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Sono stato creato molto tempo fa
dalla mente di Spencer, anzi, del Dott. Spencer Reid,
agente speciale dell’FBI.
Vivo esattamente nello stesso posto
che ha visto la mia creazione. Quando Spencer era solo un bambino, vivevo anche
all’aria aperta, se aria aperta può chiamarsi la sua camera da letto.
Spencer
parlava spesso con me, giocavamo insieme, studiavamo insieme e mi confidava i
suoi più intimi segreti, i suoi sogni, i suoi desideri.
Con il passare del tempo sono stato
messo da parte; Spencer parlava sempre meno con me.
Spencer
è cresciuto, ma, no, non sono arrabbiato con lui per questo, non potrei essere
mai contro il mio creatore e amico, anche se io sono solo il suo amico
immaginario.
Sono
grato a Spencer, perché vivere nella sua mente è particolarmente stimolante. Ci
sono un’infinità di argomenti da conoscere e da capire e io ho accesso a tutta
la sua mente, quasi fosse il mio appartamento. Ammetto di vivere in una zona
poco praticata, perché Spencer ha deciso di conservare nei meandri più nascosti
e intimi della sua memoria i ricordi dell’infanzia, abbracciati ai più
dolorosi. A volte queste due caratteristiche coincidono. In ogni caso non c’è
il rischio di annoiarsi qui dentro.
Voglio
molto bene a Spencer. Io sono una parte di lui. Ho una mia identità, ma sono
legato intimamente alla sua esistenza, la qual cosa è ovvia e segue una logica
stringente.
Nella
calma apparente della sua mente ho deciso di tenere un diario o di riportare
ciò che ritengo importante nella vita di Spencer, forse la parte che, a causa
degli eventi e di alcune scelte, è stata la più trascurata da lui stesso. Io
vogliocustodire la parte emozionale del
mio creatore, i suoi sentimenti passati e presenti, per prepararmi al futuro.
Se dovessi dare un
giudizio su Spencer, sarei certamente di parte, ma so che rispetto e riferisco
anche opinioni altrui, ma di chi, ora, non ha importanza.
Spencer ha deciso di
mettere al servizio degli altri la sua intelligenza, il suo alto quoziente
intellettivo. Lo vedo lavorare a intricati casi di omicidio e rapimenti come profiler dell’FBI. Riuscire a rimediare le ingiustizie del
mondo, magari non tutte, è diventata quasi una missione per lui. Ammiro Spencer
e le sue scelte, ma mi rendo conto che elogiarlo è per me qualcosa di naturale,
non sono la sua coscienza, sono solo uno dei prodotti della sua mente.
Una
delle caratteristiche che ha contraddistinto la sua vita è la solitudine.
Essere un genio non rende la vita
facile ad un bambino. Oltre all’ammirazione iniziale che provano gli adulti non
si riesce a guardare. E’ difficile capire come si viva questa condizione. I
coetanei per un genio rappresentano un mondo di cui non si fa parte. Non ci
sono tanti argomenti di cui discutere e ogni gioco diventa frustrante, perché
troppo semplice e troppo scontato. Se a otto anni sei già alle medie, la
questione si complica. Se a dodici anni sei già diplomato e pronto per il
college, difficilmente troverai di che discutere con un coetaneo.
Nemmeno chi frequenta le scuole con
te può essere tuo compagno e amico. Spencer apparteneva a quel mondo solo
accademicamente e non era raro che lo vedessero come un moccioso petulante, un
scherzo della natura, qualcuno che fosse irrimediabilmente fuori posto e debole. Spesso lo consideravano un problema, perché erano messi a confronto
con un genio e non riuscivano ad andare oltre il suo cervello, non riuscivano a
cogliere l’animo e il cuore spezzato che cercava di nascondersi ai loro
sguardi, che soffriva in silenzio, per non dar loro modo di infierire ancora su
di lui.
La
solitudine pesava molto a Spencer, ma non aveva il coraggio di parlarne con
nessuno. Un insegnante non avrebbe capito, considerato che anche loro spesso si
sentivano messi in secondo piano dalle sue risposte fin troppo intelligenti.
L’unico adulto presente nella sua vita che gli volesse bene davvero era sua
madre, ma non se la sentiva di coinvolgerla nei suoi problemi, dato che doveva
affrontare già i propri fantasmi, la sua malattia mentale.
Io,
Riley, riuscii a fargli compagnia per qualche tempo e
proprio la solitudine è stata la chiave della mia nascita; tempo dopo io non
potevo più bastare. Aveva bisogno di quel calore umano che non poteva
riprodurre nella sua mente. Qualcuno trovò.
Si chiamava Ethan Cooper ed era un
piccolo genio, non esattamente come lui, ma era molto più vicino a lui di molte
altre persone. Si diplomarono lo stesso anno; Ethan aveva quindici anni allora.
Passavano molto tempo insieme, discutevano del loro futuro e sapevano che
avrebbero dovuto separarsi, che quella sarebbe stata per loro l’ultima estate:
Spencer avrebbe frequentato il MIT, mentre Ethan aveva optato per Yale. Spencer
era fin troppo responsabile per scegliere un college solo per seguire l’amico,
ma entrambi si ripromisero di entrare nell’FBI e si tennero sempre in contatto.
Si
frequentavano spesso, più che altro era Spencer a passare molto tempo in casa
Cooper, perché sua madre non permetteva di portare qualcuno da loro, non per
cattiveria, ma il suo disturbo mentale le creava anche problemi relazionali.
Spencer era sempre ben accetto a casa Cooper per la cena, come anche in
qualunque altro momento della giornata. La mamma di Ethan era una tipica
casalinga che preparava torte e biscotti ogni giorno per i suoi figli, sempre
attenta e premurosa e Spencer godeva di riflesso quelle attenzioni che a lui
mancavano. Sua madre gli voleva molto bene, ma facevano insieme altre cose,
piuttosto che impastare uova e farina. Passavano molto tempo a leggere sdraiati
sul letto e questo non l’avrebbe barattato con niente.
La
famiglia Cooper era diversa dalla sua; intanto, i genitori non erano divorziati
e questo era un grande vantaggio. Ethan non era figlio unico e questo apriva
diversamente la sua mente alle relazioni con gli altri. Litigare con i suoi
fratelli era benefico e gli dava quella forza che mancava a Spencer. Il
fratello più grande di Ethan compariva solo di rado a casa Cooper, non era
quasi mai presente nelle ore che vedevano Spencer loro ospite. Non mancava mai,
invece, il membro più piccolo della famiglia, Cecily.
Per Spencer lei era l’animale strano della situazione. Avere a che fare con
qualcuno più piccolo di lui lo metteva particolarmente a disagio. Come si
doveva rapportare a lei? Come poteva avere una conversazione con una bambina
che non sapeva ancora pronunciare decentemente la lettera R e, se era una
brutta giornata, anche la S? Storpiava il suo nome, che diventava “Pent” per chissà quale logica astratta della mente della
ragazzina, se mai una regola la governasse. Le emozioni di Spencer erano
irritanti anche per me, vedeva questa presenza come un fastidio, qualcosa che
era fuori dalle sue possibilità di gestione. Si sentiva impotente e oppresso. Che
poteva fare con lei? Purtroppo per lui Cecily aveva
libero accesso a tutte le camere, compresa quella di Ethan, che si dimostrava
protettivo con quella piccola creatura.
Solo raramente gli era capitato di
rimanere da solo nella stessa stanza con lei. Solitamente la bambina lo fissava
prima da lontano, poi con piccoli passi si avvicinava a lui per porgergli
qualche giocattolo o, peggio, fargli qualche domanda priva di qualunque tatto.
Chiedere a Spencer dei suoi genitori gli provocava sempre un grande imbarazzo,
condito da vergogna, senso di colpa e tristezza insieme, ma sapeva che non
poteva certo prendersela con lei, che conosceva solo quella famiglia felice da pubblicità.
Spencer non la detestava, questo no, non aveva fatto niente di male quando gli
aveva chiesto che lavoro facesse suo padre o perché sua mamma non veniva mai a
prenderlo da casa loro, però soffriva, paragonando la propria vita alla sua,
che conservava la semplicità dell’infanzia che lui non aveva mai conosciuto. Guardava
la sicurezza del suo mondo e provava un piccolo moto di invidia, pentendosene, mentre
lei lo prendeva per mano con le sue appiccicose e lo accompagnava alla porta,
quando ormai era ora di andare a casa. Un giorno gli chiese perché fosse triste
e Spencer si ritrovò a negare l’evidenza che una bambina di quattro anni era
stata capace di leggergli in volto; Cecily gli stampò
un bacio su una guancia, sollevandosi in punta di piedi, e gli chiese se stesse
meglio.
Quello fu solo uno degli episodi che permise a
Spencer di sentire il calore di un’emozione dolce.
Nonostante
i bei momenti in casa Cooper, Spencer doveva ripiombare nel proprio mondo, a
casa sua, dove era un miracolo se trovava qualcosa di pulito da indossare. A
volte sua madre dimenticava persino di preparare qualcosa da mangiare,
quantomeno, negli orari soliti per pranzo e cena. Era una fortuna poter
usufruire della mensa a scuola.
Tornato a casa Spencer si dedicava a
qualcosa di utile per rendere più facile la vita a sé e a Diana. Cercava di
farle prendere le sue medicine, di svegliarla al mattino e costringerla ad
alzarsi da letto. Ogni tanto si cimentava nella preparazione della colazione,
anche se non era molto bravo in queste cose e poi, ogni tanto se ne ricordava,
era solo un bambino e non aveva senso colpevolizzarsi se le uova si erano
bruciacchiate un po’.
In
quella casa, con sua madre sempre assopita da qualche parte, fosse anche sul
tavolo della sala da pranzo in mezzo ai suoi libri, si sentiva solo, solo in
tutti quei metri quadri, decisamente eccessivi per un bambino piccolo e
mingherlino come lui.
Sapeva che non doveva lasciare che altri
scoprissero della sua condizione, che sua mamma non si occupava molto di lui,
non per cattiveria, ma perché non ci riusciva. Si sforzava di apparire normale
davanti agli occhi degli altri, ben curato, ben nutrito, sempre in ordine,
sempre attento. Eppure si sentiva terribilmente solo, senza nemmeno un padre a
dargli quel sostegno di cui aveva bisogno. Era andato via un giorno, senza
troppe spiegazioni, senza troppi convenevoli, nemmeno una lacrima, lasciandolo
consapevolmente in una situazione difficile.
Lo detestava e non si sarebbe
scrollato di dosso questo sentimento per anni e anni. Non che suo padre avesse
tentato di riavvicinarsi a lui o si fosse fatto vivo ogni tanto, nemmeno a
Natale o al suo compleanno. Era letteralmente scomparso, lasciandolo perso
nella sua solitudine.
In
quello stato d’animo preparò le valigie per il college, indeciso se portarsi
dietro qualche fotografia, qualcosa che gli ricordasse che una famiglia
l’aveva, che da qualcuno era stato generato. Scelse una in cui era solo con sua
madre, di qualche anno prima, in cui lei non era nello stato pietoso che la
costringeva in quel periodo ad essere terribilmente distante da lui e dal resto
del mondo.
Sospirò preoccupato di lasciarla
sola, ma non aveva molta altra scelta in quel momento, sperava solo che tutto
andasse per il meglio, che la fortuna lo assistesse per un po’.
Nota dell’Autrice:
Mi cimento per la prima volta con questa serie che mi sta letteralmente
divorando il cervello (espressione poco felice, ma rende l’idea!). Ormai sogno
anche di notte tutta la squadra, i serial killer no, almeno per ora …
Il personaggio che più mi ha colpito è il Dott. Spencer Reid: mi intenerisce e mi fa pena allo stesso tempo,
inoltre adoro sua madre!
Spero che l’idea vi piaccia. Non mi dilungherò molto, ma, se la storia vi
piace potrei scrivere un seguito.
Non
voglio parlare delle difficoltà di Spencer all’università. Questo diario
finirebbe per essere troppo triste. Non voglio che, quando e se Spencer dovesse
trovare nella sua mente questi ricordi raggruppati nel mio filo logico, debba
pensare che la sua vita sia stata un totale fallimento nelle relazioni.
Le
difficoltà che ha incontrato sulla sua strada sono state molte. La sofferenza
nel sapere che suo padre era andato via, di capire che la colpa probabilmente
era di sua madre, anzi, della malattia che l’affliggeva, lo faceva star male. A
volte un pensiero lo sfiorava, si insinuava strisciante di notte sotto le
coperte, quando fissava il soffitto prima di addormentarsi. La colpa, se lui
soffriva, era di sua madre. Si vergognava subito dopo di questa amara conclusione,
ma se lei fosse stata bene, suo padre non sarebbe mai andato via e lui avrebbe
potuto godere del calore di una famiglia normale, come quelle degli altri. Era
già abbastanza strambo e quel dettaglio gli creava ulteriori problemi. La colpa
di sua madre e il suo senso di colpa per quei pensieri lo buttavano giù e non
era raro per lui bagnare il cuscino di lacrime. Piangeva silenziosamente, non
voleva che qualcuno lo sentisse. Faceva il possibile per evitarlo quando era a
casa, ma anche quando era al college.
A
dodici anni era partito per Boston per frequentare il MIT. Non era stato
facile. Sua madre lo aveva accompagnato in treno, vista la sua paura degli
aerei, e non voleva lasciarlo lì, ma era fiera di lui, lo considerava perfetto,
lui era la perfezione, per cui, dopo qualche momento imbarazzante fatto di
abbracci e raccomandazioni, lo aveva lasciato nella sua nuova casa, che lo
avrebbe ospitato il tempo necessario per laurearsi.
Iniziarono i primi
problemi, per la prima volta lontani da casa, da un luogo che reputava sicuro.
Non c’era nemmeno Ethan con cui confidarsi o casa Cooper nella quale rifugiarsi
per dimenticare, anche solo per un attimo, qualcosa che non gli piaceva. Gli
era stata assegnata una doppia e ciò che ne era derivato era stato spiacevole.
Il suo compagno di stanza
non ne voleva sapere di fare da balia a un ragazzino, perché questo gli era
sembrato, e lo aveva fatto presente a chi di dovere. Ogni volta che entrava in
camera, lo fissava dall’altezza del suo metro e novanta e bisbigliava sottovoce
qualcosa, probabilmente si chiedeva cosa avesse fatto per meritarsi un compagno
di stanza con cui non poteva sbronzarsi o che, probabilmente, non aveva ancora
avuto la prima erezione. Ciò che lo disturbava era anche che Spencer lo
battesse accademicamente praticamente in qualunque disciplina e non erano
mancate occasioni, nelle prime sei settimane, nelle quali il ragazzino non
avesse messo bocca nei suoi studi. Un giorno era stato così irritato dalle
statistiche di Spencer riguardo il probabile fallimento della sua ricerca per
il Prof. Milton, che aveva deciso di chiudere il bagno e portare via la chiave.
Non fu bello ciò che successe quel
giorno, in cui tutti si rifiutarono di farlo entrare nelle loro stanze per
fargli usare il bagno e nemmeno la palestra fu di facile accesso. Fu umiliato
pesantemente, ma quello non fu l’evento peggiore della sua esistenza. Gli era
già successo un po’ di tutto alle superiori, quello era solo un sequel di un
film già visto.
Riuscì
a farsi assegnare una singola, il suo quoziente intellettivo glielo permise,
dato che il rettore aveva tutto l’interesse a coltivare un’intelligenza
straordinaria come la sua e, in questo Spencer fu furbo, non sospettava
minimamente che non era la carriera accademica a fare gola al piccolo genio, ma
meditava già di entrare nell’FBI.
Se
dovessimo parlare di colpa, in questo caso, per questi eventi dolorosi che
costellavano le sue giornate e che scandirono gli anni universitari (non poteva
saltare le classi, come aveva fatto fino alle superiori, ma doveva svolgere il
normale iter di studio di cinque anni), inutile dire che Spencer si chiedeva
perché non aveva avuto la possibilità di essere un ragazzo come gli altri,
perché non aveva avuto la possibilità di vivere un’infanzia normale,
un’adolescenza normale. Era tutta colpa del suo cervello.
La sua adolescenza si
stava presentando come qualcosa di incontrollabile e non esattamente gradita. I
cambiamenti nel suo corpo, il fatto che stesse crescendo, gli ormoni impazziti,
la voglia di contatto con altri esseri umani che lo apprezzassero, anche se era
troppo intelligente, lo stavano piegando. Si sentiva troppo fuori dalla norma e
aveva bisogno di trovare un briciolo di normalità. Per questo chiamava Ethan
quando ne aveva la possibilità e a volte mentiva su quello che gli accadeva.
Diceva che stava andando tutto bene, che i problemi avuti al liceo non si erano
ripresentanti, che episodi come quello di essere legato alla porta del campo da
football nudo, dopo essere stato adescato da AlexaLisbon, la più carina del liceo, non erano più all’ordine
del giorno. Non era così, ma non se la sentiva di farsi rovesciare addosso la
compassione delle poche persone che lo rispettavano. Anche mentire lo faceva sentire in colpa.
La
colpa lo accompagnò per lungo tempo.
A diciassette anni si laureò. Non
furono cinque anni facili, dato che spesso era costretto a tornare a Las Vegas
per prendersi cura di sua madre, ma, se all’università questo era comunque
concesso, se poteva permettersi di perdere qualche lezione, presto non avrebbe
potuto continuare così. Per entrare all’FBI doveva essere più tranquillo, non
rischiare di dover partire da un momento all’altro per risolvere i problemi di
sua madre, controllare periodicamente se mangiasse o dormisse.
Aveva
diciotto anni quando decise di chiedere un colloquio al BenningtonSanatorium, una casa di cura di Las Vegas, una tra le
più appropriate per prendersi cura di lei. I medici erano stato molto gentili
con lui. Erano in contatto con lo psicanalista che aveva seguito Diana per
lungo tempo, ma ormai la donna era ripiombata in uno stato di abbandono.
Spencer non poteva restare con lei, doveva terminare gli studi, doveva fare
domanda all’FBI, doveva iniziare a vivere una vita sua per davvero. Sua madre
non poteva più vivere da sola, immersa tra cataste di libri posati praticamente
dappertutto, senza avere un ciclo sonno-veglia decente, mangiando quello che
capitava, tra piatti sporchi e abiti da lavare.
Uno
dei medici dell’ospedale aveva notato quanto fosse indeciso sul da farsi e capì
anche perché era giunto alla maggiore età per pensare seriamente ad una
soluzione così drastica. Non avrebbe rischiato di finire in un orfanotrofio, in
affidamento o da suo padre, un uomo che non si era mai fatto vivo per anni e
anni. Il dottore in realtà non conosceva tutti questi dettagli, ma capiva
perché fosse giunto solo ora a considerare la possibilità di internare sua
madre. Lo aiutò a prendere una decisione, illustrando le condizioni di Diana Reid nel modo più chiaro possibile: aveva bisogno di aiuto
costante, lui, suo figlio, poteva darglielo?
Con
due infermieri Spencer si presentò in quella che era stata casa sua, assistette
a una delle crisi di sua madre, incapace di capire che quello che stava facendo
suo figlio era la soluzione migliore per entrambi, lui ne era sicuro.
Purtroppo quelle lacrime, quelle
invocazioni della donna, che più lo aveva amato al mondo, lo portarono ad una
crisi profonda. Era davvero la soluzione migliore per sua madre oppure stava
agendo in maniera egoistica? Era davvero per il suo bene o per il proprio?
Spencer era confuso, spaventato e la
colpa lo divorò senza nessuna pietà. La sua coscienza era indifferente ai suoi
desideri in quel momento, era indifferente alla sua sofferenza. Pianse a lungo
seduto sul pavimento della sala da pranzo di quella casa, una casa che avrebbe
dovuto chiudere per il momento, se non vendere … no, vendere no, non poteva,
non ancora, non ne aveva la forza. Il sole stava tramontando, quando con
lentezza si sollevò da terra, cercò di asciugare le lacrime che imperterrite
gli scivolavano dagli occhi e volle cercare un oasi di pace da qualche parte.
Vagò a capo chino per il suo vecchio quartiere e i piedi, guidati dal suo
inconscio, lo portarono dove spesso si recava per alleviare le sue sofferenze.
Finì davanti a casa Cooper. Sapeva che Ethan non era lì: aveva deciso di
cambiare strada, non era più interessato all’FBI, ma non era tornato a Las
Vegas. Non sapeva esattamente dove fosse, ma poco importava in quel momento. Guardò
la casa con un sentimento di nostalgia nel cuore, che andò ad aggiungersi al
grumo di sensazioni negative che gli stavano togliendo il respiro. Fece il giro
della costruzione e arrivò alla porta sul retro. Ecco, lì nessuno lo avrebbe visto,
non c’era nemmeno nessuno in casa, il garage era vuoto e chiuso. Si sedette sui
gradini della porta e si lasciò andare un’altra volta, disperato.
Io
lo so che può sembrare patetico il suo comportamento, ma penso che non potesse
fare altro, dopo tutto quello che gli era accaduto negli anni. Non era solo un
momento difficile da superare, ma un cumulo terribile di ricordi e sensazioni
da ingoiare. Era stanco e il suo animo mostrava più anni di quelli che
realmente aveva.
«Spencer ..?» una voce dolce e
delicata lo raggiunse nel suo mondo colpevole, nella sua testa ormai dolorante
per il troppo pensare. Si votò lentamente e il membro più piccolo di quella
famiglia, la famiglia che lo aveva accolto anni prima senza fare troppe
domande, lo stava fissando preoccupata.
«Cecily …
scusa, vado via.» si affrettò a dire, alzandosi da terra. Una mano della
ragazzina lo fermò e lo invitò ad entrare, senza dire una parola. Erano i suoi
occhi a parlare per lei.
Davanti
a un succo di frutta entrambi stettero in silenzio per molto tempo, in cui
Spencer continuò a lasciare che il pianto fuggisse via, lavando la sua
sofferenza, lasciando evaporare ogni bruttura dalla sua vita, e il solo sguardo
di quella ragazza fu sufficiente a permettergli di dare sfogo al suo dolore acuto
e potente. Raccontò lentamente quello che aveva fatto, pieno di rimorso per
quel minuscolo sentimento di sollievo che provava. Spiegò le sue ragioni e
anche ora non saprebbe dire se le aveva spiegate a sé stesso o al suo
interlocutore.
Cecily non disse niente. Cosa mai poteva
dire una ragazzina di quattordici anni su argomenti più grandi di lei? Continuò
con il suo silenzio, ma lasciò che le mani stringessero quelle di Spencer, che
si aggrappava ad esse come per restare inchiodato alla realtà, per non pensare
che magari era tutto frutto dell’immaginazione, che alla casa di cura non era
mai stato e che non avesse firmato nessun modulo di ricovero. In un’ultima
esplosione di rammarico lasciò che quella bambina lo abbracciasse, gli
carezzasse i capelli con delicatezza e gli chiedesse, con voce dolce e triste,
di smettere di piangere. C’era qualcosa di materno in lei, ma, soprattutto, era
la prima volta, dopo tanto, forse troppo tempo, che Spencer ricevesse quel
calore umano che tanto gli mancava. Lasciò che il suo volto si poggiasse sulla
spalla di lei e si abbandonò per qualche minuto al suo tocco leggero.
E’ difficile calcolare
quanto tempo avevano passato in quella assurda situazione, di certo molto più
di un minuto. Spencer si rese conto che era tardi, perché nella stanza ormai
non filtrava più alcuna luce dall’esterno. Aveva rubato fin troppo tempo della
giornata di Cecily che, era sicuro, non lo aveva
mandato via per una compassione che odiava aver suscitato, ma a cui era grato
allo stesso tempo. Si sollevò lentamente e la guardò negli occhi, certo di
scorgere un luccichio molto simile al suo. Fu un’altra colpa che si aggiunse a
quelle accumulate negli ultimi tempi. Sospirò, ma Cecily
gli sorrise, scostandogli i capelli dal volto. Era uno sguardo di comprensione
il suo, addolcito da quella ingenuità che le apparteneva e che sperava non
perdesse mai. Era stato dissetato dai suoi gesti.
Tornando
verso casa, Spencer sfiorò la sua guancia, dove Cecily
aveva posato un bacio leggero, diverso da quelli che dieci anni prima gli
stampava regolarmente. Sentì che qualcuno gli voleva bene, nonostante i suoi
errori, nonostante non si sentisse in regola con la sua coscienza, nonostante
non fosse come gli altri. Portò con sé il calore che quella ragazzina gli aveva
regalato, lo relegò in un ricordo del quale un po’ si vergognava, ecco perché è
giusto che almeno io ne porti memoria.
Nota dell’Autrice:
Mi rendo conto che sono fin troppo malinconica tra queste righe.
Purtroppo è il personaggio di Spencer Reid a
ispirarmi in questa maniera. Più guardo il telefilm e più penso che sia
totalmente slegato dal mondo in cui vive. Non ha altro che il suo lavoro a
fargli compagnia. Ho appena visto una puntata della quinta serie e, mentre
tutti gli altri avevano un programma per il fine settimana, lui era libero.
Sinceramente mi fa pena.
Dopo questo momento triste (anche nel commento del capitolo, uff…) ringrazio le persone che hanno letto la prima parte
di questa piccola storia.
Nei
meandri della mente di Spencer c’è un po’ di polvere, almeno in questa zona.
Raramente lo vedo rovistare tra questi schedari della sua memoria, tra quei
ricordi sotto la voce ‘Papà’, per esempio. Ci sono eventi che non vuole
rivivere in nessuna maniera. Spencer è fatto così. Eppure ho trovato della
tenerezza infinita che lui, chissà perché, ha preferito relegare in scatoloni
impolverati. Non capisco per quale ragione, ma è lui a decidere e io posso solo
obbedire … più o meno.
So
per certo che leggere di Cecily e di quel momento
speciale con lei, triste, ma pur sempre qualcosa di esclusivo, ha stuzzicato la
fantasia di molti. Lo so, ha il suo fascino, ma no, non è come pensate.
Passarono ancora molti anni prima che la rivedesse e no, non c’è stata nessuna
tenerezza, solo invidia.
E’
strano associare questo tipo di sentimento a Spencer, ma anche lui è soggetto a
quelle cadute di stile che lo rendono decisamente umano. Avrà anche un’intelligenza fuori dal comune, ma, per certe
questioni, è un ragazzo come tutti gli altri e questo piccolo dettaglio sono
veramente in pochi a capirlo. Difficile accettare come un genio possa cadere in
questa maniera così rovinosa, ma io trovo che sia un sistema efficace per
mettere in ordine lecose.
Spencer
era nell’FBI. Ce l’aveva fatta e tutti erano sicuri che ci sarebbe riuscito.
Aveva qualche problema con la pistola. Non era molto bravo nell’utilizzarla, si
impegnava, credeva di farlo bene, ma non gli riusciva come avrebbe voluto. Ogni
esame di tiro era una specie di tortura, anche se alla fine la spuntava. Era
entrato nell’Unità Analisi Comportamentale già da un anno. Era stato il
migliore del suo corso e Jason Gideon lo aveva preso
sotto la sua ala protettiva. Era nella sua squadra, capitanata da Aaron Hochner. Ormai viveva a Quantico ed era decisamente
contento di come la sua vita fosse cambiata.
Ogni
tanto tornava con la mente a certi momenti particolari del suo passato, ma se
n’era fatto una ragione. La sua vita non era mai stata come quella degli altri ragazzi
della sua età e, con la scelta lavorativa che aveva fatto, non lo sarebbe mai
diventata.
Una sola cosa lo tormentava in quel
periodo e non riusciva a decidere come fare; si trattava di andare a trovare
sua madre in clinica; non riusciva aguardarla in faccia ed era per questo che aveva scelto di scriverle ogni
giorno, raccontarle della sua vita, di quello che faceva durante le sue
giornate, dei libri che leggeva e dei casi a cui lavorava. Cercava di non
tralasciare nulla per alleviare il senso di colpa che serpeggiava infido nei
sotterranei della sua anima. Non era fiero di sé in questo caso, ma si era
abituato anche a questo. Siamo capaci di abituarci a qualunque cosa, anche la
peggiore.
Capitava raramente a Las Vegas. Qualche volta
doveva risolvere qualche piccola questione burocratica per sua madre o per la
casa di famiglia che aveva deciso di affittare. Tutto ciò che una volta era al
suo interno era finito in scatoloni pesanti che, a loro volta, erano stati
lasciati in un deposito. Faceva del suo meglio per far in modo che tutto fosse
conservato a dovere, magari per quando sua madre si fosse ripresa, anche solo
un po’, magari per quando qualcuno avesse trovato una vera cura per la sua
malattia. Aveva provato lui stesso, studiando Chimica, a cercare una combinazione
per mitigare gli effetti di quel terribile flagello, ma non esisteva niente per
poter risolvere un problema del genere. Tutto quello che aveva ricavato era la
consapevolezza terribile della trasmissione genetica della schizofrenia, che,
qualche anno dopo sarebbe emersa prepotente (la consapevolezza, non la
malattia) e ogni mal di testa veniva associato all’insorgere della patologia.
Non voglio parlare di questo ora.
Quel
periodo era a Las Vegas, dicevo. Non prendeva mai giorni di ferie al lavoro, ma
quell’anno decise che qualche giorno poteva concederselo. Ethan lo aveva
chiamato, avrebbe passato un paio di settimane a casa dei suoi, quindi gli
chiedeva di raggiungerlo, come ai vecchi tempi, esattamente come quando erano
bambini. Spencer accettò immediatamente e ottenere il permesso per le ferie fu
molto facile.
Casa
Cooper era rimasta esattamente come la ricordava. Non era stato spostato nulla,
non era cambiato nessun mobile, ma le suppellettili sì. C’erano nuove
fotografie nelle cornici sul caminetto, che si erano aggiunte a quelle che
Spencer conosceva benissimo. Erano cambiati i cuscini del divano e c’era una
nuova coperta patchwork posata sulla spalliera. La signora Cooper gli offrì un
bicchiere di tè freddo alla pesca e passò un po’ di tempo a chiacchierare del
più e del meno. Non mancarono le ormai famose statistiche di Spencer,
sciorinate qui è là per le questioni più svariate, ma sotto sotto
cominciò a covare un sentimento che si sforzava di ricacciare indietro. Era
l’invidia per quella normalità a lui negata.
Invidiò il sorriso tranquillo della
Signora Cooper, invidiò la serenità di Ethan quando scherzava con lei e invidiò
quell’atmosfera familiare che aveva perso molto presto.
La
madre di Ethan li lasciò alle loro chiacchiere dopo qualche tempo. Disse che
doveva aiutare Cecily con un vestito.
Lo scetticismo di Spencer riguardo
l’affermazione della Signora Cooper portò Ethan a chiarire cosa stava
succedendo in quella casa quel giorno. Sua madre era sembrata parecchio su di
giri e non solo per la visita di Spencer, ma anche perché quella sera ci
sarebbe stato il ballo di fine anno di Cecily. Come
la migliore tradizione americana voleva, quella sera presso la scuola superiore
del quartiere ci sarebbe stata la festa più attesa dell’anno, realizzata
direttamente in palestra.
Spencer non era andato alla sua, come
era chiaro. A dodici anni era decisamente fuori luogo recarsi in un posto dove
la maggior parte dei ragazzi avrebbe ballato e si sarebbe lasciata andare ad
effusioni nei bagni e, perché no, anche sui sedili posteriori delle auto nel
parcheggio. Lui avrebbe fatto da tappezzeria sicuramente, nessuna lo aveva
invitato e, dopo quello che gli era successo durante gli anni scolastici,
preferiva non vivere sulla propria pelle cattiverie simili a quelle di Carrie nel film di Brian De Palma.
In quel momento si accorse quanti
anni erano passati in realtà e calcolò velocemente l’età di Cecily.
Molto spesso, quando si è a scuola, si tende a calcolare il passare del tempo
grazie al cambio di classe, ai livelli di istruzione a cui si accede, mentre
per Spencer questo non era mai stato possibile. Aveva saltato troppe classi
quando era a scuola e all’università era tutto molto diverso, la sua vita era
diversa. Aveva perso il contatto con delle realtà normali e Cecily
lo avevano riportato con i piedi per terra.
Ripensò all’ultima volta che l’aveva
vista e provò un certo imbarazzo per la situazione particolare che li aveva
visti protagonisti e per la vergogna di non averla mai cercata, nemmeno per
sapere come stesse, se fosse tutto a posto.
«Avrebbe potuto saltare uno o due
anni di scuola.» esordì Ethan, quasi leggendo i suoi pensieri «Ha preferito non
farlo. Penso che avesse troppo bene in mente quello che succede ad essere
troppo diversi dagli altri.» e lanciò uno sguardo carico di comprensione per sé
e per Spencer molto eloquente.
Già, essere speciale poteva essere
scomodo, se non tragico, e in cuor suo Spencer pensò che la ragazza aveva fatto
la scelta giusta. Era meglio vivere la propria vita normalmente, se era
possibile. Ecco, lui pensava che, per quanto gli riguardava, era difficilissimo
riuscirci, proprio per la sua natura troppo particolare e insolita dalla norma,
ma Cecily era sempre stata diversa da lui, una vita
normale poteva averla e lui voleva che l’avesse.
Il
mio racconto fin qui non fa presagire nulla di così forte e devastante per quel
sentimento che è l’invidia. E’ vero, sembra tutto normale, tranquillo, carico
di una consapevolezza che mai farebbe sorgere dal suo seno la bestia verde,
quel serpente orribile e aggressivo, che manda in malora tutti i buoni
sentimenti.
Eppure io non mi sbaglio e riguardando
quei ricordi so che Spencer la provò.
Avvenne
più tardi. Con il suo amico si era perso in discorsi che non è importante rinvangare,
riguardo alcuni dei suoi studi, riguardo l’ennesima laurea che aveva deciso di
conseguire, quando il campanello della casa fu premuto da qualcuno. Ethan fu
sollecito nell’aprire, sapendo già chi fosse dietro la porta.
Si trattava di James Wood, un ragazzo
con la sindrome di Down che frequentava la stessa scuola di Cecily.
Era in smoking e questo fu notato immediatamente da Spencer. La madre del
ragazzo si accomodò insieme al figlio in salotto e Ethan fece le dovute
presentazioni. La Signora Wood si ricordava di lui, Spencer Reid,
e fece le classiche domande di rito, alle quali si risponde per pura
gentilezza. Indubbiamente qualcosa non tornava a Spencer, ma i suoi dubbi per
quella strana situazione e per quelle presenze in casa di Ethan furono dipanate
da James stesso, che tenne molto a chiarire che era stato bravo a invitare per
primo Cecily al ballo di fine anno e lo aveva fatto a
settembre, quando l’anno scolastico era appena iniziato. Ecco, James era il
cavaliere di Cecily. Il ragazzo giustificò il proprio
invito dicendo che la ragazza era sempre stata gentile con lui e di conseguenza
aveva scelto lei per quell’evento importante, anche se Cecily
aveva chiarito fin da subito che ci sarebbero andati solo da amici, niente di
più. Con rammarico James aveva accettato, ma era decisamente felice della sua
impresa.
No, nemmeno in questo momento
l’invidia lo colse; fu solo qualche minuto dopo, quando Cecily
scese le scale di casa, con indosso il famoso vestito che era stato annunciato
precedentemente da sua madre, che provò un brivido che non avrebbe mai ben
identificato.
Erano
passati anni dall’ultima volta che l’aveva vista ed era stato già difficile
sostituire l’immagine di una ragazzina con due codini storti sulla testa con
quella di una quattordicenne dalle curve appena accennate e uno sguardo più
adulto. Adesso era davvero strano convincersi che quella che aveva davanti era Cecily, ormai una donna, che quella che forse per qualche
tempo aveva immaginato come una sorta di sorella minore fosse diventata altro,
che non corrispondesse più a ciò che gli era caro ricordare. Si sentì avvampare
improvvisamente e poi sì, invidiò terribilmente James.
Invidiò un ragazzo, considerato
handicappato dagli standard della medicina, che era riuscito in qualcosa che
lui, un ragazzo dal quoziente intellettivo superiore alla norma, non aveva mai
nemmeno preso in considerazione.
Il suo intelletto vacillò per un po’,
la classificazione sociale che aveva imparato nei suoi studi di sociologia e
psicologia tremò per qualche minuto, confusa e disorientata. La bestia verde
dell’invidia strisciò fredda e terribile nel suo animo e tagliò corto con
quella scena, avvalendosi di una delle scuse più antiche del mondo, un impegno
improvviso a quell’ora di sera, che nessuno, nemmeno James (ne era sicuro)
presero per vero.
Scappò,
letteralmente. Non si voltò indietro, non chiese scusa per il suo comportamento
e a malapena guardò Cecily. Si sentiva tradito da
lei. Forse era una di quelle persone che aveva bisogno di prendersi cura di
qualcuno più debole, che si trovasse in difficoltà per affermare il proprio io.
Sì, lo pensò seriamente; pensò che Cecily fosse una
persona che amasse circondarsi di gente che la ritenesse superiore per qualche
sua caratteristica e che godesse di questo. La disprezzò e volle convincersi di
pensare davvero quelle cose.
Spencer non poteva e non riusciva a
trovare del marcio in James, perché conosceva fin troppo bene i limiti che la
sua patologia cromosomica gli poneva davanti agli occhi, ma era sorpreso di quello
che, nonostante tutto, era riuscito a ottenere, ma, no, lui non poteva essere
cattivo, gli mancava la malizia per esserlo.
Era tutta colpa di Cecily. Era tutta colpa sua.
La
strada verso l’albergo finì troppo in fretta. I sentimenti contrastanti che
provava lo avevano fatto camminare a passo svelto, molto più svelto di quello
che avesse pensato, tanto che si era trovato quasi all’improvviso davanti al
portone della struttura. Salì in camera senza salutare nessuno, perso com’era
nelle sue elucubrazioni mentali.
Si lasciò cadere sul letto e rimirò
il soffitto, dove faceva bella vista di sé una plafoniera in vetro satinato,
con un motivo a spirali. Lo sguardo si appannò e due lacrime morirono sulla
coperta. Che stupido che era per provare quel sentimento verso un ragazzo così!
Che idiota a pensare certe cose di Cecily!
Si diede dello stupido più e più
volte e comprese che quella era invidia. Ci mise un po’ di tempo a comprendere
i suoi sentimenti, gli succedeva sempre. Dare un nome a quello che provava era
veramente difficile per lui, ma quei sentimenti li provava, specie quando erano
così devastanti da offuscargli la capacità di riflettere seriamente su quello
che gli accadeva intorno e capire che i fatti non erano per niente tragici.
Nessuno aveva messo in atto un
comportamento tale da danneggiare la vita altrui. Nessuno aveva danneggiato
lui, almeno non intenzionalmente. Ma, allora, perché si sentiva derubato di
qualcosa? Cosa credeva gli fosse stata sottratta?
Ci pensò a lungo e giunse a una risposta
semplice quanto ingenua. La stabilità della famiglia Cooper era qualcosa sulla
quale in un certo senso aveva sempre puntato. Non avendo qualcosa di simile per
le mani nella sua vita, aveva assunto quella del suo amico come fosse la
propria stabilità. Come un bambino voleva che niente cambiasse, che tutto
rimanesse fedele a sé stesso, ma era assurdo chiedere a Cecily
di non crescere, di restare quella bambina che aveva conosciuto lui. Ora tutto
era diverso, tutto sarebbe cambiato ancora e lui non si sentiva pronto ad
accettarlo. Invidiava chi rendeva possibile questo cambiamento e lo detestava
perché lo tagliava fuori. Ormai lui non faceva più parte di quel meccanismo che
aveva amato, forse non ne aveva mai fatto parte e si era illuso, aveva
fantasticato su di esso e si era convinto che i suoi desideri fossero anche i
desideri degli altri.
Si girò su un fianco e si pentì del
suo comportamento imbecille. Avrebbe voluto chiedere scusa, ma non sapeva da
che parte cominciare.
Il
giorno dopo lasciò Las Vegas. Dall’aeroporto telefonò Ethan e lo salutò.
L’amico non accennò nulla sul suo comportamento della sera prima e lui chiuse
nel profondo dei suoi ricordi anche quello legato a questo avvenimento. Lo
infilò a forza nel cassetto di quei momenti imbarazzanti o difficili che non
voleva tornassero alla memoria. Fece finta di niente, eppure il suo animo
dovette guarire in silenzio da questa piccola cicatrice.
Nota dell’Autrice:
Associare dei sentimenti negativi a
Spencer fa semrpe un certo effetto. Sembra quasi che
per sua natura non possa essere “cattivo”, eppure è un essere umano come tutti
noi. Mi piaceva questo contrasto e ho deciso che scrivere sull’invidia, tra
l’altro uno dei peccati capitali, mi sembrava una buona idea.