Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Dal giorno in cui aveva salutato quelle persone che aveva
imparato ad amare in così poco tempo e tanto intensamente?
Tre anni...ormai erano passati tre
anni...
Frankie era un ometto ormai...e Lizzie...
Ma non era perduto...
Un giorno sarebbe tornato..
Un giorno li avrebbe incontrati nuovamente....
Un giorno non sarebbe stato più uno sconosciuto per
loro...
Dopotutto…siamo tutti uniti.
1- Elisabeth Sullivan
- Non è giusto!-
- Lizzie! non
discutere con me, sai bene che non è prudente che tu esca con questo
freddo...non siamo nemmeno certi che arrivi davvero-
La ragazzina corrugò la fronte, mentre l'ennesimo ago
invadeva la sua carne, affondando nel braccio.
I prelievi iniziavano a farle più male da un pò di tempo a questa parte..ma lei aveva sopportato tutto, la promessa della
dottoressa l'aveva spronata a resistere..e ora non
aveva intenzione di rinunciare alla sua uscita.
- Dottoressa Angela, per favore...mi ha promesso che
verrà, questa volta...lo ha promesso!So che verrà...mi lasci
andare…ora sto bene-
La dottoressa Watson la squadrò,
scuotendo il capo.
La piccola Elisabeth Sullivan
era cresciuta rispetto all'anno precedente, quando era
stata ricoverata in clinica.
I capelli biondi erano corti, come li aveva sempre
preferiti e quegli occhi scuri da cerbiatta la facevano sembrare una bambina
ben più giovane dei suoi tredici anni, vuoi per la
gracilità del suo fisico, non più abituato allo sport come in passato.
- Andrò io ad accoglierlo al porto, se è necessario..ma non voglio che tu
esca-
- La prego...signora Emily, la
convinca lei, la prego..- e iniziò a pregare l'anziana
infermiera che aveva appena sciolto il laccio emostatico intorno al suo gracile
braccio.
Sapeva che sulla signora Emily
aveva un particolare ascendente...era riuscita a convincerla più di una volta a perdonarle certe bravate...
Ora era una questione davvero importante.
La donna le lanciò uno sguardo triste e poi cercò il volto
della dottoressa, una quarantenne solida ed intransigente.
- Dottoressa Watson...posso
accompagnare io Elisabeth al porto, se lo permette…cerchi di capirla...- e
lasciò sottintesa la frase, in viso un'espressione quasi cinerea.
Il medico sospirò, chiudendo distrattamente la cartella
clinica della piccola paziente.
Esitò qualche istante, analizzando il volto della sua
assistita.
Era meno pallida del solito, sembrava stare bene, ma più
di una volta le apparenze l'avevano ingannata.
Cosa fare?
E se si fosse sentita male?
Ma se non l'avesse fatta andare...
se le avesse rubato quel sorriso che fino al giorno prima le colorava il volto
dai lineamenti netti e adorabili...non se lo sarebbe perdonato mai.
- Che si copra bene e non prenda
freddo, mi raccomando...e per l'una di pranzo dovete essere entrambe qui, con o
senza il signor Sullivan-
Elisabeth annuì, sorridendo raggiante alla
signora Emily che le sorrise appena, condiscendente.
Le tamponò la lieve perdita di sangue che fuoriusciva dal
braccio e lo medicò con un cerotto, prima che la giovane si tirasse in piedi,
avvicinandosi al piccolo armadio metallico alla destra della sua stanza e frugasse tra gli abiti in cerca di qualcosa di decente.
Un bel maglione rosa acceso...una
gonna di lana nera e pesante, delle calze imbottite e dei mocassini marroni,
dono di sua madre.
Indossò un piccolo berretto scuro e caldo, i guanti e un
cappotto due misure più grandi.
Era pronta.
Attese che la signora Parker, la
sua infermiera preferita, fosse giunta per
accompagnarla infine al suo appuntamento.
Il telefono della sua stanza squillò.
- Pronto?-
e i suoi occhi si illuminarono
nel percepire quella voce così lontana parlarle dopo così tanto tempo.
Non lo sentiva da un anno, non lo vedeva
da più di sei...
- Sei già arrivato? aspettami che
arriv- e si interruppe nel sentirlo scusarsi, nel
sentirlo abbandonarla nuovamente, un nuovo impegno, l'ennesimo, a tenerlo
lontano da lei...
- Capisco...- e dopo averlo salutato debolmente,
riagganciò, sedendosi sul letto.
Lo aveva fatto di nuovo...l'aveva
tradita di nuovo...
Eppure aveva promesso.
Si tolse il berretto e lo lanciò ai piedi del letto, le
lacrime iniziarono a farsi strada tra le sue ciglia,
un dolore nel petto...
Ma li trattenne entrambi.
Anche lei aveva diritto ad essere
felice, quel giorno, e lo sarebbe stata, con o senza di lui.
Si asciugò presto gli occhi, in tempo, prima che
l'infermiera entrasse con la sua pelliccia indosso.
Aveva un' aria stanca
nell'incrociare il suo sguardo, ma le sorrideva.
- Sei pronta, piccola mia?-
la ragazzina annuì rapidamente,
si alzò in piedi e le prese la mano.
Almeno sarebbe uscita dalla clinica...fuori avrebbe
respirato un po’ di vera aria...e avrebbe ritrovato ancora un po’ di quel
vecchio mondo da cui era stata esclusa troppo presto.
Quella mattina sembrava definitivamente iniziata male.
Faceva freddo, nonostante fossimo già a marzo, e il sole
pallido che a tratti faceva una comparsata tra le
nuvole uggiose di quella giornata non lo confortavano.
Dentro di sé aveva freddo.
Molto freddo.
Avrebbe voluto telefonare...
Chiedere notizie di loro...
Invece era scomparso per tre anni, cercando risposte per
mare, in altri paesi, in altri continenti..in altre persone.
Nulla di fatto.
Lui li amava...aveva lasciato il suo cuore in quella casa,
a quelle persone che forse lo avevano pure
dimenticato.
Non aveva avuto il coraggio di chiamare Marie, di chiederle cosa fosse cambiato in quegli anni.
Non aveva mai chiamato, scomparendo ancora una volta dalla
sua vita, dalla vita dell'unica persona che avrebbe
potuto chiamare famiglia dopo la morte dei loro genitori.
Marie era sempre stata più forte
di lui, ammise ancora una volta a sé stesso.
Lei era riuscita a rifarsi una vita dopo la morte di loro madre...dopo che anche JosephRiggans li aveva abbandonati, seguendo un'altra donna
e dando vita ad una nuova famiglia, lontano il pensiero di quei due figli,
intrappolati dal loro essere piccoli e soli.
Marie era riuscita a tirarlo su,
proteggendolo sempre, nonostante fosse più giovane di solo due anni e molto
scapestrato...
Ogni tanto si chiedeva come avesse fatto a sopportarlo per
quei cinque lunghi anni in cui avevano vissuto insieme ad
Edimburgo, lei appena diciottenne, lui sedicenne, incosciente, giocatore,
fumatore...
Tutti i vizi possibili ed immaginabili.
Aveva smesso, una volta imbarcatosi...aveva conosciuto un
modo troppo grande per perdersi dietro a stupide
compagnie di ubriaconi e scommettitori…anche se ogni tanto ci ricadeva...giusto
per ricordare le sue origini...
Dopotutto era uno scozzese.
Ora conosceva il mondo...
Aveva conosciuto persone di tutti i tipi...
Ed era rimasto poco tempo in ogni
porto, evitando di ritornarci, se non necessario.
E ora...di nuovo a Glasgow.
Di nuovo nell' unico porto che
avrebbe potuto chiamare casa, dove mettere piede sarebbe stato piacevole e
terribile allo stesso tempo.
Voleva rivederli...
Ma non voleva.
In che modo era cambiato quel piccolo mondo in quei tre anni?
Cosa avrebbe dovuto aspettarsi?
Frankie si sarebbe ricordato
ancora di lui?
Dopotutto erano stati insieme solo due giorni...
A volte si chiamava stupido, dicendosi
che sicuramente lo aveva dimenticato, che ormai era solo un'ombra in quel
passato che aveva cancellato quando il suo vero padre era venuto a mancare.
Probabilmente lo avrebbe odiato per come lo aveva
ingannato..
Però ogni tanto provava la voglia
di ritrovarlo, di vedere quel sorriso innocente come lui non l'aveva mai avuto,
come lo aveva visto sempre sul volto della sorella amata, cresciuta troppo
presto e sempre sorridente, capace di godersi quelle piccole gioie della vita
che lui si era negato, odiandosi per la propria debolezza...
Quel sorriso, quello sguardo così intelligente che gli
faceva dimenticare come quel bambino, ormai grande, vivesse in un mondo
silenzioso dove le voci delle persone, il fruscio delle foglie, l'infrangersi
delle onde sulla scogliera, il fischio di una nave giunta in porto...tutto era
muto e privo di anima.
Ma erano i suoi occhi scuri
quelli che udivano...quelli che sentivano come l'udito non gli avrebbe mai
permesso.
Lo aveva conosciuto così e quella sua semplicità...il suo
essere fragile e forte allo stesso tempo, lo avevano colpito…spinto a
restare...spinto a sorridergli..spinto a volergli bene.
ELizzie...
Cosa provava per lei?
Quella donna così forte che aveva sofferto così tanto...
Ogni tanto il ricordo di quell'unico momento di
tenerezza così delicato condiviso insieme lo teneva sveglio ore intere,
facendogli rimpiangere l'essere partito...ma sapeva che non avrebbe potuto
rimanere.
Non in quel momento.
E altre donne, in altri luoghi,
non gli avevano permesso di dimenticarla...
Ma cosa voleva da loro?
Poteva semplicemente tornare, come se nulla fosse stato?
Presentarsi alla loro porta e...
E cosa..?
Era confuso.
Era confuso quando scese
lentamente i gradoni umidi della Queen Mary che lo
condussero a terra dopo tre anni di assenza.
Respirò profondamente, dopo aver posato il primo passo su
quella massa di cemento che non credeva avrebbe rimpianto
tanto durante il suo viaggio.
Si guardò intorno, speranzoso, per poi scuotere il capo e
rimproverarsi di quel comportamento infantile.
Cosa credeva?
Che li avrebbe trovati laggiù?
Che magari gli dicessero di
averlo aspettato ogni giorno, seduti sulla banchina, per tutto quel tempo?
Non doveva illudersi.
Vide gli altri passeggeri della nave scendere, incontrare
i propri cari e rimase a fissarli per attimi interi, sul volto un'espressione
priva di emozione.
Ad un tratto gli parve di scorgere uno sguardo famigliare
e per poco ebbe un mancamento.
Non poteva essere...quegli occhi...
Lo stavano fissando.
Lo scrutavano.
Ma non era lui.
Era una bambina, forse...tutta infagottata in un cappottone di lana pesante con un
orribile fantasia impressa e lo fissava.
Ricambiò quello sguardo, enigmatico e triste.
Gli assomigliava molto...ma
questa ragazzina aveva dei lineamenti più delicati, nonostante fossero
leggermente scavati.
E la vide avvicinarsi, quasi
correndo nella sua direzione.
Si sentì abbracciato da due braccia sottili e il viso di quell'estranea affondato del busto.
Rimase sbigottito, le braccia larghe sui fianchi.
Era già stato abbracciato in quel modo....
- Papà! Sei venuto davvero!- gridò lei, decisa a farsi
udire da tutti in quel molo.
Al che l'uomo la fissò sgomento,
cercando di allontanarla con delicatezza.
- Ehi, ragazzina! io non sono-
disse lui, credendo di essere stato scambiato per qualcun altro.
- Stai al gioco, per favore!- sussurrò lei consapevole,
continuando ad abbracciarlo, e lanciandogli uno sguardo supplicante da sotto il
berretto caldo che celava i suoi capelli biondi.
Lui rimase silenzioso, stupito, staccandola da sè.
- Stai scherzando, vero?Io non sono
tuo padre-
- Lo so...ma ti prego...ti
spiegherò tutto dopo! Ti pago, se necessario! Ti prego!-
Non ebbe il tempo di rispondere a quella richiesta
assurda, eppure così vagamente famigliare, che una donna anziana, con indosso
una lunga pelliccia e un berretto dello stesso materiale, si era avvicinata con
un sorriso placido e mesto allo stesso tempo, su quel volto segnato dalle
rughe, gli occhi piccoli e scuri lo analizzavano dalla testa ai piedi.
- Signora Parker, eccolo qui! Le
presento mio padre!-
L'aria asfittica del taxi non le era piaciuta per niente,
ma aveva sopportato.
Tutto pur di uscire.
Era una vecchia carretta, diversa da quei bei veicoli su
cui era salita da piccola, quando viveva a Londra.
Quanto tempo era passato da quando
era stata l'ultima volta in quella città fredda e nuvolosa?
Non lo ricordava più.
Oramai viveva da sei anni a Glasgow, da
quando sua padre aveva lasciato lei e sua madre per trasferirsi in
Irlanda.
Ma era davvero così lontano, quel
paese?
Perchè non si era mai fatto vedere?
Si faceva sentire raramente, l'ultima
volta un anno prima, quando era stata ricoverata in clinica.
Le mandava del denaro ogni mese...la maggior parte veniva usata per pagare le spese mediche, e il resto adibito
a spesucce varie e riposto con cura sotto il letto, nel suo nascondiglio
segreto.
Mai una lettera...solo qualche breve telefonata della sua
segretaria per sentirsi chiedere in quali condizioni fisiche versasse e se
avesse qualche desiderio in particolare.
Nessun desiderio.
Aveva smesso di esprimerli quando
si era resa conto che non serviva a nulla.
Aveva sette anni quando aveva
acquisito quella consapevolezza.
Era scesa da due minuti, tenendo la mano all'anziana
infermiera che le lanciava occhiate dolci e preoccupate ad ogni passo, ad ogni respiro più pesante degli altri.
Suo padre non sarebbe venuto...aveva
usufruito di quella chiamata per chiederle scusa: scusa di non essere
partito...scusa di aver dimenticato di prendere la nave e di avere terrore di
volare in aereo… scusa per essersi dimenticato di lei ancora una volta.
Non sarebbe potuta uscire più...sarebbe rimasta in
clinica, bloccata fino al giorno dell'intervento,
senza poter respirare quell'aria libera, salina che le aveva accarezzato il volto
appena giunta al molo, quel soffio di mare infinito le aveva invaso i polmoni,
fatta sentire ancora viva, di nuovo viva...
Quel profumo che sua madre le aveva insegnato
ad amare.
Respirò a pieni polmoni.
- Stai bene, Elisabeth? Sei stanca?
Non riesci a respirare?-
- No, no…signora Emily, sto benissimo!- le sorrise a
trentadue denti, tutti dritti e perfetti, lo sguardo sembrava vitale come
quello di ogni altra bambina normale.
Non era mai stata meglio.
Era un anno che non si sentiva così bene.
La signora carezzò sulla guancia quel fagotto che sembrava
sul punto di rompersi in mille pezzi da un momento all'altro, dopodichè, con
una certa apprensione la invitò ad avanzare di qualche passo, e cercare tra i
passeggeri il signor Sullivan.
Elisabeth parve sospirare impercettibilmente e avanzò,
guardandosi intorno in quella grigia mattina di marzo.
Suo padre non c'era.
Lo sapeva bene.
In fondo lo aveva sempre saputo, negandolo a sé stessa.
Quando avrebbe smesso di
illudersi?
Forse mai...
Ma non aveva importanza.
Per quello che potevano valere le
sue illusioni, decise che avrebbe continuato ad illudersi per il resto della
sua vita.
Ora era sola, quasi circondata da estranei, da
sconosciuti.
Cosa fare?
Fingere di scorgere una sagoma nota per poi ritrarsi?
Far credere alla signora Parker che tra tutte quelle
persone, tra tutte quelle voci, quella di suo padre
fosse davvero laggiù?
L'aveva fatta uscire dalla clinica, convincendola a
condurla al porto, solo per farle un favore alla sua piccola...
Sapere di averla resa solo più
triste ora che mancavano solo pochi giorni all'intervento...
Emily Parker non se lo sarebbe perdonato.
Quella donna era come una madre, una
nonna, la migliore amica, l'unica...Elisabeth non avrebbe mai voluto
renderla triste…non avrebbe mai voluto farla sentire inutile.
Suo padre non aveva pensato alle conseguenze della sua
assenza.
La signora Emily che l'aveva contattato si sarebbe sentita
in colpa...ed Elisabeth non sarebbe potuta più uscire dalla clinica senza di
lui.
Sbuffò, roteando gli occhi, e si guardò nuovamente
attorno.
Per qualche secondo si illuse
nuovamente… si illuse che avrebbe potuto trovare lì, da qualche parte, con il
suo stesso smarrimento, gli occhi verdi del padre.
Verdi come il mare, che avevano
fatto innamorare sua madre.
Vagò con la mente e la vista, sapendo bene che non avrebbe
trovato nulla di tutto ciò.
Si sarebbe rassegnata all'idea...sarebbe
tornata in clinica...e forse...
La sua attenzione fu attratta da un volto particolare.
Non gli poté staccare gli occhi di dosso.
I suoi occhi erano identici a come glieli aveva descritti sua madre.
Verdi come l'oceano in primavera...
Aveva corti capelli neri, un giubbotto di pelle,una sacca in spalla e l'aria insofferente; era alto,
probabilmente più di suo padre, ma poco importava.
La sua espressione la colpì.
Cosa osservava con quegli occhi
pieni di tristezza, di malinconia?
Perchè il resto del suo volto non tradiva alcuna emozione invece?
Scosse la testa, analizzando gli altri passeggeri, per poi
tornare su di lui.
Sembrava solo.
Non c'era nessuno per lui?
Lo vide voltarsi e guardarla.
Era solo.
Come lei.
Parve turbato da lei.
Elisabeth non smise di guardarlo, pensando che le sarebbe
tanto piaciuto...se lui fosse stato suo padre.
Lo avrebbe condotto in giro per la città, facendogli
vedere quei posti che più amava e che non vedeva da un anno.
Sorrise appena.
Perchè no?
Cosa aveva da perdere?
Gli corse incontro, abbracciandolo più
stretto potesse.
- Papà! Sei venuto davvero!- gridò, facendo in modo che la
signora Parker la udisse e la raggiungesse.
Era saltata in aria a vederla correre in quel modo.
- Ehi, ragazzina! io non sono-
- Stai al gioco, per favore!- lo pregò lei, avvertendo un
poco di inaspettato calore in quella stretta.
Non credeva che abbracciare una persona sconosciuta la
facesse sentire così bene.
Solo la signora Parker la stringeva a sè, ogni tanto.
E quell'abbraccio era sempre
pieno di compassione...non la scaldava più...
- Stai scherzando, vero?Io non sono
tuo padre-
Aveva replicato lui, ma Elisabeth non si era mossa,
pensando a cosa fare per trattenerlo.
Qualunque cosa pur di non ritornare subito in ospedale.
Qualunque cosa pur di non essere di nuovo rinchiusa in
quella gabbia dorata dove suo padre l'aveva rinchiusa per il suo bene.
- Lo so...ma ti prego...ti
spiegherò tutto dopo! Ti pago, se necessario! Ti prego!-
e non gli diede il tempo di
ribattere, gli strinse la mano e si voltò, vedendo sopraggiungere l'infermiera.
Le sorrise entusiasta.
Quella mattina nuvolosa, tra tutti quegli
sconosciuti...si era scelta un papà.
- Signora Parker, eccolo qui! Le presento mio padre!-
- Signor Sullivan..è un piacere conoscerla di persona, ci siamo sentiti per
telefono, ricorda?-
la signora gli aveva teso la mano
e lui l'aveva stretta ancora indeciso, squadrando la ragazzina che ancora gli
stava incollata, lanciandogli sguardi complici ed ammiccanti, che lo invitavano
a seguirla in quello strano gioco a cui lui aveva già giocato...
- Papà, stringi la mano alla signora Parker,
dai!- lo incitò con voce squillante e gli diede una breve gomitata senza forza
sul fianco; lui la ascoltò stordito, stringendole la mano senza alcuna
risoluzione e lasciando che la bambina gli spiegasse che la donna era la sua
infermiera preferita, quella che si occupava delle analisi e della sua persona.
- Ricordi, te ne ho parlato-
- Si, ehm...- accennò lui, senza neanche sapere come si
chiamasse quel fagotto di lana irriverente e scanzonato, e la signora gli fece
notare che la sua voce sembrava diversa per telefono, molto più profonda di
come l'aveva udita.
Ma forse si sbagliava.
Dopotutto aveva sessanta anni, e nonostante fosse ancora
in forze, l'udito poteva tradirla senza preavviso di alcun
genere.
- Signora Parker, io e papà possiamo andare in un bar...ancora non hai fatto colazione,
vero?- e gli lanciò uno sguardo eloquente, strizzandogli l'occhio.
- No, ecco...- esordì l'uomo, sperando che la signora
negasse il permesso a quella ragazzina tanto risoluta.
Cosa che non avvenne.
Si chiese se fosse davvero diventata abitudine della gente
di quel piccolo paese, quello di affidare i bambini a degli estranei.
Probabilmente si.
- Io vado a fare delle spese all'emporio qui vicino, verrò
a prenderti col taxi tra mezz'ora...fatti trovare qui alla banchina, e lei
signore-, si rivolse direttamente all'uomo che ancora sembrava perplesso,- se Elisabeth dovesse sentirsi male, sa cosa fare, vero?-
- Elisabeth?-
La giovinetta gli smosse la
manica della giacca di pelle, e lo invitò ad annuire.
- Si, signora..lo sa benissimo! Ora andiamo, papà!- e lo trascinò lontano dalla signora che sorrise nel vedere quella coppia, inedita ai suoi occhi, allontanarsi a
braccetto.
Si rese conto che il padre della piccola Sullivan era diverso da come se lo era
immaginato.
Più alto, una persona seria, computa, un'espressione
vagamente laconica sul volto dai bei lineamenti delicati ma virili...
Era diverso da come lo aveva dipinto nella sua mente; ma i
tratti essenziali...il colore degli occhi, l'espressione
composta...erano proprio quelle...
Credeva fosse un uomo peggiore...almeno fisicamente....forse sperava che la bruttura dell'animo non umano, non
amorevole, di quell'uomo si riflettesse almeno in
parte, come un contrappasso divino, sull'aspetto fisico di quell'individuo.
Ma si era sbagliata.
Era un bell'uomo.
Dio era stato ingiusto ancora una volta.
Si allontanò dalla banchina con un peso nel cuore:
nonostante Elisabeth sembrasse così felice...sentiva di aver abbandonato la
bambina…nelle mani di uno sconosciuto.
****
La vide accomodarsi con puerile entusiasmo e chiamare uno
dei camerieri di quel piccolo locale situati all'interno del porto.
Sembrava tranquilla, nonostante accanto a lei avesse un
emerito estraneo, molto più grande e senza dubbio più forte di lei.
Ma non pensava alle conseguenze,
questa bambina sconsiderata?
Trascinare un estraneo con sè,
in un luogo poco frequentato...
Se lui fosse stato un uomo con più bassi
principi morali...
- Senti, ragazzina-
- Caffé per il mio papà e un muffin
al cioccolato per me, grazie- aveva esclamato lei direttamente al cameriere
alto e riccioluto che si era avvicinato con aria svogliata ai due.
Si era tolta il berretto, rivelando una capigliatura
corta, folta e liscia, corte e sottili spighe di grano cresciute al sole.
Si tolse la sciarpa e sorrise allo straniero, invitandolo
a servirsi del caffé che gli aveva ordinato.
- Erano mesi che ne volevo uno..-
e addentò il suo dolcetto al cacao, sorridendo con le labbra piene di briciole
di quel pasto friabile.
La analizzò mentre lo assaporava
lentamente, mugolando,e constatò che quella somiglianza di cui si era
meravigliato, quel riflesso più caro di un affetto passato, era solo una lieve
apparenza, insita nello sguardo, in quegli occhi scuri che lo attraevano e lo
richiamavano.
Lo stesso sguardo lontano e distante di chi aveva sofferto
e taciuto...di chi non aveva espresso la sua pena.
Il suo stesso sguardo.
Ma non poteva perdere tempo in
quel modo.
Giunto in quel porto, aveva molte cose da fare...
Cosa?
Andare da Marie e rivelarle cosa
aveva fatto in quei tre anni?
Dirle chi aveva incontrato in tre anni?
Indugiò.
Incontrare nuovamente Frankie
e...sua madre?
Qualunque cosa, piuttosto che affrontare quegli sguardi...
Non era pronto.
Ma rimanere ancora con quella bambinetta...
No.
Doveva liberarsene alla svelta.
- A che gioco stai giocando, ragazzina?-
- Mi chiamo Elisabeth, ma puoi chiamarmi Lizzie-
Lizzie...
Quel nome risuonò nelle sue orecchie come oro fuso...
Non poteva chiamarsi così.
Non l'avrebbe chiamata così.
- Non mi interessa, Elisabeth- e la ragazzina ignorò intenzionalmente il tono
seccato con cui quell'uomo aveva risposto, -cosa ti è
saltato in mente di gridare in quel modo, la fuori?! Tu sai che io non sono tuo
padre, vero?-
Elisabeth fece spallucce.
- Certo che lo so, non sono stupida...anche
se non lo vedo da tanto tempo, ricordo ancora la sua faccia-
Affondò le labbra nel dolce, masticandolo ad occhi chiusi
per assaporarne il sapore pastoso e fragrante sul palato.
Un sapore di passato...un passato
rimpianto, ma non triste.
Lui rimase in silenzio.
Parlava in maniera concisa e lo stupiva con rapide
risposte dirette che lo sorprendevano, lasciandolo privo della possibilità di
replicare, o di formulare un ragionamento.
Non aveva ancora finito di mangiare
quando gli lanciò uno sguardo indagatore, e gli sorrise brevemente,
prima di riprendere la discussione.
- Parliamo di affari-
Nettò le dita sporche di cacao e si sedette più
comodamente, affondando nella poltrona bordeaux che si
era scelta.
L'uomo ebbe un moto di genuina e ironica ilarità.
- No, no, bambina- scosse il
capo, sorridendole con le labbra curvate in una piega amara.
- Sono stato al gioco una volta e ancora...- spezzò la
frase, osservando lo sguardo serio e paziente della sua accompagnatrice.
Bevve un sorso di caffé, inumidendosi la bocca.
L'aveva sentita prosciugarsi, un attimo
prima...
- Ancora cosa?-
- Niente- replicò lui secco,
perso in un mare di ricordi dolci, misti a sogni effimeri, non sempre
confortanti.
- Cosa vuoi da me? - chiese
infine, squadrandola interrogativo, mentre la ragazzina leggeva ogni suo
pensiero nei suoi occhi chiari e velati da una nube
che non sapeva decifrare...ma che avrebbe definito nostalgia...
Elisabeth fu diretta, sporgendosi brevemente sul tavolino
dove ancora erano poggiati i resti della loro misera colazione e sussurrando
solo per lui.
- Voglio che tu finga di essere il mio papà per qualche
giorno-
Sapeva che già una volta era rimasto coinvolto in una cosa
del genere, e le conseguenze di quella scelta passata se le sarebbe
portate dietro, forse per tutta la vita...sensazioni, lievi emozioni,
sentimenti che non credeva di poter provare, che credeva di non dover provare,
annegando la propria debolezza nei mari in cui aveva navigato, lasciandosi alle
spalle le uniche persone che avrebbe mai potuto amare...
- Puoi scordartelo-
- Perchè?-
- Non sai neanche chi sono, bambina-
- Non mi importa. Nulla, né il
passato, né il presente, e tanto meno il futuro...puoi
essere un serial killer per quello che mi riguarda-
E nuovamente l'uomo inarcò il sopracciglio, realizzando che lei, Elisabeth non scherzava.
Non come quella cara, dolce Lizzie
che tremava all'idea di affidare suo figlio, il suo mondo ad un forestiero del
mondo; questa si stava abbandonando completamente, infischiandosene dei rischi
in cui sarebbe potuta incorrere.
Dovette ammettere che aveva
fegato.
Quel carattere era affascinante, e si ritrovò a pensare
che se fosse stato di mentalità plastica come quella ragazzina, sarebbe vissuto
più serenamente...
- Perchè io? il molo era pieno di
gente-
- Ma tu eri solo...-
E gli lanciò uno sguardo
compassionevole con quei grandi occhi scuri le cui pupille sembravano essersi
dilatate fino ad assorbire le iridi di una tonalità appena più leggera.
L'uomo sbuffò, terminando il suo caffé e alzandosi.
- Grazie per il caffé, ragazzina. Ora me ne vado- frugò in tasca e aprì il portafoglio in cerca di denaro per
pagare il conto. Ripose una banconota sul piattino e fece per andarsene.
Una piccola foto scivolò quindi sul tavolo.
Elisabeth la osservò, i gomiti poggiati sulla superficie
solida, accennando un lieve sorriso, colmo di malinconia e una sottile
amarezza.
- E' tuo figlio?Che bello…come si chiama?-
Lui si voltò rapidamente, accorgendosi solo dopo di cosa
la bambina stesse parlando.
Recuperò la foto con un gesto e la fissò con uno sguardo
indecifrabile prima di riporla.
- Quanti anni ha?- proseguì Elisabeth, che non accennò a
muoversi dalla sua posizione, il mento poggiato con atteggiamento indagatore
sulle proprie dita intrecciate.
La squadrò per poi tornare a sedere, circospetto.
- Frankie...si chiama Frankie...ha compiuto tredici anni da poco...ma
non è mio figlio...-
Lo disse con amarezza, chinando in parte il volto senza però sfuggire gli occhi della giovane ragazza che non
lo mollavano un attimo.
- No? Eppure vi assomigliate...-
fece eco Elisabeth, mirando direttamente al taschino, dove la foto era stata
riposta con frettolosa cura.
- Lascia perdere- sbottò irritato
l'uomo, senza perdere la calma ma assumendo un atteggiamento ritroso.
- Frankie...deve essere contento
di avere una persona come te che gli vuole bene...-
lasciò vagare i suoi occhi sul
pavimento, per poi ritornare su di lui, che si era acceso una sigaretta.
Si ritrasse istintivamente, assumendo una smorfia
preoccupata.
- Potresti...?- facendogli cenno
di spegnere quella cicca.
- No...- e continuò a fumare, evitando però di asfissiarla
col suo respiro scuro e pesante, di piombo.
- Ti chiedo solo di far finta di essere
quello che sei per Frankie..solo per qualche giorno;
sono disposta a pagarti bene-
Far finta di essere quello che
era per Frankie...
Fingere di essere un falso padre, dunque?
Un suo surrogato?
Perchè una bambina si ritrovava a chiedere cose tanto
assurde?
Disposta a pagarlo, per giunta...
Come se una bambina come quella avesse
tanta liquidità...
- Duecento sterline al giorno,
spese escluse, fino a lunedì...che ne pensi?-
Lo straniero le scroccò un'occhiata
ironica, un sorrisetto sarcastico gli curvava
elegantemente le labbra.
- Tu non hai tanto denaro-
- Si invece!- esclamò lei con
aria di superiorità,- Sono brava a risparmiare, più di voi scozzesi se è per
questo-
Si osservarono per un istante.
Diceva sul serio?
Era davvero disposta a pagare tanto?
E lui...era disposto ad
accettare?
A mettersi nuovamente in gioco in quel modo?
- Duecento sterline...cosa c'è dietro?-
La ragazzina arretrò dal suo posto, sprofondando più
comodamente nella poltrona e soffermandosi con aria quasi vittoriosa eppure
stanca su quell'uomo che avrebbe potuto essere la sua
via di fuga.
- Sono malata-
- Non si direbbe- ribatté lui,
osservandola alla luce di quella rivelazione.
A parte un lieve pallore sul suo volto e una gracilità comunque caratteristica delle adolescenti, avrebbe giurato
che quella bambinetta fosse sana come un pesce, se
non di più.
- Nulla di troppo grave, ma sono comunque
ricoverata in una clinica, a Glasgow-
- E allora?-
Elisabeth sospirò.
- Non mi permettono di uscire...ecco! E' quasi un anno che
non esco dalla clinica...mio padre aveva promesso che sarebbe venuto e avremmo
passato qualche giorno insieme...ma stamattina mi ha chiamato e-
- Ti ha dato buca, indovinato?- scherzò lui, ma con tatto.
- Ehi!- protestò la ragazzina, per poi annuire con un sorrisetto lieve.
- Già...una bella buca...Comunque…se
mio padre non c'è, non potrò uscire...-
- Potresti avere pazienza- disse lui, spegnendo infine la
sua sigaretta consumata sul posa cenere al lato del
tavolo.
- Potrei…ma non voglio! Lunedì mi operano e...- indugiò,
corrugando la fronte in una smorfia impaziente, - non voglio aspettare una vita
prima di poter uscire di nuovo-
- E io cosa dovrei fare?-
Elisabeth parve illuminarsi.
Gli spiegò che sarebbe dovuto
semplicemente dovuto venire da lei in clinica e prenderla, accompagnarla in
giro per poi riportarla lì la sera.
Nulla di particolarmente difficile.
Lui scosse il capo.
- E non credi che qualche dottore
potrebbe riconoscermi?E' illegale...- domandò lui serio, tentando di
divincolarsi da quel compito relativamente facile.
- Mio padre non è mai venuto in ospedale, mai una
volta...sono sei anni che nessuno lo vede qui a Glasgow, non preoccuparti,
andrà tutto benissimo!-
Elisabeth era entusiasta, mentre analizzava con rinnovato
orgoglio l'individuo che aveva scelto...
Qualcun altro avrebbe potuto lasciarla, piantarla in asso
già al molo...invece questo sconosciuto la stava ascoltando...sembrava quasi
interessato.
- E la tua famiglia? Tua madre?-
- Mia madre è morta cinque anni fa, e qui in città c'è
solo mia zia...ma lei non viene mai a visitarmi...non
le piaccio, credo...quindi non ti preoccupare! Ho pensato a tutto!-
L'uomo parve perplesso.
Ammirava quella ragazzina che sembrava così vitale e
sorridente, nonostante la sua situazione fosse non disastrosa ma quasi...
Per la prima volta da quando era sta ricoverata,
finalmente assaporò per un attimo il profumo di quella libertà di cui era stata
privata, e che avrebbe gustato appieno nei giorni seguenti.
- Parlami di tuo padre, ora...gli somiglio, almeno un
po’?- finalmente l'uomo si era rilassato, in quel momento in cui aveva deciso
di restare, assumendo un'espressione riflessiva.
- No, affatto!- rise Elisabeth, ordinando un tè e
permettendo all'estraneo che sedeva con lei di prendere qualcos'altro di suo
gradimento.
Non volle nulla.
- Ah, bene!- sussurrò lui rassegnato e irriverente,
voltando il capo dall'altro lato per un momento.
- Tranne gli occhi...- fece lei, attirando nuovamente la
sua attenzione.
- Mia madre diceva che gli occhi di mio papà erano verdi
come l'oceano in primavera...io li ricordo..e i tuoi sono pure così...-
- Poetica, tua madre..- osservò sarcastico, accendendosi
un'altra sigaretta e portandosela alle labbra con un movimento lento.
- Era una artista...la mia mamma dipingeva ed era pure
bravissima...riusciva a disegnare il cielo e rinchiuderlo in una cornice...ma a
me piacevano di più i ritratti!Erano uguali alle persone vere!-
Sembrava parlargli di cose lontane...di cose perdute, come
se invece le avesse davanti agli occhi, con uno sguardo per la prima volta
brillante e bruciante di energia.
Si esprimeva con una semplicità e una naturalezza
coinvolgenti.
- Comunque- riprese il discorso precedente con una smorfia
disinteressata, come se tutto ciò che avesse detto un attimo prima fosse caduto
in un dimenticatoio vacuo, carta straccia dopo un disegno che non recava
soddisfazione,- mio padre, cioè tu, vivi a Dublino con la tua fidanzata
francese Monique, che forse non sposerai mai perchè non ti piacciono i legami;
sei il proprietario di una casa d'aste molto importante e guadagni tanti soldi-
- Oh, sono un uomo felice, allora-
ironizzò lo straniero, eliminando un poco di cenere dalla
sigaretta che si consumava tra le dita.
- Penso di si. Con la mamma non eri felice e quando avevo
sei anni avete divorziato e tu te ne sei andato. La mamma è morta un anno dopo
e la zia mi ha messo in collegio perchè non poteva occuparsi di me e d suo
figlio insieme...-
...Tu te ne sei andato...
L'uomo realizzò che avrebbe potuto pronunciare quelle
parole egli stesso, anni prima...e forse lo aveva fatto, in quei deliri
provocati dalle sostanze che assumeva per dimenticare la rabbia, il dolore, la
debolezza che aveva fiaccato la sua gioventù.
- Non sembra una gran bella persona, quella che vuoi che
io sia...-
- E' mio padre...non pretendo che tu sia qualcun
altro...voglio che tu sia mio padre-
ribatté lei indignata da quell' offesa ai danni di
qualcuno che non era presente...che non era mai stato presente; poi gli sorrise
brevemente.
- Scusa-
- Non preoccuparti-
- Mio papà è sempre stato impegnato...ma quando ho avuto
bisogno di lui, mi ha aiutato...quando sono stata male, mia zia gli ha chiamato
e lui le ha mandato i soldi per curarmi, e li manda ancora, ogni mese!- la sua
voce si era accesa di allegria ed orgoglio a parlare di quel padre che non
vedeva da una vita ma che occupava gran parte del suo cuore.
Era così che si sarebbe dovuto sentire, quando Marie e lui
si erano visti abbandonati da quell'uomo?
Troppo grandi per essere adottati, troppo piccoli per
vivere soli, senza una guida...
Era così che Frankie avrebbe dovuto pensare a suo padre,
nonostante tutto il male arrecato a lui e a Lizzie?
Questo, l'amore mai provato...ma lungamente desiderato?
Quelle carezze gentili che non ricordava di aver mai
ricevuto ma che aveva saputo regalare ad un estraneo?
Essere padre senza mai essere stato figlio...
Possibile?
Accettabile?
- Mi sembra facile...-
Disse lui alla ragazzina che gli strizzò l'occhio,
complice.
- Vieni alla clinica con me, oggi...e domani mattina
vienimi a prendere...avevo già prenotato una stanza per il mio papà nella
pensione vicino alla clinica-
- Ci sono strutture simili vicino agli ospedali?-
si chiese e domandò alla sua giovane interlocutrice che ne
parlava con una sicurezza affidabile.
- Certo! Quando hai dei parenti malati, e vuoi star loro
accanto, affitti una di quelle stanze e sai sempre come sta, se ha bisogno di
qualcosa e-
- E nessuno dei tuoi parenti ha mai " affittato"
una di quelle stanze?-
Le lanciò un occhiata senza espressione, riflettendo appena.
- No, nessuno- ed Elisabeth parve rabbuiarsi, ma fu solo
un attimo, in cui l'uomo vide incrinarsi una dura barriera creata da quella
bambina ingenua ma non stupida,
- ma ora ci sei tu, giusto?- e gli sorrise nuovamente,
indossando il berretto scuro e alzandosi con calma innaturale in piedi.
- Andiamo-
- Non hai finito il tuo té...- gli indicò con un cenno la
tazza ancora fumante.
- Non lo finisco mai...-
gli fece un cenno birbante prima di posare una banconota
da dieci sterline sul piatto, restituendo quella di taglio più piccolo all'uomo
che l'aveva posata quando pensava di lasciarla, disinteressandosi al suo
destino.
- Hai lasciato troppo-
- E' la mancia-
- Non credi che sia troppo?- si meravigliò lui, vedendo il
cameriere esultare silenziosamente per la gradita sorpresa.
Lo straniero non aveva mai lasciato una mancia così ricca,
ovunque fosse stato, qualunque fosse stata la qualità del servizio.
Marie sarebbe saltata in aria dalla contentezza se un
cliente avesse pagato il doppio del conto per lasciarle metà della cifra come
mancia.
- Io sarei contenta di avere una buona mancia, se fossi
una cameriera...-
- Non eri tu quella brava a risparmiare?- la rimbeccò lui
senza dare a vedere l'intenzionale ironia che invece Elisabeth colse subito.
- I soldi sono fatti per essere spesi, dopotutto...-
Prese la sua mano e lo trascinò con fare moderato verso
l'uscita, incamminandosi senza fretta verso il molo in cui aveva promesso di
farsi trovare alla signora Parker.
****
- Non so neanche come ti chiami...- realizzò la bambina
seduta su una panchina, mentre lui fumava l'ennesima sigaretta.
Nessuno dei due incrociò lo sguardo con l'altro,
perdendolo consapevolmente nel verde sfumato del mare di inverno...era tutto
immobile, silenzioso...solo qualche voce, ogni tanto, faceva la sua intrusione
dal molo vicino o dalle navi ancorate su cui si caricavano e scaricavano merci
senza distinzione di peso o prezzo.
- Come si chiama tuo padre?- chiese lui, senza guardarla
in volto, sentendola respirare più profondamente.
Inalò anche lui una boccata d'aria, accorgendosi con
meraviglia che sembrava più pulita, più leggera rispetto a quando era sbarcato.
Sentiva meno freddo, adesso.
Elisabeth dondolò il capo, chiudendo gli occhi e
riaprendoli un attimo dopo.
- Peter. Peter Sullivan-
- Allora Peter Sullivan sia...-
e non parlarono
più, evitando di scambiarsi anche un'occhiata fugace, fino all'arrivo del taxi
giallo, sempre troppo vecchio e accartocciato, che li condusse placidamente
alla clinica, attraversando con lenta sicurezza i viali poco abitati del paese.
****
- Papà?-
Non rispose.
- Papà- ripeté Elisabeth pizzicandogli la giacca di pelle,
incerta di aver raggiunto il suo braccio sotto quel materiale così resistente.
Era seduta accanto a lui in taxi, occupando i sedili
posteriori di quel catorcio giallo.
- Ah?- borbottò in risposta, guardandola appena.
Era distaccato, notò quasi subito la signora Parker,
osservando quella scena dallo specchietto retrovisore, lei, seduta davanti
accanto ad un autista taciturno.
Elisabeth poggiò delicatamente la testa sulla spalla
dell'uomo che la accettava senza alcuna visibile emozione.
Un sorrisetto lieve e grato modellò le labbra rosa e
sottili della ragazzina.
- Grazie per essere venuto...-
e rimase immobile, mentre il mondo si muoveva ancora
attorno a lei che teneva gli occhi chiusi, assorbendo quel calore di cui aveva
ormai solo un vago sentore, un pallido ricordo.
Il taxi li lasciò a pochi metri dall'ingresso della
struttura medica vera e propria.
Si era immaginato un ospedale freddo, un luogo asettico,
invece era circondato dal verde di un prato molto vasto, una lunga strada
asfaltata violava la natura immobile di quel giardino, e conduceva all'edificio
principale per buona parte del percorso, solo per biforcarsi a metà.
La strada secondaria lo avrebbe portato esattamente alla
struttura per gli ospiti, gli chiarì Elisabeth, senza che l'uomo gli domandasse
nulla.
Entrando in clinica la signora Emily si fece portare la
sedia a rotelle.
Elisabeth rifiutò, sotto lo sguardo assorto e in parte
stupito del signor "Sullivan".
- Non ne ho bisogno, signora Parker-
- Ma Lizzie, tu-
- Le mie gambe funzionano ancora..- e prese lo straniero
sottobraccio, avanzando, cercando di sfuggire lo sguardo addolorato ed impotente
della sua infermiera adorata.
Si preoccupava troppo, per lei...non vedeva che stava
bene?
Quella espressione di sconforto sul volto dell'anziana
donna parve colpire molto il nuovo arrivato, che non tardò di comunicare le sue
perplessità al "boss".
- La tua infermiera è sempre così?-
- Così come?-
- Beh, sembra continuamente sul punto di scoppiare a
piangere-
- Oh, si...è sempre così...da quando sono ricoverata qui-
e gli lanciò un sorriso smorzato prima di condurlo lungo i
corridoi azzurrini dell'edificio.
L'atmosfera era tiepida, ma le persone sembravano adorare
la piccola paziente che camminava tra loro.
E quegli sguardi caldi...divenivano gelidi, colmi di
ripugnanza appena Elisabeth si voltava da un lato e l'uomo restava solo contro
quegli occhi, che lo analizzavano dalla testa ai piedi.
Perchè lo fissavano così?
Perchè poi quei volti sembravano schiarirsi incontrando il
sorriso della giovane Sullivan che li abbracciava tutti con cuore, presentando
l'uomo come suo padre?
Loro lo disprezzavano.
Non era Elisabeth che guardavano sputando giudizi
silenziosi.
Era lui che osservavano.
Era lui che giudicavano.
Non gli piacque quella sensazione.
Avrebbe potuto accettare la diffidenza.
A quella era abituato, lui straniero in quasi ogni
porto...ma il disprezzo, perchè quello sentiva su di sè ad ogni passo, gli era
incomprensibile e sgradito.
-Vieni papà...la mia stanza- e lo fece avanzare di qualche
passo, prima di entrare a sua volta.
Lo vide ammirare l'ambiente.
La camera era come tutte le altre: armadi, mobili, sedie
metalliche di un bianco- grigio talvolta deprimente ma ineccepibile nella sua
funzionalità; un'ampia finestra si affacciava sul piano terra della clinica, ed
era così vicino il mondo esterno che affacciandosi, la piccola Lizzie avrebbe
potuto respirare l'odore di quell' erba costretta a rimanere verde tutto
l'anno, immobile, senza poter crescere e sempre, comunque meravigliosamente
bella, incredibilmente viva.
Le pareti erano bianche, pallide, ma rivestite quasi
ovunque, in ogni angolo da foglietti di carta e tele dipinte.
Il signor Sullivan rimase immobile, in piedi, guardandosi
silenziosamente attorno.
Tanti paesaggi, soprattutto di mare e di colline, alberi
in fiore e cieli azzurri come dubitava esistessero...negò a sè stesso di essere
rimasto incantato da alcuni di essi, per la semplicità e la ricchezza che
comunque esprimevano attraverso tratti che vide via via migliorare, divenire
più netti e precisi di soggetto in soggetto.
Tra tutti quei soggetti, solo un ritratto, uno solamente.
Ritraeva una giovane donna, il suo volto dai lineamenti
longilinei ed indecifrabili, lunghi capelli biondi le incorniciavano il viso, e
due gemme d'ambra sembravano i suoi occhi, disegnati da qualcuno pieno di
talento, senza dubbio.
Lo prese in mano dalla scrivania, dove era poggiato
insieme agli altri schizzi e dei colori di vari tipi, e lo analizzò curioso.
- Bello...chi è questa donna?-
Elisabeth si stava spogliando del suo cappotto, riponendolo
insieme agli altri accessori indossati quella mattina, e non comprese la sua
domanda fin quando non vide l'oggetto del suo interesse.
Fu rapida: quasi glielo strappò di mano, portandoselo al
petto.
In quel momento, l'uomo la vide guardarlo come avrebbe
dovuto sin dal primo momento in cui si erano incrociati.
Come uno sconosciuto...
Un estraneo.
Ma fu solo un attimo.
Subito Elisabeth ripose il disegno sulla scrivania, sul
volto un'espressione mesta e solo un accenno del precedente sorriso.
- Questa è la mamma...-
****
Lizzie si sedette sul letto, togliendosi i mocassini e
cercando le pantofole più comode che si erano nascoste in fondo al letto.
L'uomo si piegò per cercarle al suo posto e nel prenderle
sfiorò con la mano una superficie solida e fredda.
- Cos'è? - domandò lui, tirandosi in piedi e scucendole
un' occhiata diffidente.
- Il mio tesoro...-
rispose lei enigmatica e subito indossò le pantofole, si
alzò e si affacciò circospetta alla porta.
Nessuno in vista.
- Bene...ora dobbiamo programmare la nostra giornata di
domani!-
ed Elisabeth si sedette sul letto con una lentezza che non
aveva mai visto in una ragazzina così giovane.
L'uomo si accomodò sulla sedia della scrivania, trovandosi
faccia a faccia con lei, a distanza di meno di due metri.
- Domani voglio andare in tanti posti...prenderemo un taxi
per tutta la giornata-
- Sarà costoso- inarcò il sopracciglio, lui, tornando a
chiedersi se davvero avesse tutti quei soldi a disposizione.
- Non importa...- esclamò la ragazzina con tono divertito,
- prima di tutto voglio andare al museo-
- Sarà noioso..-
- Per te, forse- ribattè lei, un sorrisetto malizioso
increspava le sue labbra sottili, - poi voglio andare al ristorante...-
- Già va meglio- concluse lui, tirando fuori dalla tasca
un pacchetto di sigarette.
- E poi a scuola-
- Ah, salti le lezioni, eh?- azzardò lui ironico, cercando
una posizione più comoda.
- Non vado a scuola da un anno, papà...studio da sola con
la signora Parker...- l'attenzione non più rivolta all'uomo, ma al sole pallido
che le sorrideva all'orizzonte, irridendola.
- Capisco...e come mai vuoi ritornarci?-
Elisabeth scosse il capo, sollevandolo poco dopo sul suo
interlocutore, un sorriso largo sul viso.
- C'è qualcuno che voglio rivedere...-
Lo straniero annuì appena, e portò la sigaretta alle
labbra, pronto ad accenderla.
- Non si può fumare qui...-
- Non mi vedrà nessuno-
rispose franco, infischiandosene dell'espressione seria
della bambina, che comunque non si mosse.
Aveva appena acceso e inalato la prima boccata di fumo,
quando una donna si fece avanti senza bussare alla porta in parte aperta.
Indossava un camice bianco e la sua espressione lo
rimproverava aspramente, più di qualunque parola urlata o sibilata.