Aster

di MeliaMalia
(/viewuser.php?uid=4956)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Sfoderai il migliore dei miei sorrisi saccenti, piegando le labbra in una linea ironica che invitava a prendermi a schiaffi dal mattino alla sera. Dovreste vedermi, quando sorrido così. Vi giuro che, tutte le volte che lo faccio allo specchio, ho una faccia tosta tale che mi verrebbe da prendermi a pugni da solo.
E’ un sorriso adorabile, insomma.
Perciò lo misi sfacciatamente in mostra. Quindi, con voce risoluta, con fare da gran duro, dissi: “E’ ora, signorina, che tu possa tornare ad essere ciò che sei. Ovverosia, un cadavere.”
Sono un tipo dalle frasi d’effetto, io.
La signorina non parve molto impressionata da questo mio talento. Aprì la bocca, spalancando quelle sue labbra rosse come il corallo, e quasi soffiò come una gattaccia selvatica, mostrando i lunghi ed acuminati canini.
Eravamo entrambi due esibizionisti, bisognava ammetterlo. Solo che io ero più forte di lei.
No, sto mentendo. Perché dovrei dire il falso qui, nei miei ricordi? Non ero affatto più forte. Mi ero battuto con quel mostro dalle sembianze umane per più di mezz’ora, evitando chissà quante volte un brutto morso che mi sarebbe costato una prematura fine. Eppure, ero ancora vivo.
E lei, ferita.
Era questo che mi rendeva più sfrontato del solito: io ero vivo, lei ferita. Io stavo facendo pernacchie in faccia alla morte, mentre lei, quel disgustoso cadavere, quel parassita della società, ansimava disperata, come se fosse stata una ragazza qualunque. La cosa mi mandava in brodo di giuggiole, ve lo assicuro.
Ammetto di non aver mai amato molto questo lavoro. Me lo ha insegnato mio padre. Lui sì che ci credeva per davvero. Si sentiva seriamente uno strumento di Dio, un Purificatore. Io no.
Io, più semplicemente, amavo l’adrenalina.
Affondai il paletto.
Con tutta la mia forza, con tutta la mia rabbia, con tutta la mia boria. Lo spinsi dentro al petto di quel demone sotto false spoglie, colpendola esattamente nel punto ove batteva il cuore.
Era un bel paletto, il mio, uno splendido attrezzo regalatomi da mio padre. Lui era l’unico Cacciatore di vampiri di sangue blu al mondo, lo sapevate? Un nobile, un duca! Che per decenni era scivolato nella notte, per abbattere quei mostri.
E che, a quel tempo, cercava di passare il testimone a me, suo primogenito maschio.
La cosa non mi andava molto a genio, a dire il vero. Per la miseria… ero giovane, bello, ricco. E nobile. Per quale disgraziato motivo avrei dovuto desiderare una vita fatta di appostamenti notturni?
Qualche combattimento sporadico poteva anche divertirmi. Ma… vivere per quello scopo? No, nel modo più assoluto.
Prima o poi avrei trovato il coraggio di dirglielo. Non sono un fifone, ma deludere il proprio genitore non è esattamente nella lista delle dieci cose da fare di ogni buon figlio.
Presumo di essermi distratto dalla trama.
Tornando a noi: affondai il paletto. E lei urlò.
Non un urlo umano, ma un suono totalmente al di là dello spettro vocale di qualsiasi persona vivente. Uno strillo metallico, acuto. Demoniaco.
La osservai accasciarsi a terra.
Papà mi ha spiegato che la morte è diversa da vampiro a vampiro. Ci sono quelli più anziani, quelli che sono sporche sanguisughe da più di un ventennio, che appassiscono lentamente, tramutandosi in una mummia di carne secca. E ci sono quelli giovani, che tornano ad essere un cadavere fresco. In entrambi i casi, non è un bello spettacolo da vedere, ve lo assicuro.
Poi ci sono gli Antichi, che non muoiono nemmeno con cinque paletti nel cuore.
Ma quelli, per fortuna, sono solo una leggenda. O almeno credevo.
La mia avversaria era una giovane. E, se la cosa può interessare, era la terza vittima della mia giovane carriera di Cacciatore. Cadde con un tonfo sordo, gli occhi spalancati rivolti al cielo privo di stelle, i capelli ramati ormai spenti, le membra abbandonate in posizioni innaturali.
Lei, morta.
Io, vivo.
Per Dio, quanto ero soddisfatto.
Quindi, l’Antico mi parlò, piombandomi alle spalle come un’ombra della notte.

***
Non chiedetemi come facessi a sapere che era un Antico. Procedendo ad ipotesi, credo che me lo abbia rivelato lui. Non aveva parlato usando la bocca, come gli altri della sua razza. Bensì, era penetrato nella mia mente, utilizzandola come una bella lavagna pulita, sulla quale aveva tracciato con un uncino le sue parole.
Non era stata una bella sensazione. Affatto.
Insieme a quelle parole, era giunte delle immagini. No, delle idee. No, dei ricordi.
Qualunque cosa fossero, la mia mente fu in grado di decifrarli. Piegato in due, le mani che stringevano la mia testa dolorante, compresi il suo messaggio. No, il suo racconto. No, le sue memorie.
Mi sentii pateticamente piccolo, di fronte a quella potenza nel mio cervello.
Era un Antico vecchio di secoli. Aveva visto la fine dell’Antica Era, aveva assistito al sorgere degli orrori della Nuova Era. Aveva segretamente guidato i potenti del passato, muovendosi come il più infido dei consiglieri. Aveva danaro, immortalità, potenza. E rideva di me.
Del piccolo, patetico essere umano prostrato ai suoi piedi.
Non mi aveva raccontato quelle cose per intrattenermi con una lieta storiella; il suo scopo era quello di terrorizzarmi, di farmi comprendere cosa avessi di fronte. E, ammettiamolo, era riuscito nel suo intento.
Il mio orgoglio, come sempre, prese il sopravvento sulla mia ragione. Non intendevo restare disteso a terra di fronte a lui. Non se lo meritava, dannazione!
Strinsi i denti, resistendo al dolore per quella intima invasione della mia mente; ed alzai il capo, sfidandolo con i miei occhi neri e determinati.
Vederlo fu un trauma quasi peggiore dell’aver udito la sua voce.
Alto, serafico, placido. Azzurri e freddi occhi di assassino, incastonati in un sottile volto più bianco e più freddo del marmo stesso. Lunghi capelli biondi, che incorniciavano la sua figura snella e benvestita. Uno dei più antichi demoni esistenti al mondo, ecco cos’era. E lo stavo guardando dritto negli occhi.
Tremai.
Quella era mia figlia.
I suoi occhi scivolarono verso il cadavere della giovane vampira, riempiendosi di tristezza. Fu tremendo vederli improvvisamente animarsi di un’espressione tanto umana; un’immagine inquietante, tanto quanto vedere un cane intento a leggere un romanzo. Vidi le iridi azzurre tornare verso di me, e compresi che non avrei rivisto una nuova alba. Lui mi avrebbe ucciso. Ed io non avrei mosso un dito, perché di fronte al potere di quella creatura avevo perduto anche la padronanza dei movimenti.
Credo che dovrai scontare per ciò che hai fatto, topo di fogna.
Non credo di essere in grado di spiegare il livello della mia impotenza. Persino la rabbia di quel vampiro era sufficiente a farmi soffrire! Mugolai per il dolore, risultando a dir poco sciocco. E debole.
Non sarebbe mai dovuta esistere una creatura simile. Era disumana. Era sovrannaturale. Era oltre le grazie di Dio. E ce l’aveva con me. Con me!
Cominciai ad intuire i sentimenti di una formica preda di un enorme bambino dotato di una brillante vena di sadismo. Lui mi avrebbe schiacciato con un solo dito.
Dormi, piccolo verme. Dormi, sogna. Chiudi gli occhi, scarto del creato. Io sono un’allucinazione. Sono il tuo incubo personale. E tornerò. Al momento migliore, quando potrò divertirmi al meglio…Ma ora dormi. Che buffo sogno hai fatto, nevvero?

E quindi mi risvegliai, accanto al cadavere della vampira. Mi alzai di scatto, tremando come una foglia. Mi guardai attorno, in preda al terrore. Ma non vidi nulla. Nessuno. Eravamo solo io, lei, e la sconfinata desolazione delle terre notturne attorno a noi, che ci dividevano dalla civiltà per molti chilometri.
E cos’altro avrei dovuto pensare, se non che le ferite e la successiva perdita di sangue mi avessero indebolito troppo, al punto di farmi svenire? Cos’altro avrei dovuto ipotizzare, se non che l’incontro con quel vampiro fosse stato solo un parto della mia mente spossata dalla lotta contro la giovane vampira?
Tornai a casa, al nostro maniero. Raccontai a mio padre della lotta, la narrai nei minimi dettagli, sotto lo sguardo della mia adorata madre e della mia amata sorellina. Lui annuì con fare orgoglioso, e loro, abbracciandomi, dissero che ero il migliore. Che un giorno sarei stato come papà.
Non dissi nulla del sogno dell’Antico.
Non volevo che ridessero di me.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


«Sei uno sciocco, Aster.» ridacchiò la signora Meyer, mentre guidavo il calesse. La notte, come sempre in quella stagione, era scesa prima del solito, sorprendendoci durante le compere che solevamo effettuare al paesino vicino ai nostri possedimenti. Dicendo noi, intendo me, il vostro bel protagonista, e la nostra simpatica cameriera, una signora che aveva da tempo superato la mezza età. Una donna simpatica, che ai tempi mi aveva cambiato i pannolini. Una cara signora, che però aveva in sospeso con me un torto davvero irreparabile.
Aveva suggerito a mia madre di chiamarmi Aster.
Aster.
Vuol dire astro. Stella.
E’ un nome da femmina!
Aster del Casato di Fortesole. Che cosa ridicola.
Eppure, mia madre aveva dato retta ai suggerimenti della signora Meyer. Li aveva trovati geniali, a dirvela tutta. E mi aveva chiamato così.
Ma torniamo a noi.
Guidavo il nostro bel calesse, spronando quel pigrone di Belnero. Era un cavallo da tiro vecchio e bisbetico quanto la nostra cara donna di servizio, che tendeva a dare retta solo a me. Ed era per questo motivo che, tutti i giovedì, io lo attaccavo al carretto, costringendolo con qualche moina e qualche minaccia a raggiungere il paese più vicino a noi. La signora Meyer vedeva il momento della spesa settimanale come un giorno di grande festa; io, ovviamente, lo vivevo come delle noiose ore da passare in compagnia di un ronzino sclerotico mentre lei contrattava sul prezzo della verdura.
Certe volte, andavamo in compagnia di mia sorella. Lei si chiamava Bianca Chiara Aria (sì, per i nomi buffi mia madre aveva la fissa…) ma noi tutti ci limitavamo ad utilizzare il terzo appellativo, quello che la descriveva meglio: Aria era una splendida ragazzina di circa sedici anni, con enormi occhi verdi ereditati da mamma, e lunghi capelli neri ereditati da papà. Di fisico esile, sembrava quasi una bambolina. La mia bambolina. Più leggera dell’aria, più fresca della brezza.
Avevo l’adorazione per mia sorella. L’amavo più di mio padre e di mia madre, l’amavo più della mia stessa vita.
Allegra e solare, era speciale, e non solo perché sapeva ridere di ogni cosa: aveva ereditato i poteri esoterici della cara bisnonna Mariana, cosa che, quando lo aveva scoperto, aveva fatto piangere di gioia mamma. Forse, un giorno, Aria sarebbe divenuta una potente esorcista, proprio come la bisnonna.
Due pargoli allevati per combattere il male, ecco cos’eravamo.
Ma eravamo felici.
Accidenti, ho di nuovo perso il filo…
«Perché mi dite così?» mi schernii con un sorriso, facendo schioccare le lunghe redini sull’anziana e paziente schiena di Belnero.
La signora Meyer rise, tentando però di guardarmi con severità. Due espressioni difficilmente conciliabili, e difatti l’esperimento fallì miseramente. «Vai così veloce, Aster, che rischi di farci rovesciare!» accusò, tenendo sulle ginocchia un cestino di vimini ricolmo di prodotti della terra.
Io le davo del lei, però ricevevo in cambio il tu. E la padrona, teoricamente, non era certo la signora Meyer. Però le cose erano così da che ero piccolo, e di cambiarle chi aveva voglia?
«E’ notte e fa freddo, mia cara signora Meyer.» replicai con aria divertita. «Ho il diritto di correre a casa, no? E se ci attaccassero i vampiri?»
«Li uccidi tu.» fu la tranquilla risposta, che mi fece distendere le labbra in un sorriso.
In lontananza, apparve la figura del nostro maniero. Era un vecchio e freddo castello, circondato da un grande e curato giardino. Di quello si occupava mamma. Era una specie di maga, con le piante. Le curava con un amore infinito, ottenendo in cambio splendide e multicolori fioriture, che sbocciavano durante la bella stagione. Al momento, però, gli alberi attorno a casa nostra erano privi di foglie; ombre nere sotto la luna, sembravano tanti scheletri protesi verso casa mia.
«E lui, chi è?» volle sapere la signora Meyer, indicando un viandante intento a passeggiare sui bordi della strada in terra battuta. Voltai il capo, osservandolo perplesso.
Ovviamente, vidi l’Antico. Presumo che come cosa sia prevedibile.
Beh, sappiate che per me non lo fu affatto. Schioccai le redini su Belnero, incitandolo con un urlo di puro orrore ad accelerare; ma fu fiato sprecato, dal momento che la bestia, avvertendo la presenza del biondo vampiro, aveva già ideato un brillante piano di fuga, che lo spinse ad allontanarsi in fretta e furia da quel demone, tirandosi dietro un Cacciatore in preda al panico, ed una donna di servizio perplessa e spaventata.
«Che succede, Aster? Che succede?» strillava la signora Meyer, sovrastando i nitriti terrorizzati del nostro ronzino.
Era una fuga sciocca. Era una corsa inutile. Quello era la Morte stessa, avrebbe potuto raggiungerci solo pensando di farlo.
Eppure, non lo fece.
Vai a casa tua, topo di fogna. Io ci sono già stato. Non sono una persona che ama maltrattare gli animali. Anzi. Di solito mi arrabbio, quando vedo i contadini frustare i loro cavalli. Eppure, quella sera feci del gran male a Belnero, percuotendolo con quelle vecchie e consunte redini.
Ci avvicinammo a rotta di collo al maniero, fermandoci nel bel mezzo di quella foresta morta che era ora il nostro giardino. Scesi giù dal calesse, sordo ai richiami della signora Meyer, sordo ai nitriti del ronzino, sordo a qualsiasi cosa. E corsi in casa.

***
Ecco, siamo al punto più difficile, allo snodo più tremendo e doloroso di questa storia. Ed io sento che mi mancano le parole per descriverlo. O forse il coraggio.
Ma devo farlo, vero?
Trovai i miei genitori nel grande salotto. Il fuoco nel camino era acceso e scoppiettante, i libri della grande libreria ordinati come al solito. Le poltrone di morbido velluto, intrise di sangue.
Così come il pavimento.
Così come i muri.
Così come ogni maledetta cosa, lì dentro.
E loro… loro… erano…
Non più interi, ecco com’erano.
Era sparsi, qui e là. Erano stati un divertente balocco. Vidi la testa di mio padre a qualche passo da me, vidi i suoi occhi spalancati nell’orrore della morte, del buio totale. La sua bocca, distorta da dolore, dalla tortura. Caddi a terra, tenendomi il ventre. Mi volse da una parte, e vomitai per un tempo che mi parve interminabile. Rovesciai il contenuto del mio stomaco, e non mi fermai nemmeno quando fu vuoto, smosso da conati irrefrenabili. Ho il vago ricordo di aver udito, nel frattempo, l’arrivo della signora Meyer. Di averla sentita urlare, di aver percepito il suo corpo cadere a terra in conseguenza al suo svenimento. Ma non me ne curai.
L’unica cosa a riportarmi alla realtà fu il sommesso pianto di Aria.
Alzai gli occhi arrossati e lucidi, cercandola con disperazione. Infine, la intravidi: una cosina dalla chioma nera, accucciata nell’angolo in fondo alla stanza. Come avevo fatto a non notarla prima?
«Aria…» sussurrai, rialzandomi incerto sulle gambe; ottenni un risultato traballante, di cui non mi curai minimamente. «Aria!» chiamai più forte, correndo verso di lei. Nel farlo, m’insozzai le scarpe di sangue. E calpestai qualcosa. Ma non me ne importava. «Aria, sono qui. Sono qui! Aria!» mi inginocchiai di fronte a lei, fissando con aria smarrita quella bambolina che, raccolte le ginocchia al petto, aveva nascosto il viso su di esse, piangendo a dirotto.
Quante ore aveva passato così, con l’unica compagnia dei cadaveri dei nostri genitori? Non mi era dato saperlo.
Ma era viva. Viva!
«Aria, sono io, sono Aster. Sono qui. Sono qui.» la avvolsi tra le braccia, la strinsi con tutte le mie forza. Chiusi gli occhi, permettendomi di piangere. Le mie spalle furono scosse dai singhiozzi, mentre avvolgevo la mia delicata e tremante sorellina, tenendola contro di me come un giocattolo. «Sono qui, Aria.» mormorai ancora, con voce rotta.
Ero lì, certo. Quando ormai tutto l’orrore si era compiuto, ero arrivato. Come un inutile salvatore del nulla.
Non era il momento di pensare a ciò. Aria era viva. A quello dovevo pensare.
O avrei rischiato di impazzire.
«Alza il viso, fiorellino.» sussurrai con voce roca. «Guardami, sono il tuo fratellone. Adesso va tutto bene. Va tutto bene.» che menzogna spudorata. «Guardami, Aria.» la incitai ancora.
Lei mi obbedì.
Quando alzò lo sguardo su di me, quando mi parlò con voce lacrimevole, quando aprì le labbra in un urlo angosciato, strillando che la stanza era piena di sangue, io non riuscii a muovere un muscolo.
Tutto me stesso era concentrato su due soli particolari: ovvero, sullo straordinario pallore di Aria, e sui lunghi ed acuminati canini che la sua sottile bocca spalancata nel grido metteva in mostra.
Era un vampiro.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


«Aster» mugolò lei, passandosi una mano sul viso per asciugarsi le lacrime. Le sue lacrime. Le sue lacrime color sangue. Le sue lacrime di sangue! «Tutto questo sangue, tutto questo sangue… non voglio vederlo, Aster, non…» fissò i suoi occhi verdi nei miei. I suoi soliti occhi, due splendidi smeraldi luccicanti. Era sempre lei, era la mia bambolina. Eppure i canini luccicavano nella sua bocca, simili a pugnali.
Dovevo ucciderla.
Dovevo prendere il paletto di papà, e…
«Aster, portami via. Ti prego. Ti prego, Aster, ti prego…»
«Certo, fiorellino.»
La raccolsi tra le mie braccia. Così leggera, così esile. Il mio prezioso fiorellino, la mia dolce sorellina.
Il mio demone dall’espressione angelica.

«Un mostro, un mostro!» andava ripetendo la signora Meyer. «Ha attaccato il castello, ha ucciso i miei padroni! Noi l’abbiamo visto, mentre tornavamo! Uno straniero dai capelli biondi…»
Distolsi la mia attenzione dal racconto. Seduto in un angolo dell’osteria che aveva accolto quel trio arrivato a bordo di un ormai sgangherato calesse tirato da un esausto ronzino, tenevo il capo basso, i neri capelli che, spiovendo in avanti, mi fornivano protezione dagli sguardi degli abitanti del villaggio. Io ero un Cacciatore. Mio padre era stato un Cacciatore. Eppure, la nostra famiglia era stata sterminata da un vampiro. Che umiliazione.
Come se a me fosse fregato qualcosa dell’orgoglio.
Ero distrutto.
Avevo sentito il mio cuore gonfiarsi di dolore ed esplodere, lasciandomi dentro un vuoto ancora più oscuro della tristezza o del lutto. Ero un uomo finito. La mia intera vita, le chiavi che l’avevano sostenuta erano stati annientati.
I miei genitori. Ed Aria, vampira addormentata in una squallida stanza della locanda.
Quanto aveva pianto, quanto si era disperata. La signora Meyer l’aveva poi lavata, ripulendola di tutto quel sangue. La signora Meyer non si era accorta della trasformazione di mia sorella, ed io non l’avevo informata. Se Aria avesse ucciso la signora Meyer, io sarei stato il responsabile.
Ma mia sorella non aveva alzato un dito contro di lei. Né contro altri.
Se ne stava immobile, piangente, come una bambola. Abbandonata alle cure della sua balia, si era lasciata lavare e rivestire, simile ad una bambina. Cos’era diventata, la mia Aria?
E cosa avrei fatto io di lei?
Rimasi tutta la notte a guardia del suo letto. Non dormiva, ma bensì fissava il soffitto, con i grandi occhi spalancati per la paura che quel mostro potesse tornare a tormentarla. Non riposò, come tutti i vampiri. Ma neppure si mosse.
Al mattino, chiusi le tende, facendo cadere la penombra nella stanza. Fu una cosa sciocca, a dire il vero: avrei potuto approfittare della confusione di Aria, e permettere alla luce del sole di fare il lavoro sporco al posto mio. Ma ero troppo vigliacco anche per questo, forse. Mi avvicinai a lei e, afferrata una sedia, mi accomodai accanto al letto, continuando a studiarla. «Aria?»
«Non c’è più il sangue.» fu l’unico sussurro che ricevetti in risposta. Allungai una mano, sfiorando teneramente la sua. Lei, dapprima spaventata dal mio movimento, come una bestiola in trappola, riuscì poi a calmarsi, permettendomi di rassicurarla con il mio calore.
E ne aveva bisogno, di calore. La sua mano era gelida. Come quella di un morto.
«Cos’è successo, Aria?» domandai piano, scandendo attentamente i suoni, con voce bassa e carezzevole. Lei scosse il capo, stringendo le labbra. «Raccontamelo, ti prego.» insistetti.
«Non lo so» mormorò, con voce rotta. Era nuovamente sull’orlo della lacrime. E le lacrime sarebbero state fatte di quel sangue che ora odiava tanto. L’avrebbero fatta impazzire. «Mi sono svegliata, e mamma e papà… Poi… poi sei arrivato tu...»
Piegai il capo di lato, perplesso. «Tutto qui?»
«Tutto qui.» confermò, senza ombra di esitazione nella voce. Cercai il suo sguardo, e non vi trovai traccia di menzogna. Forse il demone era abile, con le falsità.
«Dev’essere successo altro, Aria. Devi ricordarti.» le intimai con dolcezza, sperando di non scoppiare ancora in lacrime. Se lo avessi fatto, saremmo crollati entrambi. Per sempre, forse.
«No, Aster. Nient’altro.» scosse il capo e, nel farlo, mise in mostra il collo, liberandolo dal velo dei capelli. Lo osservai per qualche attimo, terrorizzato.
Non due fori, tipici del morso del vampiro. Ma decine e decine di zannate, alcune sovrapposte alle altre.
Qualunque cosa fosse capitata a mia sorella, doveva essere durata a lungo. In modo doloroso ed orrendo.
Digrignai i denti, desiderando di poter uccidere in cento modi diversi quel bastardo. Quando, invece, non ero in grado di farlo nemmeno una volta.
«E nessuno ha morso te?» domandai con voce tremante, mentre, con un distratto gesto della mano, nascondevo quello scempio compiuto sulla candida pelle di Aria.
«No, nessuno.» confermò, scivolando verso di me ed abbandonandosi ad un mio abbraccio. Mi cinse con tristezza, cercando una presenza materna che io non ero certamente in grado di offrire.
«Hai rimosso.» sussurrai, sbalordito. «Hai dimenticato tutto?»
«Non ho dimenticato niente, Aster.» ribatté con ostinazione. «Te l’ho detto, non mi è successo niente! Non ho visto niente!» la sua voce salì di tono, come se avesse paura di quell’argomento. E forse era così. La baciai una volta sola sulla fronte, mormorando rassicurazioni.
Avrebbe potuto mordermi facilmente, da quella posizione. Ma non lo fece.
«Ha ragione, Aria. Devo essermi sbagliato.» concessi, sentendola rilassarsi a queste parole. «Adesso devi riposare. Io vado dalla signora Meyer. Se hai bisogno di me… basta che chiami. Va bene? Te la senti di stare da sola?»
«Me la sento.» confermò in un bisbiglio, mentre io scioglievo i nostri corpi dall’abbraccio.
Uscii dalla stanza, lasciando sola e senza controllo quella delicata, innocente vampira dal collo devastato.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


«I poteri della bisnonna. Mamma te ne ha mai parlato?»
Posi quella domanda tenendomi la testa tra le mani, seduto sulla piccola sedia di legno della stanza che, momentaneamente, avevano assegnato alla povera signora Meyer. Lei, ancora traumatizzata dall’esperienza della notte prima, sedeva sul letto, sorseggiando una camomilla assolutamente inutile.
«Qualcosa, sì.» confermò, osservandomi con sospetto. «Perché?»
«Parlamene.» la invitai semplicemente, eludendo quella scomoda domanda. Lei mi accontentò. «Parlava con gli spiriti. Loro le rispondevano, credo. Ma non chiedermi su quali argomenti vertessero le loro conversazioni…» stirò un debole sorriso, che somigliò più ad una smorfia amara. «Scacciava i demoni, se ho capito bene. Sapeva controllarli come nessun altro al mondo. Era una strega. Una strega potente.»
«Aria quanto avrà ereditato, di quei poteri?» chiesi ancora, senza trovare la forza di alzare gli occhi. Quel vampiro aveva compiuto la Vendetta perfetta, innegabile. Ed era stata tutta colpa mia. Colpa mia.
Perché non ne avevo parlato con papà? Perché ero stato così ignobilmente stupido?
«Non lo so, Aster. Ma cosa c’entrino, i poteri di Aria?» colpita da quella che credé una brillante intuizione, la signora Meyer trattenne il fiato, sbalordita. «Oh…! Vuoi dire che quel demone ha attaccato la vostra famiglia perché attirato da lei? Vuoi dire che è stato a causa di quello?»
Sentii i miei organi interni compiere qualche acrobazia, mossi dalla ferocia del mio abissale senso di colpa. «No» boccheggiai infine. «Non credo sia stato a causa di quello.»
Era stato a causa mia. A causa del Cacciatore troppo giovane e troppo sciocco. Ero un assassino. In modo indiretto, forse. Ma lo ero.
Non sapevo cosa mi avesse spinto a chiedere quelle informazioni sulla mia piccola Aria. Le mani mi tremavano, mentre, con fare patetico, io cercavo di rimettere in ordine i pezzi della mia vita; quale collegamento c’era tra Aria ed i poteri della bisnonna?
Controllava i demoni…
Ma certo.
Se era vero che mia sorella aveva ereditato parte dei poteri della bisnonna, se era vero che poteva vantare capacità pari a quelle della nostra ava, se tutto ciò aveva uno stramaledetto fondo di verità… allora… forse lei…
No, ero solo un illuso.
Uno sciocco.
Oltre che un assassino.
In quella stanza adiacente la nostra vi era solo una vampira abile a recitare. Nulla di più. Nulla di più!
Dovevo smetterla di attaccarmi a speranze prive di fondamento. Dio, Dio! Cosa avevo fatto di male, per meritare anche quello?
Perché il vampiro non l’aveva uccisa? Perché anche quell’orrendo fardello era caduto sulle mie spalle, come un maleodorante manto dall’insopportabile peso?
Aria doveva morire. Aria era un vampiro. Aria era…
Era tutto ciò che mi rimaneva.
Perché non aveva morso me, né nessun altro?
Mio padre mi aveva insegnato che la prima volontà di un vampiro appena creato era quella di trovare del sangue. Di nutrirsi. Ma Aria non aveva dato segno di quel desiderio.
A meno che non fosse stata lei, ad uccidere e torturare i nostri genitori. A meno che non si fosse saziata con il loro sangue…
Forse dovevo tornare in quella stanza, forse dovevo aprire le tende.
«Forse può davvero controllare il demone.» mormorai tra me e me. La signora Meyer, incuriosita, mi chiese spiegazioni per quella frase a dir poco sibillina. Ma io scossi il capo, definendola legata ad una questione di poco conto.

***

«E’ una malattia rara, Aria.» spiegai, carezzandole con dolcezza i capelli. Erano più brillanti di prima, simili al piumaggio di un corvo. Davvero splendidi, per essere i capelli di un vampiro. «Non è grave, se trattata nel modo giusto. Davvero.»
Tenendo il capo basso, lei annuì tristemente. Si sentiva in colpa per quel misterioso morbo. Si sentiva in colpa, perché si era ammalata proprio dopo la morte di mamma e papà; aveva la sensazione di essere un peso.
Invece, era l’unico punto fermo della mia vita. La mia sola ragione per andare avanti.
«La tua pelle è sensibile alla luce del sole, perciò devi evitarla. Ma non è un problema, viaggeremo di notte.» la cosa non sembrò né rassicurarla né, tanto meno, consolarla. Ma andai avanti. «Purtroppo non… non puoi più mangiare cibo normale. Devi bere solo questa medicina. Solo questa, capisci?»
«E le torte?» domandò con tristezza.
Scossi il capo, non lasciandomi intenerire dal suo sguardo. Un tempo, avrei accontentato ogni suo capriccio, dal momento che era compito di papà imporle una qualche specie di disciplina.
Ma ora papà non c’era più.
E nemmeno mamma.
«Niente torte, Aria. Solo la medicina. E’ per il tuo bene, fiorellino. Lo capisci?» sussurrai, sentendomi il cuore gonfio di una strana emozione. Le mie supposizioni, in quella settimana di osservazione passata in quella locanda, si era rivelata esatta: Aria non aveva dato il minimo segno di essere sotto il controllo di un demone.
Era un vampiro, ma mancava della ferocia tipica di quella specie.
Eppure non dormiva. Non poteva restare al sole. E non poteva nutrirsi di altro che di quella medicina.
Ovvero, del sangue animale che lui raccoglieva e celava nella propria borraccia, facendoglielo bere con l’inganno.
Dal giorno del massacro, lei sveniva alla semplice vista di una sola, misera goccia di sangue. E così, io la nutrivo con l’inganno. La costringevo a vivere un’esistenza a metà. Che altro avrei potuto fare?
«E il pane? Il pane con la marmellata!» tentò un nuovo assalto lei. Dio, ma come facevano mamma e papà a dirle di no? Io – forse anche a causa della gioia di averla accanto a me – mi sentivo un verme. Ma dovevo resistere.
«Niente di niente Aria. Promettimelo.»
«Ma…»
«Promettimelo.»
Abbassò il capo, depressa. «Promesso.» bofonchiò solo. Quindi, rialzando il capo, fissandomi con occhi lacrimevoli, domandò: «Ma perché dobbiamo andare via, Aster? Io voglio restare qui…» Mi sedetti accanto a lei, circondandole le spalle con un braccio. Sentii che vi era bisogno di un comportamento da fratello maggiore; perciò, le sfregai le nocche sulla cute, spettinandola un poco. Lei rise, un suono basso ed argentino, urlando che le stavo facendo male. Una bugia, ovviamente. Come quelle che le avevo appena rifilato. Che le avrei rifilato per molti anni a venire.
«Non voglio più restare in questo villaggio, sorellina.» mentii per l’ennesima volta. «Mi fa pensare a mamma e papà.»
La verità? Presumo di poterla concederla almeno a voi.
La gente del villaggio guardava con diffidenza Aria.
Da una settimana, mia sorella non mangiava. Non usciva dalla sua stanza. E voci di corridoio non meglio identificate avevano riferito ai paesani il suo straordinario pallore. Non sarebbe occorso molto tempo, prima che i fondati sospetti delle persone diventassero una concreta certezza. Ed io non potevo permettere che facessero del male a mia sorella.
«Aster…» chiamò piano lei, immersa ora nel mio abbraccio. «Il vampiro che ha ucciso mamma e papà… tornerà?»
Bella domanda.
«Se tornerà, Aria, io lo ucciderò.»
Bella bugia.
«Resteremo per sempre insieme, fratellone..»
Bella promessa.
Sorrisi. «Ti voglio bene.»
E le schioccai un bacio sulla fronte. Su quella pallida, gelida, infantile fronte.
Celato dalle pesanti tende della stanza, il sole prese a declinare dietro l’orizzonte, abbandonando il mondo ad un altro gelido abbraccio delle tenebre. D’ora in poi, avremmo vissuto solo all’ombra di quell’oscurità. Tanto valeva farsela piacere.
«Vieni, Aria. E’ ora di partire.»
Giorni prima, avevo mandato degli uomini al castello, per recuperare alcuni devi nostri averi: gioielli, abiti. Un paio di sacche, qualche coperta. Non avevamo bisogno di altro.
Saremmo bastati a noi stessi.






Ringrazio Dada Baggins per la sua recensione, che mi ha davvero tirato su il morale. Erano anni che non toccavo la narrazione in prima persona, preferendo una fredda terza persona. Ammetto di divertirmi assai di più con questo stile, anche se forse non saprei mantenerlo per storie troppo lunghe...
Non devi avere troppa paura per Aria. Come vedi, al momento non è cosciente del suo cambiamento... ^^
Ovviamente, però, la storia non è finita ^^
Ringrazio, oltre te, tutti i lettori silenziosi e non che sono giunti sino a qui. Appena avrò tempo, lavorerò su un altro capitolo. Un bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


«Aster!» un richiamo allegro, spensierato. Volsi distrattamente il capo, cercando con lo sguardo mia sorella.
Il nostro piccolo falò, acceso per riscaldare quel momento di sosta di cui solo io realmente necessitavo, brillava orgogliosamente nelle tenebre della notte, come se non fosse stato consapevole di essere solo un sciocco ammasso di fiamme che un semplice vento avrebbe potuto spegnere fin troppo facilmente.
«Aster, guarda!» ripeté Aria, tornando al piccolo trotto verso di me. Era sempre stata una ragazzina goffa, sin da piccola; teneramente imbranata, capace di inciampare persino nei suoi piedi.
Eppure, da qualche mese a quella parte, a causa dei poteri di quel maledetto demone instauratosi in lei, anche la sua andatura aveva subito una piccola mutazione, divenendo più sicura e stabile che mai. Quando avanzava con fare distratto, sembrava davvero una regina.
Avevo una paura dannata di quel cambiamento nel suo modo di camminare. Non chiedetemi perché.
So che la cosa può sembrare pazzesca, ma ero più tranquillo quando la vedevo trottare verso di me come stava facendo ora; e quando la vedevo inciampare, magari. Allora piagnucolava, tornava ad essere solo la mia piccola bambolina, ed il mondo, anche se solo per un attimo, mi appariva chiaro e limpido come se fossimo stati alla luce del sole.
«Un coniglio!» ululò trionfale, piazzandomi sotto al naso un morbido cuccioletto peloso; di colore marrone, aveva due enormi occhi castani spalancati all’inverosimile, segno che la bestiola si stava facendo il peggiore bagno di paura della sua giovane esistenza. «L’ho trovato là, nell’erba!»
Presi tra le mani il piccolo. Tremava impercettibilmente, movimento che si estendeva anche ai lunghi baffi di colore neutro che spuntavano ai lati del muso. Orecchie appiattite contro il corpo, mi guardò come a dire: va bene, sono stato preso; mangiami senza farmi soffrire troppo, sì?
Da quella notte maledetta, avevo sgozzato decine di conigli come lui. Avevo fatto loro dono di una morte orrenda, raccogliendo in una borraccia il sangue indispensabile al sostentamento della mia sorellina.
Forse questo cucciolo di coniglio lo sapeva. Ecco perché mi guardava così.
O forse stavo impazzendo per davvero.
«Aria» balbettai, perplesso. «E’ un cucciolo. Perché lo hai raccolto?»
«Perché era solo.» replicò con tutta la naturalezza del mondo lei. L’animaletto si mosse appena tra le mie dita, forse chiedendosi quale tortura avessimo in mente per lui prima del massacro.
Povera, sciocca bestiola. Non gli avrei mai fatto nulla, davanti a lei.
Sarebbe svenuta, alla vista del sangue.
«Adesso la sua mamma sentirà il nostro odore addosso a lui. E non lo vorrà più.» sospirai, restituendole l’animaletto. Aria lo osservò confusa, spalancando i già grandi ed espressivi occhi verdi.
«E perché?» volle sapere, con fare totalmente infantile. Dio, come poteva esistere un vampiro, dietro quell’espressione dolce ed ingenua?
«E’ una cosa che fanno i conigli» feci spallucce. Faccio sempre spallucce, quando non so con esattezza cosa rispondere ad una domanda. E’ una cosa che ti fa fico e che, nel contempo, ti evita un’imbarazzante sentenza. Provateci anche voi, funziona! «Magari la mamma non vuole avere a che fare con qualcosa che puzza di umano. Dev’essere un odore che disturba i conigli, forse. Come agli umani non piace il tanfo di morto.» mi morsi immediatamente la lingua, dandomi mentalmente dell’idiota. Aria era morta, accidenti a me.
Completamente all’oscuro dei sensi di colpa che quella frase aveva sollevato in me, lei fissò ancora l’animaletto, mentre una strana tristezza le si dipingeva sul viso. «Non lo sapevo.» mormorò. «L’ho visto solo, e credevo di fare una cosa giusta…» se lo portò all’altezza del volto, ed il roditore esibì la stessa espressione tranquilla di un essere umano catturato da un gigante sadico. «Morirà?» azzardò, rivolgendosi poi a me.
Che voleva che ne sapessi, io? Era mamma, quella che sapeva tante cose sugli animali. Era stata proprio lei, qualche anno prima, a raccontarmi quella storia della femmina di coniglio che abbandona i cuccioli toccati dagli esseri umani.
Ma non era vissuta abbastanza per raccontarla ad Aria.
«Prova a tenerlo tu» proposi di slancio, forse perché non avevo altre risposte. «Se lo nutri, forse non sentirà la mancanza della madre. E vivrà.»
Ah, che parole sagge. A volte la mia saggezza mi stupisce. Sul serio.
Aria fece una cosa che mi sorprese. Dovrebbe essere una cosa normale, per lei, dato che è una fanciulla dolce e premurosa. Ma mi stupì ugualmente.
Si portò al petto il cucciolo, carezzandolo con affetto, le bianche e gelide dita che passarono gentilmente sulla morbida pelliccia della bestiola, certamente non tranquillizzandola. «Anche io non ho più la mia mamma» bisbigliò. «Ma ho Aster. E adesso anche tu hai Aster, oltre che me. Quindi sei in buone mani.»
L’animale non parve molto d’accordo. Ma decise di tenere per sé le proprie idee, rimanendo in silenzio.
Quanto a me, credo di aver seriamente rischiato di scoppiare a piangere. Quanta stramaledetta innocenza, in quella creatura che spesso e volentieri era da me costretta a bere il sangue degli stessi fratelli di quel coniglio.
La mia nuova vita era un tale insieme di paradossi, da spingermi con inaudita prepotenza verso il baratro della follia.
Prima o poi, sarei caduto.
Lei raccolse dei fili d’erba, che mise sotto il naso del cucciolo. Rise piano, quando lui, dopo averli esaminati con la cura di un chimico, si decise ad addentarli, masticandoli in un adorabile frullio di naso e guance. Se c’è una cosa ridicola, a questo mondo, è il modo di mangiare dei conigli.
Fu durante quell’idilliaca scena, che subimmo il primo attacco della nostra vita da parte di un licantropo.

***

Balzò fuori dalla foresta attorno a noi, in un modo talmente improvviso da farmi supporre per circa mezzo secondo che si fosse materializzato per magia.
Ma i Licantropi non hanno magia. Sono solo delle grosse e violente bestie, che possiedono principalmente tre argomenti di conversazione: massa, artigli e zanne.
Non è bello, dialogare con un licantropo.
Sempre che non abbiate deciso da tempo un infelice divorzio dalle vostre frattaglie.
Vi sconsiglio, inoltre, di invitare un licantropo per cena. Sarebbe incapace di compiere reali distinzioni tra il maialino arrosto posto sul tavolo ed i commensali accanto a lui.
Spero di aver reso abbastanza chiaramente l’idea della creatura che ci ritrovammo davanti. Enorme, possente, dagli artigli colanti bava, ansimò eccitato, spiandoci con gli acquosi occhiacci neri. Aria, con uno strillo, quasi cadde all’indietro, lasciandosi sfuggire il coniglietto. Il quale, decidendo di averne abbastanza della situazione, prese a correre come un forsennato tra l’erba, sparendo alla nostra vista.
L’animale ruggì furioso, preparandosi alla carica. Aveva trovato due succulenti bocconcini, ed il suo elementare cervello non aveva tardato ad elaborare una geniale tattica: dilania; uccidi!
«Aster!» chiamò mia sorella, correndo a rifugiarsi dietro di me. Mossa inutile, mio piccolo fiorellino. Per ammazzare i licantropi sono necessarie pallottole d’argento. Ed io non disponevo nemmeno di una pistola. Che razza di idiota…
Il licantropo ebbe un guizzo, distraendosi da noi. Fissò il coniglietto, quello che noi avevamo verso di vista. E calò sul terreno a fauci spalancate, divorandolo in un solo boccone.
«Aria» mormorai. «Ascoltami. Adesso devi scappare.»
«No!»
Risposta prevedibile.
«Non ho armi con cui affrontarlo. Ma posso distrarlo, mentre tu scappi.» Oh, sì. Lo avrei distratto facendomi divorare. Che splendida, gloriosa fine. Degna di un individuo come me, presumo. «Aria, non ha senso farsi ammazzare in due…»
Il licantropo rialzò il muso dal terreno, deglutendo con piacere il cucciolo di mia sorella. Maledissi il nostro Dio, in quel momento. Perché se lo meritava, mica per altro.
«Allora vai tu!» replicò con slancio lei. «Io sono malata. Sono io, che devo morire!»
«Non dire mai più una sciocchezza simile!» strillai scandalizzato.
Ops. Forse non avrei dovuto urlare.
Il cucciolone di quasi due metri rivolse nuovamente a noi la sua bieca attenzione. «Aria…» implorai ancora una volta.
E poi quello partì alla carica.
Mi volsi di scatto, afferrando mia sorella e trascinandola verso sinistra, in un salto decisamente sgraziato. Atterrammo come due sacchi di patate sul prato, evitando per un soffio l’attacco dell’animale.
O almeno, così credevo.
Un bruciore intenso al braccio mi consigliò di dare un’occhiata alle mie condizioni. Mi toccai, e quando ritrassi le dita, le trovai piene di sangue. Quel bastardo mi aveva ferito di striscio con una zampata, mentre io lo evitavo.
Lui ruggì, preparandosi ad un nuovo assalto.
Che bocconcini divertenti, dovevamo essere! Una bella distrazione prima di cena.
Aria fissava come ipnotizzata la ferita sul mio braccio. Tremando da capo a piedi, non si lasciava sfuggire un solo orrido particolare di quello squarcio, apparentemente insensibile a quel sangue che, di norma, l’avrebbe dovuta far svenire.
«Aria?» balbettai sbalordito, fissando con incredulità le sue iridi. Non più color smeraldo, ma nere come la notte; i canini le crebbero nella bocca, sporgendo dalle sottili labbra. Ed il suo delicato corpo fu come attraversato da una scarica elettrica, che parve quasi donarle una nuova potenza. Alzò uno sguardo che mai avevo conosciuto sul nostro avversario.
Quindi, con un urlo selvaggio, partì all’attacco, protendendo le acuminate zanne.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


CAPITOLO SESTO

Non so descrivere la potenza, la ferocia, l’inaudita spietatezza della creatura che mi ritrovai davanti in quel momento.
Né, tanto meno, so esprimere il mio assoluto, totale, infinito sbalordimento. Ciò che un tempo era stata Aria balzò furiosamente contro il nostro avversario, ancora prima che io avessi il tempo di pensare a fermarla. Non che sarei stato in grado di farlo, sia chiaro.
Era… era una creatura incredibile. E splendida, a suo modo.
Osservai quell’esile corpo smosso da un’energia che non avrei mai creduto possibile, la vidi volare addosso al nostro avversario.
Quel demone, quella maledetta sanguisuga in cui non avevo voluto o potuto credere: eccola lì, intenta ad attaccare un licantropo grande tre volte la sua persona, gli occhiacci neri ridotti a due pericolose fessure, i lucenti canini brillanti nella notte.
Eppure, nonostante quell’immagine agghiacciante, temetti per la sua vita. Pensai addirittura che avrei dovuto urlarle di fermarsi, di stare attenta.
Ero e sono uno stupido, lo so.
Assistere a quel combattimento, a quella lotta tra creature nate dagli albori degli incubi, fu uno spettacolo. Meritevole dell’aggettivo “raccapricciante”.
Lei lo afferrò furiosamente, mettendo in pratica una mossa di lotta libera che sinceramente non avrei mai creduto di possibile attuazione nei confronti di un uomo lupo. La vidi alzare appena il capo, spalancando le fauci, mentre lui, rabbioso, tentava di strapparsela di dosso. O di strapparle un braccio.
Mia sorella…
La mia mano scivolò tremante verso quel fedele paletto che tenevo nella tasca interna della giacca. Lo strinsi tra le dita, fino a farmi diventare le nocche bianche. Cosa volessi fare con quell’oggetto, non lo so. Ma desideravo sentire la sua consistenza nella mia mano.
Aria calò sul collo dell’avversario.
Come una bambina che si stringe affettuosamente al suo bel e scodinzolante cagnolino, la vampira affondò il viso nell’ispido pelo del mostro, mordendolo con ferocia. Sentii il rumore del sangue, del sangue del lupo che scorreva nella sua bocca, avidamente succhiato. Lo sentii con terrificante chiarezza, e quello, potete starne certi, è un suono che non dimenticherò mai, per il resto dei miei giorni.
Lui si dibatté, lottò, cercò disperatamente di sfuggire a quella ferrea presa.
Ma la mia piccola, tenera sorellina aveva un’energia apparentemente inesauribile; al secondo sorso di quell’orrida bevuta, già le mosse della bestia risultarono più lente, impacciate.
Fu questione di qualche minuto, poi il velo della morte calò sui suoi occhi, che si appannarono come finestre sporche, abbandonate.
Con un ultimo spasimo di ribellione, perse conoscenza, accasciandosi.
Aria lo lasciò cadere a terra con un verso di disprezzo. Si pulì il viso sozzo di sangue, leccandosi con fare godurioso le dita sporche di quel liquido. Io, paralizzato, non riuscii ad azzardare un movimento, né a produrre un qualsivoglia suono intelligibile.
Semplicemente, me ne stavo lì, seduto a terra, tremante, fissando quella creatura che finalmente si era rivelata, quel demone dalle fattezze di mia sorella.
E mi davo del cretino.
Eccola, la vera natura di Aria.
Non la ragazzina che si accoccolava a me nelle sere fredde, cercando conforto.
Non la piccola che aveva vezzeggiato un cucciolo di coniglio, intristendosi nell’apprendere di averlo condannato a morte certa solo toccandolo.
Non il mio dolce fiorellino, la mia fresca brezza, la mia indifesa bambolina.
Bensì, quel folle mostro. Che volse i suoi occhi neri come le tenebre verso di me, sorridendo maleficamente. La mia presa sul paletto si fece più forte.
«Ciao, Aster.» la sua voce era diversa, metallica. Retrocedetti, strisciando sull’erba, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lei, dal suo sguardo oscuro e beffardo. «Finalmente ho l’onore di parlare con te...»
Mi raggiunse con pochi passi, con delle movenze che m’infastidirono non poco. Era una camminata morbida, la sua, dotata di una nuova… sensualità? Una cosa simile. Era come se, all’improvviso, avesse assunto una nuova consapevolezza del suo corpo, imparando a muoverlo come una gatta.
Aria non si sarebbe mai mossa così.
Si accucciò di fronte a me, senza staccarmi di dosso quegli occhiacci neri e profondi come l’oblio. «Oh, come tremi!» sussurrò, mettendo in mostra i canini con un tremendo sorriso. «Sarebbe così bello, morderti…» allungò una mano verso di me, verso il mio volto. Ma il tragitto dell’arto fu arrestato da un qualcosa che non seppi comprendere, unito ad un suo verso di protesta. Aria si portò l’altra mano alla testa, maledicendo qualcosa che inizialmente non compresi. «Non lo tocco, maledizione, non lo tocco!» strillò, picchiandosi con violenza la tempia destra. Si prese il capo con entrambe le mani, scuotendolo. I neri capelli ondeggiarono come erba scossa dal vento, mentre lei, strizzando gli occhi, mugolava dal dolore.
Mi parve d’avere di fronte una matta completa, che urlava cose inintelligibili contro se stessa.
O forse ero io, che finalmente ero impazzito.
Che bello. Abbandonarsi alla follia. Dimenticare ogni cosa. Sarebbe stato davvero splendido.
Magari era tutto un brutto sogno.
Magari dovevo smetterla di pensare sciocchezze, e preoccuparmi di lei.
«Aria?» sussurrai, ormai oltre lo sbalordimento.
Oh, Dio, era così forte l’impulso di carezzarla, di proteggerla! Anche ora, anche vedendola come l’orrido vampiro che in realtà era: volevo solo stringerla a me. E se mi avesse morso ed ucciso nel frattempo… tanto meglio.
«Non mi chiamo ARIA!» urlò lei, alzando finalmente il capo e rivolgendomi la peggiore delle occhiatacce. «Non osare mai più chiamarmi con quello sporco appellativo umano! Odio questa mocciosa, odio te, odio questa prigione di carne!» si prese nuovamente la testa tra le mani, e ancora una volta la scrollò con tale furia, da farmi addirittura ipotizzare con orrore che potesse staccarsela dal collo.
La comprensione m’illuminò solo in quel momento.
«Sei il demone… il vampiro, vero?» mormorai, basito.
Cercai di sfiorarla, di toccare quei capelli simili alle piume di un corvo. Ma lei si ritrasse, il volto deformato da una smorfia di estremo disgusto.
«Demone? Il… DEMONE? » urlò, e la sua voce fu tanto acuta, da farmi pensare che potesse raggiungere le stelle. I rumori del bosco attorno a noi tacquero, terrorizzati da quegli strilli violenti. «Questa piccola schifosa mi tiene in catene!» sbraitò, indicando il suo stesso corpo. «Mi lascia in un angolo della sua stramaledetta mente, mi zittisce quando urlo dalla fame! E’ lei, il demone! Lei!»
Era esattamente come avevo ipotizzato io: Aria sfruttava i suoi poteri per tenere a bada il vampiro in lei.
E faceva tutto ciò a livello inconscio, ne ero certo.
Dunque era questo, il potere della mia sorellina? Poter controllare una simile creatura senza nemmeno rendersene conto? Poterla nascondere in un angolo del suo cuore, dimenticando ogni informazione riguardante la sua esistenza? Poter ignorare gli strilli rabbiosi del vampiro affamato?
«Mi ha lasciata libera solo ora, come se fossi un cane! Il suo piccolo, stramaledetto cane da guardia!» strepitò furiosa la vampira, proseguendo nel suo non molto comprensibile soliloquio. Non che avvertisse il bisogno di confidarsi con me.
Credo, piuttosto, che quella fosse tutta la rabbia covata in quei mesi in cui Aria l’aveva costretta a starsene buona e zitta. Ora che aveva ottenuto il controllo, si lamentava disperata e furiosa, sbraitava e quasi tentava di farsi del male da sola. Finalmente uscita allo scoperto, strillava al mondo la sua indignazione, la rabbia di una belva costretta alla gabbia ed alla fame.
A modo suo, mi fece pena. Ma non per molto.
«Un giorno scoprirò come liberarmi di lei! Come liberarmi di te!» sbraitò, ormai fuori dalle grazie di Dio. Sempre che ci fosse mai stata.
Non seppi cosa rispondere. Anche perché, dopo queste parole, lei chiuse gli occhi, svenendomi davanti agli occhi, piombando verso terra come un peso morto.
Ovviamente, il mio istinto fu quella di afferrarla al volo, accogliendola tra le mie braccia.
Cos’altro avrei potuto fare?

***

Se c’era una cosa che terrorizzava Aria ancora più del sangue, beh, quella cosa era certamente il vedermi piangere.
Credo fosse una questione al di là della sua comprensione: il suo brillante ed orgoglioso fratellone scosso da singhiozzi ben poco dignitosi e virili? Una brutta faccenda, decisamente fuori dall’ordinario, che avrebbe potuto significare la fine del mondo, almeno suo parere.
Perché io dovevo essere il più forte, tra noi due. E se ero io, a crollare, allora significava che non vi era più speranza per nessuno.
Ma quando la vidi riaprire gli occhi, dopo averla chiamata con disperazione, dopo averla sentita gelida ed immobile tra le mia braccia, quando finalmente la scorsi rialzare le palpebre, illuminandomi con il verde smeraldo delle sue iridi… non riuscii proprio a trattenermi.
Scoppiai in singhiozzi come un bambino, stringendola a me e cullandola, quasi facendole male per la pressione delle mie braccia. Le baciai il capo, i capelli, le guance, bagnandola con le mie lacrime, abbandonandomi ad un movimento ondulatorio del tutto irrazionale.
«Aster…» mormorò confusamente lei, spaventata dal mio comportamento. «Cosa succede? Aster!» si guardò attorno, gli enormi occhi verdi spalancati all’inverosimile, ma io la costrinsi a non guardare altri che me. A non scorgere il cadavere dell’uomo lupo da lei stessa ucciso. Non so perché ebbi l’istinto a negarle quell’immagine, ma lo feci.
«Ssst…» la spinsi ad appoggiare il capo nell’incavo del mio collo, consapevole del fatto che Aria non mi avrebbe mai, mai morso.
Perché non era più la tremenda vampira che aveva massacrato il licantropo: era tornata ad essere la mia sorellina, la mia bambolina. La mia fresca, riposante brezza.
Ed io ringraziai mille ed ancora mille volte Dio per quel miracolo. Grazie, grazie. Scusami se a volte ti maledico, ma che ci vuoi fare? Grazie.
«Che succede, Aster?» lei si liberò dalla mia presa, a dir poco terrorizzata. «Il licantropo? Dov’è andato? Sei ferito? Perché piangi? Aster!»
Una lacrima di paura rotolò lungo la sua bianca guancia. Una goccia di pianto sanguineo che le insudiciò la pelle priva di imperfezioni. La pulii distrattamente, macchiando uno dei miei fazzoletti ricamati.
Ai figli dei duca è fatto obbligo avere dei fazzoletti ricamati. Cosi ripulire il sangue dal viso della sorellina vampira è una faccenda tutta più elegante, no?
«Va tutto bene» sussurrai mentre, faticando nel controllare i singhiozzi, mi beavo del suo sguardo innocente e perplesso, dei suoi modi di fare goffi ed infantili. Eccola, la mia Aria. Perderla, anche se solo per pochi minuti, era stato… come smarrire la mia stessa anima. «Il licantropo è morto. Noi stiamo bene.» riassunsi brevemente. «Non ricordi nulla?» E la osservai intensamente. Cercando tracce di ricordi, o tracce di menzogna nel suo volto. Ma non trovandole.
Lei scosse il capo, abbassando gli occhi con aria colpevole. «Devo essere svenuta dalla paura. Mi dispiace.» si scusò con un mugolio triste, che meritò una mia immediata carezza al capo.
Rialzò lo sguardo, fissandomi, ed io fissai lei. Spiai le profondità di quelle iridi verdi, sapendo che, da qualche parte in quel corpo, vi era un’entità capace di farle diventare nere. Capace di uccidere un licantropo a mani nude.
«Ora va tutto bene» la rassicurai ancora una volta, sistemandole un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. Di solito, era mamma a badare a quelle sciocchezze: un colletto messo male, un’imperfezione da nascondere. Lei la rimetteva a posto, con l’amore di una bambina alle prese con la sua bambola.
E adesso che mamma non c’era più io, per quanto fosse inutile badare all’aspetto di una ragazzina spersa nel bosco insieme al suo stupido fratello, non potei fare a meno della rassicurante abitudine di occuparmi di lei.
«Sono così stanca…» bisbigliò, poggiandosi di colpo a me. La sostenni senza fatica. Era così leggera, delicata. «Non lo so perché, ma sono così… stanca…»
«Allora riposa.» le consigliai con voce bassa, sollevandola tra le braccia e rialzandomi da terra. Lei si sistemò meglio, rassicurata dal rifugio che la mia presa le offriva.
Io ero la sua unica difesa contro gli spauracchi del mondo; ero il guerriero in armatura brillante che avrebbe ucciso chiunque avesse attentato alla sua salute.
Non sapeva certo che, quella notte, le parti tra noi si erano invertite. Forse per sempre.
«Sono solo un peso, Aster» sospirò, ormai mollemente abbandonata, le palpebre socchiuse. «Dovresti lasciarmi da qualche parte, e vivere la tua…»
«No.» la risposta mi uscì più aggressiva del previsto. Non volevo risponderle male, ma mi ero istintivamente opposto a quell’idea con tutto me stesso, giacché la trovavo rivoltante. «Ascoltami, Aria» e le mie parole ebbero un’impronta di tale serietà, da indurla a riaprire faticosamente gli occhi, fissandomi con placida aspettativa. «Io non ti abbandonerò mai. Qualunque cosa accada. Dovessi anche sputare in faccia al padrone dell’Inferno. Tu sei mia sorella. Ti proteggerò finché avrò fiato per farlo. Hai capito?»
Aria non aveva certamente compreso tutti i sottosignificati della sentita mia affermazione, ma la gratitudine la commosse ugualmente. Gli occhi le si riempirono di lacrime, sincere lacrime di una dolce e spaventata ragazzina in balia del suo destino. Per fortuna le controllò, o avrei dovuto ripulirla ancora una volta, con fare distratto ma attento, di modo che lei non si accorgesse dell’orrido colore del suo pianto e svenisse a causa di ciò.
«Sei il miglior fratellone del mondo.» si complimentò con sincerità, facendomi provare una strana sensazione, che quasi mi spinse di nuovo verso l’orlo del pianto. Era felicità, credo. O disperazione.
Tornò ad appoggiarsi a me, ricadendo in quello stato di semiveglia cui l’eccessivo sforzo compiuto per salvarmi la vita l’aveva portata.
Osservai il cadavere del licantropo, riverso sull’erba resa umida dalla rugiada. Fissai con insistenza quel pelo ispido, quegli arti abbandonati in posizioni innaturali.
Una bestia imbattibile, che giaceva morta a causa di una ragazzina.
«E tu la migliore sorellina che ci sia» dissi, perché era giusto che lo dicessi.
Tenendola come un dolce fagottino, con le stesse braccia tremanti con cui l’avevo portata via dalla casa degli orrori ove aveva accolto in sé il germe della razza vampirica, mi allontanai da quel luogo, da quell’olezzo di morte, lasciandomi alle spalle quella radura.










Spero che i nuovi sviluppi siano di vostro gradimento. ^^
Ringrazio moltissimo voi lettori che mi avete recensita e consigliata. Spero che la storia ed il suo stile continui a piacervi. ^^
Un bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


Passarono due lunghi mesi, da quella spaventosa notte.
Continuammo a viaggiare, una coppia di fratelli dalle origini nobili, lei pallida come un morto, io oppresso dalle occhiaie e dalla stanchezza, ormai prossimo al crollo.
Non ero certo avvezzo ad uno stile di vita che prevedesse il dormire di giorno in mezzo ai boschi né, tanto meno, a razionalizzare sugli alimenti. Ed il mio corpo, così come il mio spirito, parevano risentire pesantemente di quella pessima situazione in cui ci eravamo trovati.
Ma perché mentire anche a me stesso? Non erano state le intemperie, la fame o la stanchezza a spezzarmi.
Era stata Aria.
La nuova Aria, il suo lato nascosto. Aveva distrutto ogni mia illusione.
Mi trascinavo da un luogo all'altro, portandomela dietro, cercando il coraggio di affondare un paletto in lei.
E non trovandolo.
Persi la mia solita loquacità, la mia solita baldanza; divenni lo spettro di me stesso, un’ombra che si portava appresso l’ultimo scampolo di una famiglia distrutta. Uno scampolo infettato dal male.
Aria era preoccupata per me, nel silenzio dei nostri viaggi.
Anche io, in effetti, lo ero.
Vagavamo privi di una reale meta, spinti più che altro dal mio desiderio di non stare fermo troppo a lungo nello stesso posto: ogni volta che mettevamo piede in un villaggio, alla ricerca di una locanda per un giaciglio decente o per cibo classificabile come commestibile, molti occhi sospettosi puntavano lo straordinario pallore della mia innocente Aria, cosa che mi faceva rabbrividire.
Gli incubi in cui mia sorella veniva data alle fiamme sulla sporca e piccola piazza di un anonimo paesello di campagna erano ormai all’ordine del giorno.
Così come le tremende fantasie oniriche circa il temuto ritorno della sua parte oscura. Il riemergere di quella tremenda vampira dalle iridi nere, di quella furia nascosta dietro i dolci sorrisi di Aria.
E allora, viaggiavamo. Spesso a ritmi estenuanti, come se dovessimo sfuggire da qualcosa, o arrivare in qualche posto.
So che è inutile scappare dalle proprie paure. Eppure io ce la misi tutta. Davvero.
Fu, quindi, tutta colpa mia se, ad un certo punto, arrivammo alla Residenza.
Ce la trovammo davanti una notte, come se fosse spuntata per noi direttamente dall’inferno. Una casaccia costruita in assi nere, abbandonata nel furore del vento che, quella sera in particolare, sferzava i nostri corpi con ferocia sempre maggiore.
Il giardino all’esterno di essa, incolto da ormai parecchi anni, era quasi indistinguibile dal resto della foresta che la circondava, ed il rumore del fiume, che scorreva poco lontano da lì, mischiato al tremendo ululare del vento mi fece letteralmente salire un brivido lungo la schiena.
Che nascosi, com’era logico che facessi.
L’inverno era alle porte, e noi non avevamo un rifugio stabile. Per quanto freddo, quanta fame e quanta fatica sopportavamo, sarebbe stato logico aspettarsi da Aria una pigolante richiesta di ritorno al nostro vecchio, amabile maniero. Ma lei non lo domandò mai.
E quella notte, mentre io quasi lacrimavo dal freddo, ci ritrovammo davanti alla Residenza.
Fu Aria a chiamarla così, ridendo divertita.
«Santo Cielo, Aster» commentò, tremando palesemente per il freddo. «Non ho un vestito abbastanza elegante, per una simile Residenza. Dici che mi lasceranno entrare lo stesso?»
Una battuta. Solitamente ero io, quello che faceva le battute.
La casaccia di fronte a noi, fissandoci attraverso le finestre sporche, parve non molto lusingata da quel commento. Mi diede quasi l’idea di ghignare di noi, di sorridere come un teschio, maleficamente divertita dai due patetici fratellini di sangue blu.
Ecco, ero finalmente impazzito del tutto.
«Possono anche chiedermi uno stramaledetto smoking, ma io entro lo stesso.» decisi, stretto tra le mie stesse braccia, battendo i denti per il freddo. «Questa notte rischiamo di gelare per davvero.»
Così, mi avviai con decisione verso la Residenza, ovviamente seguito con fedeltà dalla mia sorellina. Per una blanda precauzione, picchiai un paio di volte sul vecchio legno della porta e, non ottenendo risposta, l’aprii.
Ovviamente, nello spalancarsi, essa fece un rumore cigolante, quasi emettendo un lamento.
Ovviamente, l’interno che ci si presentò era oscuro, una massa di ombre abbandonate nella notte.
Ancora più ovviamente, proprio in quel momento il lampo di un imminente temporale illuminò con prepotenza il cielo, spargendo un rapido bagliore su noi e sulla Residenza.
E, dopo tutti questi segni, io fui tanto idiota da entrare lo stesso.
Ve l’ho detto, che a volte mi prenderei a pugni da solo.

***

Nonostante il freddo, uscii nuovamente dalla casa, per procurarmi quale pezzo di legna. A dir poco soddisfatto, tornai alla Residenza, dove, individuato un camino, accesi uno scoppiettante fuocherello, che arse con inadeguata allegria in quello spazio lugubre.
Aria lo guardò ammirata. Come una bambina, sapeva trovare meraviglia in ogni minimo anfratto della vita; nonostante la sua innocente debolezza da bambolina, era lei il vero fulcro di forza del nostro duo, con quel suo splendido e fiducioso modo di fare.
Scrutai la stanza finalmente illuminata dalla luce delle fiamme, inarcando un sopracciglio con aria perplessa. La Residenza era costituita unicamente da quello scarno ambiente; e quello scarno ambiente, evidentemente appartenuto a qualcuno che considerava cose come l’estetica ed i buoni odori dei fastidiosi orpelli, era arredato con: numero uno branda dall’aria cigolante, numero uno tavolo dotato di numero due sedie e infine, meraviglia delle meraviglie!, numero uno tinozza per il bagno.
Nient’altro. Chiunque avesse vissuto in quella casa, doveva aver avuto un’esistenza molto, molto solitaria. E molto triste.
«Hai visto, fratellone?» Aria, riscuotendomi dalle mie riflessioni, indicò una cosa che, in un primo momento, mi era sfuggita: una porta, dal pomolo d’ottone, nera come il resto della casa. Anzi. Quasi volutamente mimetizzata con la parete in cui era incastrata, come se, simile ad un coniglietto spaurito, volesse risultare invisibile all’occhio di eventuali invasori. «Non si apre» mugolò lei, ruotando e tirando diverse volte il pomolo. Che, tanto per risultare simpatico, infine le rimase in mano, guadagnandosi da parte sua uno sguardo perplesso.
Avvertendo le gambe rotte per la stanchezza e per il freddo, feci un gesto vago, invitandola a lasciar perdere. «Sarà la cucina, forse.» ipotizzai senza troppa fantasia. «Vieni qui. Scaldati.»
Obbedì con il solito sorriso, zampettando verso il caminetto ed accucciandosi accanto a me.
Riflesso nello splendido verde dei suoi vivaci occhi, il rosso delle fiamme scoprì delle tinte splendide, che per un attimo mi fecero riflettere.
Papà, quando era ancora un uomo vivo e scoppiettante di salute, un uomo pieno di illusioni circa il suo primogenito maschio che, tanto per non deluderlo, lo aveva condannato a morte, mi aveva spesso raccontato di ciò che accadeva al corpo di un essere umano infettato dal germe del vampiro: assumeva una nuova bellezza, quasi sovrannaturale.
Anche così era stato per Aria.
Uniti a quella sua nuova, inconscia andatura che emergeva nei momenti di distrazione, vi era una maggiore lucentezza dei lunghi, setosi capelli neri, che le incorniciavano deliziosamente l’esile figura, la cui pelle era ora priva di qualsiasi imperfezione e sempre più pallida.
E gli occhi. Occhi più vividi, più intensi, occhi capaci di catturare la luce e giocarci in modo vivace, come bambini dispettosamente abili.
Non mi piaceva, questa nuova Aria.
Però i pensieri, le parole, gli atteggiamenti erano quelli della mia sorellina. E tanto doveva bastarmi, presumo.
Come un uomo che, perduto un cagnolino di razza, ne acquista un altro che sì, è simile, ma non proprio la stessa cosa… così io tenevo con me Aria, il mio sorridente fantasma del passato che fu.
La mia unica ancora per affrontare il futuro.
«Dovresti dormire, fratellone.» se ne uscì lei, piacevolmente carezzata dal calore del fuoco. Pur essendo un vampiro, non temeva quell’elemento, anzi: pareva trarre da quelle fiamme un giovamento maggiore di quello che ottenevo io, quasi che, pur senza accorgersene, lei fosse oppressa da un freddo più intimo, più interno. Il gelo della morte, forse.
Anuii, sbadigliano, quindi estrassi le coperte dalla mia sacca. Ne porsi una particolare ad Aria, che vi si avvolse placidamente.
Era la sua coperta preferita sin da bambina, un’elegante stoffa ricamata nientedimeno che dalla nostra bisnonna. Io non avevo mai prestato una grande attenzione a quell’oggetto, ma lei la trattava come se fosse stata una preziosa reliquia. O un vecchio amico, dal quale lasciarsi stringere.
Preparai velocemente il letto, sul quale mi lasciai poi cadere con un sospiro.
Avevo un materasso.
Va bene, era cigolante, mollo e malfermo. Ed inclinato, Dio solo sapeva in che modo.
Ma, per la miseria, avevo un materasso!
Sistemai meglio il capo sulla coperta che avevo ripiegato, ricavandone un non troppo morbido cuscino, quindi chiusi gli occhi, in un misto di incredulità ed appagamento. Da quanto tempo dormivo sulla dura terra, ormai?
Quel vecchio e logoro letto mi parve un sogno.
Rialzando le palpebre, mi guardai attorno un’ultima volta, spiando le ombre danzanti per il riflesso delle fiamme. Era una casa piccola, povera, isolata dal resto del mondo.
Al buio sembrava quasi spaventevole, ma forse, alla luce del giorno, mi sarebbe apparsa in modo diverso.
Forse avevamo trovato un luogo ove fermarci. Ove nasconderci, riparandoci dalle altre persone. Un nido, finalmente, dove i due piccoli fratelli potevano riposare le stanche ali.
Scivolai lentamente verso l’incoscienza, cullato da quei pensieri.
Quella notte, in quella casa, conobbi per la prima volta la parola Shahla.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***



Rividi i miei genitori. In sogno.
Dapprima furono immagini confuse, vaghe, spettri del mio passato. Un sorriso di mamma, una carezza di papà. La mia prima battuta di caccia al vampiro in sua compagnia.
Ricordi. Dolorosi, dannati, maledetti ricordi.
E poi, d’un tratto, in un modo talmente imprevisto da ferirmi il cuore, sognai il giorno della loro morte.
Una versione onirica ed allucinata di quel giorno, è vero. Ma lo sognai. E mi fece male.
Lo feci con inequivocabile chiarezza, con una tale precisione da farmi dimenticare di essere piacevolmente addormentato su di un vecchio materasso all’interno di una scricchiolante casa. Abbandonai la Residenza, tornando al maniero del Casato di Fortesole.
Potei distinguere ogni dettaglio del nostro salone, ogni familiare pietra che ne componeva le pareti, ogni piastrella dell’elegante pavimentazione.
Era tutto così reale, palpabile.
Una piccola crepa, lo zoccolo alla base dei muri, il grande quadro sulla parete est. La danza delle fiamme nel nostro camino, gli intarsi del legno che adornavano il grande tavolo al centro della stanza, il soffice velluto di uno splendido rosso sanguineo che ricopriva le antiche poltrone.
Ed i miei genitori.
Mia madre si voltò, sorridendomi. Gli splendidi occhi verdi, li stessi ereditati dalla mia sorellina, ammiccarono affettuosi, mentre lei, con i suoi soliti modi di fare eleganti, richiudeva garbata il grande libro che teneva sulle ginocchia, sua attuale lettura.
Adocchiai distrattamente il titolo, Shahla, ma non mi disse niente. Evidentemente, non lo avevo mai letto.
Grazie alla passione per la letteratura di mia madre, casa nostra era un’immensa libreria. Logico che parecchi volumi fossero sfuggiti alle mie attenzioni.
«Dove sei stato, Aster?» domandò il tono autoritario di mio padre. Mi voltai, trovandolo in piedi accanto al camino, intento a fumare. Aveva sempre fumato come un pazzo, lui. Eppure, quando aveva beccato me a farlo, mi aveva inflitto una di quelle punizioni che mai avrei scordato nella mia vita.
Tipo decisamente incoerente, il mio genitore. A volte ingenuo, a volte acuto come un falco.
Avanzai di un passo, con gli occhi sgranati. «Mamma? Papà?» mormorai, e quelle parole quasi mi ferirono le labbra, come se fossero state dotate di mille spilli, pronti a ferire chiunque avesse osato trarle dalla bocca.
«Non dovresti essere qui, Aster» osservò cortesemente mia madre, alzandosi ed avviandosi verso la grande libreria, ove evidentemente voleva riporre il suo libro. Per un attimo, fui tentato di fermarla. Volevo leggere quel testo mai visto prima. M’incuriosiva. «L’Antico sta arrivando.»
Fu un’osservazione che distolse la mia attenzione dal misterioso volume, ormai tornato a far compagnia agli altri. Sentii la mia bocca farsi secca, la sentii aprirsi senza però emettere alcun suono.
Loro non si accorsero di questa mia reazione. Come rassegnati al loro destino, perpetuarono le loro abitudinarie azioni, lui fumando e lei tornando verso la sua poltrona preferita. Quella ove si accomodava per farmi addormentare, quando ero solo un bambino…
«Aria!» mia madre notò una figura alle mie spalle, che salutò con un dolce sorriso. Mi volsi, già consapevole di ciò che avrei visto.
Davanti a me, stava la mia sorellina. Bianca e rosa, una rosellina in sboccio, splendida nella sua semplice, inebriante umanità. Sorrideva, illuminata dalla luce del fuoco, avvolta in un abito da duchessina che la fece apparire bella quasi come un angelo. O forse più di un angelo.
«Oh, piccola mia!» cinguettò nostra madre, alzandosi e raggiungendola. La cinse in un abbraccio affettuoso, baciandole garbatamente la fronte, come soleva sempre fare. «Sei così bella! Questo abito è così elegante!»
«Mi sono vestita bene per l’Antico» spiegò Aria, i lunghi capelli neri raccolti in uno chignon che la rendeva forse un po’ troppo adulta.
«Che brava bambina, che ho.» mormorò mia madre, baciandola ancora una volta. «Una brava bambina, sì. Non certo come tuo fratello.»
Aria mi lanciò un’occhiata, perplessa. «Cosa dici, mamma?» volle sapere. «Perché parli così di Aster?»
«Perché» interloquì mio padre, tranquillo dopo la piacevole fumata. «Quel maleducato di tuo fratello non si è degnato di cambiarsi d’abito per ricevere l’Antico.» e mi rivolse uno sguardo di rimprovero, evidentemente cieco al totale sbalordimento che aveva invaso il mio volto. «E’ una persona importante, Aster, dovresti prestare attenzione a queste cose. Per cui, vai a cambiarti.»
Annaspai, raggiungendo il nostro grande tavolo ed appoggiandomi ad esso, gli occhi sgranati dalla sorpresa.
Era una situazione paradossale, e crudele nella sua illogicità. I miei genitori non avrebbero mai atteso con tanta eccitazione e rispetto l’arrivo di un Antico. Mai!
Al contrario, mio padre si sarebbe fatto trovare sulla soglia del maniero, scioccamente armato di un inutile paletto. Per dare tempo a mia madre ed a mia sorella di sfuggire nella notte.
«Di cosa parli?» balbettai, passandomi una mano tra i lunghi capelli neri. Sentii la pelle del mio volto umidiccia per il sudore, un particolare che rese ancora più vivido quel sogno. Quell’incubo, cioé. «Sai che l’Antico sta arrivando, e lo aspetti così? Sei pazzo?»
«Ecco! Ed ora manca di rispetto a suo padre!» lui alzò le braccia, con fare innervosito, per poi lasciarle ricadere lungo il corpo, fissandomi deluso. «Cos’ho sbagliato con te, Aster?»
«Io… non…» non so dire se fosse la paura, l’aspettativa di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, o il semplice sbalordimento ad impedirmi di parlare. «Ma che accidenti succede?» urlai, dando sfogo a quell’insieme di emozioni che mi stavano quasi soffocando. «Aria!» chiamai disperato, cercando almeno in lei qualcosa di familiare. «Per la miseria, sta arrivando un vampiro!»
Mia sorella mi guardò.
La vidi bianca, pallida.
Vidi le sue iridi nere come la notte, il candore delle sue membra, il luccichio dei canini attraverso le sue labbra.
«Shahla, Aster.» sussurrò, ed il suo viso divenne una maschera d’angoscia.









Non so esattamente come o perché, ma sto portando avanti questa storia ^^
Ringrazio generalmente tutti coloro che mi hanno lasciato un commento, ed in special modo voglio rivolgere un affettuoso GRAZIE a Dada Baggins, che ho conosciuto con questo racconto.
Le sue recensioni sono complete, attente, speciali.
Cara Dada, tu comprendi appieno lo spirito della mia storia e, grazie ai tuoi commenti, riesci addirittura ad aiutarmi nello studio dei personaggi! Per cui, ti ringrazio davvero molto.
Poi ci sono i soliti bacini sbavosi per le mie povere amiche che seguono questa storia, non lamentandosi della noia che procuro loro. Grazie ^*^

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo Nono ***


CAPITOLO NONO

«Fratellone!» Aria mi svegliò con un trillo allegro, riportandomi brutalmente alla realtà. Confuso ed agitato, mi guardai attorno, non riconoscendo subito le sagome degli “eleganti” interni appartenenti alla Residenza.
Quando, infine, compresi di essere al sicuro in quella vecchia e scricchiolante casa, affondai il viso nel cuscino, con uno sbuffo.
«Che c’è?» mugugnai, non ricevendo risposta.
Alzandomi pigramente a sedere, scostai i miei (ormai troppo) lunghi capelli dal viso, con un gesto nervoso e distratto. Una sensazione di spossatezza mentale mi accolse, facendomi capire che non dovevo aver dormito per molto tempo, e che il mio corpo reclamava altro riposo.
Aria, forse non consapevole di aver destato una persona che avrebbe ucciso pur di tornare a sonnecchiare, ridacchiò, sedendosi a gambe incrociate sul limitare del letto, ammiccando con i grandi occhi verdi ora animati dal divertimento.
«Quanto ho dormito?» volli sapere, sbadigliando come un orso poltrone. Lentamente, le immagini di quel tremendo sogno riaffiorarono alla mia mente, bloccando a metà quello che era partito per essere un ottimo sbadiglio.
Richiusi la bocca di scatto, ricordando ogni stramaledetto particolare di quella visione onirica.
Mio padre e mia madre, in attesa della loro morte. Ed Aria, contessina dalle iridi neri, dalle gote pallide, dai canini sporgenti.
Mi passò immediatamente la voglia di tornare dormire.
Eccome.
D’improvviso, provai un intenso moto di paura. A stento mi trattenei dallo protendermi verso l’esile figura di mia sorella, per afferrarla ed abbracciarla, per legarla a me, in modo che nessuno potesse mai portarmela via.
«Un paio d’ore.» sghignazzò Aria, come sempre all’oscuro dei miei timori, della mia traballante sanità mentale. «Poi continuavi a dire cose stupide, e allora ti ho svegliato. Ho fatto male?»
La scrutai con attenzione, come un medico attento ad ogni cambiamento del suo paziente.
Ora che era una vampira, le sue espressioni facciali erano più chiare e leggibili che mai, quasi che, con il potere oscuro, il suo corpo avesse scoperto nuovi muscoli facciali da muovere con la grazia di un perfetto artista.
E fu proprio grazie a quello, grazie al fatto che ogni sua emozione passasse inevitabilmente per quel dolce viso, che io lessi distintamente nel suo sorriso, nei suoi occhi vivaci, addirittura nelle sue piccole, adorabili, fossette, l’ombra della paura.
Tremai, seppur impercettibilmente.
«Cos’è che ti ha spaventato?» domandai e lei, perdendo all’istante il sorriso e l’atteggiamento spensierato, mi rivolse uno sguardo sorpreso. «E’ venuto qualcuno? Per questo mi hai svegliato? Aria, perché non devi nascondermi nulla, lo sai!»
Abbassò il capo, con aria colpevole, facendomi sentire immediatamente un verme. Non avrei dovuto parlarle in modo tanto aggressivo.
«Mi… non mi piaceva… quello che dicevi nel sonno.» ammise infine, con un bisbiglio terrorizzato, evitando accuratamente di guardarmi negli occhi. «Allora ti ho svegliato. Scusami.»
Scossi il capo, non comprendendo quel discorso. «Ho parlato mentre dormivo? E che ho detto?»
Aria mantenne il capo chino e le labbra serrate, come un prigioniero di guerra disposto a morire tra atroci tormenti, pur di non rivelare alcuna informazioni al nemico.
Quel viso abbassato verso la rozza coperta sotto di lei, quegli occhi tristi e spaventati, simili allo sguardo di un piccolo elfo catturato da qualcosa di tremendo, mi trafissero con una cattiveria impensabile.
«Che cosa ho detto?» ripetei, sentendomi la bocca secca. Mi ero tradito nel sonno? In fondo, avevo rivissuto la notte della metamorfosi di Aria, e forse qualche frase sfuggita alle mie labbra le aveva permesso d’intuire una parte della tremenda verità che io celavo con tanta impetuosità ai suoi occhi. «Che cosa, Aria?»
«Non lo so» lei scosse il capo, facendo ondeggiare i capelli neri come la notte, l’esile fisico abbandonato in una pose molle, trascurata. Mi parve quasi una bambola rotta. Una bambola di legno, bellissima, perfetta, eppure silenziosamente divorata dalle termiti. «Non so nemmeno cosa volessi dire, ma mi hai fatto paura!» tentò di giustificarsi ancora.
Cosa poteva averla spaventata tanto? Forse avevo parlato dell’Antico? Possibile.
O forse mi aveva udito rivolgermi a mamma e papà.
O forse…
«Shahla» sussurrai a fior di labbra, avvertendo i peli del mio corpo rizzarsi dalla paura. Un brivido mi attraversò da capo a piedi, e quasi non sentii più gli arti, bloccato come fui nella morsa del terrore. Un terrore assolutamente ingiustificato. «Dicevo questo? Shahla
Aria si portò le mani alle orecchie, con un gesto atterrito che mi spaventò ulteriormente.
«Non mi piace, Aster! Non dirla più!» implorò, con gli angoli pallide labbra piegati verso il basso. «E’ una brutta parola!»
Mi liberai di scatto dalle coperte e, carponi, la raggiunsi sul fondo del letto, afferrandole le spalle con gentilezza.
La costrinsi a fissarmi, inchiodandola con uno sguardo esigente certamente non da me. «Sai qualcosa di questa parola, Aria?» domandai, forse con un po’ troppa veemenza.
Lei fece segno di no con la testa, chiudendo gli occhi e stringendo la bocca. Come una bambina che, accusata di una marachella, neghi con prepotenza ogni sua responsabilità.
«So solo che non mi piace…» sussurrò.
E poi dovetti lasciarla in pace, perché, come mi fece notare con un mormorio offeso, continuare spaventarla con certe sciocchezze era una cattiveria gratuita.





Rispondendo alle recensioni... ^^
Elychan: Ah ah, sei la prima che me lo dici XD
In effetti, il modo in cui Aster si riferisce a Dio è scanzonato, irrispettoso. Lo tratta come se fosse un suo pari, insultandolo quando lo ritiene giusto.
Mi pongo spesso la domanda su quanto Aster sia credente. Forse, come quel famoso prete tracciato con maestria dal mio Maestro King, non abbastanza per sconfiggere un antico vampiro...
Dada Baggins: Ho già detto che amo il tuo modo di recensire? Sei incredibile, hai usato come ultima citazione la frase che più ho amato in quel capitolo! ^^
Hai ragione, Aria ha il dono della Conoscenza. Che è una Conoscenza diversa da quella del fratello: mentre Aster conosce i fatti, mentre lui si arrampica sugli specchi della realtà, Aria ha un sapere più intimo, essenziale. Ha il dono della bontà, della fiducia. Sa che il Bene è ovunque. Sa che può fidarsi del suo prossimo. Sa che la notte non è poi così buia, se ha qualcuno insieme a lei.
Tutto ciò le da una compostezza diversa da quella di Aster. E' rimasta una piccola duchessa, pur nella polvere.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo Decimo ***


CAPITOLO DECIMO

Il mio nome è Bianca Chiara Aria del Casato di Fortesole. E non sono abituata a parlare di me.
Perciò, spero mi perdonerete qualche ingenuità narrativa.
Sono bassotta, magra come un chiodo e pallida come uno spettro; ho lunghi capelli neri ed occhi verdi, grandi, da bambina.
E ho tanta, tanta paura del sangue.
Inoltre, non posso dormire. Né mangiare. Né vivere alla luce del sole.
Ma non è poi così grave.
O almeno, così dice mio fratello.
E’ lui che si prende cura di me. Da quando, una notte di molto tempo fa, perdemmo entrambi i nostri genitori, uccisi da un Antico.
Quando dico Antico, intendo un vampiro molto, molto vecchio. Sono creature incredibilmente forti, addirittura imbattibili, rinvigorite dal peso degli anni che permette loro di sopravvivere anche senza l’apporto vitale del sangue.
Mi chiedo spesso, quindi, cosa potesse mai aver voluto quella creatura da noi. Se disponeva della facoltà di vivere senza uccidere, allora perché ci ha attaccati?
Non lo so. Né, temo, mai lo saprò.
Ho rimosso ogni ricordo di quella notte, ed ogni volta che provo a richiamarla alla memoria, avverto l’irresistibile impulso di mettermi a pensare a qualcos’altro.
Aster dice che è normale, che è meglio che io non ricordi. Dice che potrebbe farmi male.
Aster è mio fratello.
Dovreste vederlo, voi lettrici di sesso femminile: è alto, moro, con profondi occhi neri, ed un sorriso da schiaffi. Mamma lo chiamava Briccone, perché erano più le nobildonne che cadevano ai suoi piedi di quelle che lui realmente considerava, sfrontato e dispettoso com’era.
Io, da parte mia, ero gelosa di tutte loro.
Il mio fratellone è solo mio, dicevo. Avevo paura che me lo portassero via.
Ma ora siamo insieme. Soli, viandanti sperduti in questo mondo che, a causa della mia malattia, è ormai formato solo dalle tenebre. Viaggiamo esclusivamente di notte, due ombre perse nell’oscurità.
Soli, senza mamma, senza papà, senza la nostra buona badante.
Soli.
Mi mancano persino le corteggiatrici di Aster.
Sapete, io amo la compagnia. Amo avere attorno a me tante persone, anche se sconosciute. Amo i rumori del loro respiro, amo sentirle chiacchierare, amo quel guscio di umanità ove mi lascerei racchiudere, piccola duchessina felice anche d’essere in una misera taverna, purché piena di uomini e donne vocianti.
Mi basta così poco, per sentirmi meno sola.
Al momento, mi sto accontentando della compagnia di Aster. Lui mi ha preso con sé, mi ha condotta lontana dal nostro maniero ove nascemmo. Da quel salotto ove mamma e papà furono uccisi, probabilmente davanti ai miei stessi occhi.
Ed ora si occupa di me, con tutto l’amore che possiede. Ed io sono felice di questo. Davvero.
Se solo, ogni tanto, potessimo non rifuggire alla compagnia umana…
Ma non ho il coraggio di chiederglielo.
Mio fratello, con una freddezza che ha del spaventoso, evita città, paesini, semplici case. E quando è costretto ad avvicinarsi agli altri uomini, lo fa con diffidenza, con una sorta di rabbioso e colpevolizzante silenzio.
All’inizio, credei che fosse a causa della mia malattia; mi convinsi – stupidamente, lo ammetto - che lui provasse vergogna nel presentare una sorellina pallida, debole ed inutile come me. Ed avvertivo un angoscioso disagio, per ciò.
Ma poi capii.
La sua riottosità nei confronti degli altri non era a causa del mio male. Ma a causa del suo.
Un male profondo, tenebroso, radicatosi nel cuore di Aster, un cuore spezzato dal dolore della perdita. E dalla paura del domani.
Il giorno prima, eravamo due piccoli duchi. Il giorno dopo, due orfani smarriti.
E lui, che deve reggere sulle spalle il peso di tutto ciò. La responsabilità di curarmi.
Mi chiedo come faccia.
Come posso, dunque, biasimarlo per il suo comportamento asociale? Ora che si occupa di me, ora che è responsabile della mia vita, mi tiene in un morbido involucro composto da bambagia, e non intende permettere a nessuno di sfiorare l’ultimo nucleo della nostra ormai distrutta famiglia. Da una parte ha ragione… Dall’altra…
Dall’altra non è più l’Aster che io conoscevo, il mio caro Aster che conquistava eleganti salotti da tè, intrattenendo con scherzi intellettuali giovani nobildonne ridenti come oche. Quelle che io tanto detestavo.
E’ un’altra creatura, racchiusa in se stessa, che sembra trarre ogni suo singolo respiro dall’immenso, oscuro amore che prova nei miei confronti. Un essere che vive solo per badare a me, alla sua sorellina.
Credo che si sarebbe ucciso, se l’Antico non mi avesse risparmiata.
Credo che abbia trovato la forza necessaria per andare avanti solo nel senso di responsabilità che lo ha legato a me.
Credo di essere molto fortunata.
Mi sento perduta, nell’immensità del suo sentimento. A volte, addirittura, incapace di ricambiarlo come meriterebbe.
Capite, dunque, perché lascio che mi conduca nella solitudine della nostra nuova vita, perché accetto che lui badi a me, perché non approfondisco argomenti che lui mi sconsiglia di approfondire?
Perché Aster comprende ciò che a me sfugge, osservandole con quel suo sguardo ora spento ed arrendevole; come se la tenebra adesso presente in lui riuscisse a scorgere le ombre attorno a noi, che ai miei occhi appaiono invisibili. Ed è giusto che sia così, anche se non so per quale motivo.

«Aria!» mi voltai al richiamo, sorridendo d’istinto. Io sorrido sempre, ed a volte lui mi prende in giro per questo. Dice che prima o poi mi verrà una paresi facciale. E’ così buffo, quando ha di queste uscite.
In piedi davanti alla Residenza, lo attesi, ridendo scioccamente per quello strambo modo di correre che ha quando è particolarmente eccitato da qualcosa. Mio fratello è nel contempo adulto e bambino, e non so mai decidere quale delle due metà abbia il sopravvento sull’altra.
«Cos’è?» chiesi, osservando sorpresa ciò che lui, con una corsa allegra, stava conducendo verso di me. Era qualcosa di argentato, che si dibatteva tra le sue mani. Notai, mentre lui si avvicinava, che era fradicio dalla testa ai piedi.
«Un pesce!» ululò glorioso, piazzandomelo sotto il naso. Da quando sono malata, il miei sensi sembrano essersi acuiti, forse per compensare la quasi perenne debolezza del fisico; e sentire con quel mio nuovo, intenso olfatto l’odore dello squamato animale fu una brutta esperienza.
«Che schifo.» uggiolai, allontanando da me la povera creatura, che ancora si dibatteva in preda agli ultimi spasmi. «Perché lo hai tirato fuori dall’acqua? Sta morendo!» i globi oculari terrorizzati del pesce mi inquietarono un poco. Non doveva essere bello, perire soffocato tra le mani di un gigante.
Gli occhi di Aster, evidentemente insensibili al mio momentaneo turbamento, brillarono come avevano fatto poche altre volte in quegli ultimi tristi, bui tempi. «Sono mesi che non mangio del pesce!» sussurrò sognante, e quasi temetti che volesse baciare con ardore quel povero essere. «Vado a cucinarlo…» canticchiò poi, superandomi e dirigendosi verso l’interno della residenza.
Lo seguii, preoccupata. «Non vorrai cuocerlo qui dentro, vero? La puzza rimarrà per mesi!»
«Il profumo, Aria. Profumo. Dolce, fragrante, ammaliante, suadente, invitante, accattivante… »
«… Puzza.»
«Va bene. Lo cucinerò fuori.» acconsentì lui, con un sospiro di mera sopportazione, che compensò immediatamente con un dolce sorriso. Prelevò un coltello dalla sua sacca e tornò verso l’esterno. Una pallida quanto rara luna illuminava i suoi movimenti, inzuppando di luce argentea le nostre figure e quelle della foresta circondante la Residenza.
Raccolsi due o tre pezzi di legna, cercando di sopportare lo sforzo, e trotterellai dietro di lui, per aiutarlo ad accendere il fuoco.
Mi piace, il fuoco. Mi piacciono le fiamme vive, alte e calde. Mi piace tenerlo acceso, non permettergli di morire. Perché ho sempre bisogno di quel calore: ultimamente, non so nemmeno io perché, la mia pelle è fredda. Molto, molto fredda. E le mie ossa, sono come ghiaccio.
Stupida malattia.
Volsi lo sguardo quando Aster, poggiato il pesce su di un masso piatto, lo incise con il coltello, senza neppure attenderne la morte. O forse velocizzandogliela, con una gentilezza un po’ macabra.
Avevo visto molte volte la nostra badante pulire il pesce: bisognava aprire la pancia, ed estrarre la… roba… che c’era dentro. Ricordavo indefinitivamente il sapore di quella carne bianca, vellutata, e, per un attimo fui vagamente rattristata dal fatto di non poterla più assaggiare.
Ma ero contenta che almeno Aster fosse in grado di permetterselo. Felice come un bambino al momento dello scarto dei regali, lui aprì la sua preda, pregustando quello che, ai tempi felici della nostra infanzia, sarebbe stato un pasto come un altro.
«Ma che…?» sbottò poi mio fratello, sorpreso.
«Che succede?» domandai, senza voltarmi. Sapevo che aveva le dita sporche di sangue; e, anche se sangue di pesce, la cosa non sarebbe stata comunque piacevole da vedersi.
«Ci sono delle palline» commentò il ragazzo. «Nel pesce.»
«Delle palline?» ripetei, perplessa.
«Che stranezza.» borbottò lui. «Sono piccole, nere.» lo sentii lavorare ancora sul minuto corpo dell’animale, mentre le fiamme ardevano accanto a noi, spandendo ombre e luci sulla nera figura della Residenza alle nostre spalle. «Otto palline. Sembrano di ferro.» constatò infine Aster. «Ma che mangiano, queste bestie?»
Non trovai una risposta per quel quesito. Dal momento che, ultimamente, non sapevo nemmeno di cosa mi nutrissi io stessa, ritenei poco opportuno starmi a preoccupare anche dell’alimentazione di un povero pesce.
Aster non fece altri commenti. Infilzò l’animale in un lungo bastone, e lo arrostì con pazienza, producendo un profumo invitante, delizioso, che eppure non risvegliò alcun appetito in me.
Io, ormai, mi nutrivo solo della “medicina”, una strana mistura che Aster preparava per me, capace di tenermi in vita. Un pessimo composto, che detestavo cordialmente, dal momento che il solo odore era capace di rivoltarmi lo stomaco, inducendomi al vomito. Ma la bevevo ugualmente, per amore del mio caro fratello.
«Oh, Dio… ma quanto è buono?» mormorò lui, quando, dopo aver recuperato il pesce ormai cotto, lo addentò con spropositato piacere, abbandonandosi ad un mugolio degno di un orso immerso in una vasca di miele.
«Non lo so.» risposi con un debole sorriso di circostanza.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=111247