Cupe Vampe.

di Lotharien
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zero. ***
Capitolo 2: *** First. ***
Capitolo 3: *** Second. ***
Capitolo 4: *** Third. ***
Capitolo 5: *** Fourth. ***
Capitolo 6: *** Fifth. ***



Capitolo 1
*** Zero. ***


Correva, correva da giorni.

In realtà, non sapeva più se fossero giorni, settimane o mesi quelle passate a fuggire, sapeva solo di essere stanca, d'una stanchezza fatta di notti insonni o passate in dormiveglia, ad aver paura di ogni ombra o sussurro o fruscìo. Era una spossatezza mortale che la prendeva alle gambe, mentre rallentava il passo per recuperare un po' di respiro.
Scosse i lunghi capelli neri, mentre cercava di capire dove si trovasse. Ormai era molto che non incrociava un paese o una città ed aveva fame: malgrado fosse abituata ai lunghi digiuni dovuti alla sua condizione, ormai il suo fisico esile era ridotto a poco più di uno scheletro coperto di pelle; finito il poco grasso che aveva in corpo, stava bruciando i muscoli. Visualizzò mentalmente l'immagine di omini intenti a strappare le fibre dai suoi tessuti per bruciarli in una grossa caldaia, mentre qualcuno gridava «ne servono altri, ne servono altri!» e sorrise, chiedendosi se non fosse il caso di arrendersi.
D'accordo, probabilmente l'avrebbero riportata a casa, dove il suo Signore l'avrebbe prima massacrata e poi buttata in pasto ai cani, ma sarebbe stata una fine meno onorevole di quella di suo padre? Si fermò esausta e si sedette a terra, mentre sentiva l'ansia salire insieme a dei passi sempre più vicini.
Si alzò, forse con un movimento troppo brusco: con un sinistro rumore, che probabilmente era solo nella sua mente, le gambe decisero di non reggerla più e cadde seduta sul terreno, cosparso dalla neve che era caduta nei giorni precedenti e che stava ricominciando quel momento. Tentò di rialzarsi un paio di volte, ma le ginocchia non intendevano sorreggerla: costretta a stare in quella posizione, si rannicchiò iniziando a tremare per il freddo.


Era quello l'epilogo? Non riusciva a dispiacersene: la vita di una schiava è priva d'onore ed umiliante, ciò che sarebbe venuto dopo non poteva certo essere peggiore e, cosa più importante, avrebbe finalmente portato alla pace. Non che fosse triste, quindi: ormai prevaleva il senso di stanchezza su qualsiasi altra emozione, e la voglia di abbandonarsi ad essa era forte.

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Capitolo 2
*** First. ***


Buio.

Le piaceva questo buio, era confortevole e caldo. Chissà, forse era morta di freddo durante la sua ultima corsa: questo le avrebbe risparmiato molte seccature, oltre a provocare la reazione stizzita di Una Certa Persona all'apprendere la notizia. Dei, cosa avrebbe dato per poterla vedere, Lui che aveva sempre tutto sotto controllo, Lui che amministrava la sua vita dalla purezza dei suoi quattordici anni... Lui che quella purezza gliel'aveva strappata via dal cuore, dal corpo e dagli occhi. Procurargli un fastidio adesso poteva essere una piacevole attività, considerò. Se le fosse stato consentito di tornare come fantasma, o come entità extracorporea, si sarebbe divertita non poco a disturbargli l'esistenza per i prossimi cinque o seicento anni.


Il buio poteva profumare di cibo?

Forse era la punizione finale per essere sfuggita al suo destino ed aver scelto di suicidarsi. Forse Ade ed i Giudici Infernali avevano deciso di sottoporla per l'eternità ad una sorta di Supplizio di Tantalo. No, pensò, gli dèi non potevano essere tanto crudeli: già la passata sua vita era segno del loro rancore, non avrebbero aggiunto ulteriore dolore. Almeno dopo la morte l'avrebbero lasciata riposare, ne era certa... Si disse, dunque, che quelle sensazioni di tepore e sicurezza che avvertiva erano soltanto l'ultimo barlume della sua coscienza, che si ribellava ad una fine così ingloriosa per lei, nata Nobile e Figlia della Guerra e finita schiava. In realtà, il suo corpo in quel momento era abbandonato in mezzo alla neve, agonizzante ed alla mercé delle belve che sarebbero state presto attirate dal suo ultimo calore e spinte dalla voracità del lungo inverno rigido. A primavera i suoi inseguitori ne avrebbero raccolto solo le ossa lucenti e sottili e si sarebbero presentati in patria con sì misere spoglie, rassegnati all'inevitabile punizione che sarebbe giunta, quella sì, terribile e...


«Non si è ancora svegliata? Non pensi sia il caso di chiamare un vero medico?»
«Stai dicendo che non ti fidi delle mie doti, fratello?»

Quelle erano voci o se le era solo immaginate? Nel buio in cui sperava di essere non avrebbero dovuto esserci voci, a meno che la sua anima non avesse già lasciato il suo corpo diretta verso l'Acheronte, ed anche là le voci non dovevano essere calde e pacate, ma strida altissime di dolore e disperazione. La sua mente, abituata sin dall'infanzia alle strategie militari nel gioco infantile della guerra prima e nell'addestramento poi, iniziò a lavorare, per quanto la generale debilitazione del suo corpo lo permettesse. Probabilmente la fame, il freddo e la stanchezza le avevano fatto perdere i sensi e qualcuno l'aveva trovata.
Se fossero stati i suoi inseguitori, non si sarebbero fatto scrupoli a svegliarla nei modi peggiori - e non osava neanche pensare a quali scempi avrebbero fatto del corpo indifeso di lei, sempre così provocante nei (succinti) abiti che era costretta ad indossare ed allo stesso tempo così irraggiungibile per dei soldati di infimo rango. Dunque, quella ipotesi era da scartare.
Da quella che, ormai, era abituata a chiamare patria era troppo lontana, inoltre tutti ne conoscevano le fattezze e la colpa e l'avrebbero trascinata al suo cospetto, dunque sarebbe stato inutile trattarla in modo gentile. Anche questa ipotesi era da scartare.
Gli agenti che, con ogni probabilità, suo fratello le aveva messo alle costole una volta che era venuto a conoscenza della sua fuga, non potevano ancora averla trovata, con tutte le tracce false che aveva diffuso in giro; quindi anche quest'ipotesi era da scartare, seppure a malincuore. Quell'idiota. A volte si chiedeva se Liko fosse davvero il suo gemello, quello fortunato per cui era stata sacrificata: sapeva benissimo che lei non poteva tornare a casa; l'incidente diplomatico che ne sarebbe scaturito avrebbe portato ad una nuova guerra, nuovi morti, nuovi feriti, altri orfani ed altre storie come la loro...

L'unica possibilità rimasta era che fosse trovata da estranei, che probabilmente erano del tutto inconsapevoli di quelle organizzazioni proliferanti nel sottobosco mondiale, dunque con un po' d'ingegno avrebbe potuto cavarsela con la classica recita della ragazzina fuggita da casa ed aggredita da sconosciuti che chissà a quali sevizie l'avevano sottoposta. Ora con questa nuova consapevolezza poteva riaprire gli occhi ed interrompere quel chiacchiericcio che si svolgeva a pochi passi da lei.

Le palpebre erano pesanti, mentre la mente aveva ripreso la sua lucidità il corpo era ancora immerso nel torpore e non voleva saperne di obbedire agli ordini. Lo sforzo, che le sembrò immenso, la fece lamentare ed avvertì l'interrompersi delle due voci, in allerta. Gli occhi improvvisamente tornarono a vedere.


Luce.










Salve.
Ah-ehm, non so che scrivere, e sono anche un po' emozionata. È parecchio tempo che non scrivo ed un po' si nota, perché sono decisamente fuori esercizio.
Che dire, la storia la tengo a mente da anni; in questi giorni mi sono detta "Perché no?" ed ho deciso di presentarla su questa piattaforma per avere qualche parere. Forse ci sarà anche un prequel di un paio di capitoli, ma moolto più in là..
Spero di riuscire a tenere un ritmo costante di pubblicazioni, circa un capitolo alla settimana... Quindi ci si vede la settimana prossima, ragazzi.

Buona domenica. ^^


aphe;

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Capitolo 3
*** Second. ***


Luce.
Appena aperti gli occhi non riusciva a vedere niente, a distinguere ciò che la circondava: bianco candido tutto intorno, mentre le orecchie le fischiavano. Chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte, sbattendo le palpebre, prima di arrivare a riconoscere i contorni prima e i colori e le forme a poco a poco.
«Ben svegliata, piccola bell'addormentata. »
«Dove sono?»

Sentì la propria voce uscire rauca, mentre rivolgeva la parola ad un suo simile dopo giorni e giorni di silenzi e monologhi solitari in preda al delirio della febbre. L'uomo che le aveva rivolto la parola si mosse a sostenerla ed aiutarla, mentre tentava di mettersi a sedere.
L'impresa, più difficile del previsto, le provocò un forte giramento di testa e, se non l'avesse retta lo sconosciuto, sarebbe di sicuro ricaduta con poca grazia sul letto.
«Sei ad Avers.»
«...Afers?»
domandò, confusa dalla strana inflessione nell'inglese del giovane.
«Avers, in Svizzera. Ti sei persa?» rispose quegli, sedendolesi accanto sorridente. Istintivamente, Iris si ritrasse, stringendosi le lenzuola al petto. L'altro ragazzo, che fino a quel momento era rimasto in silenzio in disparte, accanto ad un camino acceso, si alzò e le si avvicinò, decidendosi a rivolgerle la parola con un tono meno amichevole del primo.
«Ehi, non preoccuparti, non vogliamo farti del male.. Come ti chiami? Da dove vieni?»
«Axel, non così, la spaventi! Si è appena svegliata!»
intervenne il primo ragazzo verso l'amico, per poi girarsi sorridente verso la ragazza: «Io sono Christian, e questo antipatico e scortese personaggio è mio fratello Axel. Tu, invece, non vuoi raccontarci nulla di te? Ti abbiamo trovato poco lontano da qui, eri mezza morta.. Sei scappata di casa?»
«Io... mi chiamo Iris. Ma dove siamo?» rispose, glissando sulle domande. Voleva trovare quante più informazioni possibile in modo da crearsi una bugia plausibile.
«Devi aver battuto la testa forte, là fuori» scherzò quello che s'era presentato come Christian, «Te l'ho già detto: ad Arves, il gioiello del Canton Grigioni!»
Dal poco che ricordava della geografia che le avevano fatto studiare, i Cantoni erano i territori in cui era divisa la Svizzera. Ahpperò, ne aveva fatta di strada in questi mesi di fuga! Ebbe un mezzo sorriso orgoglioso, mentre Christian continuava a parlare e parlare a ruota libera di quanto fosse bello quel posto.
Non le importava nulla di tutto ciò, desiderava soltanto essere al sicuro: si augurava che i suoi inseguitori preferissero crederla morta che proseguire in quell'assurda caccia.
Vedendola assente e persa nei suoi pensieri, Axel prese nuovamente la parola, avvicinandosi a toccare un braccio del fratello per richiamarne l'attenzione: «Sarà stanca, forse è meglio lasciarla riposare un po'.»
L'altro non potè fare a meno di assentire e, dopo un ulteriore sorriso di incoraggiamento ed averle augurato la buonanotte, entrambi uscirono dalla stanza da una piccola porticina in legno accanto al suo letto, lasciandola sola.

Finalmente, Iris potè smettere di fingere di essere una povera ragazza indifesa ed iniziò a far fruttare anni di addestramento militare, osservando minuziosamente la stanza in cui si trovata - pur senza alzarsi dal letto, ché non se ne sentiva in grado.
La stanza, abbastanza piccola, era come si era sempre immaginata fossero le camere nelle case di montagna: calda, con un'unica finestra di vetro spesso che lasciava trasparire la luce del sole, un camino in cui bruciava un timido quanto vivo fuocherello e che ravvivava l'ambiente, le pareti rivestite di legno. L'arredamento era alquanto povero: a parte il suo letto e suddetto camino, c'era un comodino, un armadio ed un tavolinetto con un vaso da fiori, una sedia alquanto sgangherata e null'altro. Ben misera cosa, rispetto alle grandi sale riccamente adornate cui era stata abituata in quella che considerava casa sua, ma per quanto piccola, questa camera aveva un qualcosa che mancava nelle altre: era accogliente e non la metteva a disagio facendola sentire un'intrusa.
Stanca e, le scocciava ammetterlo, ancora provata dalla brutta esperienza, la ragazza si lasciò cadere mollemente sul letto e chiuse gli occhi, decisa a rimandare al risveglio le riflessioni sul da farsi.





Spazio all'autrice.
Salve a tutti!
Scusate il ritardo nell'aggiornamento, ma l'università mi sta succhiando via anche l'anima. In più, mi sono un po' scoraggiata all'assenza di recensioni, perché non so come stia venendo su questa storia. In alcuni punti sono stata un po' precipitosa, lo ammetto e me ne scuso.
Spero di ricominciare a postare più frequentemente. :)

Nel prossimo capitolo:
«Il fatto è che il passato, per quanto brutto, continuerai a portartelo dentro. E quando ti illuderai di averlo sopraffatto, tornerà a tormentarti tramite il tuo inconscio, sotto forma di incubi notturni.»




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Capitolo 4
*** Third. ***


«Ti sembro ingrassata? Intendo... Da quando mi hai conosciuto.»
«Beh, folletto, quando ti ho vista per la prima volta assomigliavi più ad uno scheletro ambulante che ad una gentil donzella, quindi direi di sì: sei ingrassata. Per fortuna, aggiungo. Non potrò dimenticare l'impressione che ho avuto quel giorno, mentre ti sollevavo per portarti qui».
Alla domanda di Iris, Axel s'era visibilmente infastidito, voltandosi verso di lei e circondandole le spalle minute con un braccio. Il vecchio letto scricchiolò appena, mentre il ragazzo annullava le distanze tra i loro corpi con movimenti silenziosi. Ponendole due dita sotto il mento, la costrinse a sollevare lo sguardo nei suoi occhi neri.
«Eri così fragile che avevo l'impressione che ti saresti spezzata sotto le mie dita. Non pesavi nulla, eri... Evanescente. »
Iris mugugnò, con una punta di imbarazzo, mostrando la punta della lingua.
Non era avvezza ai complimenti, né alle eccessive premure nei suoi confronti. Sebbene fossero ormai passati tre mesi dal suo arrivo in quella casa - e quasi due da quando si era ritrovata tra le braccia di quell'essere altezzoso, sgarbato, arrogante e prepotente che rispondeva al nome di Axel -, non s'era ancora abituata a quell'atmosfera così tranquilla, a quella routine quotidiana non scandita da assurde regole, obblighi e limitazioni. Non avrebbe mai pensato che la vita bucolica potesse essere così affascinante; ma forse lo credeva soltanto perché veniva da un mondo troppo diverso.
Iris socchiuse gli occhi, mentre le labbra del suo amante le solleticavano l'orecchio destro, persa tra i suoi pensieri. Lui le mancava, stentava a crederlo: la distanza le mozzava il fiato e le faceva girare la testa, il ricordo del suo corpo le scavava solchi profondi dentro al petto, la certezza che non l'avrebbe più rivisto le annichiliva l'anima.
Improvvisamente, avvertì la gola arida ed il desiderio di bere; quindi pose la mano destra sugli addominali scolpiti del biondo - non poteva negare che avesse un bel fisico, questo no - e lo allontanò con una risatina maliziosa.
«Vado a prendermi un bicchier d'acqua. Fra quanto torna tuo fratello?»
«Fra un paio d'ore, quindi vedi di sbrigarti.»

Sì, perché in questo quadretto perfetto c'era, già ad un primo sguardo, un ingranaggio che mal s'incastonava: Christian, l'altro uomo di casa, s'era preso una grossa sbandata per lei dal primo momento in cui l'aveva vista nel bosco, e non aveva reagito nel migliore dei modi quando aveva trovato a letto la donna di cui era invaghito con il suo adorabile fratellino. Da quel momento avevano tacitamente deciso di non fornire nuove occasioni ai suoi sfoghi, che ricordavano molto i capricci di un infante a cui sia stato sottratto il giocattolo preferito.
Già questo poteva far immaginare che la storia tra Iris e Axel non aveva basi solide. Poi, se ci si aggiungevano quisquilie come il fatto che la ragazza fosse una schiava fuggita da chissà dove - particolare di cui lui non era affatto a conoscenza - e come il fatto che il ragazzo avesse un figlio in paese - particolare di cui, per contro, lei non era a conoscenza -, si poteva facilmente dedurre che il rapporto era fondato su basi instabili e che sarebbe bastato un sottile colpo di vento per farlo crollare, alla stregua di un fragile castello di carte che volesse resistere ad una tempesta.


Su cose del genere ragionava la giovane, mentre si versava dell'acqua in un bicchiere di vetro, vestita di una sottile vestaglia bianca annodata in vita, quando sentì un fruscìo di jeans alle sue spalle ed il suono di una voce fin troppo conosciuta.
«Ciao, ragazzina.»
Voltarsi e far cadere inavvertitamente a terra il bicchiere furono le conseguenze di un unico movimento. Era quasi un anno che non avvertiva quel timbro vocale, ma le sembrava passato non più di un giorno; l'avrebbe riconosciuto ovunque ed in mezzo ad una folla urlante. Il cuore di lei aveva preso a battere all'impazzata, ma ciò non era del tutto colpa della paura che Lui le incuteva, né del rumore sordo e liquido che aveva fatto il vetro infrangendosi contro il pavimento in cotto.
Fissandolo, con le labbra sottili chiuse in un ghigno sfrontato, i suoi capelli apparentemente disordinati, la figura dai tratti felini, i lineamenti duri che aveva impressi nella memoria negli anni di prigionia, ebbe per la prima volta l'esatta misura di quanto l'avesse desiderato in quel lasso di tempo. Ora sapeva il reale motivo della sua fuga improvvisa, durata tutto quel tempo, che l'aveva portata così lontano: lo amava, disperatamente, come le vittime della Sindrome di Stoccolma* con i loro rapitori.
Ed una sorta di Sindrome di Stoccolma era quella che aveva sviluppato nei confronti di quell'uomo, dopo essersi ritrovata da un giorno all'altro di sua proprietà: alla lunga, s'era abituata ai suoi ordini secchi, ad essere la sua ombra, a dividerne il letto, ed era la sua attenzione la cosa che più bramava al mondo. Dunque, per attirare quell'attenzione era fuggita, mentre lui era a combattere come mercenario per uno dei tanti signorotti che ne richiedevano i servigi dietro lauto compenso. Non tanto per fuggire da lui, quanto per scappare dalla consapevolezza di quel sentimento impossibile che era sgorgata all'improvviso quando, svegliandosi una mattina, s'era trovata a desiderare di averlo accanto a sé.
«Mi hai fatto stare in pensiero, sai? Ti ho fatto cercare per così tanto tempo.. Adesso è il momento di tornare a casa, però, che tu lo voglia o no. Spero che questa tua vacanza ti abbia giovato.»
Lui s'era alzato dalla sedia su cui s'era seduto, facendo leva sulle ginocchia, e s'era avvicinato con fare accomodante. Iris sentì il cuore perdere un battito: non si sarebbe fatta ingannare così facilmente, sapeva che sotto quelle parole gentili e quel tono accondiscendente si nascondeva una cieca rabbia che avrebbe sfogato più tardi sul suo corpo. Si ritrovò a pensare che non le importava nulla: se quello era il prezzo per stare di nuovo tra le sue braccia, anche se fosse stata l'ultima volta, sarebbe volentieri morta.
«Hai ragione, è tardi. Riportami a casa, te ne prego.»
Lui annuì e le porse la mano, cavallerescamente.





Spazio dell'autrice
Eccola qui, dopo altri due mesi fermi. Scusatemi. ^^"
Intanto, per chi è giunto fin qua dall'asterisco, cito da Wikipedia:

La sindrome di Stoccolma è una condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro può manifestare sentimenti positivi (talvolta giungendo all'innamoramento) nei confronti del proprio sequestratore.

Per il resto.. Un po' banale come capitolo, lo so: ovviamente, dopo che i sottoposti hanno fallito, arriva il pezzo grosso e ci mette due secondi a riportarsi la preda a casa. -_-

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Capitolo 5
*** Fourth. ***


Il timido sole alpino le colpì gli occhi chiari, mentre, seguendo quell'individuo, si dirigeva verso un taxi posteggiato subito fuori l'abitazione in cui s'era rifugiata in quei mesi.
Il fatto che ci fosse un taxi ad attenderli la incuriosì, dal momento che, visti i potenti mezzi economici dell'uomo, si sarebbe aspettata tutt'altro mezzo di trasporto. Le sue elucubrazioni furono bruscamente interrotte quando lui aprì la portiera e, comportandosi per la seconda volta in sì poco tempo in modo gentile, le fece segno di salire.
Un'angoscia sorda, viscerale, prese Iris all'istante: si voltò verso la casa, in preda al panico come un animale in trappola, cercando una via d'uscita da quella situazione mortale: immagini di passate esecuzioni per tradimento a cui aveva assistito le affollarono la mente, facendole drizzare i peli sul corpo. Nello stesso istante, capì che tentare di fuggire sarebbe stato inutile, conosceva fin troppo bene le capacità del suo Signore per osare sfidarle, per cui non le restò che tornare verso di lui, chinando il capo con fare sottomesso.
« Mi dispiace, Liam. »

Com'era prevedibile, non ottenne risposta e si rassegnò ad andare incontro al proprio destino. Rialzando la testa, la ragazza si accorse che il tassista la stava fissando, o meglio squadrando da capo a piedi, e si ricordò che era seminuda.
Noncurante, salì in macchina con fare aggraziato e si trascinò sull'altro sedile, lasciando che ampie porzioni di pelle si scoprissero nell'atto. Col ghigno sfrontato di poco prima, l'altro le si sedette accanto, porgendole una busta con dei vestiti appena comprati: un paio di jeans di colore scuro, una canottiera di una tonalità più chiara, un compleinto intimo nero ed un paio di scarpe da ginnastica. Dopo aver analizzato, a metà tra il diffidente e il curioso, il contenuto della busta, rivolse un'occhiata interrogativa al suo accompagnatore.
« Cambiati, dobbiamo pendere un aereo e vorrei evitare di venire arrestato per atti osceni in luogo pubblico. Forse ti staranno un po' stretti, avevo preso una 40, ma ho notato che sei ingrassata. Stavi molto meglio prima. »

« È sua figlia, vero? Mi faccia indovinare: è scappata col suo ragazzo! Dalle nostre parti si chiama fuitina ed è pratica diffusa assai.. Anche mio figlio... Ma sa, è l'età, e poi sti giovani d'oggi hanno così fretta.. E con sto cavolo di feisbucche ormai conoscono gente in ogni parte del mondo! Sa, la figlia della cugina della mia vicina di casa.. »
Ad interrompere il discorso era stato il tassista che, fedele allo stereotipo che vuole la sua professione esser ciarliera, aveva deciso a suo modo di intrattenere quelli che apparivano facoltosi clienti, mentre ne approfittava per gettare un occhio sulle grazie della ragazza che si stava vestendo sul suo sedile posteriore. Una vera fortuna aver preso quella corsa, si ritrovò a pensare fra sé.

Tuttavia, la descrizione del tassista merita un discorso a parte: uomo di mezza età, con strani baffi alla Bismark che lo facevano curiosamente assomigliare a Groucho Marx, era un povero diavolo come tanti. Dall'accento si sarebbe detto di origine latina, probabilmente era un italiano emigirato in tenera età nel paese oltralpe al seguito di genitori in cerca di lavoro. Da giovane s'era innamorato e sposato contro i pareri delle rispettive famiglie e s'era accorto dell'errore una volta che l'innamoramento iniziale era sfumato. Ora, sulla soglia dei sessant'anni più che dei cinquanta, aveva raggiunto una tranquillità che poteva con soddisfazione chiamare felicità, consistente in una casa accogliente ed una moglie a cui era affezionato, dei figli ormai cresciuti e quattro nipotini adorabili, che poteva coccolarsi con amore ogni domenica, quando, come voleva la tradizione, i suoi figli andavano a pranzo da mammà.


Era questo che Liam aveva visto negli occhi dell'uomo, quando ,uscito dall'aeroporto, s'era trovato davanti la scelta del taxi da prendere.
Lui, così diverso, aveva spesso invidiato i comuni mortali e la loro breve vita, trascorsa in un soffio di vento, ed era per questo che s'era improvvisato turista sprovveduto e gli aveva lasciato una grossa mancia una volta arrivati davanti l'aeroporto di Zurigo.
Afferrò con forza un braccio della ragazzina, ignorando un suo lamento, e la trascinò al terminal della Swiss International. Rassicurò con il miglior falso sorriso che riuscì a fare l'operatrice, che aveva notato il disagio della ragazza e che stava decidendo se chiamare o meno la sicurezza, le porse il proprio passaporto e quello della sua accompagnatrice e trascinò letteralmente quest'ultima sul primo aereo in partenza per Atene.
Fu solo quando l'enorme Airbus era ormai decollato che prestò attenzione alla sua schiava: questa, immobile e schiacciata contro il sedile, sembrava voler sprofondare in esso, con gli occhi sbarrati dal terrore e le unghie conficcate nei braccioli. Una rabbia inspiegabile lo pervase a quella vista, accesso d'ira che riuscì a mascherare dietro un'espressione imperturbabile mentre le toccava un braccio con i polpastrelli delle dita per richiamarne l'attenzione.
« Rilassati, fra poco avrai l'occasione per ammettere i tuoi errori e affrontarne le prevedibili conseguenze. »


Rilassarsi, certo: per lui era facile dirlo. Iris rabbrividì, mentre tentava per l'ennesima volta di trovare una via di fuga.
In tutti questi mesi si era illusa di esserci riuscita, di essere sfuggita al suo oppressore: aveva mentito a se stessa, aveva ignorato la sua parte razionale che le gridava come nessuno fosse mai scappato da quella prigione dorata. Tutti i disertori del Secondo dei cinque eserciti di Marte avevano subìto sorti mille volte peggiori della morte, che era infine giunta su di loro come una liberazione. Ed il loro Comandante, che ora le sedeva inquietantemente vicino, era famoso per la sua spiccata crudeltà tanto in combattimento quanto nell'amministrazione dei propri uomini.

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Capitolo 6
*** Fifth. ***


Atene era una città ferita, che portava i segni della devastazione dei giorni precedenti, di scioperi e manifestazioni che si susseguivano ormai da mesi. Anni di politiche sbagliate e di sprechi avevano portato il Paese a risentire particolarmente dell'ennesima crisi del sistema capitalistico - periodi di depressione che ciclicamente si ripetevano -, il che aveva a sua volta portato a svariati disordini ed al succedersi di governi differenti in poche settimane.
Di contro, quel giorno nella capitale ellenica regnava il silenzio: le strade deserte sembravano preannunciare uno scenario apocalittico, mentre il sole riscaldava il selciato fino a renderlo appiccicoso.

Era la prima volta che ci metteva piede e rimase turbata da quell'assoluta immobilità: l'atmosfera lugubre quanto afosa era interrotta qua e là dai suoni propri della natura, che da sempre sembrava essere indifferente alle vicende umane. Tutto ciò contribuiva solamente a farla sentire più sola, mentre lo seguiva lungo i marciapiedi vuoti, accompagnati solo da due individui che erano venuti a prenderli in aeroporto. Probabilmente erano gli agenti a cui era stata affidata quella zona, ma non le era dato saperlo: i due non avevano aperto bocca in tutto il tragitto, così lei aveva potuto solamente osservarli - almeno finché non si erano portati alle sue spalle, come ad impedire un eventuale tentativo di fuga.
Iris, però, non voleva fuggire. Non più. Era stanca ed il panico le aveva prosciugato le ultime forze, facendola rassegnare alla punizione che stava per arrivarle. La rassegnazione della gazzella che, dopo un breve inseguimento, diventa preda della leonessa; l'accettazione dell'antilope che sente come il suo predatore naturale le strappi dalla carcassa la carne insieme alla vita.
Erano arrivati. Liam aprì il portone di una palazzina a tre piani, il cui aspetto esteriore sembrava datarne la costruzione intorno al primo dopoguerra, e salì i tre scalini di marmo che precedevano la porta dell'unico appartamento presente. Uno dei due silenziosi soldati, come ad un segnale convenuto, scattò in avanti ed infilò le chiavi nella toppa, aprendo la porta blindata e lasciando che fosse il suo capo ad oltrepassarne per primo la soglia.
Ancora in silenzio, i tre percorsero il corridoio fino ad arrivare a quella che sembrava essere una camera da letto, mentre l'altra guardia era rimasta all'ingresso della casa.
Quando Liam si sedette sul letto a due piazze, Iris capì che era arrivato il momento. Un processo sommario, senza accusa né difesa, né una giuria imparziale, che l'avrebbe con ogni probabilità condotta ad un'altrettanto sommaria esecuzione: era quanto le spettava, era quanto prevedeva la loro Legge nei casi di tradimento. A quel punto, ormai, aveva ben poco da perdere: si gettò in ginocchio dinanzi al suo giudice, con un ultimo sprazzo di istinto di autoconservazione.
« Signore.. »
« Non sei nelle condizioni di poter parlare, se non quando sarai interpellata. Ti è mossa l'accusa di diserzione, con l'aggravante di essere una delle mie schiave e la mia guardia personale. Sei riuscita a fuggire per più di un anno, costringendo la mia persona ad interrompere le proprie occupazioni per venire a cercarti.
Eppure dovresti ben sapere che nessuno dei nostri viene lasciato indietro. O pensavi forse che questa regola si applicasse soltanto ai campi di battaglia? »


Il tono era distaccato e rilevava un'età di molto maggiore rispetto a quella dimostrata dal pallido involucro che l'aveva pronunziata.
Alla ragazza, stranamente, ricordò la voce di suo padre nelle poche cerimonie pubbliche di cui si rammentava, ma le risaltò subito la differenza tra i due: nel tono di colui che ora la guardava dall'alto in basso non c'era minima traccia di quel calore che, al contrario, caratterizzava lo sfocato frammento nella sua memoria. Rabbrividì, mentre cervcava con i suoi occhi grigi gli occhi nerissimi di lui. Quello che vi vide dentro la ferì come non sarebbe riuscito a fare uno schiaffo: vi lesse dispezzo, e mai si sarebbe aspettata di sentire un dolore così cupo. Incapace di sostenere oltre quello sguardo, abbassò il volto a fissare il pavimento.

« Inoltre, hai osato cederti ad altri uomini senza il mio permesso. Hai qualcosa da dire a tua discolpa? »
« No Signore, niente. Accetterò la punizione che riterrà giusto infiggermi. »
« Bene. »

Iris sentì chiaramente dei fruscii, segno che si stava spostando sul letto, e il rumore di una penna che scriveva su un foglio. Con lo sguardo fisso davanti a sé, vide le gambe di lui alzarsi e uscire dalla stanza: il processo era stato eseguito e la sentenza decisa. A quel punto, l'uomo che era rimasto nella stanza la fece alzare e la portò in un'altra stanza, tenendola per un braccio e capì che sarebbe stato il suo boia: nella mano libera stringeva il verdetto.







Erano passate due settimane ed era ancora relegata in quella stanza. Alla fine, la pena eano state cinquanta frustate.
Aveva gridato.
Aveva gridato mentre i colpi del boia le squarciavano la pelle della schiena.
Aveva gridato quando l'avevano gettata sul freddo pavimento di quella che era diventata, a tutti gli effetti, la sua prigione.
Aveva gridato quando le ferite erano state pulite per evitare che si infettassero.
Aveva gridato a pieni polmoni, finché la voce non le era diventata un sussurro roco e la gola non aveva preso a bruciarle come fuoco vivo.
Lui non si era più fatto vedere. Per giorni aveva sperato che, malgrado tutto, lui l'avesse perdonata ed una notte sarebbe entrato nel suo letto.
Lei era rinchiusa da due settimane in quella stanza spoglia, con soltanto un letto ed un minuscolo bagno attiguo. L'unica apertura che dava verso l'esterno, a parte la porta perennemente chiusa, era una finestra di una ventina di centimetri di diametro, troppo in alto perché lei potesse raggiungerla. I pasti le venivano serviti due volte al giorno dallo stesso uomo che l'aveva fustigata a sangue e che non le aveva mai, neppure una volta, rivolto la parola. I segni sulla sua pelle si erano rapidamente cicatrizzati, retaggio delle poche gocce di sangue divino che le scorrevano nelle vene. Ed era anche grazie alla natura non umana dei suoi antenati che non s'era spezzata come il fuscello che era.
La serratura della porta cigolò, mentre contò i colpi delle sei mandate che occorrevano per aprirla. Dopo tutto quel tempo in preda alla claustrofobia, la sua apparizione inaspettata le sembrò quella di un salvatore.
Liam s'affacciò con un'espressione indecifrabile in volto e la fissò, prima di gettarle addosso un corto vestito bianco e un paio di scarpe ed andarsene nuovamente.

« Renditi presentabile, fra mezz'ora partiamo per Sparta. Si va al santuario di Marte. »

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