia di quello stronzo. Scatenerebbe un putiferio, non credi?”

Gli rivolsi un’occhiataccia, poi sospirai.

“Sai che me ne frega. Per quel che mi riguarda mi sono già opposta una volta, posso farlo ancora.” A costo di finire i miei giorni confinata a casa di mia nonna o in un collegio al riparo da qualunque essere di sesso maschile e dai lupi. Sostenni il suo sguardo.

“Che diavolo le hai detto… davvero?”

Fece spallucce, delle gran belle spallucce.

“Ha chiesto come fosse andato il viaggio e se stessi bene. Le ho detto che era andato tutto bene, ma che eri molto stanca. In fondo, era la verità, no?”

“Intendevo riguardo a te.” Replicai.

“Oh, quello? In realtà non mi ha chiesto nulla in proposito.” Rispose. Se stava mentendo, lo faceva bene. Se era sincero, lo faceva bene lo stesso. Quando si alzò, mandò in frantumi il mio auto-controllo. Lo trattenni per il braccio. Le sue mani, così desiderate, così audaci, trovarono il mio viso. Prima ancora che potessi realizzarlo, ci stavamo baciando. Quanto avevo  desiderato che accadesse di nuovo. E nonostante avessi ripetuto a me stessa più volte che era sbagliato, beh, avrei permesso alla mia anima di bruciare per l’eternità pur di riprovare un’altra volta quella sensazione. E più mi avvinceva, più quel bacio diventava profondo e famelico, più sentivo il mio cuore galoppare verso l’ignoto. Ma ancora una volta, Cole mi sorprese. Si scostò da me lasciandomi confusa e in apnea, il suo sguardo vacuo diceva più di mille parole. Sentii di nuovo quell’insopportabile sensazione di frustrazione. Non importava che mi desiderasse, che fossimo ancora tanto avvinti l’uno dall’altra. Cole mi aveva allontanata ancora una volta da lui. Per quanto mi facesse piacere che l’attrazione tra noi fosse ancora viva, la delusione che nemmeno quello fosse cambiato, era straziante. Infilò le mani nelle tasche e stette lì, di fronte a me. La resa. Non mi avrebbe toccata se non fossi stata io a volerlo.

“Non devo aspettarmi altro, vero?” Domandai, sebbene sapessi già la risposta. Mi alzai velocemente dal letto e lo oltrepassai, raccogliendo gli stivali da terra.

“Isabel…” Cominciò , ma non avevo voglia di ascoltarlo.

“Dacci un taglio, Cole. Non è necessario.” Dissi, infilando lo stivale, che maledizione, non voleva saperne di appuntarsi. Sbottai, che giornata di merda.

Si voltò verso di me, poi si chinò ad aiutarmi, lo guardai perplessa. Cole St. Clair era un egocentrico bastardo a cui non importava di altri che di se stesso. Quella stessa persona che serrava con una mano la mia caviglia e con l’altra tirava su la zip del mio stivale. Quando ebbe finito, mi aiutò con l’altro stivale, poi rimase lì a guardarmi.

“Sei tornata per Jack, non è così?” Mi chiese.

“Può darsi. In ogni caso non certamente per te.” Mi affrettai a ribadire.

“Non te l’ho chiesto. C’era bisogno di farmi notare una cosa del genere?” Suggerì.

Avrei potuto approfittare di quella posizione per assestargli un calcio, ma avevo un groppo in gola che desideravo far uscire a ogni costo.

“Ho aspettato una telefonata per mesi, Cole!” Strillai. “Credevo che tu fossi morto… eppure sei tornato, e mi hai detto che eri vivo. Ti ho detto di non perdere il numero. Che c’è? L’hai smarrito? Magari eri troppo preso dai tuoi esperimenti da folle per ritagliare un attimo, un solo, fottuto attimo, per telefonarmi? Ho passato sei stramaledetti mesi confinata in una stanza di merda, in balia di quei due pazzi che mi odiano per quello che ho fatto, lontana da tutto e tutti… hai idea di come diavolo mi sia sentita? Hai idea di quanto abbia sperato che tu ti degnassi di fare una cazzo di telefonata, Cole St. Clair?!”

Rimase in silenzio, lo sguardo fisso sui miei stivali, e quella reazione, così orribilmente da Sam, mi fece imbestialire. Avrei voluto prenderlo a schiaffi, e Dio solo sa quanto avrei voluto, ma si rialzò, alto e vicinissimo, puntando i suoi occhi verdi nei miei. Sorrise. Uno di quei sorrisi che avrebbero fatto sciogliere il cuore di qualunque ragazza. Ma nel suo sguardo, vidi improvvisamente balenare un guizzo lupesco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** COLE ***


Buonasera! *_* Posto il nuovo capitolo, ringraziandovi per il sostegno!! *---* Sono incredibilmente felice che questa storia stia piacendo, e spero che continuerete a seguirmi! *__* Aspetto di sapere che ne pensate! *__* Buona lettura!! :D

 

 

 

 

 

 

COLE

 

 

 

Era lì, di fronte a me. Isabel, bellissima e glaciale come una regina nordica. Isabel, che con la sua arguzia aveva scosso la monotonia della mia vita. Isabel, la sola che osava parlarmi come nessuno si permetteva. Isabel, che mi era stata vicina anche nei momenti più bui. Isabel, la sola malattia che non avrei mai potuto debellare.

“Tu non mi hai mai richiamato, nonostante i messaggi che ti avevo lasciato in segreteria.” Dissi, cercando di risultare quanto più innocente possibile.

Inarcò il sopracciglio, studiando la mia espressione.

“Non credi che sia un reato caduto in prescrizione?” Domandò, scettica, ma la tempesta che si agitava nei suoi occhi era più che visibile. Quanto mi eccitava farla incazzare. I miei sensi erano in fibrillazione ogni volta che eravamo insieme.

“La vendetta è un piatto che va servito freddo. I modi di dire mi affascinano. Quale piatto potrebbe essere associato alla vendetta? Uno a lunga conservazione?” Riflettei.

“Non provarci nemmeno.”

“A far cosa?”

“A fare il finto tonto con me. Ti conosco, Cole.” Riprese, sorvolando sul mio sincero ragionamento.

“Avevo altro da fare. Tutto qui.” Risposi, infine.

Per qualche istante sembrò non respirare più.

“Dio, era davvero così…”

“Cosa?”

“Sam aveva ragione… tu non potrai mai stare bene con nessuno.” Disse, e il suo tono gridava delusione. Dopotutto, non aveva tutti i torti, perché ero stato il primo a non stare bene con me stesso. Raccolse il piumino e senza degnarmi di uno sguardo, mi lasciò lì. Quando anche il rumore dei pneumatici svanì, mi voltai verso la porta. Silenzio. Solo un muto silenzio. Una folata di vento gelido mi fece rabbrividire, provocandomi un conato di vomito. Il lupo dentro di me si stava risvegliando, e sentivo torcermi le budella. Mentre il mio corpo lottava per espellere le tossine, cercai di rimanere quanto più lucido possibile e raggiunsi a fatica il bagno. Gli spasmi stavano diventando forti e dolorosi, ma riuscii comunque e togliermi i pantaloni prima di buttarmi nella vasca e a ruotare la manopola dell’acqua calda. Il petto mi faceva male, sentivo i polmoni scoppiarmi, e respirare stava diventando difficile, tanto il mio respiro era accelerato. Sbattei i pugni sull’acqua man mano che saliva, poi frizionai i palmi contro le braccia, cercando di scaldarmi. Quando la temperatura dell’acqua fu abbastanza calda, riuscii a riprendere il controllo, quanto bastava per non lasciarmi sopraffare. Mi buttai addosso quanta più acqua possibile, e il movimento generò altro calore.

Mi sciacquai il viso, poi rimasi a mollo, con lo sguardo fisso sul soffitto.

 

“Tu non potrai mai stare bene con nessuno.”

 

Chiusi gli occhi, lasciando che il calore facesse effetto e placasse, almeno momentaneamente, gli spasmi.

 

“Tu non potrai mai stare bene con nessuno.”

 

Il cellulare nella tasca dei pantaloni squillò. Una, due, tre volte. Che suonasse in eterno, non volevo sentire nessuno. Ventinove, trenta, trentuno volte. Perché non avevo messo uno dei miei pezzi al posto di un dozzinale e martellante trillo? Tre minuti dopo stesi il braccio a peso morto fino a raggiungere i pantaloni buttati accanto alla vasca. Potevo scegliere tra farmi esplodere la testa e porre fine al tormento. Avrei lasciato al chiamante la scelta. Tastai fino a trovare il cellulare e lo raccolsi dalla tasca. Sul display campeggiava il nome “Ringo”. In ogni caso, avrei avuto mal di testa. Risposi.

“Da.”

“Cole, era ora!” Mi redarguì.

“Davvero? Ero rimasto a mezzogiorno.”

“Ma che… che stai combinando?”

Sollevai pigramente il braccio libero dall’acqua. Nell’incavo, il segno dell’ultima dose di epinefrina/tossine che mi ero iniettato. Per il resto, segni di vecchie cicatrici.

“Sto solo lessando nella tua vasca preferita.” Comunicai. Sam sbottò.

“Ehi, Ringo, come va nella penisola? C’è anche Grace con te? Ve la state spassando, piccioncini?”

“Cole, che diavolo hai?”

“Passami Grace, non voglio parlare con te. Niente di personale, ma lei mi capisce.”

Sbottò di nuovo, poi sentii in sottofondo i loro discorsi. Grace era vicina a Sam, mentre lui le faceva notare che avevo presumibilmente bevuto e non stavo dicendo la verità. Ridacchiai, poi Grace prese il telefono.

“Ciao, St. Clair.”

“Ciao, Brisbane.”

Guardai verso lo specchio appannato per il vapore. Nebbia, nebbia calda.

“Hai bisogno d’aiuto?”

Adoravo quella ragazza. Sì, Grace Brisbane era una delle persone, delle poche persone, che mi piacevano. Ci capivamo.

“Isabel è stata qui.”

Tacque. Per un lungo istante, non disse nulla. Tic tac, tic tac.

“Le hai detto di Angie, Cole?”

Test fallito.

“No, non ce n’è stato bisogno.”

Sospirò. “Se tieni a qualcuno, devi essere pronto a dire la verità, qualunque essa sia, Cole. Isabel ci ha aiutati più di chiunque altro. Credi che allontanarla sia la soluzione migliore?”

Valutai. Avevo coinvolto Isabel in tutti i miei casini. Mi aveva mandato al diavolo più di una volta, ma non avrei potuto sperare in una spalla migliore. E la desideravo come non avevo mai desiderato nessuna in vita mia. Se fossimo stati Adamo ed Eva, avrei fatto del serpente tentatore una borsa piena di mele, a costo di essere dannato in eterno.

“Ho bisogno d’aiuto, Brisbane.”

“Torneremo presto.”

“Grazie.”

“Non c’è di che.”

Chiusi la chiamata e lasciai ricadere il braccio fuori dalla vasca. Il cellulare mi cadde di mano, producendo un tonfo sordo. Affondai nell’acqua, circondato dai fumi del vapore, lasciando che la mia mente tornasse indietro di due mesi. Il viaggio. A New York. Da Angie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** ISABEL ***


Buon pomeriggio! <3 Nuovo capitolo al volo, da parte di Isabel, ringraziando come sempre per il sostegno!! *---* Buona lettura!! :D

 

 

ISABEL

 

 

Mi odiavo. Non importava che fossi la parte lesa, che Cole avesse distrutto con una sola frase le mie speranze, che avessi pienamente ragione a chiamarlo “egocentrico bastardo”. Io odiavo me stessa. Odiavo il sentirmi debole, odiavo l’aver deciso di tornare, e odiavo anche quelle fottute lacrime che continuavano a uscirmi dagli occhi mentre guidavo. Il cellulare squillava incessantemente da quasi due minuti, mia madre si alternava a mio padre. Non avevo alcuna voglia di sentirli, e al diavolo che dovessi avvisarli di ogni mio spostamento, la sola cosa che desideravo era correre. Pigiai a fondo l’acceleratore e il SUV rispose immediatamente, lanciandosi a folle velocità sulla statale, incurante del ghiaccio. Perché diavolo il tempo non scorreva così velocemente come il paesaggio che scompariva man mano che passavo? Pensavo a Sam e a Grace, al loro amore pulito, complice nonostante il destino avverso, a quanto ero nauseata dal vederli così felici insieme, all’inizio, e a quanto in realtà, li invidiassi. A me non era concesso. Dovevo per forza impelagarmi in una storia impossibile con la persona più difficile del mondo? Perché ero così stupida? Perché non riuscivo a staccarmi dall’ascendente che Cole St. Clair aveva su di me? Già, perché era una malattia. Una malattia che mi era entrata sotto pelle e ormai aveva intaccato persino il midollo. E odiavo il fatto che non esistessero vaccini in grado di curarmi.

Persa com’ero in quei pensieri pieni d’odio, non mi ero accorta nemmeno che dietro di me la sirena della polizia suonava a tutto spiano.

“Vaffanculo!” Sbroccai e accostai. La volante si fermò dietro al SUV, poi scese un agente. Mi detti una veloce occhiata allo specchietto. Con un po’ di fortuna, potevo passare per una che aveva guidato per ore e ore. Con la sfortuna, come minimo per un’alcolizzata. L’agente, a prima vista un cinquantenne tutta ciccia, si avvicinò. Tirai giù il finestrino e l’aria gelida mi colpì forte in viso.

“Non conosce i limiti di velocità, signorina?” Contestò, con il tono di chi aveva tra le mani una preda succulenta. Non avevo voglia di discutere, così mi limitai a prendere patente, libretto e autorizzazione al noleggio e a darglieli. Li raccolse guardandomi di sottecchi, io contraccambiai. Si allontanò, ne approfittai per prendere il cellulare. Come se non bastasse, dovevo richiamare i miei prima che allertassero l’Esercito della Salvezza. Che fortuna sfacciata. L’agente tornò.

“Isabel R. Culpeper. E’ parente di Thomas Culpeper?”

Déjà vu.

“E’ mio padre.” Sbuffai.

Sorrise, e a quel punto mi aspettavo una ramanzina condita di tanti saluti e auguri di buon Natale. Al contrario, allungò una multa per eccesso di velocità.

“Le risparmio la prova del palloncino, ma mi auguro che capisca che non può essere sempre coperta dall’influenza di suo padre.”

Sollevai un sopracciglio, mi sarei messa a ridere se non fossi stata così sbattuta. Io protetta dall’influenza di mio padre? Come girava il mondo, da quando Thomas Culpeper era stato pubblicamente sbeffeggiato dalla figlia davanti a un membro del Consiglio e aveva cercato di rimediare alla sua ribellione adolescenziale a suon di scuse ufficiali. Era davvero divertente.

“Certo.” Sorrisi beffardamente, prendendo la multa e i documenti. “Sarò seria e attenta, come dovrebbero fare tutti gli automobilisti, così da non rovinare la giornata agli agenti ligi al dovere come lei. Dovrebbero essercene di più in circolazione.”

Annuì compiaciuto. “Le auguro buon Natale, signorina Culpeper e bentornata.”

“Fottiti stronzo”, avrei voluto dire, ma feci un cenno e chiusi il finestrino. Non appena mi fui accertata che fosse andato via, richiamai mia madre. Qualunque cosa avesse detto, ormai avevo già un piede nella fossa.

“Isabel, grazie al cielo!” Rispose, con un tono sinceramente sollevato. Mi aveva già data per morta. Chissà quale omicidio aveva immaginato. Magari avrebbe finito col raccontare la mia storia in qualche scabroso programma di cronaca nera e col tempo sarebbe diventata pane per gli sceneggiatori di CSI. Isabel Culpeper, la sua nobile fine. La vendetta.

“Scusa, stavo guidando.” In realtà volevo dire “Tranquilla, mamma, sono ancora viva” , ma non era il caso di peggiorare le cose.

“Per fortuna… Isabel, non farci preoccupare. Già è abbastanza difficile per me e per tuo padre saperti lontana così tante miglia.”

“Non è necessario, mamma, davvero. E comunque non sono in terra straniera, questo posto lo conosciamo bene.”

“Certo, certo… e hai fatto bene a rivolgerti all’agente Koenig, è una brava persona.”

Aggrottai le sopracciglia. Non mi risultava di aver avuto a che fare con l’agente Koenig negli ultimi sei mesi.

“Eh?”

“E’ stato molto gentile, abbiamo chiacchierato un po’ stamattina.”

Cole. Che figlio di puttana. Spacciarsi persino per l’agente Koenig. La sua faccia tosta non aveva limiti.

“Davvero? Che ti ha detto?”

“Non ne avete parlato? Che si sarebbe preso cura di te in questi giorni. Torni per Natale, vero? Lì ormai, non c’è più nulla, tesoro…” Il suo tono era sinceramente nostalgico. Dopotutto, se non mi fossi opposta a mio padre, non avremmo lasciato così presto il Minnesota. O meglio, non così.

“C’è Jack, mamma.” Mormorai. Mia madre esitò. Chissà che s’era scolata prima di chiamarmi. Ma a parte Jack, era vero che non c’era più nulla. Nemmeno la mia casa. Non c’era nemmeno Grace, la sola amica che avevo in quello stupido posto.

“Isabel… domani è la Vigilia… torna a casa, va bene?” Mi chiese, supplichevole.

Mi guardai intorno. La verità era che nonostante tutto, io ero sola. Lo ero sempre stata e forse, non avevo il diritto di parlare a Cole in quel modo. Quella che non sarebbe mai stata bene con nessuno ero io.

“Ciao, mamma.” Chiusi il telefono e fu allora che scoppiai a piangere. Piangevo e mi detestavo. Piangevo e desideravo che il mio tormento avesse fine, una volta per tutte. Piangevo come non facevo da tanto tempo. Mi ero dannata, quando i miei avevano deciso di rispedirmi in California. E anche una volta tornata, la mia vita era così cambiata che neppure se avessi voluto, avrei potuto comportarmi come un tempo. Io ero cambiata. E la persona che ero non mi piaceva più di quanto mi piaceva quella che ero stata. Piangevo, per la frustrazione, per l’umiliazione, per il fatto di sentirmi fuori luogo ovunque andassi. Piangevo perché ero incapace di dire a me stessa che non dovevo più farlo. Tra i singhiozzi, sentii il mio cellulare squillare. Mi sollevai dal volante, stupita nel vedere chi stesse chiamando. Risposi, lasciando cadere la maschera, per una volta.

“Grace?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** COLE ***


Buongiorno! <3 Stamattina ecco il nuovo capitolo... si tratta di un flashback di Cole, è un po' lungo, ma spero che vi piaccia! <3 E' tempo di chiudere i conti col passato, una volta per tutte, e da cosa cominciare se non con una questione lasciata in sospeso alla morte di Victor? Buona lettura!! *--*

 

 

COLE

 

 

Ottobre. Avevo scelto un mese rischioso, ma avevamo dibattuto a lungo nei mesi precedenti. Sam si era opposto, non voleva rischiare che qualcuno mi riconoscesse e attirasse l’attenzione più di quanto era già successo. La faccenda di Culpeper si era conclusa relativamente al meglio per noi, nonostante le perdite, dal momento che non se ne parlò in televisione e le registrazioni erano rimaste in mano a quello stronzo per permettergli di “godersi” la sua titanica impresa fallita grazie all’intervento di Isabel. Avevo corso diversi rischi in passato, da quando ero arrivato a Mercy Falls. Ricordavo ancora chiaramente le ragazzine che mi additavano felici che Cole St. Clair non fosse morto. Che sciocche, così accecate da non vedere che quella persona era morta dentro. La vita in quella cittadina era l’ideale per me, quando non dovevo uscire con un sacchetto in testa (le idee di Sam avevano quella sottile ironia unita al senso pratico delle casalinghe, che ogni volta che le sentivo non potevo fare a meno di notare quanto fosse divertente), potevo contare sul fatto che un po’ di barba ben cresciuta era l’ideale per passare inosservato. Anzi, non che potessi dirlo del tutto, dal momento che diverse signore e giovani fanciulle si voltavano a guardarmi. Persino la dottoressa Culpeper, nonostante fosse contraria ai miei amoreggiamenti con la figlia, la prima volta che mi aveva visto, nudo, in casa sua, sulle sue scale, mi aveva squadrato a dovere. Eppure un conto era Mercy Falls, un conto era casa mia. La vita di una celebrità era l’equivalente della vita di un galeotto. Sempre sul filo del rasoio, giudicato alla minima azione. Se poi questa celebrità era una star mondiale il cui nome era conosciuto dall’Iowa alla Russia e al Giappone, e in più era un lupo che alternava part-time a full-time, le cose si complicavano. E in più, c’era un’altra variabile da tenere in considerazione. La mia famiglia. Alla fine, non volevo solo chiudere i conti col passato, c’era qualcosa di più. E così, quando finalmente ero riuscito a convincere Sam dell’assoluta sicurezza del mio piano, passai alla fase due. Farmi iniettare il virus della meningite batterica, in modo da rimanere umano nonostante il freddo, oltre che la prova del nove che la mia teoria funzionava. Questo sollevò altre obiezioni e dovetti usare il massimo della mia capacità dialettica per far capire a Sam che non mi sarebbe accaduto nulla se fossi stato un lupo. Ma del resto, una cosa che trovavo patetica e controproducente in Sam Roth era la sua indecisione. Quando avevamo recuperato Beck, non aveva avuto il coraggio di iniettargli l’amitriptilina per farlo tornare umano. Troppa la paura del rischio di uccidere suo “padre”, dello scoprire la verità sulla sua storia, di superare il trauma che lo accompagnava da quando aveva sette anni. Trovai un’alleata in Grace, che gli aveva ricordato ancora una volta che fino a quel momento non mi ero mai sbagliato. Fu lei a iniettarmi il virus una volta lupo, e nelle settimane che seguirono, questo fece effetto, permettendomi di affrontare il viaggio. Non andai da solo, tuttavia. L’agente Koenig ormai ci aveva presi in simpatia, così si offrì di accompagnarmi.

Sul finire del viaggio, osservavo pigramente lo scorrere di immobili in quel pianeta di poche anime. Quel panorama non mi suscitava nulla, nonostante fossero diversi anni che non tornavo a casa. Avevo passato gran parte del tempo dormendo, e anche volendo, non potevo più chiudere gli occhi. Koenig mi aveva lasciato tranquillo per la maggior parte del tempo, ma era incuriosito. Lo capivo dalle occhiate che mi lanciava ogni tanto.

“Cosa vuole sapere da me, agente?” Chiesi, a un certo punto.

Visto in borghese sembrava ancora più giovane di quanto fosse. Aveva su per giù una trentina d’anni, saremmo potuti passare per fratelli. Il maggiore, quello rasato che poteva passare per un soldato in licenza, ovvero William Koenig, e il minore, quello con l’aria da squinternato uscito da una clinica di rehab, ovvero il sottoscritto. Dopotutto, quello che la gente sapeva di Cole St. Clair era che a causa dei suoi problemi con la droga si stava curando, prima all’estero e poi in America, località top secret.

“Mi chiedevo… per quale motivo uno come te ha finito per ridursi in questo modo.”

Lo guardai con la coda dell’occhio.

“Intende dire come ho fatto a rendermi irriconoscibile? Poco male, due settimane senza radermi, febbre virale, felpa col cappuccio e il gioco è fatto.”

“Sai cosa intendo, Cole.” Ribadì fermamente. “Avevi il mondo ai tuoi piedi, ragazzo. Potevi vivere la vita di un dio in terra, eppure hai mandato al diavolo tutto quanto, per un futuro come questo.”

Gli rivolsi un’occhiata stanca. Aveva ragione, e me l’ero chiesto spesso in passato, quando non mi importava altro se non di provare adrenalina.

“Se le dicessi che non me ne pento, mi crederebbe?”

Rispose senza batter ciglio. “Dato tutto ciò che hai fatto finora, direi che ti credo al 50 %.”

Sollevai le labbra in un ghigno, poi mi stiracchiai. “Mio padre è il dottor George St. Clair. Immagino abbia sentito parlare di lui, dal momento che si tratta di uno dei genetisti più importanti e premiati degli States. E’ un’autorità nel suo campo, un vero genio. Ha sempre avuto grandi aspettative per me e per mio fratello, ma solo io sono riuscito a stupirlo. Le basti sapere che a quindici anni, prima dei NARKOTIKA, mentre la maggior ambizione dei miei coetanei era quella di entrare nella squadra di football del liceo e portarsi a letto qualche cheerleader, io frequentavo con profitto corsi avanzati presso i migliori college d’America. Vivevo  in totale balia delle aspirazioni di mio padre, cosa che ha fatto nascere in me la necessità fisiologica di non diventare come lui. Ma dall’altro lato, c’era la musica. Quando i NARKOTIKA hanno spiccato il volo, ho assaporato per la prima volta in vita mia la libertà. Ho abbandonato gli studi, la mia famiglia, tutto ciò che era stato il mio passato, ma non è servito. Ero ribelle, e insoddisfatto, nonostante il successo, il sesso e le droghe. Ciò che mi mancava davvero, probabilmente, era la vita vera. Solo che mi ci è voluto guardare la morte in faccia per capirlo. Quindi, direi che per un 15%, pari al tempo di permanenza a casa mia compreso di studi me ne pento, per il restante 85 % per niente. Anche se può sembrare paradossale, ma devo riconoscere che quegli studi mi sono stati utili.”

Mi studiò attentamente. Ai suoi occhi dovevo apparire come un ingrato.

“E lei invece? Perché ha deciso di aiutare un gruppo di gente senza speranza? Ho due teorie a riguardo, sa? La prima. Senso di giustizia. Considerando il suo lavoro, e il fatto che fino a prova contraria eravamo noi le “vittime” di questa storia, ha deciso di aiutarci. La seconda. Lei è curioso di vedere fin dove arriveremo. Il che giustifica per quale motivo ci ha accolti nella penisola mettendoci a disposizione il rifugio Knife e perché continua a interessarsi a noi. Propendo più per la seconda, detto tra noi.”

Ascoltò le mie teorie perplesso, poi mi rispose. “Non ti stanchi mai, eh? 49 % la prima. 51 % la seconda. Sono percentuali d’interesse piuttosto vicine, come vedi. Sai, Cole… devo ammetterlo, tu sei una persona singolare. E lo è anche Sam Roth, certo, ma vedere quello che sei stato in grado di fare per il branco mi fa venire in mente che dopotutto, ci sono risvolti positivi anche nel mio lavoro.”

“Tuttavia, non sono riuscito a salvare tutti. E nemmeno Victor.” Risposi, dando un’occhiata allo zaino che portavo con me.

“Non puoi fartene una colpa. Hai fatto del tuo meglio. E se non fosse stato per te, a quest’ora non saremmo qui a parlarne.”

Affilai lo sguardo. Non ero mai stato propriamente una persona corretta. Anzi, se mi avessero detto che dal calcare i palchi di tutto il mondo cantando davanti a orde di gente impazzita che urlava il nome dei NARKOTIKA sarei finito a vivere in incognito a studiare una cura contro la licantropia, avrei pensato che nemmeno la migliore droga mi avrebbe provocato quell’allucinazione. Mi voltai verso il finestrino.

“Siamo arrivati.” Comunicai. Erano diversi anni che non vedevo Angie e quando avevo provato a chiamarla, stando a Sam, era ben decisa a tenermi fuori dalla sua vita una volta per tutte. Non potevo certo biasimarla, ma le dovevo almeno questo. Koenig rimase in macchina, io tirai su il cappuccio della felpa e scesi, mettendo in spalla lo zaino, poi andai a suonare. Mi ero informato prima di partire, e avevo scoperto che Angie tornava a casa almeno una volta al mese. Ero preparato all’eventualità che potessi trovarmi davanti i suoi genitori, ma fortunatamente, non fu il caso. Ad aprirmi, fu proprio lei. Rimasi per qualche istante a osservarla. Era più magra di come la ricordavo, indossava un pullover viola chiaro e dei leggins e portava i capelli raccolti. Ma nei suoi occhi, oltre alla perplessità iniziale, riuscii a scorgere un velo di tristezza, lo stesso che avevo scorto qualche volta in Isabel. Aggrottò le sopracciglia, cercando di ricollegare la mia faccia a qualcosa di conosciuto, poi quando ci riuscii, la sua bocca si aprì in una sorta di “o” per l’incredulità. Sorrisi, mi aveva riconosciuto.

“Cole!” Esclamò.

“Ciao, Angie.” La salutai.

Nell’arco di pochi secondi la sua espressione incredula mutò in una incerta, del tipo San Tommaso, per poi tramutarsi in un’espressione rabbiosa.

“Che diavolo ci fai tu qui?! Mi sembrava di averti già detto di stare fuori dalla mia vita, per sempre!”

Avevo preso in considerazione anche una risposta del genere.

“Non si tratta di me, Angie. Ho bisogno di parlarti, è importante.”

Sollevò un sopracciglio.

“Non provarci nemmeno, non intendo darti retta.” Fece per chiudere la porta, ma la bloccai.

“Che cavolo ti sei messo in testa, eh?! Vattene! Vattene subito! Torna da dove sei venuto, non voglio sapere niente!”

“Angie, è per Victor! Si tratta di tuo fratello!”

Esitò all’improvviso, avevo fatto breccia nella sua corazza.

“Victor? Cosa… cosa significa?”

“Non qui.”

“Cosa significa, Cole?”

Stavo per risponderle, ma l’agente Koenig intervenne, mostrandole il distintivo.

“Signorina Baranova, sono l’agente William Koenig, distretto di Duluth, Minnesota. Mi spiace disturbarla così, senza alcun preavviso. Accompagno il signor St. Clair.”

Angie riaprì la porta. Ora sul suo viso si leggeva una una penosa incredulità.

“Entrate.” Disse, lasciandoci campo libero.

Era trascorsa una vita da quando ero stato a casa di Angie. Vedere le foto di famiglia, assieme a Victor e al loro fratellino, vederlo felice, mi provocava la stessa stridente e dolorosa sensazione di quando stavo per trasformarmi. Un pugno, un pugno fortissimo all’altezza dello stomaco, e la morsa che mi torceva gli organi interni. Victor mi aveva seguito nel mio vortice di follia. Io l’avevo consegnato nelle mani di Tom Culpeper, dannandomi perché lui riusciva dove io fallivo. Io ero responsabile della sua morte. Dove trovassi il coraggio di guardare Angie non lo sapevo, eppure continuavo a guardarla. Lei al contrario, non mi guardava, ma fissava l’agente Koenig mentre lui le raccontava il motivo per cui eravamo lì. Solo quando “fratello” si incontrò con “morto”, e sul suo viso comparve il pallore dello shock, completamente fuori di sé, mi guardò. Uno sguardo capace di abbattere le mie difese, così come quello della cerva mortalmente ferita che mi implorava di completare la mia opera di distruzione, a Boundary Wood. Entrambe mi avevano chiesto di porre fine a qualcosa, a un dolore. Avrei dovuto raccontarle ogni cosa e sperare che nella migliore delle ipotesi finissi col diventare carne da macello sul tavolo operatorio di mio padre o di altri scienziati pazzi, sezionato in mille pezzetti. Curioso, quel pensiero mi fece tornare in mente la mia hit Break my face (And sell the pieces), ma la realtà era ben più crudele. Una degna espiazione per i miei peccati. Eppure il dilemma su cosa fosse meglio, tra la verità impietosa e una pietosa bugia, non mi aveva sfiorato. Non era solo per me, ma anche per Sam, Grace, i lupi sopravvissuti, che lo facevo. Per proteggere la memoria del mio amico Victor. Per l’agente Koenig, che ci aveva aiutati. Per Isabel, per evitare che un altro Tom Culpeper fosse causa di morte per altri come noi. E così, feci quello che mi riusciva meglio: raccontare mezze verità. Il tour in Canada. Il ricordo della mia ultima esibizione, Jackie che mi allungava la droga, lo sguardo di Geoffrey Beck, i lupi che ci mordevano. La ragazza con la maglietta stinta, Victor e io nel bagagliaio. E il dolore, il dolore lancinante della tossina che si diffondeva nel nostro organismo. Di nuovo Beck e poi per un attimo, i miei occhi che incrociavano quelli gialli di Sam Roth. La trasformazione. Il nulla. Un nuovo inizio.

Recitai a memoria il copione che mi ero preparato. Durante il tour in Canada, in seguito a una overdose, ero stato portato in una clinica del Minnesota e Victor mi aveva accompagnato. Era stato l’agente Koenig a offrirsi di portarci lì, dal momento che era presente al concerto. Lì, eravamo rimasti per diversi giorni, ma mentre io mi stavo riprendendo, Victor aveva contratto il virus della meningite batterica, che nei mesi successivi aveva mietuto diverse vittime nel distretto di Duluth. Ovviamente, si trattava di una bugia che avevamo creato ad hoc, ma l’agente Koenig presentò prove a sostegno della mia tesi, e tra queste, rientrava anche Jack Culpeper, il fratello di Isabel. Vederlo su quei fascicoli, così freddi, mi faceva pensare che se fossi morto, sarebbe stato quello il destino che mi sarebbe toccato. L’impietosa fine di una geniale rock star. Dopotutto, Victor avrebbe avuto ragione. La mia fama non mi sarebbe sopravvissuta. Le dissi che anch’io avevo finito col contrarre il virus, ma per via delle cure a cui mi ero sottoposto, mi aveva contagiato in forma più lieve. Aggiunsi che ero ancora convalescente, sebbene non più infettivo, ma Victor aveva contratto la forma più aggressiva, e la febbre virale gli aveva provocato il coma. Angie ascoltava le mie parole come se stessi narrando la trama di un film dell’orrore, ma quando trassi dallo zaino l’urna con le ceneri di Victor, arrivando al finale senza lieto fine, solo allora emise un verso, un lamento simile a un uggiolio.

“C-Che significa?” Domandò.

Avevo seppellito il lupo a Boundary Wood assieme a Sam e Grace, ma prima o poi, la sua famiglia avrebbe finito col cercare quel corpo, che oramai non aveva più nulla di umano. Così avevo deciso di riesumare quella salma e mi ero occupato della cremazione io stesso. Ottenere il certificato di morte fu più complicato, ma ero riuscito a ingraziarmi un’impiegata presso il Municipio e ad accedere ai file, in modo da falsificare l’atto che mi serviva. Il rischio maggiore era quello della richiesta dell’analisi del DNA, dal momento che pur avendo dei rimasugli di tracce genetiche di Victor, non potevo contare su una comparazione con i membri della sua famiglia. Tuttavia, l’agente Koenig spiegò che per motivi di sicurezza, dovuti all’eventualità di evitare ulteriormente il contagio, si era proceduto a cremare i corpi. A quel punto, estrasse dalla borsa le buste sigillate contenenti le tracce di Victor, e per qualche secondo cercai di capire come ne fosse entrato in possesso. Feci mente locale, e mi ricordai di non aver mai bruciato o fatto sparire gli oggetti personali di Victor. Probabilmente, li aveva trovati setacciando il bagagliaio dell’auto di Beck. Quando avvicinò l’urna e le buste sigillate, Angie continuava a fissarmi. E io non riuscivo a distogliere lo sguardo.

“Cole St. Clair. Ti ho fatto. Una. Domanda.”

Avrebbe voluto sentirsi dire che era uno scherzo di pessimo gusto che avevo ordito ai suoi danni per torturarla, probabilmente. Avrei potuto farlo, era il momento di dire “E’ una horror-camera, Angie. Sorridi, tuo fratello è vivo, ma non tornerà mai più” oppure che era il peggior incubo della sua vita ed era ora di svegliarsi.

“Victor era una persona buona. Darei qualunque cosa pur di riportare indietro il tempo, ma non posso farlo.”

“Perché?”

“Perchè?” Le feci eco.

“Perché Victor? Perché mio fratello non c’è più… e tu sei ancora qui?”

“Signorina Baranova…” L’agente Koenig fece per risponderle, ma lo bloccai. Angie aveva ragione. Sarebbe stato molto più giusto. Ero io quello che voleva sparire, quello che sperava che diventando un lupo avrebbe cancellato per sempre una vita che odiava. Avevo negli occhi il cadavere di Victor, gettato davanti a noi come si fa con una carcassa immonda. Quell’immagine sarebbe rimasta con me fino a che avessi avuto vita.

“Perché la vita è ingiusta, ti direi. Invece, quello che posso dirti è che la vita ti dà una seconda possibilità, a volte, ma in cambio, esige il pagamento di un prezzo, il più alto possibile. Victor è stato quel prezzo. Non ho il diritto né di chiederti scusa, né di domandarti perdono. Desideravo solo che Victor tornasse a casa, accanto alle persone che amava. Mi dispiace di aver tardato così tanto.”

Mi lasciò parlare, fino a che l’emozione non la sopraffece e scoppiò in un pianto dirotto. Per quanto tempo aveva represso quelle lacrime? Non lo avrei saputo dire, ma pianse per minuti interi. Raccolse l’urna tra le mani, stringendola con delicatezza, come se fosse un cucciolo bisognoso di cure. Avevo distrutto le loro vite, e in cambio avevo ricavato una nuova vita, una in cui ero una persona diversa, la persona da cui avevo cercato di fuggire anni fa.

“Angie. Ti prometto che troverò una cura che impedisca a questa malattia di mietere altre vittime. Sto studiando da diversi mesi ormai. La morte di Victor non è stata vana.” Non potevo confortarla, ma era giusto che sapesse almeno questo. Koenig mi fulminò con lo sguardo. Lo ignorai. Angie scosse la testa, e sapevo che nonostante tutto, quelle parole sarebbero rimaste un mero e fuori luogo tentativo di offrirle il mio cordoglio. Rimanemmo così, nel silenzio rotto dai suoi singhiozzi disperati per un lasso di tempo che non avrei saputo quantificare. Il tempo del dolore. L’agente Koenig le stette accanto, abituato com’era ad affrontare eventualità simili. Pacche sulla spalla, mormorii silenziosi, parole di conforto. Nulla che io avessi saputo fare. Osservavo invece quel salone. Quante volte ci ero stato in passato? Seguivo con lo sguardo le suppellettili, molte delle quali erano testimonianza della fede cattolica della famiglia di Angie. C’era un quadro, che raffigurava la Pietà. Qualcuno mai avrebbe avuto pietà della mia anima? Oramai avevo totalmente perso la mia fede. Da anni per me esisteva solo l’inferno, e aveva un aspetto molto più familiare di quanto la letteratura e l’arte potessero mai rappresentare. L’inferno era una vita in cui più nulla aveva valore. Avevo toccato il fondo, ed ero rimasto intrappolato così in basso da non riuscire a riemergere nemmeno se avessi voluto. Anche se io stesso non volevo risalire. Avevo rifiutato l’aiuto di chi mi aveva teso la mano, e l’avevo trascinato nella tana del coniglio con me. Fino a che, in quella tana, avevo incontrato Isabel.

“Cole.”

La voce di Koenig. Gli rivolsi la mia attenzione. Angie si era calmata, ma continuava a stringere l’urna. Solo allora mi resi conto che il sole stava ormai tramontando. Era ora di andare.

“Angie…”

Angie scosse la testa. Mi alzai e raccolsi il mio zaino e così fece Koenig.

“Per qualunque cosa, signorina Baranova, mi chiami. Sono a sua disposizione.” Le disse. Lei annuì. Non voleva sentire altro da me, così voltai le spalle e tornai verso l’ingresso, fermandomi a congedarmi anche da Victor. Raccolsi uno dei portafoto in vista su una mensola in marmo incavata in una nicchia del muro. Victor era lì, col suo sorriso, le bacchette in mano, seduto alla batteria. Felice, pulito, ignaro di tutto. Il genere di foto che diceva tutto di una persona.

“Vic… grazie, amico mio. Suona anche per me, lassù.” Mormorai, e rimisi a posto il portafoto.

 “Cole…”

La voce di Angie. Mi voltai, mi guardava con un’espressione inintelligibile. Le rivolsi un sorriso. Il pianto le aveva conferito un’aria ancora più innocente. Perché lei lo era, lo era sempre stata. Io ero il malvagio, quello che aveva giocato con i suoi sentimenti, quello che le aveva portato via suo fratello. “Ciao, Angie.” Dissi, e mi incamminai verso l’uscita.

“Aspetta.” Ordinò, con voce abbastanza ferma a dispetto dell’apparenza. Costretto, mi voltai nuovamente verso di lei.

“Mio fratello… ha sofferto?”

Aveva sofferto, sì, quando la tossina aveva cominciato a circolarci in corpo. E soffriva ogni volta che il suo corpo instabile cambiava forma, trasformandosi di continuo. Ma quando Tom Culpeper l’aveva ucciso, nonostante il Victor che conoscevo non esistesse più, mi ero augurato che fosse morto sul colpo, e non in una lunga, dolorosa agonia.

“No.” Dissi. “Non se n’è nemmeno reso conto.”

Accusò il colpo, ma vidi la sua espressione ammorbidirsi per qualche istante. Pensai che si sarebbe rimessa a piangere, ma non lo fece. Al contrario, si tolse una catenina con un ciondolo a forma di croce. Affilai lo sguardo, la conoscevo. Un tempo, la portavo anch’io. Ma l’avevo persa, chissà in quale letto d’albergo. L’agente Koenig la guardò perplesso.

“C’è qualcosa di diverso nei tuoi occhi, Cole St. Clair.” Disse, stringendo quel ciondolo. “Non so cosa sia… e non voglio saperlo. Io non potrò mai perdonare il male che hai fatto a me, e anche a Victor, ma… ti ringrazio, per avermi riportato mio fratello.” Mi raggiunse e mi prese la mano. A quel contatto, non provai nulla di sconvolgente, ma nonostante tutto, era come se avessi la sensazione che qualcosa dentro di me si stesse rinsaldando. “Credi ancora che il paradiso non esista?”

Quelle parole mi sorpresero. Non mi aspettavo che ricordasse la conversazione che avevamo avuto anni fa sull’argomento. Allora, le avevo detto che non ci credevo più.

“Ci sto lavorando.” Confessai. Angie non replicò, ma mi porse un’altra domanda.

“I tuoi non sanno che sei qui, vero?”

Scossi la testa. Mi mise in mano il ciondolo, facendo sì che lo impugnassi. Koenig ci guardava senza capire.

“Non dirò niente sulla tua presenza qui. Ma sappi che ti vogliono bene, e che manchi loro.”

Annuii. “Grazie, Angie. Per tutto.”

Era un addio. Non ci saremmo più rivisti. Adesso che Victor non c’era più, ogni mio legame con lei era del tutto svanito. Eppure, nonostante tutto, non avevo rimpianti. Quando andammo via, tuttavia provai un’insolita sensazione di nostalgia. Ma mi ci volle un po’ per capire di cosa si trattasse. Lo compresi solo quando il cellulare di Koenig squillò. Era Sam, che chissà quanto diavolo era in pena per la nostra sorte. La persona che avrei voluto sentire in quel momento, la sola a cui sentivo il bisogno di parlare era Isabel. Avevo nostalgia della sua voce.

Riaprii gli occhi. Ero ancora a mollo nella vasca al piano di sotto. L’acqua era così tiepida che quasi faceva venire freddo. Mi guardai la mano, avevo le dita palmate. Quandi mi decisi, uscii dalla vasca e ripresi finalmente il controllo di me stesso. Dovevo trovare Isabel. Mi concentrai sui suoi occhi, sul suono della sua voce, e annusai l’aria inebriandomi del suo profumo. L’odore era il legame più forte con i ricordi. Poi corsi fuori casa.

Sei Cole St. Clair. Trova Isabel.

Il gelo fece il resto.

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** ISABEL ***


Buongiorno!! Nuovo capitolo al volo... Isabel! <3

 

 

 

 

 

ISABEL

 

 

Non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Anzi, avevo le idee piuttosto confuse, dopo aver parlato con Grace. Le ore passavano, e se volevo tornare a casa, dovevo sbrigarmi a raggiungere l’aeroporto. Tuttavia, non avevo più tanta voglia di farlo. Mi sentivo di nuovo stanca e svuotata. Tornare a casa avrebbe significato trascorrere il Natale (che già odiavo e che mi ero ripromessa di non festeggiare mai più dopo la morte di Jack) in qualche ristorante di lusso, attorniati da gente che passava il tempo chiacchierando stupidamente su inutili e dispensiosi progetti di vacanza, politica e sputando sentenze sul perché avessi deciso di prendermi un anno sabbatico dopo il liceo. Avevo fatto impazzire i miei, che avrebbero voluto vedermi frequentare con profitto Medicina o Giurisprudenza, ben intenzionata a seguire le loro orme. Medicina non mi dispiaceva, in realtà, tanto che avevo già avuto modo di studiare il manuale Merck, quando cercavo una spiegazione al perché la meningite non avesse contrastato il lupo che era in Jack, e oltretutto, non avevo di che lamentarmi sul profitto scolastico, sebbene non eccellessi come Grace. Tuttavia, era una sorta di rivincita personale, dal momento che i miei avevano vinto, allontanandomi da Mercy Falls. Certo, mi era costata l’isolamento, ma non intendevo dargliela vinta. Una volta, avevo detto a Cole che non conoscevo la differenza tra il non combattere e l’arrendersi. L’avevo imparata a mie spese, quando l’avevo mandato al diavolo senza pensarci due volte sol perché mi aveva chiamata “bambina viziata” e mi aveva chiesto di provare a fermare mio padre per permettere al branco di scappare. Quella sensazione era talmente forte e sgradevole che faceva male anche solo ricordare. Secondi, e poi interminabili minuti a rimuginare su quanto avessi sbagliato a dire a Cole di suicidarsi. Il cuore lacerato tra orgoglio e timore. Timore che era diventato paura, quando mia madre mi aveva avvisata che papà era in prima linea, come tiratore scelto. E poi la corsa disperata, a casa di Beck, e la presa di coscienza di essere arrivata troppo tardi. E ancora, una nuova speranza, la strada per il lago Knife. Ancora una corsa, l’arrivo nella radura. Parcheggiai il SUV sulla landa ghiacciata e scesi. Dire che si gelasse era dir poco, tanto che mi strinsi nel piumino. Avrei dovuto mettere qualcosa di più pesante, sentivo la morsa arrivare persino ai reni. Avanzai prudentemente, inquieta. Tutt’intorno, non si sentivano rumori che non fossero il fruscio del vento tra i rami spogli e il ticchiettio dei tacchi. Ma riuscivo a sentire altri rumori, ben più radicati ed echeggianti. Le pale degli elicotteri che si alzavano in cielo, i lupi che fuggivano, gli ordini urlati da Cole, che correva con loro incurante del pericolo, e la raffica di proiettili che cadeva dal cielo, abbattendo Beck e altri lupi. Voltai lo sguardo verso la strada e rividi la lupa bianca puntare verso il branco per impedire l’avanzata, e poi di nuovo Cole, che si trasformava e ingaggiava battaglia con lei. Non avevo mai visto niente del genere in vita mia. Uno scontro furibondo, all’ultimo sangue. E non avevo mai visto Cole battersi prima di quel momento. Determinazione, volontà ferrea, istinto di sopravvivenza. E quando sembrava aver avuto la meglio, una nuova raffica di proiettili era caduta dal cielo, lasciando accanto al cadavere esanime della lupa bianca quello di Cole. In quel momento, il mondo aveva smesso di girare. E poi, la voce di mio padre al cellulare, che mi intimava di levarmi di lì. Sollevai lo sguardo al cielo, così grigio e minaccioso.

Perché proprio Cole tra tutti i lupi? Perché quello a cui tengo? Già, non me n’ero resa conto fino a quel momento. Era sempre stato lui. Sin dal giorno in cui l’avevo trovato nudo sulle scale di casa mia. Sin da quando l’avevo visto ubriaco riverso sul pavimento in cerca del coraggio di farla finita. Sin da quando mi aveva rivelato che stava cercando una cura. Sin da quando mi aveva detto che non avrei mai lasciato che qualcuno provasse ad amarmi. Sin da quando avevo sentito la sua voce al telefono dirmi che io ero la prima persona che aveva avvisato di essere vivo. Cole era la persona più incostante che conoscessi. Il genio dall’intelligenza sconfinata, la rockstar con migliaia di fan che aspettavano solo il suo ritorno, il megalomane esibizionista dalle continue sorprese, il lupo dagli occhi umani. E io, cos’ero per lui?

Un fruscio tra i cespugli mi risvegliò da quei pensieri. Abbassai lo sguardo, cercando di focalizzare, scorgendo una sagoma scura che si muoveva. Era surreale come riuscissi a parlargli davvero soltanto quando era in quelle sembianze. Sapere che lui non poteva capirmi, in un certo senso era rassicurante. E sebbene non fossi il tipo di persona che parlava quando non poteva essere ascoltata, con Cole avevo scoperto che era facile.

“Sai Cole? In questi mesi, la sola cosa che mi ha dato il coraggio di non impazzire è stata la tua voce, l’ultima volta che mi hai chiamata. Ho trascorso giorni orribili credendo che tu fossi morto. Urlavo contro i miei genitori, li odiavo per quello che avevano fatto, molto più di quanto li avessi detestati fino a quel momento. Non avevano soltanto distrutto la mia vita, ma mi stavano privando delle sole cose che le davano un senso. Già, perché tu e quei lupi rabbiosi e infetti mi avete fatto capire che dopotutto, c’è del buono anche in una mela marcia. Una volta ti ho detto che non potevo stare con te perché eri tossico, e mi avresti trascinata nuovamente nel baratro da cui ero appena risalita. E tu mi hai chiamata “bugiarda” e mi hai detto che ci eravamo incontrati perchè eravamo entrambi in fondo a quel baratro. Avevi ragione, Cole. Avevi ragione su tutto. E questa cosa mi fa una rabbia tremenda, perché tu sei sempre stato in grado di vedere quel che io non vedevo. Tu mi hai mostrato la terza via, e non avevo capito che era quella che portava te, ma non posso percorrerla se tu non me ne dai la possibilità.” Alzai la voce. Non avevo bisogno che mi sentisse, ma dirlo era il solo modo che avevo per convincermi che una volta tanto, a parlare era il mio cuore. “Maledizione, Cole St. Clair, perché diavolo sei tu il solo che vorrei che provasse ad amarmi?!” La sagoma scura drizzò le orecchie appuntite e si voltò verso di me. Per un attimo provai un’insolita sensazione di sollievo, accanto alla consapevolezza di essermi arresa ai sentimenti che avevo cercato di reprimere, ma quando dai cespugli saltò fuori un lupo dal manto scuro, le mie ossa si bloccarono e il mio cuore ebbe un sussulto strano. Avvampai. Non era Cole. Ricordavo bene il lupo dal manto brunastro, ma soprattutto, i suoi occhi verdi, assolutamente umani. Gli occhi della bestia che avevo di fronte non lo erano. Al contrario, erano scuri e senza alcun brillio. Le sole cose che scintillavano erano le fauci scoperte, mentre ringhiava. Doveva essere qualche lupo spintosi da queste parti dopo che il branco era fuggito. Merda, avrei voluto che mio padre fosse con me in quel momento, per dirgli “Hai visto che hai fatto, papà?!”, ma c’eravamo solo io e quella bestia rognosa che non faceva altro che ringhiare e sbavare. Che meraviglia, dovevo diventare la cena di un lupo che per giunta non era umano part-time due giorni prima di Natale? Sorrisi istericamente a quel pensiero. Un bel regalo per la mia famiglia. Mi venne in mente la Mustang di Cole sul comodino, accanto alla croce. Avrei fatto un bel regalo anche a lui se fossi morta. Ma dopotutto, non dovevo avere rimpianti. Mi morsi le labbra, e all’improvviso fui sopraffatta dal ricordo della mia stanza, di Cole che si avvicinava e mi baciava come nessuno, neppure lui prima di allora, aveva mai fatto. Un bacio dolce come il ricordo di un bacio, le sue dita gentili che mi accarezzavano la guancia. Era così nitido e perfetto il ricordo di quella sensazione, che per un’istante ebbi l’impressione che stesse succedendo di nuovo. “Ti bacerei così, se ti amassi.”, mi aveva detto. Ma Cole non mi amava. Lui non amava nessuno che non fosse se stesso. Non importava quanto urlassi. Cole St. Clair non mi avrebbe mai amata. Fine della storia. Chiusi gli occhi e rimasi immobile, mentre una lacrima si formò nel mio occhio destro. La lasciai uscire senza protestare. “Non voglio più soffrire. Fa’ presto, fottuta bestia.” Mormorai. Ringhiò e sentii distintamente le sue zampe in movimento. Ma più chiaramente ancora, sentii levarsi un secondo ringhio, più potente e minaccioso, e il rimbombo di qualcosa che era stata colpita. E subito dopo vidi un flash, nell’oscurità dei miei occhi ancora chiusi. Casa di Beck. Sgranai lo sguardo di colpo. Un lupo grigio brunastro aveva attaccato il lupo dal manto scuro. Mi si mozzò il fiato in gola.

“Cole!” Esclamai.

Si voltò. I suoi occhi verdi incontrarono i miei. Umani. Umani e determinati.

“Tu…” balbettai, incapace di articolare una parola decente.

Scosse il muso affusolato, scoprendo i denti aguzzi. Sarei forse morta per mano sua? Cole non aveva alcuna capacità di controllo su di sé quando era un lupo. Non poteva avermi riconosciuta.

Il lupo dal manto scuro si era rialzato e fissava Cole rabbiosamente. Ma lui continuava a fissare me. Solo quando la bestia si lanciò all’attacco, azzannandolo alla gorgiera, Cole scattò e reagì. I miei muscoli si mossero. L’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Riuscii a tornare al SUV e a ripartire. Tremavo, e non sapevo nemmeno dove dovessi andare. Avevo solo un pensiero in mente. Casa di Beck. Sicuro. 

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Capitolo 8
*** COLE ***


Buonasera a tutti! *---* Scusate l'attesa, ne approfitto per pubblicare un breve capitolino! *_* Aggiorno presto col prossimo! *_* Buona lettura, e come sempre, grazie per il sostegno!! *----*

 

 

 

 

COLE

 

 

Il mio primo pensiero fu “metterla al sicuro”. Il secondo fu “campo libero”. Il terzo pensiero fu quello che mi spinse a combattere il lupo affamato che avevo di fronte e che aveva le zanne conficcate nella mia gorgiera. “Qui comando io”. Non avevo bisogno di ucciderlo, ma solo di fargli capire chi comandava. Sarebbe stato facile costringerlo a chinare le orecchie e a prostrarsi con la coda tra le zampe, ma era affamato, ed era una minaccia. Shelby era una minaccia per il branco. Questo lupo era una minaccia per chiunque si fosse avventurato nel bosco senza alcuna protezione. Non potevo permetterlo. Mirai all’occhio, il punto più delicato, e strinsi la presa con violenza, causandone l’esplosione. Avevo il sapore del sangue in bocca. Mollò la presa, disorientato, e ne approfittai. Niente di personale. Mirai al collo, affondando le zanne fino a raggiungere la giugulare. Il lupo rispose con zaffate violente che persero man mano di intensità. Potevo sentire gli spasmi che attraversavano il suo corpo diminuire, fino a che non terminarono. Solo allora mollai la presa, lasciando la carcassa esanime. Lo osservai. Era morto. Isabel era salva.

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Capitolo 9
*** ISABEL ***


Buonasera!! *---* Nuovo capitolo, stavolta... ok, è abbastanza lungo!! Scusate l'attesa più lunga del previsto! >_< Spero vi piaccia tanto quanto a me è piaciuto scriverlo, era da una vita che aspettavo di arrivare a questa parte!! *------*<3<3<3 Buona lettura e buona serata!! :D

 

 

 

ISABEL

 

 

C’era una stanza, in casa di Geoffrey Beck, che aveva un significato particolare per me. Avevo trascorso tre giorni seduta su una poltroncina ai piedi del letto, immersa nell’aria putrescente di malattia. Era una bella stanza dalle pareti gialle, allegre, calde, quella in cui era morto mio fratello. Ed era lì che mi ero seduta, di nuovo, in attesa di qualcosa. Cole era là fuori, a combattere contro il lupo al quale stavo per consegnare la mia vita. Avrebbe vinto? O forse quella bestia feroce sarebbe stata troppo forte anche per lui? Avrebbe realizzato ancora una volta l’impossibile? Il problema era che qualunque cosa facesse, lui otteneva sempre quello che voleva. A costo di autodistruggersi. Sottovalutava, o forse calcolava fin troppo bene per quanto i comuni mortali potessero comprendere, i rischi da correre. Non so quanto tempo rimasi seduta ai piedi del letto a riflettere su quanto megalomane e imprudente fosse quel ragazzo. So solo che quando sentii la porta aprirsi era buio. Mi alzai e uscii dalla stanza, raggiungendo l’ingresso. Era lì, di fronte a me, con il muso ancora sporco di sangue. Dalla porta aperta arrivò una folata di vento gelido, che a contatto con l’aria calda della casa lo fece sussultare. E da lì, cominciò la trasformazione. Avevo già assistito a quella scena, ma quella volta con me c’era Sam, e Cole era in preda alle convulsioni dopo essersi sparato in vena chissà quali farmaci. Allora non lo sapevo ancora, ma stava lavorando per cercare la cura, usando il suo stesso corpo come cavia. Ed era sconvolgente, qualcosa che andava oltre le leggi stesse di natura. Il corpo del lupo che si inarcava, tendendosi oltre la sua lunghezza naturale, il manto scuro che regrediva, scoprendo la nuova pelle umana, il muso affusolato che riassumeva fattezze umane. Le zanne che diventavano denti, e gli occhi, che nella fase di transizione sembravano incapaci di definire qualunque sensazione stesse provando, tornarono a vedere. Dette un calcio alla porta col piede, sbattendola fino a chiuderla, poi incamerò aria e si sollevò. Solo allora, quando Cole rimase in piedi, nudo davanti a me, mi accorsi delle ferite che aveva riportato. Graffi, soprattutto sul collo e sul petto, ma ciò che mi colpì di più erano le cicatrici sul suo fianco. Segni d’arma da fuoco. Per quanto il suo corpo fosse in grado di rigenerare qualunque tessuto, per quanto gravi le ferite fossero, le cicatrici rimanevano. Fece schioccare le ossa della schiena, stiracchiandosi incurante della mia presenza, e poi toccò a quelle del collo. Si passò le mani tra i capelli, poi mi guardò, rivolgendomi un largo sorriso accondiscendente. Un vizio che non aveva perso. La prova che era tornato umano e in pieno possesso delle sue facoltà mentali.

“Sono di nuovo nudo.” Ammise candidamente, con la stessa naturalezza del dire “Sono di nuovo vestito”.

Lo raggiunsi, fermandomi a un passo da lui. La sua espressione si fece interessata. Sollevai la mano, seguendo con le dita le linee rosse dei graffi che portava sul collo e sul petto.

“Questa può essere considerata molestia sessuale, lo sai?” Domandò provocatoriamente.

Arrivai alla fine del graffio, e affondai l’unghia nella sua pelle. E tanti saluti alla manicure. Sibilò, scostandosi di colpo.

“Ne deduco che lo sai ma non ti importa. Sei incazzata?”

Oh, incazzata. No, Cole non sapeva cosa potevo fare se mi incazzavo davvero. Sorrisi, e gli mollai un ceffone. Uno schiocco secco, la sua mascella si irrigidì. Deglutì, poi portò la mano sulla guancia e mi guardò. Adesso aveva la solita espressione vacua, quella di quando qualcosa gli importava.

“Perché… devi sempre fare di testa tua, stupida bestia egoista?!” Ringhiai.

“Solitamente a questo punto della storia, Cappuccetto Rosso sta mangiando una torta con la nonna e col cacciatore che le ha salvate dal lupo cattivo.”

“Solitamente a questo punto della storia, Cappuccetto Rosso ha preso a schiaffi il lupo stronzo che l’ha salvata dal lupo cattivo senza preoccuparsi delle conseguenze. E spiacente, non c’è nessuna torta. Anzi, per la cronaca il tuo frigorifero è vuoto.”

“Colpo basso. Promossa con lode, Isabel Culpeper.” Nonostante tutto quello scambio di battute era come un piacevole ritorno al passato. Ma allo stesso tempo, continuavano a tornarmi alla mente le parole di mio padre. Le ripetei quasi sovrappensiero.

“Le persone non cambiano quello che sono. Cambiano solo quello che fanno.” 

“E’ per questo che il lupo stronzo non potrà mai mangiare la torta con Cappuccetto Rosso e con la nonna?”

Incrociai il suo sguardo.

“Cappuccetto Rosso muore nella fiaba originale. Quella storia serviva a far capire i pericoli delle cattive frequentazioni. Hanno cambiato il finale per mitigarne l’effetto.”

“Isabel.”

“Credevo di aver sbagliato a tornare qui, Cole. Ma invece, mi è servito. Ho capito qual è il mio posto nella tua vita.”

Mi fissò per un lunghissimo istante, senza che riuscissi a capire cosa gli stesse passando per la testa, poi quando finalmente aprì bocca, fu interrotto dagli squilli del mio cellulare. Ottimo tempismo. Lo presi dalla tasca dei jeans. Aveva la batteria quasi scarica, ed era mio padre. Lo maledissi mentalmente, ma dovevo aver lasciato trapelare qualcosa dalla mia espressione, tanto che Cole se ne rese conto e mi oltrepassò, lasciandomi sola nella stanza. Risposi, sperando che almeno facesse in fretta.

“Papà.”

“Oh, Isabel.” A giudicare dal tono era piuttosto allegro. Dio mio, chissà cos’aveva in mente stavolta.

“Cosa vuoi?” Domandai, voltandomi in direzione di Cole, che era sparito.

“Zucchina, cos’è quel tono seccato? Ho una gran bella notizia per te.”

Primo, era irritante il fatto che mio padre continuasse a chiamarmi zucchina. Secondo, aveva forse trovato un altro branco da sterminare?

“Ah.” Sospirai, andando a sedermi sul divano e osservandomi le dita. Erano ancora sporche del sangue di Cole. E per giunta, da quando ero arrivata, non  avevo nemmeno fatto una doccia.

“Quando parte il volo? Vengo a prenderti all’aeroporto appena sei qui e ce ne andiamo tutti e tre al ristorante.”

“Ed è questa la bella notizia?” Domandai, per inerzia, più che per reale voglia di saperlo.

“No, ma ce ne andiamo in Florida. Ho già prenotato tutto quanto. Il nostro albergo dà direttamente sulla spiaggia, ti piacerà sicuramente. Vedrai, Isabel, sarà un Natale indimenticabile.”

Andare in Florida a Natale… davvero un gran bel progetto. Dal momento che non eravamo più a Mercy Falls e non poteva rapirmi nel bel mezzo delle uscite per portarmi nello schifoso ristorante italiano che adorava, aveva ideato un nuovo metodo per costringermi a fare quello che voleva.

“Spero che ti rimborsino il biglietto, papà, perché non vengo.”

Preso alla sprovvista, mio padre ebbe un attimo di esitazione.

“Il volo è in ritardo?” Domandò con fare indagatore. Per quanto fosse un avvocato che sventrava la gente con l’abilità di un Velociraptor, ficcanasare alla ricerca del punto debole era un modus operandi.

“No, non c’è nessun volo, papà. Rimango qui, a Mercy Falls.”

“Stai scherzando, spero.” Rispose duramente.

“Mai stata più seria.” Continuai, osservandomi le unghie. Lo smalto si era consumato nonostante avessi messo il gel. Certi centri estetici erano davvero una fregatura.

“Isabel Rosemary Culpeper. Esigo che tu torni immediatamente a casa.” Declamò. La condanna era stata emessa. Mi venne da ridere.

“Sono maggiorenne, papà. Faccio quello che mi pare e tu non puoi impormi niente. Ma divertitevi in Florida, tu e la mamma. E se posso darti un consiglio, usate i preservativi. Niente contro, ma non mi va di fare da balia a un moccioso. Puzzano di latte e se ti vomitano addosso addio ai vestiti.”

“Isabel!” Ringhiò furiosamente papà. “E’ opera di quel Samuel Roth, vero?! Non sei con l’agente Koenig, dì la verità!”

Aveva preso informazioni. Dovevo aspettarmelo.

“Se anche fosse non ti devo spiegazioni.”

“Isabel!”

Ero così presa dal fare innervosire mio padre che non mi ero accorta che Cole era tornato. Lo compresi solo quando mi tolse di mano il cellulare. Mi voltai di scatto, si era lavato e rivestito. Indossava dei jeans larghi con le tasche e una t-shirt nera.

“Che stai facendo?” Chiesi, allarmata. Mi intimò di fare silenzio, poi mise il vivavoce.

“Salve, signor Thomas Culpeper.” Salutò divertito con teatrale educazione.

“Samuel Roth?!” La voce di papà risuonava strana col volume alto, ma non per questo aveva perso di furia. Misi una mano in faccia. Che diavolo si era messo in testa quell’idiota?

“Samuel Roth? E chi è? Mi spiace, ma non lo conosco. Al contrario, conosco Isabel.”

Gli scoccai un’occhiataccia assassina, ma non si scompose. Mantenne il tono divertito.

“Senti, figlio di puttana. Non so cosa tu voglia, ma sappi che non sai con chi hai a che fare!” Papà era inviperito.

Cole sorrise. E come se non lo sapeva. D’improvviso la sua espressione si tramutò in sogghigno.

“Se è per questo nemmeno tu sai con chi hai a che fare. Te lo dirò solo una volta. Mi chiamo Cole St. Clair. Sono più che certo che se cerchi il mio nome su Google mi troverai. E ne rimarrai sorpreso.”

Impallidii.

“E giusto per la cronaca. Isabel è perfettamente in grado di badare a se stessa. Dunque lasciala libera di vivere la sua vita come preferisce.” Adesso la sua voce era bassa, autoritaria, determinata.

“Cole…” Mormorai, nello stesso istante in cui mio padre imprecava.

“Ti saluto, Tom. Buon Natale.” Riattaccò, poi mi passò il cellulare.

“Sembra che necessiti di carica.” Mi comunicò.

Presi il cellulare.

“Perché l’hai fatto?”

“Perché morivo dalla voglia di scambiarci quattro chiacchiere.”

Ribadii. “Perché l’hai fatto?”

Mi guardò perplesso, poi mi rivolse il suo largo sorriso accomodante. “Beh, qualcuno doveva pur fargli capire che non può comandare a bacchetta la vita dei propri figli.”

“Cole, perché hai detto chi eri?!” Sbraitai.

Posò le mani sullo schienale del divano e si avvicinò, a pochi palmi dal mio viso. Il suo sorriso si spense, lasciando il posto a un’espressione seria e determinata, che sostenni.

“E’ ora che Cole St. Clair torni a vivere davvero, Isabel.”

“Che vuoi dire?” Affilai lo sguardo.

“La cura funziona. Dovrò perfezionare ancora qualcosa, e per essere certo che non ci saranno effetti collaterali, sarà necessario attendere qualche anno.”

Scossi la testa. “Che significa? Non avevi detto che era incurabile?”

Ricordavo fin troppo bene quando ci eravamo introdotti di nascosto nella clinica di mia madre. Si era tagliato il palmo della mano per analizzare il suo sangue infetto, e osservando il vetrino al microscopio era scoppiato a ridere, dicendo che la tossina agiva come la malaria, e in quanto tale, si potevano soltanto mitigare i sintomi affinchè evitassero di uccidere il malato. Ma non c’era cura.

“Ricordi la storia della rana e dello scienziato?”

“Quella delle conclusioni sbagliate, sì.”

“Esattamente. Da quando sei andata via e ci siamo trasferiti al rifugio Knife, ho continuato a studiare e a sperimentare. I fattori ambientali influenzano la trasformazione, ma non sono quelli ad innescarla. La tossina agisce a livello cellulare, provocando una mutazione a livello sistemico.”

“Grazie, premio Nobel, questo lo sapevo già.”

“Non c’è di che.” Continuò come se nulla fosse. “Quando una malattia colpisce, il sistema immunitario si attiva producendo anticorpi precisi che agiscono sulla causa. Fondamentalmente, la tossina si comporta in modo uguale, dal momento che attacca i sistemi interni. Se fosse trattata come un’infezione, dal momento che la febbre virale la contrasta, cosa sarebbe in grado di bloccarla una volta per tutte?”

Rieccolo entrato in modalità scientifica. Lo guardai, ero esausta anche per pensare. Intuì il mio stato d’animo, poi sollevò la mano e la posò sulla mia testa.

“La parola magica è vaccino.”

“E l’hai letta nella mia testa?”

“No, ma ci sono vicino. E questo è l’altro motivo per cui sono qui, da solo.”

Sbattei le palpebre. Quando l’avevo conosciuto, Cole era già parte del branco. Era una personalità dominante, in grado di imporsi anche solo con lo sguardo e in poco tempo aveva trasformato la casa in una sorta di laboratorio scientifico/palcoscenico dove tutto ciò che gli era attorno non era altro che un corollario rispetto alla sua presenza. Tuttavia, non era da solo. In quel chiasso che era la sua vita qualche mese fa, Cole non era mai stato da solo.

“Stai riflettendo sulla tua megalomania patologica?” Domandai.

Scosse la testa divertito, poi si scostò e mise le mani in tasca, gironzolando intorno ai divani. Nello stesso momento, il mio cellulare cessò di vivere.

“Merda.” Mugolai. Poi una minuscola parte della mia attenzione si focalizzò sul fatto che la chiamata di mio padre l’aveva interrotto proprio mentre stava per parlare.

“Che ne dici di rilassarti un attimo e di raggiungermi nel seminterrato?”

Rimasi lì dov’ero, ma raddrizzai le spalle. Arricciò le labbra. “Fa’ pure con comodo, ma il bagno è off limits. Sai com’è, Sam è geloso della sua vasca. Usa quello di sopra.” Mi fece l’occhiolino, poi si allontanò. Sospirai e obbedii. Cosa avrei dovuto aspettarmi adesso? Ora che mio padre sapeva di Cole, cosa sarebbe accaduto? Avrei dovuto tranquillizzarmi, Cole sembrava sapere davvero cosa fare, ma l’eco di quanto successo quell’estate era ancora troppo vivido in me. Lasciai che l’acqua calda della doccia lavasse via la stanchezza accumulata, e quando finii, osservai il mio riflesso allo specchio appannato. Nonostante gli occhi arrossati non stavo poi così male. Mi diressi nella stanza di Sam, sperando che Grace avesse lasciato dei vestiti. Non avevamo la stessa taglia, né soprattutto gli stessi gusti, ma nell’armadio trovai una vecchia felpa piuttosto larga e in un cassetto la biancheria. A occhio e croce sembrava la felpa roba di Sam, ma non avevo scaricato il trolley dal SUV e uscire mezza nuda non mi sembrava un’ipotesi felice in quel momento, come tantomeno spedire Cole a farlo. Con la faccia tosta che si ritrovava mi avrebbe sfidato a farlo da me. Mi soffermai su uno dei fogli gettati sul letto. Frammenti di parole e note. Mi tornarono alla mente gli sms che Sam mi aveva mandato la sera al Pomodoro. Il suo amore per Grace era così sconfinato che mi ero resa conto che mai nessuno avrebbe provato per me un sentimento così e mai come quella volta mi ero sentita avvilita e impotente. Fu allora che sentii un suono sommesso, simile a un accordo musicale. Prestai orecchio, e seguii stupita la scia di note che si diffondeva per casa. Quando raggiunsi il seminterrato, ebbi per un attimo la sensazione di essere tornata nella mia vecchia abitazione. La stanza era semivuota, fatta eccezione per alcuni scaffali con dei libri e dei divani accatastati accanto ai muri e al centro c’era uno Steinway a mezza coda uguale al mio. Era un particolare stonato nella mia memoria, dal momento che era stato una delle prime cose che papà aveva fatto trasferire in California. E poi Cole, Cole seduto sullo sgabello, con la schiena dritta e le sue dita da musicista che si muovevano veloci sui tasti.

Rimasi a bocca aperta e mossi qualche passo verso di lui. Continuò a suonare, rapito da quell’estasi, una melodia che non avevo mai sentito prima. Diversa dalle canzoni dei NARKOTIKA, diversa persino da quando l’avevo scorto a suonare una melodia inquietante in ottave maggiori col ginocchio appoggiato allo sgabello. Eppure maestosa, in crescendo. Avrei potuto rimanere ore e ore ad ascoltarla, era come se d’improvviso, tutte le preoccupazioni fossero rimaste al di fuori di quella stanza. Mi avvicinai al pianoforte, carezzando la lucida finitura nera, e mi fermai a pochi passi da Cole, ammirando il suo viso concentrato, il modo in cui le sopracciglia si inarcavano seguendo il ritmo e le spalle si sollevavano, portandolo verso mondi sconosciuti, dove musica e persone erano un tutt’uno. Sfiorava i tasti con grazia ed eleganza, e per qualche istante ebbi la sensazione di vedere cosa sarebbe stato, se non fosse diventato la rockstar sprezzante ed egoista che conoscevo. Un geniale ricercatore con la passione per la musica, le auto di lusso e le donne. Concluse l’esibizione con mio rammarico, perché avrei voluto continuare ad ascoltarlo, poi riaprì quei magnetici occhi verdi e sorrise. Dovevo applaudire, ma nonostante tutto, rimasi a osservarlo.

“E’ bellissima, Cole… è la musica più bella che abbia mai sentito…” Mormorai, lui fece un cenno di ringraziamento col capo. O forse trattandosi di Cole, più che di ringraziamento era d’assenso.

“Ho provato anche con la chitarra di Sam. Ma sono nato per il pianoforte, gli altri strumenti non mi piacciono.” Disse.

“Erano tuoi i fogli nella sua stanza?” Domandai, incuriosita. C’erano parole, ma la melodia che aveva suonato non ne aveva.

Si alzò. “Qualcosa del genere.” Rispose, raggiungendomi. “Davvero sexy, ragazza.” Disse senza nascondere la spiccata malizia nel tono, poi, con mia sorpresa, fece un impeccabile inchino. “Ti va di ballare?” Mi chiese.

Gli rivolsi un’occhiata perplessa. “Senza musica? Non ha molto senso.” Ma del resto, cos’aveva senso? Il fatto che fossi lì, assieme a un ragazzo che fino a poco prima era un lupo era già assurdo si suo, ma proprio quel ragazzo, era quello in grado di dare un senso all’impossibile.

“Chiudi gli occhi, Isabel.”

Li tenni aperti, guardinga.

“Dopo tutto questo tempo non ti fidi ancora di me? La prendo come un’offesa personale, signorina Culpeper.” Disse, ma a dispetto della voce seria, i suoi occhi erano giocosi. Sospirai, poi feci come mi aveva detto. Sussultai quando il suo braccio destro mi cinse i fianchi e il sinistro prese il mio. Voleva farlo davvero. “Non c’è musica…” Ripetei. Eppure, qualcosa in quella situazione mi incuriosiva. Sentivo il suo corpo atletico premuto contro il mio, la sua mano calda che stringeva decisamente la mia. Lasciai che mi guidasse, e la mia perplessità fu fugata del tutto e rabbrividii quando sentii la sua voce bassa e musicale sussurrare all’orecchio le parole di quella canzone. Diversa da tutte quelle che avevo sentito fino a quel momento. Ogni canzone dei NARKOTIKA parlava di Cole. Quelle parole parlavano di due anime che si erano incontrate quando il mondo stava finendo. Raccontavano un sentimento nuovo, nato dalla disperazione, quando tutto sembrava aver perso di significato. Due destini che si incrociavano. Non ci sarebbe mai stata salvezza, ma qualunque cosa fosse accaduta, per quanto fossero stati lontani, sarebbero stati per sempre l’uno per l’altra. Posai la guancia contro la sua spalla, mentre una lacrima mi si formò nell’occhio. Cole continuava a cantare, serrandomi a sé. Dentro di me, mi sentivo sicura, appagata e felice, come se quello fosse tutto ciò di cui avevo bisogno. Oh, sì, ricordavo quella sensazione. Quando mi aveva accarezzata, le sue dita dicevano la stessa cosa. “Questo è tutto ciò che voglio”. Sorrisi, e lasciai che le lacrime uscissero. Sentii Cole ridere sommessamente, poi si fermò e mi sollevò gentilmente il viso.

“Era così pessima?” Chiese.

Riaprii gli occhi, scuotendo la testa. “Hai scritto una canzone… su di noi…” Mormorai.

“Sono più bravo con quelle, che con le parole. Si chiama Light in the Darkness (Here with you).

Mi strinse più forte la mano, e in quel momento, non aveva niente della rockstar, niente del genio. Era solo Cole, il mio Cole.

“La risposta alla tua domanda, Isabel…” Continuò. Per qualche istante non capii cosa volesse dire, dal momento che tutto ciò che gli avevo chiesto aveva trovato risposta, in un modo o nell’altro.

“Ho capito molte cose, stando qui. Ho fatto tante di quelle stronzate nella mia vita, che avrei da raccontarne ad almeno due generazioni. Per anni ho vissuto alla ricerca di qualcosa che potesse dare un senso alla mia vita. Non avevo capito cosa fosse finchè non ho incontrato tutti voi.” Sorrise. “Beck mi ha dato una seconda possibilità, indipendentemente da quale fosse il suo progetto nei miei riguardi. Sam, con le sue poesie crucche e la faccia da Beatle perennemente depressa, mi ha mostrato cosa fosse una famiglia. Grace ha avuto fiducia in me, anche quando le iniettavo le tossine per trasformarla in lupo. Victor mi ha ricordato cosa volesse dire avere delle responsabilità verso qualcuno. Tuo padre mi ha mostrato a cosa può arrivare l’uomo quando è in preda alla disperazione...”

Esitai, lui sorrise ancor di più.

“E tu, Isabel Rosemary Culpeper… tu mi hai insegnato che l’amore esiste davvero… anche per uno convinto che fosse una trovata di James Bond per portarsi a letto le ragazze.”

D’improvviso, mi sentii avvampare. Lo guardai incredula. Ricordavo bene quando ne avevamo parlato, quando mi aveva detto che non credeva davvero nell’amore, e quelle parole, in quel momento, erano così consapevoli che quasi mi faceva male ascoltarle. Balbettai qualcosa senza senso, ero di nuovo incapace di parlare. A suo onore, dovevo dire che non fece niente per rovinare quel momento. Era così giusto, così perfetto, che nemmeno nei miei sogni avrei potuto immaginare niente di tutto quello che stava succedendo. La mia famiglia, il fatto che mio padre sapesse di lui, erano improvvisamente cose lontane anni luce. In quel mondo, c’eravamo solo noi due.

“Non so perché tu lo voglia, ma so che vorrei essere io quello a provare ad amarti.”

Annuii soltanto, poi sentii le sue labbra sulle mie. Così dolce, così gentile, così semplicemente naturale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** GRACE ***


Buon pomeriggio!! :D 

Ecco il nuovo capitolo, con cambio delle voci narranti! Che storia su Shiver sarebbe se non ci fosse anche Grace? <3 Buona lettura!! *---*

 

 

 

 

GRACE

 

 

Arrivammo a casa di Beck intorno alle 10:00 del mattino. Eravamo partiti presto dal rifugio Knife, dal momento che avevamo previsto una sosta in città per rifornirci. Per tutto il viaggio, Sam era rimasto silenzioso, ma dagli sbuffi che faceva ogni tanto, avevo capito che non era affatto tranquillo. Del resto, tornare a Mercy Falls significava rischiare di farci vedere. Formalmente, ovvero per i miei genitori, ero in Norvegia con Rachel. In realtà ero a tre ore di macchina, passando le mie giornate tra studio per corrispondenza e passaggio da un ramo dell’evoluzione a un altro. Quando Sam ebbe parcheggiato la station wagon nel vialetto, gli strinsi la mano. Mi guardò.

“Va tutto bene, Sam.”

“Vorrei poterti credere, Grace. Non era né così né ora che volevo tornare a Mercy Falls. Se i tuoi genitori dovessero scoprirlo… non voglio che ti ritrovi nei guai, di nuovo.”

“Non lo scopriranno, e se anche fosse, ormai sono maggiorenne e libera di vivere la mia vita come preferisco, e al fianco della persona che preferisco. Quindi se mio padre si ricordasse improvvisamente cosa significhi essere un genitore e volesse prenderti a pugni ancora una volta… beh, hai la mia approvazione, quindi reagisci.”

Rimase per qualche istante perplesso, poi finalmente mi sorrise. In realtà credo che l’idea non gli piacesse affatto. Sam non amava la violenza, era sempre stato il tipo di persona che cerca di far ragionare chi gli sta intorno più che attaccarlo. C’erano solo due persone con cui non ci era riuscito. Mio padre, che da quando l’aveva trovato nel mio letto gli aveva dichiarato guerra, e Cole, che a causa del suo insopportabile carattere finiva col fare puntualmente qualcosa che andava contro i principi di Sam. Inizialmente Sam l’aveva presa sul personale, ma credo che alla fine, si fosse rassegnato. Contro Cole non poteva vincere nemmeno il più paziente degli esseri umani. E in più, adesso c’era Isabel.

Quando scendemmo, l’aria gelida mi sferzò le guance, facendomi rabbrividire. Mi calcai bene il cappello in testa e presi alcune buste, poi raggiunsi velocemente casa, dando un’occhiata all’imponente SUV blu parcheggiato nelle vicinanze. Mi sentii più tranquilla. Isabel era rimasta, dunque potevo nutrire la speranza che le cose tra lei e Cole fossero migliorate. Quando Sam mi raggiunse, tremante e aprii la porta, una folata d’aria calda ci investì. Piacevole, ma anche sconvolgente per i lupi che avevamo dentro. Entrammo rapidamente e Sam chiuse la porta dietro di me. Aspettammo qualche istante, nel silenzio più assoluto, e quando la sensazione passò, mi resi conto di quanto fosse innaturale tutta quella tranquillità. Era rimasto tutto come prima di partire, a cominciare dai graffi d’artiglio sulle mostrine e sul legno, ma il disordine, quello era prerogativa di Cole. Solo che di lui non c’era traccia. Solitamente, il primo segno della sua presenza era costituito dal volume dello stereo che superava di abbondanti decibel il limite consentito per l’integrità dei timpani. Secondo, ma non meno importante, una rassegna ad ordine casuale di tutto ciò che poteva essere spostato e bruciato, il che contemplava non poter fare un passo senza imbattersi in oggetti vari sparsi per casa e roba appiccicosa bruciata sul fornello. Posai le buste in cucina, divertendomi a osservare gli occhi gialli del mio fidanzato mentre fissava con rassegnazione lo show di Cole St. Clair.

“Almeno sappiamo che non ha distrutto niente. E la cucina è pulita.” Dissi, tendendogli le mani. Sam fece spallucce. “Non cantare vittoria.” Disse, poi mi raggiunse e strinse le mie mani nelle sue. Lo attirai a me e mi sollevai sulle punte, baciandolo.

“Siamo a casa.” Mormorai.

“Mpf.” Sussurrò, ricambiando il bacio e stringendomi dolcemente a sé. “Sì, siamo a casa.”

“Bentornato…” Continuai, mordicchiandogli il labbro inferiore. Quanto lo desideravo.

“Bentornata…” Continuò Sam, e mi baciò con maggior foga, spingendomi verso l’isola al centro della cucina.

“Non sull’isola, ci mangio!”

La voce di Cole risuonò assonnata ma abbastanza ferma nell’aria. Ci voltammo a guardarlo. Indossava solo i pantaloni della tuta e si stava stiracchiando. Avevo già notato che appena sveglio, aveva i capelli pazzi, ma stavolta oltre che pazzi erano completamente scompigliati. Aveva una magnifica aria indolente, più vicina al sonno che alla veglia, e non la perse nemmeno quando si avvicinò alla cucina con nonchalance.

“Non fate caso a me, ma se proprio non riuscite a tenere gli ormoni a bada, almeno usate il divano. Anzi, no, là ogni tanto ci dormo. Non potrei più dormire sogni tranquilli sapendo che voi due… ah, bentornati.” Ci rivolse un largo sorriso. “Avete portato da mangiare? Ho solo caffè, e il che è strano, dal momento che ne bevo litri, ma sembra che io abbia trovato la fonte dell’eterna caffeina. Comunque ho fame.” Comunicò, sbirciando nelle buste come se nulla fosse.

“Stai bene?” Domandò Sam, perplesso. Cole prese il sacchetto con le ciambelle. “Cioccolato. Mi piace.”  Ne addentò una, poi prese la caffettiera e dopo averla riempita la mise sul fornello. Solo allora si rivolse a noi con più attenzione. “Sto bene. Ma sono affamato. E un uomo affamato ragiona poco. Com’è andato il viaggio?”

“Sam è stato musone per tutto il tempo, ma è andato bene.”

Per tutta risposta, Sam grugnì e Cole fece un teatrale sbadiglio. D’improvviso, sentimmo uno strano rumore in lontananza, simile a un leggero tonfo e ci guardammo.

“Non dirmi che ci sono ancora i procioni…” Bisbigliai, guardando Cole.

“Impossibile, li avevamo cacciati l’ultima volta…” Continuò Sam, sebbene non sembrasse poi così convinto delle sue stesse parole.

“A meno che i piccoli bastardi non abbiano deciso di radunare l’esercito e darsi alla vendetta.” Osservò Cole, seccato.

“Potremmo andare a controllare.” Suggerì Sam, mentre Cole si voltò a prendere due tazze dalla credenza. Una raffigurava un alce e sull’altra c’era scritto Buongiorno Minnesota.

“Fate voi, ho già combattuto la mia battaglia.” Ci comunicò, novello Pilato.

Sam mi rivolse una laconica occhiata, poi andò a prendere la scopa e scese nel garage. Io rimasi per qualche istante a riflettere sul perché Cole avesse preso due tazze anziché una. E quando me ne resi conto, svelammo anche il mistero del rumore sospetto. Isabel sbucò dal corridoio, scalza, con indosso solo una vecchia felpa di Sam. Erano diversi mesi che non ci vedevamo, ma  dopo averla sentita per telefono il giorno prima non avrei esattamente scommesso sulla buona salute del suo stato mentale. Camminava con passo felpato, circospetta. Ed era bellissima, nonostante non fosse truccata e avesse il tipico aspetto di chi si era appena svegliato dopo una notte interessante. Isabel Culpeper possedeva un fascino naturale, che la faceva sembrare simile a un predatore, proprio come Cole. Quei due erano due facce della stessa medaglia, così incredibilmente simili, troppo grandi per un palcoscenico piccolo come Mercy Falls.

“Isabel!” Esclamai.

Mi guardò, inarcando il perfetto sopracciglio biondo. “Ma tu guarda. Al posto di Santa Claus abbiamo santa Grace. Sei in anticipo, e comunque grazie per avermi svegliata.”

Sorrisi. Col tempo avevo imparato che dietro le battute acide di Isabel si nascondeva una ragazza pronta a mettersi contro tutti pur di aiutare coloro a cui teneva, ma al tempo stesso, molto severa con se stessa, al punto da reprimere molte volte i suoi sentimenti più profondi. Tuttavia, era meglio non farla arrabbiare o contrariarla. Negli anni passati insieme a scuola, diverse persone avevano rimpianto l’averlo fatto, e ancora adesso stavano pagando le conseguenze di quel gesto. Io ero stata fortunata, perché condividevamo un segreto, quello dei lupi, ma al tempo, avevo rischiato grosso.

“Scusa, non ne avevamo intenzione.” Le dissi, e lei annuì, poi raggiunse Cole. Vederli insieme, in quella cucina in cui erano totalmente fuori luogo, era davvero strano. Sembravano due modelli sul set fotografico di una campagna pubblicitaria. Testimonial di cucine old style, forse, o magari di abbigliamento molto casual. Sarebbero piaciuti a mia madre, che li avrebbe supplicati di posare per i suoi quadri. Isabel sussurrò qualcosa all’orecchio di Cole, che le rivolse un ammiccante sorriso. Se avevo avuto qualche dubbio circa come fossero andate le cose tra loro, dopo quel momento non ne ebbi più. Poco dopo, ci raggiunse anche Sam, borbottando. Niente procioni, ma quando vide Isabel la squadrò incredulo. La cosa avrebbe anche potuto farmi ingelosire, ma compresi dal suo indugiare sulla parte superiore che il motivo per cui l’aveva fatto era l’aver visto la sua felpa addosso a una ragazza che non ero io.

“Oh, Romolo.” Lo salutò Isabel, ridacchiando.

“Isabel.” Rispose Sam.

“Capisco che io sia la creatura più deliziosa che tu abbia mai visto, ma potresti anche evitare di lanciare certe occhiate.”

Ridacchiai anch’io.

“Non stavo lanciando certe occhiate. E’ solo che… non mi aspettavo di trovarti così.”

Cole cinse i fianchi di Isabel, posando il mento sulla sua spalla e guardando Sam con aria sorniona. Era in netta inferiorità numerica.

“Credevi che non sarei più tornata, eh? Ma come vedi, sono di nuovo qui.”

Sam sorrise, lasciando da parte la scopa. “No, in realtà mi fa molto piacere che tu sia qui. Bentornata, Isabel.” Disse, gentilmente.

“Grazie.” Sorrise anche lei.

“Bene, adesso che i saluti sono stati fatti, che ne dite di mangiare?” Incalzò Cole.

“Che ne dite se ci pensiamo Isabel e io? Per te va bene, vero?” Domandai. Isabel mi scoccò un’occhiata di quelle che auguravano un’agonia lenta e dolorosa, poi si guardò le unghie. Avevo momentaneamente dimenticato che le portava sempre curatissime.

“Se proprio devo. Ma sì, tanto ormai la manicure è andata.”

“Io le trovo perfette in ogni caso.” Sussurrò Cole.

“Soprattutto quando sono infilzate nella tua pelle, vero?” Domandò Isabel, con un tono sadico che tradiva tuttavia lo scherzo.

“Uuuuuh, doloroso. Non ve lo consiglio, l’ha fatto davvero.” Annuì, sciogliendo l’abbraccio e raggiungendo Sam. “Ringo, Grace non ti fa cose del genere, vero?”

Sam scosse la testa. “Ognuno ha quello che si merita, no?”

Isabel fece un cenno d’assenso, poi spense il fornello. L’aroma del caffè caldo si era diffuso in tutta la cucina, ed era una delizia.

“Perché voi due sfaticati non scaricate la mia roba dall’auto? Sono qui da due giorni e non l’ho ancora fatto, ma dal momento che devo preparare la colazione con Grace, non posso farlo. E senza offesa, ma il freddo non fa bene alla mia pelle delicata.”

Adesso capivo perché Isabel aveva acconsentito. Cucinare dopotutto non le piaceva, ma voleva un po’ di privacy.

“Andate pure, mangeremo quando tornate, e… Cole, mettiti qualcosa di pesante, fuori si gela.”

“Brisbane, ti adoro.”

Sam e Isabel lo guardarono storto. Io mi misi a ridere.

“Figurati, St. Clair, non vorrei mai che ti si compromettessero le corde vocali.”

“Grazie!” Esclamò, poi si diresse a lunghe falcate verso le camere da letto.

“Vado a controllare che la mia chitarra sia intera. Le chiavi del SUV, Isabel?” Domandò Sam.

“In camera di Beck. Sono nella mia borsa. Fruga pure, e se dovessi trovare il mio cellulare, gettalo da qualche parte dove io non possa trovarlo.”

Sam aggrottò le sopracciglia perplesso, ma evitò di chiedere altro, poi raggiunse Cole.

Quando fummo sole, svuotai velocemente le buste. Isabel mi guardava senza parlare.

“Come stai, Isabel?” Domandai, riempiendo la credenza. Lei si appoggiò all’isola. Non era affatto intenzionata ad aiutarmi.

“Per la prima volta in vita mia, sto bene. Così tanto che per qualche istante, ho avuto paura che fosse stato tutto un sogno.”

“E lo è stato?”

Aggrottò le sopracciglia, seccata. Pessima idea quella di chiederglielo. Tuttavia, il sospiro che ne seguì mi fece ricredere.

“E’ stato… molto diverso da quello che mi aspettavo. E non in male, beninteso. Solo… strano. Cole è spiazzante. Con lui è come andare sulle montagne russe senza protezione. Un attimo sei su, tocchi il cielo con un dito, e un attimo dopo ti ritrovi all’inferno dopo una caduta libera. Dura un istante, e tutto ricomincia. Ma prima non ero pronta, Grace. Temevo che avrei finito col perdere quei pochi pezzi che erano rimasti della mia anima stando con lui, invece, col tempo, ho capito che Cole è la persona che desidero, quella con cui voglio stare, qualunque cosa accada. E questo significa che se dovrò mettermi ancora contro i miei, lo farò, tutte le volte che sarà necessario.”

Posai l’ultimo sacchetto, con del pane fresco, poi chiusi lo sportello e la guardai.

“Ma più di tutto, sei felice?”

Affilò lo sguardo, poi guardò verso la finestra. Era una bellissima statua scolpita da mano sapiente.

“Lo sono, Grace. Lo sono.”

“In tal caso, sono felice anch’io per te.”

Si voltò nuovamente a guardarmi. “Grazie. E anche per avermi dato un motivo per rimanere.”

Sorrisi. In circostanze normali, avrei anche potuto prendere in considerazione l’idea di abbracciarla, ma Isabel Culpeper non era tipo da abbracci o smancerie. La sola eccezione sembrava essere Cole, per ovvi motivi.

“Per sdebitarti, che ne dici di scaldare le ciambelle?” Le chiesi, prendendone una e addentandola. “Anche se così non sono niente male.”

“Non farci l’abitudine.” Disse, avvicinandosi al microonde. “Ma non voglio morire di fame, quindi piantala di mangiare e dammi le altre.”

“Arrivano!” Esclamai, passandogliene un paio, che mi tolse velocemente di mano per mettere nel microonde. Solo dopo, spostò l’attenzione su un particolare di cui mi ero totalmente scordata.

“Piuttosto, tu, intendi rimanere imbacuccata per tutto il tempo? Niente contro, ma non vorrei che Sam ti ritrovasse bollita.”

Mi misi a ridere, e non mi capitava da tanto. Ero ufficialmente tornata a casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** SAM ***


Buon pomeriggio!! :D

Posto al volo il nuovo capitolo e fuggo a vedere Doctor Who!  <3_<3 Narrazione stavolta da parte di Sam, con una confessione a cuore aperto tra lui e Cole! <3 Buona lettura!! :D

 

 

 

SAM

 

 

Ero piuttosto perplesso davanti al SUV blu di Isabel. Ma la cosa che mi destava più perplessità era la quantità di bagagli che s’era portata dietro. Cole tirò fuori un paio di trolley Samsonite di vernice, uno rosa e uno rosso, a me toccò prendere una decina di scatole piuttosto lunghe. Stivali, sicuramente.

“Accidenti, sta progettando di scappare di casa?” Mi chiesi, sincerandomi che non ci fosse altro.

“Un carico così eccessivo rallenterebbe una fuga. E non avrebbe noleggiato un SUV, per giunta blu. Senza contare che se avesse voluto farlo l’avrebbe già fatto molto tempo fa. Anzi, per la precisione, sei mesi fa.”

Guardai Cole, che ricambiò.

“Sei arrabbiato con me, Ringo?”

“Non sono arrabbiato con te. Ma non volevo tornare a Mercy Falls.” Dissi, distogliendo lo sguardo.

Si sedette nel retro del SUV, e mi venne in mente quando l’avevo visto per la prima volta, nel bagagliaio della Tahoe di Beck. Aveva numerosi graffi sulle braccia, tagli, forse, e mi guardava con la sofferenza dipinta negli occhi, a causa del dolore che stava provando mentre la tossina gli si diffondeva in corpo. Visto ora, non sembrava più quella persona. Cole era cambiato, a modo suo. Era una forza della natura adesso, e si stava impegando in ogni modo per trovare la cura che ci avrebbe fatti tornare definitivamente umani.

“E’ per Grace. Non voglio che corra rischi d’alcun tipo.” Puntualizzai, sedendomi accanto a lui. Annuì, poi guardò verso il cielo coperto e cominciò a canticchiare qualcosa di simile a una ballata.

Sei luce nel buio del mondo che finisce. Accanto a te, non temo più l’inferno.

Lo guardai perplesso. Non erano miei versi, ma conoscendolo, non potevano nemmeno essere suoi.

“Cos’è?”

“Quello che penso delle avversità, quando sono insieme a Isabel.”

Guardai il cielo anch’io. Una notte, seduti sul grande tronco monco in cortile, avevamo cantato al cielo stellato, e Cole aveva parodiato le mie canzoni. Ma stavolta, era come se mi avesse donato un pezzo del suo cuore.

“Lo prendo come un consiglio?”

Fece spallucce.

“Grazie.”

“Avevi detto a Isabel che non sarei mai stato bene con nessuno?”

Per un istante mi stupii. Poi ricordai. Ma la domanda non doveva trarmi in inganno. Cole sapeva bene dove mirare.

“Lei mi disse “Nemmeno tu, un tempo.” … e aveva ragione. E’ stata la prima persona a credere in te, nonostante tutto.”

“Grazie per la sincerità.”

“Non c’è di che. Ma, Cole, tu sei sicuro di quello che stai facendo con lei? E’ la figlia di Thomas Culpeper. Se un giorno ti stancassi di lei, cosa accadrebbe?”

Cole stiracchiò le lunghe braccia, poi si sdraiò nel bagagliaio.

“Emo-boy, pensi un po’ troppo per i miei gusti.”

“Rispondimi.” Dissi, guardandolo. Sembrava perfettamente a suo agio anche in un ambiente scomodo come quello.

“Non ho preso in considerazione quest’ipotesi. Che tu ci creda o no, Ringo, Isabel è la persona con cui voglio stare. Ed è anche per questo che ho detto a Culpeper chi sono.”

Per poco non mi venne un infarto.

“Che hai fatto?!” Domandai. Dovevo avere presumibilmente gli occhi fuori dalle orbite.

“Quello che ho detto. Gli ho suggerito di cercarmi su Google.”

Misi una mano in faccia. Cole era il solito folle attiratore di disgrazie.

Vidi che mi guardava, ma non sapevo cosa dire se non qualche imprecazione non replicabile. Era perfetto, avremmo dovuto arruolarci nella Legione Straniera come minimo.

“Sai cos’ho pensato quando non arrivavate?”

Lo guardai incredulo e scossi la testa. “Non sono sicuro di volerlo sapere.”

Ignorò le mie parole.

“Ho pensato di aver lanciato una Molotov troppo oltre lo steccato di Dio. E che insegnarmi ad amare per poi distruggere tutto sarebbe stata una punizione divinamente ironica.”

“Tu…?”

Cole sorrise. “Ma non ho mai dubitato del fatto che sareste arrivati.”

D’improvviso mi sentii crollare il mondo addosso. Avevo dubitato di lui molte volte, a cominciare dalla sua sanità mentale, mentre Cole aveva sempre nutrito profonda fiducia in noi. Non sapevo cosa dire. Qualunque parola mi sembrava sbagliata, totalmente fuori luogo. Rimasi lì a fissarlo mentre si godeva quel suo raro momento di sincerità spiazzante.

“Per cui, stavolta, fidati di me. Non mi sarei mai esposto così con quell’uomo se non fossi stato sicuro di ciò che stavo facendo.”

“Tu sei sempre sicuro… ma non lo sei del lieto fine, Cole. Me l’hai detto tu stesso, con Beck.”

Si tirò su, guardandomi dritto negli occhi. Qualunque cosa gli stesse passando per la testa, non riuscivo a intuirla.

“Questa volta sì. Ringo, ce l’ho fatta. Ho la cura che ci farà tornare definitivamente umani.”

Rimasi a riflettere sulle sue parole per qualche istante. Una vita nuova, libera dalla maledizione del freddo, una vita del tutto umana, ciò che stavamo aspettando era finalmente a portata di mano. Misi la mano in tasca, se ne accorse.

“E magari potrai finalmente deciderti.”

Distolsi lo sguardo.

“Sam, tu… daresti una seconda possibilità ai tuoi genitori, se ne avessi l’opportunità?”

Trasalii. Tutto quello che mi era successo, era stato causato da loro. Nella mia mente cominciarono a scorrere rapidi i flashback della mia infanzia, di mia madre e di mio padre che trattenevano me, bambino di sette anni, nella vasca da bagno di casa, tenedomi fermi i polsi. E il sangue che scorreva con l’acqua, le mie urla, e le lacrime di mia madre mentre domandava a mio padre perché non morissi. Per anni non avevo potuto neanche tollerare l’idea di avvicinarmi alla vasca da bagno al pianterreno, fino a che Grace non mi ci aveva trascinato a forza, mentre stavo assiderando. Non ero mai riuscito a superare quel trauma, ma andava decisamente molto meglio, a causa delle terapie d’urto alle quali volente o nolente ero stato sottoposto. Ma non avrei mai potuto concedere una seconda possibilità a qualcuno che si supponeva dovesse proteggere e amare incondizionatamente la creatura più preziosa che aveva generato, qualunque cosa fosse accaduta.

“No. No, Cole, non lo farei mai. Quelle persone non sono i miei genitori.” Dissi.

Mi dette una pacca sulla spalla, cosa mi fece irrigidire.

“Grazie.”

Gli rivolsi un’occhiata perplessa. “Perché mi ringrazi?”

“Per aver soddisfatto una mia curiosità. Stavo pensando che saresti un buon padre. Ah, ma non azzardardatevi a sfornare qualcosa prima di essere tornati del tutto umani. Sarebbe un caso scientifico di rilevanza mondiale, ma al momento mi accontento di un solo Nobel.” Mi rivolse il suo largo sorriso, io lo guardai incredulo. Grace e io non avevamo mai parlato di figli, non ancora. Ma avevo capito che provare a comprendere Cole St. Clair era più difficile che comprendere un alfabeto non ancora conosciuto. Sospirai. “Torniamo dentro? C’è freddo.”

Annuì e si alzò, prendendo con sé le scatole.

“Tu porta i trolley, e attento, non vorrei che si rigassero, Isabel ci tiene.”

“Fai proprio sul serio con lei, eh?” Domandai, alzandomi e chiudendo lo sportello.

“Io faccio sempre sul serio, Ringo.”

Lo guardai.

“Mi spieghi che ci fa uno Steinway nel seminterrato?”

Mi lanciò un’occhiata di sfida. “La tua chitarra non mi piace. Ci ho provato, ma non fa per me. Ah, e scusa se te l’ho portata via, ma eri a quattro zampe, dubito saresti riuscito a suonare.” Mi precedette, io sospirai.

Presi i trolley, tirandoli, poi mi soffermai a osservare casa di Beck. Se n’era andato, mio padre, e senza di lui, non avevo più alcun punto di riferimento strettamente familiare, ma ciononostante, era come se avessi la sensazione che lui fosse lì con me. “Buon Natale, Beck.” Sussurrai, poi mi diressi velocemente verso casa.

Dentro, c’era profumo di caffè caldo, latte, il mio the verde e ciambelle appena sfornate, una vera delizia. E il sottofondo musicale di musica natalizia allo stereo era meraviglioso. Misi i trolley da parte e mi diressi verso la cucina, quando di colpo, la musica cambiò e il volume crebbe a dismisura, al punto da far vibrare le assi del pavimento.

“Cole!” Urlai, inutilmente. Con lui era uno spreco di voce. Quando arrivai in cucina, Cole stava ballando. Per l’esattezza aveva tra le mani due cucchiai e li batteva ritmicamente sull’isola, seguendo la musica col resto del corpo. Isabel e Grace ridevano, parlottando tra loro, sebbene avessi qualche dubbio sul fatto che riuscissero a sentire le loro stesse parole e quando Cole mollò la sua occupazione alzando le braccia al cielo come se fosse in discoteca mi resi conto di cosa voleva fare. Lo stereo continuava a sparare musica martellante a volume altissimo. Cole mosse le mani invitando Grace e Isabel a ballare con lui, cosa che accettarono di buon grado. Io rimasi sulla porta, gustandomi la scena. Per la prima volta da quando la conoscevo, vidi Isabel ridere di cuore. Ricordavo ancora quando ci trovamo tutti e tre nella cucina di casa di Grace, il suo sguardo malinconico mentre Grace e io ci baciavamo, dopo aver ballato. Non c’era più traccia di quella tristezza adesso. Cole fece fare una giravolta a entrambe, poi Grace tornò ai fornelli, ballando ancora mentre riempiva le tazze di latte e caffè. Sorrisi, era così bella. Isabel si accorse di me, e mi raggiunse, continuando a ballare.

“Romolo, non fare l’albero di Natale e vieni a ballare anche tu!” Ordinò. Io feci cenno di no, mi prese le mani e mi tirò in mezzo alla mischia. Cole si lanciò in un urlo di assenso, battendo le mani, poi Grace subentrò a Isabel, e mi imboccò con una ciambella. Scoppiò a ridere, e io feci lo stesso, mangiando. Cole tirò a sé Isabel, che prese nuovamente a ballare con lui. Erano incredibilmente sincronizzati, come se si muovessero all’unisono. In quel tutto quel casino che molto poco aveva di natalizio, avevo percepito per la prima volta dopo tanto tempo l’atmosfera del Natale. Forse tornare a Mercy Falls non era stata una cattiva idea. A distogliermi da quel pensiero furono le mani di Grace che invitarono le mie sui suoi fianchi. Era il momento di lasciarsi andare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** COLE ***


Buon pomeriggio!! Nuovo capitolo, torna a narrare Cole! <3 Non so a voi, ma a me fa un po' strano leggere di Natale ora che è passato Ferragosto... XD Comunque... grazie infinite per il sostegno, ragazze, non immaginate nemmeno quanto sia felice, e dico davvero, che questa fanfiction vi stia appassionando!! Credo che la sfida più difficile per chi scrive fanfiction sia il rispettare i caratteri dei personaggi tanto quanto il riuscire a suscitare emozioni, e sapere di starci riuscendo, mi fa davvero piacere!! Grazie davvero!! Tornando alla storia, stavolta ho pensato di chiarire un altro punto lasciato in sospeso... certo che questi ragazzi hanno tutti dei problemi con i genitori... ò_O Buona lettura!! <3

 

 

 

 

 

COLE

 

 

Era sera inoltrata quando finimmo di cenare. Grace aveva cucinato dei pancake durante il pomeriggio, poi lei e Isabel si erano ritirate nella stanza di Sam e ben presto le avevamo sentite ridere e scherzare come due vecchie amiche che avevano parecchio da raccontarsi. Io avevo parlato a Ringo della cura definitiva, dei punti di forza e di quelli di debolezza dovuti agli eventuali effetti collaterali che avrebbero potuto mostrarsi col tempo. Ciononostante, sembrò volersi fidare di me, ma compresi quanto questo gli stava costando. Poi ci dedicammo al passatempo comune, ovvero suonare e cantare, e da parte mia, trasformare le sue canzoni crucche in qualcosa di meno deprimente. Ma nel complesso, trascorremmo la migliore Vigilia di cui avessi mai avuto memoria. Fino a che non ci ritrovammo seduti sui divani a vivere quel momento di assoluta tranquillità. Grace era appoggiata alla spalla di Sam, che suonava Astro del Ciel alla chitarra, cantando tuttavia la versione tedesca. Isabel, seduta accanto a me, ascoltava la canzone con un’espressione nostalgica.

“Tutto bene?” Domandai.

“Sì. E’ solo che Jack adorava il Natale.”

“Ti rende triste?”

Affilò lo sguardo, poi scosse la testa. “Non proprio. Più che altro mi ero ripromessa di non festeggiarlo più.”

“Non lo stiamo festeggiando. Non c’è nemmeno una decorazione.”

“Non c’è bisogno di decorazioni per festeggiare qualcosa.” Rispose. Logico.

“Anche a me piace il Natale. Quando vivevo a New York cantavo nel coro della chiesa in queste occasioni. Ovviamente mi riferisco a quand’ero bambino.”

Stavolta sbattè le palpebre, poi si mise a ridere.

“Ecco svelato il mistero della tua familiarità coi rosari.”

“Con i rosari?” Domandai, facendole eco.

Isabel annuì. “In camera mia. Una volta, hai preso i grani tra le dita, come se fossi avvezzo a queste cose. Sinceramente quella volta ho pensato che era impossibile immaginarti mentre entravi in una chiesa senza darle fuoco.”

Ghignai. Non potevo nascondere che quelle idee su di me mi lusingavano.

“Cole, perché non canti qualcosa anche tu?” Mi chiese Grace. Non mi ero accorto che aveva ascoltato la nostra conversazione. Ma cantare canti natalizi non faceva per me, non più ormai.

“Passo. Ho già dato.” Agitai la mano in segno contrario. Sam sollevò lo sguardo. Sembrava un cane a pelo lungo con quella frangia orribile che glieli copriva quando aveva il viso volto in basso.

“Non guardarmi così, non canterò mai niente del genere.”

Mai più, volevi dire, vero?” Incalzò Isabel, con un ghigno sul viso.

“Ovviamente.”

“E’ un vero peccato.” Disse Grace. Poi si alzò. “Allora prendo i regali.”

Isabel aggrottò le sopracciglia bionde. “Non voglio regali.”

“Io sì!” Esclamai. “Che mi hai regalato?”

Grace fece cenno a entrambi di aspettare, poi si allontanò, scomparendo nel corridoio.

“Ringo, che mi ha regalato Grace?” Domandai.

“Aspetta e vedrai.” Disse, pacatamente, posando la chitarra.

Tornò dopo qualche minuto, con una busta che posò sul tavolino, di fronte a noi.

“Questo è per te, Cole.” Disse, porgendomi una scatola rossa allungata, decorata con un nastro dorato.

“L’hai fatto tu il fiocco?” Chiesi.

“No, è stato Sam. E’ più bravo di me con i lavori manuali.” Sorrise.

Ringo che impacchettava regali ce lo vedevo tanto quanto lo vedevo a incartare libri al Crooked Shelf.

“Ah.” Spacchettai velocemente guardando Sam, poi mi ritrovai tra le mani una versione A4 del poster promozionale della mia Sinking Ship (Going Down). I NARKOTIKA prima che li uccidessi. “Non mollare il timone.” Mormorai.

Isabel allungò lo sguardo.

“Grace, Ringo… non so che dire.” Biascicai. Ed era la verità. Non sapevo cosa dire se non che quel regalo mi aveva spiazzato.

“Sam ha pensato che ti avrebbe fatto piacere rivederli ogni tanto. E a quanto pare, ha pensato bene.”

Rivolsi un’occhiata a Sam, che contraccambiò. “In realtà volevo trovare delle foto, ma sarebbe stato rischioso. Anche se adesso che ti sei esposto, immagino che non sia un più un problema.”

“No, non lo è, infatti.” Confermai. “Grazie ragazzi. Avete avuto davvero un bel pensiero.” Dissi, sollevando il poster. Grace annuì soddisfatta, poi prese un’altra scatola che porse a Isabel.

“Questo è per te, invece.” Le disse. Isabel la guardò di sottecchi. Non dovevano piacerle particolarmente i regali non richiesti. Poi la raccolse e scartò. Ebbe un fremito impercettibile tra le sopracciglia quando tirò fuori una felpa gialla con su scritto Santa Maria Academy e dallo sguardo di Grace compresi che doveva essere successo qualcosa legato a quella felpa.

“Dal momento che la tua l’ho distrutta trasformandomi…” Esordì Grace. Isabel agitò la mano in aria. “Non dovevi. Ma sei stata gentile.”

“Isabel.” Disse Sam.

“Romolo?”

Sam sorrise. “Non ti ho mai ringraziata per tutto quello che hai fatto per Grace l’anno scorso. E voglio farlo di persona, come anche per ciò che hai fatto per noi. Se non fosse stato per te, a quest’ora non saremmo qui.”

Guardai Isabel, che scoppiò a ridere.

“Romolo, sei più ingenuo di quanto pensassi. Credi che l’abbia fatto per carità? Sinceramente, avevo bisogno di svagare la mente, e questa qui mi è stata d’aiuto. E quanto a quello che è successo… mio padre aveva rotto. Ma niente di tutto questo ha a che vedere con voi. Ho fatto quello che mi andava e l’ho fatto per me stessa.”

Sam la guardò perplesso, cercando con lo sguardo l’aiuto di Grace. Io mi misi a ridere.

“E tu che hai da ridere, Cole?” Domandò.

Ero troppo divertito, ma evitai di sbugiardarla. Mi alzai.

“Sto pensando che questo è davvero il Natale delle confessioni. Gente, mi ritiro.”

“Buonanotte, Cole.” Disse Grace, dolcemente.

“Buonanotte.” La incalzò Sam, con un mezzo sorriso sul viso.

“Anche a voi. E buon Natale, ragazzi.” Guardai Isabel, e la luce soffusa non mi impedii di notare il rossore sulle sue guance. “Ci vediamo dopo.” Le feci l’occhiolino e mi rispose affilando lo sguardo. Poi li lasciai, andando in camera mia. Posai il poster sulla poltrona, poi mi avvicinai alla finestra. Nevicava, e a giudicare dal manto, doveva farlo da un po’. Un anno prima, non avrei mai pensato di trascorrere il Natale in questo modo. Anzi, a essere del tutto sincero, non avrei pensato nemmeno di trascorrerlo. Avevo vissuto una vita molto più impegnativa di quanto i miei coetanei avessero potuto mai vivere. Avevo sfidato la morte, tante e tante volte, ma l’avevo anche corteggiata. Avevo perso tutto, e ottenuto molto più di quanto sperassi. Eppure, c’era ancora una cosa che dovevo fare. Presi il cellulare e rimasi a fissarlo per diversi minuti. Tutto intorno, c’era solo silenzio. Non avevo il numero che cercavo in rubrica, ma lo ricordavo bene. “Non sono stati loro, sei stato tu, tutto il tempo.” Mi ripetei. Poi digitai il numero e lasciai squillare. Una, due, tre volte. A ogni squillo, sentivo il mio cuore pulsare più forte. Scacciai la sensazione di soffocamento, poi rispose una voce maschile.

“Pronto?”

Esitai. Per qualche istante pensai di chiudere. Se non fossi stato ancora pronto?

“Chi parla?” La voce era perplessa.

Mi tornò in mente Sam, e poi Beck. Il loro legame era così forte, nonostante le bugie, nonostante il fatto che non avessero un solo globulo rosso in comune. Boccheggiai.

“… Cole?”

Mi si mozzò il fiato. Anzi, per la prima volta in vita mia, non avevo più fiato in gola. Ero così concentrato che non avevo sentito i passi alle mie spalle. Solo quando sentii le braccia di Isabel cingermi da dietro, mi risvegliai da quello stato. Mi voltai quanto bastava per incontrare il suo sguardo. Non parlò. Era lì, ma quel silenzio diceva più di qualunque parola. Strinsi la sua mano. “Grazie.” Mormorai, poi avvicinai il telefono. “Sì. Sì, sono io, papà.”

Mio padre, il dottor George St. Clair, colui che voleva controllare tutta la mia vita rendendomi la sua migliore creazione, si mise a piangere.

“Cole… Cole, grazie al cielo!”

Isabel mi dette un bacio sulla guancia. La guardai, poi lasciò la presa e si allontanò, uscendo dalla stanza. Era ora di rimarginare una volta per tutte le ferite che erano rimaste aperte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** GRACE ***


Buon pomeriggio! <3 Posto il nuovo capitolo, da parte di Grace! <3 Sì che è una fanfiction Cole/Isabel centric, ma devo dire che anche Sam e Grace avevano una questione in sospeso... uhuhuh Ne approfitto per ringraziare Ginny... e sappi che il tuo PM mi ha fatto letteralmente crepare di risate!! XD *spupazza* Buona lettura!! *----*

 

 

GRACE

 

 

Seduta accanto a Sam, osservavo la neve cadere placida e silenziosa. Era passata la mezzanotte ormai, ed era ufficialmente Natale. Sam mi cinse, avvolgendomi in un caldo abbraccio, e chiusi gli occhi.

“Hai sonno?” Domandò. La sua voce era bassa e dolce.

“No. Sto meditando.” Gli risposi.

“Meditando? Su cosa?”

Appoggiai la guancia sul suo petto. Potevo sentire il battito del suo cuore. Così vivo, così reale.

“Su quanto sia fortunata, Sam. Un anno fa, non sapevo nemmeno se tu fossi ancora vivo. E poi, sei ricomparso all’improvviso, umano… il mio meraviglioso ragazzo umano dagli occhi gialli.”

Sam sorrise, baciandomi in fronte.

“Stavo meditando anch’io, sai?”

“Davvero?” Domandai, riaprendo gli occhi e guardandolo. Sam annuì.

“Pensavo alle parole di Cole. Al fatto che se la cura sarà definitiva, potremo vivere molti e molti di questi inverni.”

Scossi la testa. “L’inverno mi piace, ma devo ammettere che ho rivalutato l’estate.”

“Davvero?”

“Sì, perché era il solo momento in cui potevamo stare insieme… da umani.”

“Di te mi sono innamorato in estate, dolce ragazza d’estate…

Sei fatta con l’estate, dolce ragazza d’estate.

Quando vorrei passare un inverno con te, dolce ragazza d’estate.

Ma non ho mai caldo abbastanza per la mia dolce ragazza d’estate.” Canticchiò.

“Ti amo, Sam.”

Sam mi rivolse uno sguardo colmo d’amore. Mai, per niente al mondo, avrei permesso alla vita che avevamo tanto lottato per avere, di separarci nuovamente. Sam, il mio triste, gentile, generoso Sam. Gli accarezzai la guancia, poi gli scostai i capelli dal viso e mi tirai più su.

“Grace.”

Sorrisi, poi lo baciai. Era così perfetto quel momento. Sam ricambiò, avvicinandomi ancor di più a sé. Potevo sentire il suo profumo, di bosco, di lupo. La sua mano risalì lungo la mia schiena, e la inarcai. “Grace, devo dirti una cosa.”

“Dopo.” Sussurrai, continuando a baciarlo. Ma fu più deciso di me, e mi scostò delicatamente. Lo guardai perplessa. “Che c’è?”

“Ci ho pensato tanto. E’ da un po’ che ci penso in realtà.”

Mi misi a sedere sulle ginocchia e lo guardai.

Sam prese un gran respiro, poi tornò a guardami. La sua espressione era uno strano misto di emozione e timidezza.

“Ho pensato a mille modi di dirtelo. E credimi, quando dico mille, dico davvero, non è una stima. Ma la verità è che non so come dirtelo se non nel modo più semplice.”

“Sam, di che stai parlando?”

“Ricordi quando mi hai detto che non volevi vivere nel peccato e fare le cose per bene, vero?”

Le sue parole mi colpirono. Certo che lo ricordavo. E quella volta, gli avevo chiesto di sposarmi. Deglutii. “Non starai mica pensando di…”

Sam mi azzittì, posandomi le dita sulle labbra.

Meine Liebe…” Pronunciò, poi si alzò e si inginocchiò di fronte a me, prendendo un anello dalla tasca. Era semplice, una piccola fedina d’argento con un brillantino. Lo guardai. Doveva essergli costata almeno uno stipendio, e dal momento che non lavorava più al Crooked Shelf, mi sentii in colpa.

“Spero che tuo padre non decida di prendermi nuovamente a pugni se lo scavalco. So che vuoi fare tutto per bene, e la tradizione vuole che chieda prima il suo permesso, ma noi non siamo una coppia tradizionale. Avevi undici anni quando ti ho vista per la prima volta. Eri così fragile, così indifesa, eppure i tuoi occhi erano pieni di vita, anche mentre i lupi cercavano di strappartela. Grace, per anni ho desiderato incontrarti. Per cinque lunghi anni, ho aspettato pazientemente il giorno in cui avrei potuto  anche soltanto parlarti. E poi, quel momento è arrivato e da allora, io ho cominciato a vivere davvero. Ero solo Sam, e tu mi hai amato, anche più di quanto potessi sperare. E continui a farlo, ogni giorno. Amo la tua gioia di vivere, amo il tuo sorriso, i tuoi capelli pazzi quando ti svegli, e quando sei seduta a studiare, così come quando canti stonando sotto la doccia. Amo ascoltare il tuo respiro, quando dormi accanto a me, quando ridi e anche quando piangi, e… semplicemente, ti amo. Per questo… quando tutto questo sarà finito, vorresti sposarmi, Grace Brisbane?”

“Samuel K. Roth.” Dissi solennemente. Sam mi guardò.

“Semplicemente… sì. Voglio sposarti!” Sorrisi e mi sporsi a stringerlo forte, così cademmo entrambi all’indietro sul tappeto. Sam si mise a ridere, e mi baciò. Eravamo così giovani, ma la consapevolezza di quanto fosse fragile e preziosa la vita bastava a farci vivere ogni giorno con l’importanza che meritava. Tesi la mano a Sam, che infilò l’anello all’anulare.

“E’ bellissimo.” Osservai.

“Sei tu a esserlo, Grace.”

Sorrisi. “E’ il miglior Natale che abbia mai avuto.”

“Possiamo viverne tanti quanti ne vorrai.”

Lo baciai. “Accanto a te, non ne dubito affatto.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** ISABEL ***


Buon pomeriggio! <3 Ebbene, eccoci arrivati al finale! <3 Devo dire che quando ho cominciato a scrivere non avevo benissimo in mente tutta la storia, ma scrivendo, man mano erano gli stessi personaggi a "suggerirmi" cosa scrivere! Ne approfitto per ringraziare Nuala, Diley, Marta e Ginny per aver commentato (i vostri pareri sono stati davvero meravigliosi!! *---*) e aver condiviso con me questa saga stupenda e l'amore per Cole e Isabel!! Grazie infinite!! Un grazie di cuore anche a chi ha silenziosamente letto e seguito! <3 Aggiungo un paio di bonus! <3 http://lacus-clyne.deviantart.com/#/d4wl4vu  Qui c'è un disegno delle coppie di Shiver che ho fatto io! <3 E se qualcuno ha dimestichezza con le fanlisting, http://www.lacusclyne.altervista.org/isacole/ qui c'è la fanlisting di Cole e Isabel su TFL, sempre mia! <3 Ma torniamo a noi! Così com'è cominciata, la storia finisce con Isabel! <3 Alla fine, la nostra eroina, riuscirà a spuntarla? <3 *retorica XD* Buona lettura!! <3

 

 

 

 

ISABEL

 

 

Avevo lasciato Sam e Grace ad amoreggiare sul divano e Cole a parlare con suo padre. Era quasi surreale l’atmosfera. Buoni sentimenti ovunque, potevo lasciarmi investire totalmente, se lo volevo. Ma temevo che ciò che stavo per fare avrebbe necessitato di una buona dose di faccia tosta. Avevo lasciato il cellulare spento tutto il giorno, e quando lo riaccesi, vidi le chiamate di mia madre. Questo già di per se bastava a farmi venire un groppo in gola, ma cercai di pensare al modo migliore di risolvere una volta per tutte la cosa. La richiamai, rispose quasi subito.

“Isabel?” Aveva il tono di chi aveva passato un bel po’ di tempo a piangere.

“Mamma.” Mi sforzai di essere quanto più determinata possibile. Non che fosse un grande sforzo, ma dovevo ammettere che a modo suo, mia madre mi era stata vicina, quando ne avevo avuto bisogno.

“Tesoro, stai bene?”

“Sto bene. Sì, sto bene. Mamma, ho deciso di non tornare a casa.”

Mia madre esitò.

“E se a papà dovesse venire in mente di venirmi a prendere con la forza, beh, sono pronta a oppormi di nuovo. Lo farò tutte le volte che sarà necessario. Sono stanca, mamma. Stanca di dover vivere la mia vita senza che voi mi capiate in alcun modo. Jack è morto. Io sono viva… e voglio vivere secondo le mie regole, non le vostre. Mi capisci?”

Sentii un singhiozzo, ma cercai di rimanere quanto più calma possibile.

“Isabel, mi dispiace. Ti vogliamo bene. Tutto quello che abbiamo fatto…”

“L’avete fatto per i vostri scopi! Per la prima volta in vita mia io sono felice! Felice di essere al mondo, e di poter essere semplicemente Isabel, non la figlia di Tom Culpeper. E poi, Cole…”

“Cole… il ragazzo delle scale, vero? E’ sempre lui?”

“Certo. Cosa credi, che vada a prostituirmi, mamma?!” Strillai.

“No. Non pensarlo nemmeno!” Si affrettò a dire. “Quel ragazzo ha avuto dei problemi…”

“Sì, è un ex drogato. Ed è anche uno stramaledetto genio, lo sai? E soprattutto, io lo amo. Lo amo, mamma, e voglio stare con lui. Non me lo toglierete un’altra volta.”

“E’ davvero questo quello che vuoi?”

“Mai stata più sicura di qualcosa in vita mia.”

Sospirò. Era strano sentirla così remissiva. O aveva qualcosa in mente o forse la magia del Natale l’aveva momentaneamente fatta rincretinire.

“Ho chiesto a tuo padre di aspettare. Abbiamo discusso, ma adesso almeno si è calmato. Non è stato facile per noi, ma credimi, ti scongiuro di credermi, se ti dico che la sola cosa che desidero è che tu possa essere felice. Proprio perché abbiamo perso Jack, non voglio perdere anche te, Isabel. Sei la sola cosa che ci è rimasta. Noi ti vogliamo bene…” Scoppiò a piangere.

Mi sedetti sulla poltroncina ai piedi del letto, stringendomi le ginocchia con le braccia. Non volevo che mia madre piangesse. Non volevo sentire il peso di quelle lacrime che mi premeva addosso.

“Mamma.”

Mia madre continuava a singhiozzare.

“Smettila, per favore.”

Niente. Era inarrestabile. Poi forse capì, o si fece forza, ma si decise a parlare di nuovo.

“Scusa. Scusa, tesoro.”

Mi rannicchiai ancor di più. “Sei sincera?”

“Ti ho mai mentito finora?”

No, non l’aveva mai fatto. Anzi, spesso mi aveva coperta con papà per Cole, pur non sapendo chi fosse davvero.

“No.”

“Allora credimi, ti prego.”

“Fallo anche tu. Per una volta, fidati di me.”

Il tacito accordo tra una madre e una figlia, quello su cui tutto si basa. La fiducia.

“Va bene. Va bene, Isabel.”

“Grazie.” Bisbigliai, speravo troppo a bassa voce perché mi sentisse.

“Buon Natale, tesoro mio.”

Toccò a me sospirare. “Anche a te, mamma.”

Riattaccai, lasciando il cellulare sul letto. Avevo la sensazione di aver combattuto una battaglia, e anche se l’avevo spuntata, in un modo o nell’altro, non provavo alcuna soddisfazione. Affondai il viso nelle braccia, sperando che qualche stanza più in là, a Cole fosse andata meglio. E poi, ripensai a Grace, ai suoi problemi coi genitori, alla sua pazza idea di far credere loro di essere in Norvegia con Rachel a studiare. Nonostante tutto, tra noi due, era lei la vera vincitrice. Sicura di sé, capace di combattere per i suoi sentimenti e di dare buoni consigli. Sentii bussare alla porta.

“Avanti.” Dissi.

Cole si affacciò.

“Vuoi rimanere al buio?”

“Come ti pare. E’ uguale.”

Non accese nulla, ma nell’entrare, lasciò la porta socchiusa, così che la luce del corridoio potesse filtrare. Si sedette accanto a me, per terra.

“Non è andata come speravi?”

Rialzai la testa. “Sì, più o meno.”

“E non sei soddisfatta?”

“Per niente.”

Cole incrociò le mani e fece schioccare le nocche.

“Ho detto a mio padre che non tornerò a casa. E mi ha detto che lascerà comunque la porta aperta. E’ un problema. Se qualche malintenzionato entrasse e rubasse la mia Mustang non risponderei di me.”

Lo guardai perplessa.

“Non ti preoccupa che possa far del male alla tua famiglia?”

“E’ un altro modo di vedere le cose. Se lasciasse la macchina, i miei potrebbero fuggire.”

“Semantica. Se li uccidesse prima e rubasse la macchina, rimarresti doppiamente fregato.”

“Vorrà dire che mi terrò stretta la mia piccola Mustang. Quella non me la porterà via nessuno.”

Le sue parole completamente prive di senso mi fecero ridere.

“E’ così divertente?”

“Tu sei divertente.”

“Divertente. Ancora non me l’avevi detto.”

“E sei scemo.”

“Ti preferivo quando mi dicevi che ero tossico.”

“Quello lo penso ancora.”

“Mi lusinghi.”

Mi sporsi, fino a che le nostre fronti non si toccarono. “Sono innamorata di te, Cole St. Clair. E voglio starti accanto, qualunque cosa accada. Voglio venire con te al rifugio Knife.”

Cole sorrise.

“Non ti verrà la nostalgia per il caldo sole della California?”

“Dipende da quanto caldo mi farai provare.”

Arricciò le labbra in un sogghigno.

“Mi stai sfidando?”

“Tu che dici?” Domandai, ridacchiando, poi lo spinsi via e mi alzai. Mi guardò, le mani che lo sorreggevano. Mi stiracchiai, poi uscii dalla stanza. Sentii Sam e Grace ridere in lontananza. Complici e felici, come erano sempre stati. Cole mi raggiunse in qualche istante. Mi voltai a guardarlo. Alla luce, il suo volto era ancora più bello. E non c’era persona al mondo capace di farmi passare dalle lacrime alle risate come lui. E quando ero insieme a lui, mi sentivo forte e in grado di far fronte a qualunque difficoltà. Ne avevamo fatta di strada da quando ci eravamo incontrati, e allora mai avrei pensato che quel ragazzo così strafottente e maledettamente sexy avrebbe finito col farmi vivere emozioni che mai, e sottolineo mai, avrei anche solo pensato di vivere in quella cittadina sperduta in mezzo al nulla. Quei tre giorni mi avevano dato una consapevolezza nuova. Ero partita senza alcuna speranza di rivederlo, ero arrabbiata, anzi, furiosa, totalmente in sospeso, mentre in quel momento avevo tutto ciò che desideravo accanto a me. Sapevo che non sarebbe mai stato semplice, perchè Cole era incostante, e io non avevo pazienza. Ma sapevo anche che non avrei rinunciato a lui per nulla al mondo. L’amore che mi aspettava, probabilmente era di quel tipo. Un sentimento nuovo, proprio come le parole della canzone che aveva scritto per noi.

“Isabel?”

“Che c’è?”

Cole mi rivolse il suo più largo sorriso.

“Ti amo.”

Sorrisi a mia volta. Non ero mai stata così felice di festeggiare il Natale.

 

 

 

FINE

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