Un giallo tinto di rosso: un'avventura strana.

di JulietAndRomeo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ricevimento ***
Capitolo 2: *** Un nuovo coinquilino ***
Capitolo 3: *** Tatuaggi ***
Capitolo 4: *** Problemi in paradiso ***
Capitolo 5: *** Keep holding on ***
Capitolo 6: *** Litigi, scuse e novità ***
Capitolo 7: *** Numeri ***
Capitolo 8: *** Ok, niente ladri ***
Capitolo 9: *** La Mano Rossa ***
Capitolo 10: *** Stiamo scherzando, vero?! ***
Capitolo 11: *** La legge di Murphy ***
Capitolo 12: *** C'è qualcosa che non quadra ***
Capitolo 13: *** Il segreto di Tiffany ***
Capitolo 14: *** Ne sei proprio convinto? ***
Capitolo 15: *** Nella tana del lupo ***
Capitolo 16: *** Film patetici che non andrebbero guardati ***
Capitolo 17: *** Come James Bond ***
Capitolo 18: *** Preferisco morire che aiutarti ***
Capitolo 19: *** Non posso credere che finirà così ***
Capitolo 20: *** Love never dies ***
Capitolo 21: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il ricevimento ***


Capitolo 1: il ricevimento.

Se il mio amore per l'ordine e la pulizia fosse esploso in quel momento, non saprei dirlo con certezza: fatto sta che stavo mettendo tutte in fila e tutte con le etichette rivolte verso l'osservatore le boccette di profumo presenti sul mobile del bagno, quando il campanello suonò. Sapevo chi era e mi ero trasferita, nella mia attuale residenza, proprio per stare lontana da lui e dalle sue insopportabili feste; essendo a conoscenza del fatto che non l'avrei fatta franca, dato il rumore minaccioso dei passi che risuonavano per le scale, mi convinsi che uscire dal rifugio sicuro in cui il bagno si era magicamente trasformato, fosse la cosa migliore.
Odiavo le cose antiche e la modernità dell'intera casa era stupefacente, ma lo scalino maledetto del bagno mi fregava sempre: scivolai molto male e arrivai così lontano, che stavo per finire nella vasca idromassaggio posizionata nell'angolo sotto la finestra.
«Macy, sei lì dentro?» domandò l'uomo che, sentito il fracasso, si era avvicinato.
«Si, esco subito» risposi rassegnata.
Dopo essermi ovviamente sistemata, aprii la porta del bagno e mi trovai davanti un uomo di mezza età, con i capelli corti e ancora neri, nonostante gli anni. L'abbigliamento era piuttosto formale e lo smoking nero cadeva alla perfezione sul corpo ancora atletico.
Quando mi vide, i suoi occhi azzurri si illuminarono e le labbra sottili si distesero in un enorme sorriso, sotto il naso aquilino: «Sei bellissima, tesoro! Vedrai che tutti ti ammireranno, una volta arrivati alla villa dei Norton!» disse con entusiasmo l'uomo.
«Papà, non posso rimanere a casa? Infondo ho un miliardo di cose da sbrigare e devo ancora sistemare alcune noiose faccende...» dissi tentando di sottrarmi alla tortura che di lì a poco si sarebbe consumata.
«Non essere sciocca, tesoro! Tutto quello che hai da fare può benissimo aspettare domani, non c'è fretta!» rispose Theodore sorridendo.
Odiava che non lo chiamassi 'papà', ma 'Theodore' mi piaceva di più quindi, nella mia testa e in sua assenza, era 'Theodore'.
«Ma...» tentai ancora di ribattere, ma lui mi chiuse la bocca con uno sguardo poco felice e io non provai più a contraddirlo.
«Jeremy sarà contento di conoscerti, bambina. Lo sai che ha un figlio della tua stessa età, più o meno? Forse un anno o due più grande di te» disse Theo, mentre scendevamo le scale.
"Già lo odio questo figlio!" pensai scocciata.
Giunti sulla soglia di casa, mi fermai: «Aspettami in macchina, spengo le luci e controllo che i codici di sicurezza siano inseriti. La signora Smith deve già essere andata a dormire e Charles è in ferie fino alla prossima settimana».
Lui mi guardò sospettoso, ma poi annuì allontanandosi in direzione della limousine nera, che stava aspettando parcheggiata fuori casa.
Spensi tutte le luci ancora accese, poche, ma sufficienti per farmi perdere un po' di tempo e farmi rimanere in vita 10 minuti in più: il mio odio per qualsiasi tipo di ricevimento era unico e rinomato, ma mio padre insisteva sempre per portarmici. Spensi l'ultima luce, quella dell'anticamera e inserii il codice di sicurezza sul tastierino all'ingresso: 18-10-20-02, la data di morte di mio nonno materno; lui mi aveva lasciato il suo intero patrimonio, che aveva un certo peso, e la sua azienda di elettronica, grazie alla quale era diventato miliardario.
Percorsi il vialetto, costeggiato dai cespugli di rose, che tanto piacevano alla signora Smith, e arrivai alla limousine. Presi un respiro profondo e salii. Impiegammo più o meno venti minuti buoni di viaggio per arrivare alla residenza estiva dei Norton, durante i quali mio padre non aveva smesso di ciarlare su quanto emozionante sarebbe stata la serata organizzata da Jessica Norton. Jessica era una donna estremamente fastidiosa: il tipo di persona che sa tutto di tutti e se una ragazza o donna che fosse, ad un ricevimento, aveva un vestito anche vagamente somigliante al suo potevi star sicuro, che di lì a poco, sarebe scoppiata la III guerra mondiale. In ogni caso, a causa dei suoi enormi fianchi, ogni vestito che indossava era paragonabile ad un sacco di patate.
Quando scorsi dalla macchina le luci del giardino della casa, presi un' altro bel respiro e cominciai a ripetere a me stessa che potevo farcela: dovevo essere forte, entro cinque minuti dall'arrivo alla festa, avrei finto un malessere o un cliente dell'ultimo momento e sare tornata a casa più veloce di Speedy Gonzales.
Probabilmente, in quel momento, dovevo essere comica accanto a mio padre: lui elargiva sorrisi a tutti ancor prima di entrare, mentre io tentavo di concentrarmi su qualsiasi cosa non fosse la mia imminente fine; guardavo, infatti, l'erba corta del giardino e le aiuole ben curate anche se solo da due giorni circa, dati gli attrezzi del giardiniere, tra cui spiccavano le buste contenenti i semi delle piante. Storsi il naso in un gesto di disappunto davanti alla falsità e all'ipocrisia di quella donna: le piante che aveva fatto installare nel giardino, erano introvabili in quel periodo dell'anno e prossime alla morte se venivano piantate con la temperatura che si riporta a Los Angeles e costavano, di conseguenza, un patrimonio. Spendere una simile cifra, per una sciocca e singola serata come questa, a che serviva?
Tuttavia, prevedibilmente, all'ingresso, incontrammo proprio lei: portava un vestito bianco (evidentemente, nessuno le aveva detto che quel colore la faceva sembrare più grassa di quanto non fosse), lungo fino a poco prima del ginocchio, con uno scollo a barca e piccoli ghirigori neri ricamati sotto il seno, scendenti sul fianco sinistro. Il risultato? Una vergogna senza precedenti: fossi stata in lei mi sarei andata a nascondere e anche di corsa, anche se, con quelle scarpe, correre era più un'utopia che una possibilità vera e propria.
«Oh, Theodore! Che piacere rivederti,» disse la stronza con la faccia siliconata. Aveva così tanto botulino negli zigomi che non riusciva neanche a fare un sorriso, per quanto falso, che non somigliasse ad un ghigno. «Quanto tempo è passato da quando...» si interruppe e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta in tutta la sua vita: «Questa è tua figlia Macy, Theo?».
Quel nome abbreviato mi diede così tanto fastidio, che al momento di stringerle la mano gliela spezzai quasi in due. «Si, sono io, signora Norton. È tanto tempo che non ci vediamo e a questo forse sono dovute le sue difficoltà nel riconoscermi» dissi mollando la presa sulla sua mano unticcia.
«Si, è probabile...» disse massaggiandosi la mano. Mi squadrò da capo a piedi e poi riprese: «Bel vestito, Macy, dove lo hai comprato?».
«Mi dispiace deluderla, signora Norton, ma non l'ho comprato: lo stilista lo ha fatto apposta per me e me lo ha regalato». "Creperà d'invidia" pensai sogghignando.
«Lo stilista?» chiese la Barbie siliconata.
«Si, Giorgio mi regala sempre qualcosa quando viene a Los Angeles» dissi serafica.
La vidi sbiancare e sapevo che il pesciolino aveva abboccato all'amo: «Giorgio?» disse deglutendo a fatica: «Giorgio, quel Giorgio? Armani?».
«Ma certo! Quanti stilisti famosi conosce che portano il nome Giorgio?» annuii sorridendo.
Lei non rispose, troppo occupata a capire quanto sarebbe potuto costarle un vestito come il mio; non era niente di sfarzoso, anzi era molto sobrio: era un vestito di seta verde smeraldo, monospalla e la gonna, stretta in vita da una fascia di seta argentata, si allargava man mano che si procedeva verso i piedi e terminava in un piccolo strascico. Avevo anche una piccola pochette Swarovski, rettangolare, tempestata di strass, dove ero riuscita (non so come) ad infilare il cellulare e il portafoglio, e dei sandali con tacco gioello abbinati alla borsa.
Dopo essersi congedado, mio padre mi portò via da una scioccata Jessica e, spingendomi per la vita, mi condusse nel salone centrale: era un salone grande, con lampadari e luci ovunque, persino sui tavoli, su cui era sistemate delle fontane di champagne, accompagnate da decorazioni floreali alla base, il tutto appoggiato su tovaglie scarlatte. Al centro della sala, di fronte alle scale, la pista da ballo era occupata da da coppie che volteggiavano accompagnate da una piccola orchestra, sistemata sua una pedana rialzata in un angolo. Ammetto che l'ambiente non era male, ma non ebbi il tempo di osservarlo a lungo, poichè mio padre mi spinse verso alcune persone intente a discutere tra loro.
«Kate, Elizabeth, Edmund, questa è mia figlia Macy, qualche tempo fa ve ne avevo parlato» disse mio padre sorridendo orgoglioso.
I sopracitati Kate, Elizabeth ed Edmund, mi guardarono come si guarda un pezzo di bigiotteria in un negozio di oggetti preziosi: con disgusto. Mi stampai quindi un sorriso tanto falso quanto malvagio sul volto, pronta a farli pentire anche di essersi presentati al ricevimento e dissi: «Piacere di conoscervi, io sono Macy, mio padre mi ha parlato così tanto di voi! Per esempio, so che voi, Elizabeth, facevate la cameriera prima che il vostro fidanzato vi chiedesse di sposarlo... e voi, Edmund, quando è stata l'ultima volta che avete tradito vostra moglie? Ieri? L'altro ieri? E voi...».
A quel punto mio padre, notate le facce scandalizzate dei suoi 'amici', mi interruppe e, con una scusa, mi portò via. «Tesoro, sei impazzita? Che ti è preso?» mi disse.
Lo guardai scocciata: «Hai, anche per sbaglio, visto come mi hanno guardata? Non credo ci sarebbe stata differenza se avessero visto un animale morto, già in decomposizione!» dissi scandalizzata che se la prendesse con me.
«Come cavolo hai fatto a capire che Elizabeth faceva la cameriera e che Edmund tradisce la moglie?» mi domandò Theo dopo avermi guardata in silenzio per un attimo.
«Beh, la 'donna' con la puzza sotto al naso» incominciai, mimando le virgolette, «Hai notato che piedi gonfi ha? Erano strizzati dentro le scarpe segno che ha smesso di fare la cameriera da pochissimo; l'altro deficiente, giocava con la fede nuziale mentre parlava e, quando l'ha rimossa, ho notato che il lato interno era pulito, lucido addirittura, mentre quello esterno più sporco, segno che l'anello viene rimosso spesso. C'è altro?» domandai, risultando un po' impertinente.
«Non capirò mai come fai, tesoro» disse mio padre rassegnato, scuotendo la testa: «Credo sia meglio che io non ti presenti più nessuno, Macy: non vorrei qualcun'altro abbia segreti più oscuri di Edmund» continuò poi, ridendo sotto i baffi.
Annuii sorridendo sapendo già di essere stata graziata dalla sorte.
Appena mio padre si allontanò, mi guardai attorno, cercando con gli occhi un rifugio dove nascondermi: un surrogato del bagno di casa mia praticamente, dove poter stare cinque minuti in pace. Mi avviai quindi, verso l'angolo con meno persone e incrociai un corridoio che portava alle ale interne della casa. Stavo camminando da un minuto, ammirando i quadri appesi alle pareti, quando un lieve tocco sulla spalla mi fece sobbalzare.
«Ti sei persa?».
Un ragazzo giovane della mia stessa età, più o meno, mi stava guardando incuriosito: aveva i capelli lisci e biondi, che ricadevano leggeri sugli occhi; questi ultimi sfumavano dal verde all'azzuro: davvero belli. Era, ovviamente, più alto di me, anzi credo che ci fossero circa dieci centimetri di differenza tra me e lui... e in quel momento indossavo un tacco da quindici centimetri! Le labbra erano rosse, come se le avesse morse ripetutamente, ed non erano troppo carnose, ma nemmeno troppo sottili, inoltre, spiccavano sulla pelle lattea. Il fisico era abbastanza slanciato e sotto la camicia bianca, si intevedevano dei muscoli appena accennati, frutto di qualche ora di allenamento, supposi. Indossava dei pantaloni neri che gli fasciavano perfettamente le gambe toniche, delle scarpe nere tirate a lucido e teneva la giacca, dal colletto, su una spalla, mentre la cravatta nera era allentata. Il tutto gli conferiva un'aria da bello e dannato.
«No, no, stavo solo... emh... non so cosa stavo facendo, probabilmente mi nascondevo» ammisi sorridendo.
«Ti nascondevi» affermò, guardandomi con sospetto.
«Mi nascondevo» confermai.
«E da chi?».
«Da mio padre».
«Da tuo padre».
«Da mio padre» confermai ancora.
«Perché?».
«Odio le feste».
«Odi le feste».
«Odio le feste» affermai sicura: «Adesso, se abbiamo finito con questa specie di dialogo, ti chiederei il tuo nome. Sempre se sei d'accordo».
Lui parve pensare in quel momento che ancora non sapeva neanche come mi chiamavo: «Nicholas e tu?».
«Macy» dissi stringendogli la mano.
Tornammo nel salone centrale, dopo aver conversato per qualche minuto. Nick, come disse di volersi fare chiamare, era un ottimo interlocutore: conosceva bene la letteratura e l'arte, oltre che la storia e le scienze. Stavamo parlando di arte, quando mi chiese in che scuola andassi: «Scuola?» chiesi sorpresa.
«Si, scuola, quella in cui tutti i ragazzi, compresi in un certa fascia d'età, vanno» mi disse ridendo.
«Io non vado a scuola da quando avevo otto anni e capii di essere profondamente allergica a qualsiasi tipo di organizzazione scolastica» risposi convinta.
Per tutta risposta, lui mi guardò come gli avessi appena detto, come se niente fosse, che lavoravo per la C.I.A. ed ero a conoscenza dell'esistenza degli alieni.
«Stai scherzando vero? Cioé, tu sei andata a scuola dopo gli otto anni, giusto?» mi chiese con cautela.
«No» risposi tranquilla.
Si bloccò in mezzo al corridoio, mentre io proseguii consapevole di averlo lasciato basito.
«Hey, Macy! Aspetta!» mi chiamò mentre mi inseguiva.
Notai, mentre Nick mi raggiungeva, mio padre parlare con un uomo.
L'uomo aveva i capelli biondissimi, quasi bianchi ed era vestito anche lui con smoking e scarpe lucidi. A loro si stava avvicinando una donna, con i capelli neri, raccolti in una morbida crocchia allla nuca, e la pelle bianca, che indossava un abito nero, lungo e molto semplice. La donna mise una mano sulla spalla dell'uomo con cui conversava mio padre: probabilmente erano sposati. Mi avvivcinai a Theo per dirgli che la serata mi aveva annoiata e che sarei andata a casa, ma lui mi fece segnale di fermarmi; notai che anche l'uomo e la donna fecero un segnale nella mia direzione, ma non gli diedi molte peso. Rassegnata, con il solito sorriso di circostanza, mi avviai verso mio padre e la coppia in sua compagnia. «Macy, ti presento Jeremy Black e sua moglie, Bonnie» disse mio padre, quando fui abbastanza vicina.
Strinsi le mani ai due coniugi e, a pelle, provai un moto di simpatia nei loro confronti. Anche se, ricordai, avevano un figlio da presentarmi. Mi convinsi che la serata e con essa la mia tortura, non sarebbe finita mai. «È un piacere conoscerti, Macy, Theodore ci ha parlato così tanto di te! Sei il suo orgoglio e devi vedere come gli si gonfia il petto quando parla della sua bambina!» mi disse la signora Black.
«Vedo che, tu e Nick, vi conoscete già, beh, meglio così no? Non c'è bisogno di presentazioni» continuò il marito della signora indicando il ragazzo con cui fino a poco tempo fa stavo parlando.
Io rimasi un attimo interdetta: Nick? Quel Nick? Il figlio di Jeremy? Il tipo che avevo odiato a prescindere?
Come se ci fossimo letti nel pensieroci girammo l'uno verso l'altra: «Cosa?»
«Sta zitto!», «Sta zitta!» urlammo all'unisono e continuammo: «Io?»
«Tu!»
«No!»
«No?»
«Si!»
«Smettila!» concludemmo.
Nel frattempo, durante il nostro acceso 'dibattito', i nostri genitori ci guardavano stupiti, un pò come tutto il resto della sala. Dopo la nostra performance, ci guardammo negli occhi un'ultima volta, consapevoli dell'attenzione che tutti i presenti ci stavano rivolgendo, e scoppiammo a ridere.
A fine serata, mentre ci avviavamo verso le auto, Nick mi chiese se ci saremmo potuti vedere anche al di fuori di un noioso ricevimento.
«Certo! Anzi, mi farebbe piacere» dissi sorridendo: «Io abito al 353 di San Vicente Boulevard, non so se conosci la zona, è in prossimità di Malibù» continuai mentre gli scrivevo l'indirizzo sulla mano.
«Come ti trovi con tuo padre? Ad abitare insieme a lui, intendo» mi disse Nick.
«Io non abito con mio padre. Appena ho compiuto diciotto anni sono andata via e, con l'eredità di mio nonno materno, ho comprato la casa in cui vivo. Non potevo sopportare la sua smania per i ricevimenti e le feste; inoltre, ha sempre tentato di sostituire mia madre da quando è andata via, non fraintendermi, io gli voglio bene, ma era diventato un pò troppo soffocante per i miei gusti» risposi noncurante.
«Mi dispiace non volevo rivangare brutti ricordi» disse Nick, scusandosi.
«Non preoccuparti, detto tra noi, sto benissimo da sola con la signora Smith, Charles e le due cameriere» dissi strizzando l'occhio nella sua direzione.
In quel momento, mio padre mi chiamò e io mi affrettai a salutare Nick e a correre verso la limousine.

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Capitolo 2
*** Un nuovo coinquilino ***


Capitolo 2: Un nuovo coinquilino.

Erano passati quattro mesi dal ricevimento in casa dei Norton. Io e Nick ci eravamo visti spesso, anche solo per una chiacchierata.
Spesso ci ritrovavamo in un bar rinomato a Beverly Hills e, una volta a testa, ci offrivamo la colazione, durante la quale leggevamo il 'L.A. Times', sorridendo della fantasia dei cronisti e delle storie stesse con spensieratezza.
Una mattina, la storia era uguale a quella appena descritta, ma un elemento era fuori posto: Nick non sorrideva. Avevo provato di tutto: a farlo ridere, a fargli almeno spiccicare una parola, ma evidentemente non era nelle sue intenzioni: «Hey, ascolta questa! 'Donna afferma di aver incontrato alieni durante...' hey Nick, ho un segreto da confessarti: sono incinta di uno sconosciuto» dissi sperando di attirare la sua attenzione.
«Davvero ottimo, concordo con te» rispose continuando a fissare il suo caffè.
«Non mi stai ascoltando» dissi dandogli un pugno sulla spalla: «Mi spieghi che diavolo ti prende?».
«Non c'è niente che non vada, Macy, ero solo un po' distratto» spiegò atono: e io ovviamente non gli credetti.
«Avanti, sputa il rospo o preferisci che mi faccia portare una caraffa di thé freddo da poterti rovesciare in testa? E smettila di guardare quello stupido caffé! Non cambierà colore solo perché continui a fissarlo, chiaro?» avevo detto scocciata.
Mi guardò con uno sguardo malinconico e triste, uno sguardo che non gli avevo mai visto in volto.
«Vuoi davvero saperlo?» mi chiese.
«Se non lo avessi voluto sapere, non te lo avrei chiesto e adesso parla! La mia pazienza non è infinita, ormai dovresti averlo imparato» risposi.
«Ebbene: i miei genitori si trasferiscono in Italia e vogliono che io vada con loro... ovviamente ho possibilità di scelta» disse senza guardarmi negli occhi.
«Tutto qui? Tutta questa tristezza per qualche tempo in Italia? Andiamo, che sarà mai un po' di tempo lontani da L.A.? E poi l'Italia è bella, io ci sono stata, ti divertirai» dissi tirando un sospiro di sollievo.
«E chi ha mai parlato di qualche tempo? Se mi trasferirò lì dovrò rimanerci per sempre» disse sorridendo amaro nella mia direzione.
Per sempre? Nel mio vocabolario non figurava la parola 'sempre' da quando mia madre mi aveva abbandonata. Se Nick andava via per sempre avrebbero potuto benissimo internarmi in manicomio perché, anche se non volevo ammetterlo, mi ero affezionata a lui e alla nostra strana routine e non avrei potuto sopportare che qualcun'altro mi lasciasse così su due piedi.
«Non puoi farlo!» strillai isterica, alzandomi e facendo cadere la sedia all'indietro e barcollare il tavolino, nello stesso tempo.
Ormai avevo attirato l'attenzione di tutti e Nick, per salvare il salvabile, oltre che la faccia, aveva pagato il conto, anche se toccava a me farlo, e, dopo aver afferrato le sue cose e anche le mie, si era precipitato fuori dal locale. Appena mi resi conto che stava andando via e per giunta con le mie cose, mi guardai un attimo attorno, per recuperare il senso della realtà e uscire da quel baratro buio, nel quale la mia vita stava velocemente precipitando di nuovo come la prima volta, e lo rincorsi all'esterno del locale.
«Hey! Aspetta, accidenti! Aspetta!» dissi strattonandolo per un braccio, una volta che lo avevo raggiunto: «Che cazzo significa 'per sempre'?» strillai.
«Tu hai l'aspetto di un angelo, ma il linguaggio di uno scaricatore di porto: sei davvero strana, Macy» disse, tentando di sviare la mia domanda. Illuso! Io avevo vissuto con mio padre per diciotto anni, lo 'sviatore di domande' per eccellenza, nessuno riusciva a distrami dall'ottenere una risposta.
«Rispondi, stronzo! Giuro che ti ammazzo a mani nude, se non lo fai! Mi farò dare l'ergastolo con la soddisfazione di averti tolto quel sorriso idiota dalla faccia, almeno!» dissi lanciandogli uno sguardo di fuoco.
«'Per sempre', Macy, significa che resterò lì, finchè la morte non mi troverà, significa che non tornerò a L.A. neanche per sbaglio, contenta?» rispose con uno sbuffo.
«Contenta?!» urlai con quanto fiato avevo in gola: «Mi stai per caso chiedendo se sono contenta?! Ma dico?! Ti sei forse bevuto il cervello?! O, cercando di connetterli, hai sbagliato filo e ti sono andati in corto quegli ultimi due neuroni che non erano stati bruciati dalle canne che evidentemente ti sei sparato? Come posso essere contenta? Tu te ne vai 'per sempre', lasciandomi qui da sola, e io dovrei essere contenta?! Sei un idiota!» ringhiai.
«Che altro posso fare, Macy? Eh? Dimmelo tu, perché io non ne ho la minima idea! Qui non ho un posto dove stare, perché abbiaamo venduto la casa, e, se non fossi ricco sfondato, direi anche un lavoro, visto che mio padre trasferisce la sua attività in Italia! Credimi, vorrei rimanere qui, Los Angeles è la mia città e ci sei tu, che sei meglio di qualunque amico maschio io abbia mai avuto, ma devo andarmene! Se i miei genitori se ne vanno, chi rimarrà con me?» mi chiese gesticolando freneticamente.
«Ci sono io! Lo hai detto tu: sono meglio di qualunque amico maschio tu abbia mai avuto! Qual è il problema? Hai detto anche che sei ricco sfondato, quindi potrai prendere un volo per l'Italia quando vorrai, se proprio non ti troverai bene con me o ti mancheranno troppo i tuoi genitori! Io non ci vedo nessun problema, sei tu che ti fai troppi corti cinematografici in testa!» ribattei.
Parve pensare a quello che avevo detto e poi disse: «Ok, ammettiamo che possa fare come hai detto: dove abiterò? I miei hanno già venduto la casa».
Sogghignai e anche in modo malefico, a giudicare dall'espressione del mio amico: «A casa mia: ci sono quattro stanze per gli ospiti o una depandance se ti fa più piacere, ne avessi mai usata una! Potrai stare lì: non c'è nessun affitto da pagare, visto che la casa è di mia proprietà e potrai rimanere a Los Angeles» risposi con veemenza: «Adesso che ho risolto tutti i tuoi stupidissimi, nonché senza senso, dubbi, posso riavere le mie cose?» dissi indicando la mia borsa e il mio trench.
Nick guardò me, guardò le mie cose e poi annuì: «Ecco, tieni» disse porgendomele.
Le afferrai e insieme ci incamminammo per la strada. Per un po', nessuno dei due parlò, finché lui non interruppe il silenzio che si era venuto a creare: «Cos'è quel casino laggiù?» domandò.
Mi indicò un punto compreso tra Rodeo Drive e Dayton Way: un assemblamento di curiosi e volanti della polizia si trovava all'angolo tra le due strade. Ci avvicinammo anche noi, per vedere cosa fosse successo: un agente della polizia, appena arruolato probabilmente, cercava di trattenere i curiosi, con scarsi risultati. La gente continuava a spingerci e io, che per una volta ringraziai la mia bassa statura, riuscii ad arrivare quasi al centro della calca, beccandomi, nel frattempo, qualche gomitata.
«Hey!» urlai a pieni polmoni, stufa di essere picchiata selvaggiamente da degli scalmanati: «La volete piantare di urlare e di muovervi come se foste una mandria di bisonti? Si, ho detto bisonti, signora!» continuai, zittendo una donna di 150 chili più o meno che, alla parola 'bisonti', aveva alzato la mano e aperto la bocca per protestare: «Date ascolto all'agente o vi faccio arrestare per aggressione, sono stata chiara?» dissi indicando l'occhio, che di li a poco sarebbe diventato nero. Visto che non avevano la minima intenzione di smettere di guardarmi continuai: «Sparite! Tutti!» ruggii.
Tutti mi guardarono ancora con tanto di occhi, ma poi, dopo qualche sguardo assassino, si dispersero in poco tempo.
«E adesso,» ripresi, puntando il dito contro il giovane agente: «Che diavolo sta succendendo? E dove cazzo è l'ispettore Lewis?» strepitai.
«Io... io... cioé, io... non po-posso chi-chiamarlo, signorina» disse il tipo, balbettando.
«Mi ascolti attentamente, agente... Barron,» dissi leggendo il nome sulla targhetta: «Perché potrebbe essere l'ultima volta che le verrà dato l'appellativo d'agente, quindi aprà bene le orecchie: voglio, esigo e pretendo di parlare con l'ispettore entro sessanta secondi o la farò spedire a dirigere il traffico in così breve tempo, che non avrà il tempo di dire la parola 'football'. Mi sono spiegata?» sibillai.
«S-si, si, signorina, v-va-vado subito a chiamare l'ispe-pe-pettore» disse il ragazzo correndo via.
«Bravo» risposi, ghignando.
«'Voglio, esigo e pretendo'? Non ti sembra di aver esagerato con lui? Se l'è fatta sotto!» disse Nick, ridendo.
«Probabile» dissi asciutta, storcendo il naso.
Pochi secondi dopo, l'agente che si era allontanato, tornò tirando per la manica un ispettore parecchio seccato: «Barron, ma che diavolo sta facendo, accidenti? È per caso impazzito? Io sono con il medico legale, a parlare di questioni importanti, e lei mi tira via per la manica? La farò degradare glielo giuro, Barron: la sua indisciplina è davvero inaccettabile!» esclamava l'ispettore.
«Ma ispettore, la prego, mi segua, non volevo strapparla al suo lavoro, ma una ragazza inquietante cerca di lei! Io le ho detto che non era disponibile, ma lei mi ha minacciato e aveva gli occhi che lampeggiavano e poi... ispettore la prego venga con me!» piagnucolava l'agente.
«Barron, non si beve in servizio! Le persone non hanno gli occhi che lampeggiano! La smetta di cercare di abbonirmi Barron, lei ha passato ogni limite!» urlava di rimando l'ispettore.
Decisi che era arrivato il momento di finirla con quel teatrino: «Ispettore Lewis!» chiamai agitando in aria un braccio.
L'ispettore, che si era girato per tornare al suo lavoro, deciso ad ignorare l'agente, si voltò verso di me come se gli avessero tirato un secchio d'acqua gelata in testa: «Cullen?» domandò stupito.
Ci tengo a precisare, che il mio cognome è 'Cullen', proprio come quello dei vampiri, ma io a differenza loro, se fossi stata una vampira, avrei già sterminato metà della popolazione mondiale: quindi, dato che gli idioti continuano a prosperare sul pianeta, si può dedurre che non sono un vampiro, purtroppo.
«Si, sono io, ispettore e la smetta di guardarmi come se avessi due teste!».
«Cullen, che ci fa da queste parti? E come sa che sono diventato ispettore a Los Angeles, mi pedina per caso?» disse preoccupato Lewis.
È giusto che io vi dia qualche spiegazione: l'ispettore Lewis, non è sempre stato un agente della polizia di Los Angeles, infatti, prima era al 54th distretto a New York. Lo conobbi quando anche io e mio padre abitavamo lì e lui indagava su quella che credevamo fosse la 'scomparsa' di mia madre, anziché la 'fuga' di mia madre. Smisero di indagare quando, la suddetta donna, mandò una lettera a mio padre spiegandogli il motivo della sua fuga. Da quel giorno, io e mio padre, ci trasferimmo a Los Angeles.
«Io non la pedino, ispettore, ho soltanto qualche conoscenza al distretto che mi ha informata del suo trasferimento e, di conseguenza, del suo nuovo ruolo all'interno del dipartimento» dissi risoluta.
La diffidenza dell'ispettore mi fece ridere: «Non si preoccupi , ispettore, posso assicurarle che non la sto pedinando e poi, quando la conobbi, ero solo una bambina, adesso ho vent'anni!».
Abbandonato ogni sospetto, l'ispettore si avvicinò: «Che vuoi, Macy?».
«Voglio sapere che cosa è successo» dissi senza giri di parole.
L'ispettore sospirò e alzò il nastro giallo: probabilmente anche a lui erano arrivate le voci che vedevano me e il mio 'svago' protagonisti. Nick fece per passare, ma l'ispettore lo bloccò: «Chi è lei?».
«Lui è Nicholas Black, ispettore, un mio amico, nonchè mio futuro coinquilino quindi, quando verrà a trovarmi, la sua presenza sarà costante in casa» dissi rivolgendomi all'ispettore.
«Cosa le fa credere che verrò a trovarla, signorina Cullen?». «Ma come? Da 'Macy' sono diventata la 'signorina Cullen'?» ribattei ridendo.
Ad un'occhiata di fuoco dell'ispettore, però, risposi seriamente: «Uffa, e va bene! Verrà a trovarmi perché vorrà il mio aiuto per risolvere i casi più complicati, ispettore».
A quel punto, Nick e la sua faccia stranita, mi ricordarono che il mio futuro coinquilino non sapeva niente di come mi divertivo nel tempo libero, oltre che con gli sport estremi.
«Aiuto la polizia a risolvere i casi più difficili: un po' come... Sherlock Holmes» dissi sorridendo.
Dopo la mia frase, sentii l'ispettore mormorare nella direzione di Nick: «Se andrà davvero ad abitare con lei, ci farà l'abitudine, ragazzo mio».
«A cosa?» disse Nick.
«Alle sue stranezze» rispose l'ispettore.
Detto questo, l'ispettore ci fece strada sino ad un vicoletto stretto e maleodorante in Rodeo Drive: il vicolo era stretto di per sé e sembrava ancora più stretto a causa degli agenti che brulicavano lì intorno, in cerca di indizi e quant'altro. Lewis ci accompagnò dal medico legale: «Finalmente, ispettore! Come le stavo dicendo prima che... chi sono questi ragazzi?» disse il coroner, indicando me e Nick.
«Emh... aiutano nelle indagini» lo liquidò l'ispettore.
«Se lo dice lei... comunque, il signore è morto più o meno 22 ore fa quindi ieri tra mezzogiorno e l'una: lo stato di rigor è completo» disse facendoci vedere la rigidità delle articolazioni: «A prima vista sembra non ci siano segni di colluttazione, ma le saprò dire di più dopo l'autopsia» completò l'uomo. Poi disse di portar via il corpo con la massima delicatezza.
«La causa della morte?» disse l'ispettore.
«È strana e non voglio mettervi su piste sbagliate quindi preferisco rifervivi questo particolare dopo l'autopsia».
L'ispettore annuì, prima di essere chiamato da un agente. Io e Nick, invece, andammo in giro a cercare qualche indizio.
«Ieri ha piovuto, Nick?» chiesi con indifferenza.
«Umh... no, non mi sembra, perchè?» rispose Nick, indagando le mie espressioni.
«Chiedevo perché percepisco dell'umidità e i miei capelli potrebbero gonfiarsi» mentii.
Camminavo, cercando di evitare le impronte lasciate nella pozza di fango che costeggiava una delle case, tra cui il vicolo era compreso, quando Nick si fermò di botto: «Però, stanotte si!».
«Ne sei sicuro?».
«Si perché ricordo di aver pensato che il tempo si adattasse perfettamente al mio umore» rispose.
«Vieni con me» dissi facendo un gesto con la mano: «Vedi queste tracce? L'ora del decesso è sbagliata, se ha piovuto solo stanotte».
«Come fai a dirlo?».
«Vedi la posizione del cadavere? E qui, sul legno, vedi le impronte delle mani dell'uomo? Se fosse morto a ora di pranzo, come dice il medico legale, non ci sarebbero tracce di fango sotto le scarpe dell'uomo e non ci sarebbero state impronte di mani infangate sul legno visto che non ha piovuto ieri» dissi indicando le varie cose man mano che ne parlavo.
«Quindi è morto stanotte? Ma, anche se fosse morto stanotte e anche se la temperatura fosse stata di venti gradi, come è possibile che sia già in rigor? Ha iniziato a piovere alle tre del mattino, il rigor entra in moto tra le dieci e le dodici ore dalla morte, dunque sforiamo in ogni caso di 6 ore! Il rigor sarebbe dovuto arrivare alle 15 di oggi! Invece sono le 9 del mattino ed è completamente rigido!» esclamò Nick.
«Lo so» dissi: «E lo sa anche il medico legale, immagino».
«Come fai a saperlo?».
«Intuito. Torniamo a casa».
Nick si limitò a seguirmi, dopo che già mi ero incamminata. Stavo pensando a come quell'uomo fosse riuscito a trascinarsi fino in quel vicolo buio e perché avesse scelto quel luogo per morire, quando Nick mi diede un leggero colpo sulla spalla: «Credo che dovremmo andare a casa mia, Macy, sai dovrei dire ai miei che rimango a Los Angeles» disse Nick, distogliendomi dai miei pensieri.
«Si hai ragione, andiamo».
Ripercorremmo Rodeo Drive e arrivammo alla macchina di Nick; in macchina nessuno parlò, Nick era attento e concentrato sulla strada e io guardavo fuori dal finestrino persa nei miei pensieri. Mi riscossi solo quando vidi la casa dei genitori di Nick in lontananza. Entrammo nel vialetto di casa e proseguimmo sino al garage. Lui parcheggiò l'auto e appese le chiavi al gancio, aprì la porta del garage, che conduceva in casa, ed entrammo. Al primo sguardo mi sentii davvero strana: le pareti erano vuote, senza tutti i quadri e i libri che le caratterizzavano e venni investita da un senso di malinconia. In quel momento, realizzai che non avrei rivisto Jeremy e Bonnie per tanto tempo e venni assalita dalla tristezza: non ero il tipo che si faceva sopraffare dalle emozioni, di solito tendevo a segregarle nella parte più remota del mio cervello, in modo che non potessero essermi di intralcio per qualsiasi motivo, ma, questa volta, abbassai lo sguardo e Nick dovette accorgersene, perché mi mise una mano sulla spalla e disse: «Guarda che anche tu puoi prendere un volo per l'Italia quando vuoi!» e poi si mise a ridere.
Sorrisi della sua leggerezza: doveva essere più triste di me all'idea di lasciare i suoi genitori.
Nel salone centrale, che dava subito sul giardino davanti, i genitori di Nick andavano avanti e indietro freneticamente, dando ordini a destra e a manca ai domestici che, prendendo esempio dai padroni di casa, correvano per tutta la stanza, con quantità enormi di oggetti e di scatoloni nelle braccia. «Mamma, papà» disse Nick cercando di attirare l'attenzione dei suoi genitori.
«Katherine, con quello devi stare attenta, mettilo qui, vicino a...» disse Bonnie ad una domestica.
«Mamma, papà» riprovò Nick a voce più alta.
«Lenny, porta questi di sopra e mettili nello scatolone 14, poi...» diceva Jeremy ad un cameriere.
«Mamma! Papà!» urlò, questa volta, Nick.
«Oh! Ciao, tesoro, non ti avevamo visto! E ciao anche a te, Macy» disse Bonnie sorridendo. Io feci un breve gesto con la mano nella direzione di entrambi i coniugi.
«Mamma, papà, devo parlarvi, avete cinque minuti per me?» chiese Nick.
«Ma certo, figliolo!» esclamò Jeremy.
La conversazione si spostò in cucina, una cucina che una volta era parecchio arredata, ma che adesso era soltato una stanza come le altre.
«NonverròinItaliaconvoi» disse Nick tutto d'un fiato: non lo avevo capito neanche io che sapevo cosa voleva dire!
«Figliolo, puoi ripetere? E magari più lentamente?» chiese Jeremy.
Nick prese un respiro profondo e disse: «Non verrò in italia con voi. Mi dispiace, ma io qui ho la scuola, gli amici, ho Macy e non voglio lasciare niente di tutto questo quindi, domani, partirete senza di me. Per qualsiasi cosa, però, chiamatemi e arriverò in Italia, o anche in Cina se è necessario, in men che non si dica».
Disse tutto questo in un fiato, tanto che mi preoccupai potesse svenire per mancanza di aria: Fortuna volle che non lo fece. I suoi genitori si guardarono e poi guardarono lui e me; io, nel frattempo, alternavo il mio sguardo da Nick a loro, come se fosse una partita di tennis; Nick guardava me e poi sua madre e dopo suo padre per poi ricominciare il giro: era un gran casino, ma ci capimmo (non so come) comunque e, alla fine, il padre di Nick si avvicinò a lui, lo abbracciò e disse: «Speravamo davvero avessi cambiato idea sul viaggio, figliolo, buona fortuna. In banca ci sono i soldi che ti serviranno e sappiamo che Macy si prenderà cura di te, proprio come tu farai con lei. Ti vogliamo bene» concluse, sorprendendomi e attirando a sé anche la moglie per un abbraccio di gruppo.
Io, che non c'entravo niente, mi sentivo parecchio a disagio e cercai di stare il più immobile possibile, per non rovinare il bel quadretto familiare con qualche cretinata delle mie, ma una mano, che riconobbi essere quella di Bonnie, mi fece segno di avvicinarmi, e così, titubante mi avvicinai e mi sentii catapultata dentro un abbraccio soffocante, degno dei coniugi Black.
«Allora ci accompagnerete all'aeroporto domani, giusto?» disse la signora, trattenendo le lacrime.
Io e Nick annuimmo, dopo esserci scambiati un rapido sguardo: cominciava una nuova vita per entrambi.

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Capitolo 3
*** Tatuaggi ***


Capitolo 3: Tatuaggi.

«Hey tu! Non muovere un muscolo o ti sciolgo nell'acido, chiaro? Lassù, vedete di non fare scherzi, vi tengo d'occhio! Nick, capisco che verrai ad abitare qui, ma accidenti che gran casino che stai combinando! Hey spilungone, attento con quel divano! Costa una cifra!» urlavo contro tutti i traslocatori che nel salotto stavano spostando tutti mobili.
«Accidenti a Nick, accidenti a me, accidenti a Bonnie, accidenti a Jeremy e accidenti all'Italia!» borbottavo: «La vuoi finire di maledire tutti? È solo colpa tua se c'è questo casino qui dentro! E infatti mi sono inserita anche io tra le malezioni!». Stavo discutendo con una piccola parte di me, che di minuto in minuto diventava sempre più grande, che odiava la restante parte di me che aveva permesso tutto quel casino. Mi bloccai in mezzo alla cucina: stavo parlando con me stessa! Adesso si che potevo farmi rinchiudere alla neuro! Parlavo da sola e urlavo come un'ossessa! Non era questo che intendevo quando avevo detto che Nick poteva venire da me. Avevo inoltre deciso, in un momento di noia, di scrivere della mia nuova esperienza 'familiare': non perché volessi sposarmi un giorno o avere dei figli che avrebbero seminato bava e moccio dappertutto, volevo solo ricordarmi di non fare mai questo grandissimo errore. E in quel momento mi resi conto di avere assolutamente e indiscutibilmente ragione: i traslocatori, amici di Nick, avevo riempito di fango e terra l'intera anticamera, avevano già rotto due soprammobili, roba poco importante, ma relativamente costosa, e avevano quasi distrutto il televisore del salotto, posizionato sopra il camino. Vi chiederete, miei cari, perché ci siano dei traslocatori in una casa già arredata che non abbisogna di nient'altro. Ebbene dunque, comprendo la vostra curiosità, e vi risponderò nella maniera che più mi si addice, cioé chiara, schietta e concisa: mi sono messa in casa un uomo! 'Dovevi essere pronta al rischio' direte, 'lo sapevi già' direte, 'non ti ha obbligata nessuno' direte! E direste giusto: direste giusto, ma non sapevo che il signorino Ho-La-Pelle-Delicata, come avevo appena deciso di chiamarlo, aveva bisogno del suo letto per poter dormire (e quando dico il suo, intendo proprio il suo, quello di casa sua!), anche se era un pugno in un occhio per quanto riguardava l'arredamento con la camera degli ospiti che aveva scelto; non sapevo che aveva bisogno di tutte le sue creme e lozioni per la pelle e quindi avevo dovuto fare installare un nuovo armadietto in bagno e, dulcis infundo, non sapevo che teneva il bagno e tutto quello che c'era dentro, dalle cinque di mattina, orario in cui tutte le persone normali dormono, fino alle otto, occupato! Quando morirò, perché succederà presto , voglio una statua e una medaglia al valore, per il coraggio e la pazienza dimostrati! Era tanto delicato, il bambino, ma davanti al cadavere, di quel tizio, non aveva neanche tentato di svenire! Che ne so? Vomitare! No, era tranquillo e fresco come una rosa davanti ad un morto, ma quando lo facevi dormire in un letto che non era il suo, non ci riusciva! Vorrei vederlo in uno di quei corsi di sopravvivenza che si organizzano nella giungla... probabilmente si sarebbe fatto divorare dagli insetti, anziché dormire in tenda!
In quel momento, interrompendo la serie di insulti contro Nick, entrò uno sfortunato ragazzo di non più di 23 anni, che ebbe la sfiga di chiedermi dove volessi messo l'impianto audio: stava scherzando, vero?!
«Impianto 'cosa'?» dissi cercando di trattenere la furia.
«Impianto audio, signorina, il signore di là, ha detto che dovevo chiederlo a lei» disse il malcapitato.
«Oh, ma è ovvio! Dica al 'signore di là' di infilarselo in quel posto l'impianto audio, NE ABBIAMO GIA' UNO QUI, chiaro?» urlai.
Il ragazzo impallidì in un attimo e si schiacciò contro la porta della cucina. Ora quanto mai, volevo chiudermi in bagno e farmi un bagno così rilassante da dovermi credere morta alla fine.
«Ci sono problemi?» disse Nick, mettendo la testa dentro la cucina.
«Nick? Vieni, vieni, ti faccio vedere una cosa» dissi sorridendogli bonariamente.
«Emh... ok, ma devo aiutare un tipo, credo abbia problemi con il sacco da boxe» disse Nick.
Il mio occhio sinistro cominciò a chiudersi a scatti e, per evitare che il mio tic nervoso rendesse palese la mia incredibile rabbia, me lo coprii con la mano, dandomi una sottospecie di schiaffo sull'occhio. Nick mi guardò preoccupato, ma feci una smorfia, tentando di sorridergli, per rassicurarlo. Non sembrò convinto, ma mi seguì senza fare storie.
«Vedi Nick, io capisco che la tua pelle sia delicata e che tua abbia bisogno del tuo letto per dormire e capisco anche che dovrò far costruire un'altro bagno e che tu usi il sacco da boxe per allenarti, ma perché e dico perché l'impianto stereo? Io ne ho già uno e mi sembra anche nuovo e, fidati, costoso, quindi perché un'altro stereo?» chiesi esasperata.
«Perché mia madre non lo voleva e, visto che è costato un occhio della testa, me lo sono tenuto».
«Ok, ma adesso, dove dovrei posizionarlo?!» dissi mentre tentavo di fermare il fastidioso occhio sinistro. Che tu sia maledetto, occhio sinistro!
«Non lo so, ecco perché ho mandato James da te!» disse lui allegro.
'Chiunque sia il tuo angelo custode, Nick, non sta facendo un buon lavoro' pensai in quel momento.
«Nick, ascoltami bene: adesso tu vai da Jerry, Josh, John o come diavolo si chiama e gli dici di mettere lo stereo nel ripostiglio più nascosto della casa, in modo che, se il mio si rompesse, prenderemmo il tuo, ma fino ad allora non vedrà mai la luce del sole, mi hai capita?» dissi guardando la sua espressione basita.
Alla fine si rassegnò: «E va bene, vado».
«E poi torna qui che devo spiegarti alcune semplicissime regole» gli urlai, visto che ormai era arrivato sulla soglia della porta.
Pochi minuti dopo lo vidi rientrare: «Allora?» domandai.
«Fatto, che doveva dirmi, Generale?» disse facendomi il saluto militare.
Ma che diavolo stavo pensando, quando gli avevo proposto di venire da me?
«Seguimi».
Dal corridoio della cucina, ci voleva poco per arrivare al sotterraneo: si proseguiva dritto per circa 30 metri e, subito sulla destra, si trovava una scala a chiocciola che conduceva poi al sotteraneo vero e proprio.
Freno subito la vostra fantasia, miei cari lettori: avrete subito pensato alle scale delle case dei film horror, quelle che si tuffano nel buio, quelle che portano ad una stanza maleodorante e con i topi, in cui l'unica fonte di luce è una lampadina penzolante dal soffitto. Toglietevi questa immagine dalla testa, perchè nel mio sotterraneo le possibilità le possibilità che la luce si spegnesse o venisse spenta erano una su un milione e non perché non avessi paura del buio, anzi mi piaceva la sensazione di tanquillità che portava, ma perché nel buio possono esserci anche cose ignote e sconosciute e io odiavo le cose ignote e sconosciute, preferivo sapere sempre cosa mi attendeva.
Comunque arrivati alla fine della scala, le luci si accesero e io feci strada: «Allora, partiamo dalle basi: qua sotto, non avendo più spazio in casa, c'è una piccola palestra e parte della biblioteca, oltre che il garage. In palestra, puoi recarti all'orario che più ti aggrada, soldato» dissi per prenderlo in giro e lo sentii ridacchiare: «Nella parte della biblioteca che sitrova qui sotto, e che comunque è collegata con il piano di sopra, ci sono tutte le prime edizioni dei più grandi classici, anche quelle che si credevano perdute, non puoi immaginare che fatica ho fatto per averle, quindi ti serve il codice che ti ho datp prima per entrare; del garage» dissi voltandomi verso di lui: «Devi sapere poche e semplici regole: #1: non si toccano le mie macchine, se non in caso di emergenza; #2: non parcheggiare fuori dai posti che Charles ti ha assegnato; #3 non trasgredire le regole #1 e #2. Tutto chiaro?» dissi puntandogli l'indice contro.
«Fin qui è semplice, adesso posso vedere i posti che mi hai assegnato?» disse ridendo.
Ma dico? Mi conosce da più di 4 mesi e non sa ancora che per quanto mi riguarda con le macchina non si scherza?!
«E va bene, seguimi».
Girammo a sinistra e camminammo fino ad una porta in metallo. Girai la chiave nella toppa ed entrammo nel garage: questo era grande come un hangar, i posti numerati andavano da 1 a 10 ed erano tutti occupati. I posti di Nick erano sulla destra, sul fondo del garage: gliene avevo riservati cinque, non sapendo quante macchine avesse, visto che io ero sempre salita sul SUV nero.
«I tuoi posti sono lì» dissi indicandoli.
«Cinque?!» disse Nick sbalordito: «Macy, io ho solo un macchina!».
«Non preoccuparti se non li usi non fa niente» dissi scrollando le spalle: «Adesso torniamo su però, non mi fido di quei traslocatori, combinano troppi casini».
Mi incamminai e lui mi seguì, chiudendosi la porta del garage alle spalle. Risalimmo in silenzio e il silenzio fu proprio quello che ci accolse una volta tornati su.
'Silenzio? Ma se fino a cinque minuti fa c'era un casino bestiale?' pensai.
Il mio cellulare aveva deciso però, di cominciare a suonare e di interrompere il silenzio dell'altra stanza.
Aprimmo la porta della cucina e quello che vidi mi riempì il cuore di gioia: Charles, posizionato in cima alle scale, dava ordini a tutti i traslocatori che, con calma finalmente ed in silenzio, sistemavano le cose per come diceva lui. Con la felicità di una bambina davanti ad una nuova Barbie, corsi da Charles, lanciando in aria il cellulare prontamente afferrato da Nick alle mie spalle, e lo abbracciai con tutta la forza che avevo, mentre lui tentava di staccarsi e di riprendere aria. «Come ci sei riuscito? Non mi stanno più distruggendo la casa, Charles, io ti adoro!».
Quando Nick riusci a strapparmi praticamente via da Charles, mi disse che l'ispettore Lewis aveva chiamato e aveva detto che, se volevamo, potevamo raggiungerlo all'obitorio del distretto, dove dopo il rapporto autoptico, ci avrebbe ragguagliati sul caso.
La giornata, iniziata nel peggiore dei modi, stava migliorando di minuto in minuto e il sorriso a 32 denti sulla mia faccia, ne era la prova.
Salutammo in fretta Charles, che mi promise di vegliare sull'incolumità della casa mentre eravamo via, e ci fiondammo in garage. Presi le chiavi di Juliet, e dissi a Nick di saltare su.
«Vuoi andare in obitorio con questo gioiello? Macy, in caso non lo sapessi, questa è una Ferrari F430 Spaider! Costa poco meno della mia vecchia casa!» esclamò Nick.
«Ma per chi mi hai presa? Certo che so che macchina è e si, Nick, voglio andare al distretto con questa! Ti ricordo che non sei in Italia, sei ancora a Los Angeles, qui nessuno ti nota se vai in giro con una di queste!».
Non lo avessi mai detto! Durante tutto il tragitto ci guardarono come se stessimo viaggiando su una macchina volante: un tizio, addirittura, ci inseguì a piedi, chiedendoci se avesse potuto fare qualche foto!
«Non vorrei dire 'te lo avevo detto', Macy, ma... te lo avevo detto» disse Nick.
«Chiudi il becco, idiota, siamo arrivati» dissi scocciata, mentre giravo per entrare nel parcheggio del distretto.
Diedi cento dollari alla guardia del parcheggio perché guardasse Juliet e si mettesse anche a ringhiare in caso qualcuno l'avesse avvicinata: lui sembrava più che felice di farlo anche senza essere pagato, ma non si poteva mai sapere.
Una volta entrati, chiedemmo dell'ispettore Lewis e ci dissero che al momento non era disponibile.
«No, ascolti, lei non capisce: l'ispettore ci ha detto di venirlo a cercare qui perché doveva ragguagliarci sul caso» tentava di spiegare genitlmente Nick.
«Ma si certo! Anche io ho chiesto a Dio di farmi diventare presidente e lui lo ha fatto! Vai a raccontarle a qualcuno che ci crede le tue cretinate, ragazzo» disse di rimando la guardia.
«Ma guardi che è vero, signore, non mi permetterei di raccontarle una cosa falsa» diceva Nick.
Questo dialogo andò avanti per qualche minuto, prima che mi stancassi: «Lascia Nick, faccio io» dissi mettendomi tra lui e la guardia, faccia a faccia con quest'ultima: «Mi ascolti, agente: a me non piace litigare o minacciare le persone, ma lei e il suo comportamento mi state dando davvero fastidio. Le consiglierei dunque di chiamare subito l'ispettore o posso assicurarle che se ne pentirà».
«Il suo nome?» mi disse la guardia.
«Cullen, Macy Cullen».
«Macy Cullen, la dichiaro in arresto per minacce a pubblico ufficiale: ha il diritto di rimanere in silenzio, qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale...» cominciò l'agente, facendomi girare e prendendo le manette dalla cintura.
«Woah, woah, woah, stop all'aratro contadino!» dissi dandogli una gomitata nello stomaco e buttandolo a terra, dopo averlo afferrato per un braccio.
Il secondo dopo, che mi trovò con i pugni alti davanti al viso in posizione di difesa, vedeva me e Nick dare le spalle all'ascensore, circondati da poliziotti armati fino ai denti e con le suddette armi puntate contro di noi, che urlavano di tenere le mani bene in vista, e un uomo grosso come un troll steso dolorante a terra.
Si aprì l'ascensore in quel momento e il respiro di chiunque ci fosse dentro si bloccò: «Che cosa sta succedendo qui?».
La voce dell'ispettore Lewis proveniente dall'ascensore, mi fece apparire sul volto un sorriso a 32 denti e una linguaccia degna di una ragazzina capricciosa, in direzione della montagna umana ancora stesa a terra dalla mia gomitata. Gli altri poliziotti invece non abbassarono le armi finché l'ispettore non gliel'ordinò.
«Loro sono con me» aggiunse mettendo una mano sulla mia spalla e su quella di Nick: dopodiché ci tirò dentro l'ascensore strattonandoci.
«Che cosa avete combinato?» domandò, dopo che le porte dell'ascensore si furono chiuse.
Io e Nick ci guardammo e cominciammo a parlare insieme, ognuno spiegando la stessa cosa con parole diverse, ottenendo soltanto il risultato di procurare un'emicrania all'ispettore.
«Basta!» urlò Lewis: «Black, prima tu! Cullen, tieni la bocca chiusa, chiaro?».
Io annuii e ascoltai Nick raccontare la nostra 'avventura'.
Alla fine del racconto, l'ispettore si rivolse a me: «C'era bisogno di stendere Warren come un tappetino?».
«Mi stava arrestando!» protestai.
«Lo hai minacciato!».
«Non voleva farci passare!».
L'ispettore scosse la testa e, quando le porte dell'ascensore si aprirono, ci fece strada fino in sala autopsie: «Questo dovete vederlo con i vostri occhi, perché se ve lo raccontassi con ci credereste».
Seguimmo l'ispettore attraverso due corridoi, fin quando, alla fine del secondo , non incrociammo una porta in metallo. Varcatane la soglia, quella che ci accolse fu una stanza asettica: al centro vi erano cinque tavoli in metallo, ognuno dei quali aveva accanto una bilancia e degli strumenti da chirurgo; sulla destra, vi era un lavandino e, accanto a questo varie scatole contenenti guanti in lattice, mentre sopra, vi era un pannello luminoso con alcune radiografie ancora appese; sulla sinistra si trovavano le celle frigorifere e sul fondo della sala una scrivania piena di scartoffie e documenti vari. Il tutto era illuminato da lampade al neon.
Il nostro uomo era posizionato sul secondo tavolo partendo da sinistra, essendo il primo occupato da una donna sulla sessantina, e il medico legale era chino ancora su di lui, ma ci vide o ci sentì comunque, infatti disse: «Ispettore, finalmente! Non ci stavo sperando più! Ma loro non sono i ragazzi dell'altro giorno?» disse alzando la testa e sporgendosi oltre l'enorme figura dell'ispettore per guardarci.
«Si, Gregory, sono loro. Ti avevo accennato dell'aiuto che serve alle indagini, giusto? Beh, loro sono l'aiuto. Vorrei ripetessi loro quello che hai detto a me» chiese l'ispettore.
«Nessun problema. Venite ragazzi avvicinatevi e ponetemi tutte le domande che vi pare: premetto che il nostro uomo è uno dei più strani che abbia mai visto» disse il medico.
Visto che Nick non spiccicava parola, ancora folgorato dalla vista della vecchia nuda sul tavolo di metallo, toccò a me: «Causa della morte?».
«Congelamento».
«Congelamento? Ma a Los Angeles ci sono 35 gradi di giorno e 20 di notte! Come ha fatto a congelarsi?» chiese Nick che si era parzialmente ripreso, anche se era ancora molto pallido.
«Ha ingerito azoto liquido».
«Ma l'azoto liquido congela all'istante e non ce n'era sulla scenda del crimine» ribattè il mio amico.
«Lo ha ingerito in piccole dosi. L'azoto liquido, se assunto in questo modo, non provoca immediatamente la morte, ma un leggero stordimento perché neutralizza a poco a poco le cellule del corpo in generale e del cervello, quindi vuol dire che il nostro amico, si è trascinato fino a quel vicolo dove è morto» dissi io.
«Ottimo, signorina!».
«Di conseguenza l'ora del decesso è sbagliata» aggiunsi.
«Esatto: la morte è sopraggiunta dopo diversi minuti di agonia, verso le...».
«Tre e mezza del mattino» completai.
«Come ha fatto ad indovinare?» chiese il dottore sbalordito.
«Mi sono fatta qualche calcolo per conto mio. Allora possiamo dedurre che la rigidità del cadavere non era dovuta al rigor, ma all'azoto liquido».
«Esatto. Per caso, l'ispettore l'ha informata prima di quello che vi avrei detto?».
«Io non ho detto proprio niente di niente, ma la signorina Cullen ha l'abitudine di fare così» intervenne Lewis.
«Capisco. C'è altro che volete chiedere?» disse il medico.
«Lo giri» dissi dopo aver notato una specie di taglio sotto il busto.
Il medico mi guardò con un sorriso furbo: «Non le sfugge proprio niente, vero?» disse.
«No» affermai asciutta.
Una volta che lo ebbe rivoltato insieme ad un paio di assistenti, che non avevano smesso un attimo di ammiccare nella mia direzione, potei effettivamente notare che, come avevo sospettato, c'era qualcosa che non andava: l'uomo era pieno di graffi e lacerazioni sulla schiena, graffi e lacerazioni che nascondevano un tatuaggio; era una mano che stringeva un pugnale ondulato: l'impugnatura del coltello era tempestata di gemme, mentre la mano era macchiata di sangue (come se si fosse tagliata stringendo il pugnale) e ricoperta di cicatrici, al dito indice vi era un anello e si potevano vedere anche le vene bluastre. Era ben fatto, i bordi erano ben definiti e i colori vivaci. Un particolare attirò la mia attenzione: mancava un lembo di pelle quadrato vicino all'impugnatura del pugnale, sulla lama; l'assassino o gli assassini non volevano che chi lo avesse ritrovato vedesse quella parte di tatuaggio. Chissà perché?
«Segni di percosse?».
«Come può vedere, signorina, non ce n'è».
«Contenuto dello stomaco?» continuai.
«Il suo ultimo pasto intende? Beh, bistecca al sangue e azoto liquido» scherzò il dottore.
Io alzai un sopracciglio e il sorriso sul volto del medico legale sparì.
«I risultati dell'esame tossicologico?» domandai.
Anche l'ispettore si fece più attento a questa domanda, probabilmente non conosceva neanche lui questa informazione.
«Non abbiamo potuto farli in quanto il sangue nelle vene era congelato».
«Capisco. Beh io non ho più domande da porle dottore» dissi sorridendo.
«Qualcun'altro ne ha?» disse il medico.
Nessuno parlò quindi dopo esserci congedati, risalimmo in centrale.
«Sedetevi» disse l'ispettore quando arrivammo alla sua scrivania.
Gli sguardi degli altri poliziotti non ci avevano lasciati un attimo, da quando eravamo usciti dall'ascensore: ci additavano e sussurravano dandomi fastidio.
«La volete finire?» urlai girandomi di scatto verso due idioti che si erano piazzati dietro di noi.
Mi guardarono sconvolti e senza dire una parola andarono via.
«Dovresti controllare la rabbia, Macy, sono sicuro che gioverebbe ai tuoi rapporti interpersonali» disse ridendo l'ispettore.
«I miei rapporti interpersonali stanno benissimo per come sono, sono questi cretini che assume o che qualcun'altro assume per lei che dovrebbero farsi dare una controllatina al cervello» dissi acida.
Sia Nick che Lewis ridacchiarono alla mia battuta ma non mi contraddissero.
«Allora parliamo di questioni importanti adesso» cominciò Lewis: «Il nostro uomo era Philip Jennings, di anni 40, single, la madre si chiama Annette White, il padre Antony Jennings rispettivamente di anni 60 e 63...».
«Ispettore, se avessi voluto che lei mi leggesse la scheda anagrafica del morto, sarei andata all'anagrafe non crede?» dissi parzialmente scocciata.
«Farò finta di non averla sentita, Cullen. In ogni caso, Jennings era schedato: quando aveva 14 anni, si era fatto un paio di mesi in riformatorio per aver quasi ammazzato di botte un suo compagno di scuola; a 19 era finito dentro per spaccio, 2 anni; a 28 è finito nuovamente dentro per rapina a mano armata e tentato omicidio, ma si è fatto solo 9 dei 15 anni di carcere ed è uscito poi per buona condotta; dalla data della sua uscita a l'altro ieri, se ne erano perse le tracce» concluse l'ispettore.
«Solo questo?» chiesi delusa.
«In questi anni è stato come un fantasma: niente carte di credito, niente beni intestati, niente conti in banca, niente di niente. Probabilmente aveva una falsa identità: infatti abbiamo diramato un comunicato stampa con la sua foto, sperando che qualcuno lo riconosca e ci informi» disse sconsolato Lewis.
Dopo il penoso colloquio con l'ispettore io e Nick rimontammo in macchina e tornammo a casa.
«Che ne pensi?» mi chiese lui dopo aver lasciato il distretto.
«Penso che l'ispettore abbia ragione: il tipo aveva un'altra identità e se, come penso io, faceva parte di una qualche banda organizzata, non sarà facile trovarla e rintracciare di conseguenza tutto quello collegato a lui».
Nick fece una smorfia e si mise comodo sul sedile in pelle dell'auto chiudendo gli occhi.
«Perché ci siamo fermati?» disse dopo qualche minuto, quando si accorse che la macchina era ferma.
«Traffico» risposi guardandolo.
Lui aprì un occhio e guardò la distesa infinita di macchine davanti a noi: «Accidenti che casino!» esclamò aprendo gli occhi del tutto e mettendosi dritto.
Io risi e mi legai i capelli visto l'incredibile caldo che faceva.
«Hai un tatuaggio» notò lui, guardando la base del mio collo.
«Io ho molti tatuaggi» dissi enfatizzando la parola 'molti'.
«E un giorno io li potrò vedere tutti, giusto?» chiese ridendo.
«Sono in posti che neanche ti sogni, Nick, quindi tieni gli occhi a posto» gli dissi dandogli uno scappellotto.
«Ok, ok, ma non picchiarmi. Perché 'Faith & Love'?».
«Significa 'Fiducia & Amore' è tutto quello che avrei voluto oltre che da mio padre, anche da mia madre e così me lo sono tatuato per sopperire le mie mancanze» scherzai.
«Ne hai anche sui polsi».
«'Keep Holding On'? Non voglio parlarne. Non ora almeno» dissi guardando il traffico immobile di L.A..
«Ok» rispose Nick, notando il mio cambio d'umore.
La conversazione morì lì e tornammo a casa nel più assoluto silenzio.



Vorrei ringraziare LeaRachelBlackbird che mi ha recensita, aiutandomi con il mio problema delle virgole. Spero di aggiornare al più presto, anche se mi si è fuso il cellulare, oggetto su cui immancabilmente scrivo. xoxo Giorgia

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Capitolo 4
*** Problemi in paradiso ***


Capitolo 4: Problemi in paradiso.

I giorni passavano pigri e mi ero abituata alla presenza di Nick in casa: facevamo colazione insieme e poi, subito dopo, via alla volta del distretto, pranzavamo fuori e il pomeriggio tentava di non farmi pensare al caso. Solo una volta capitò un motivo di palese imbarazzo: una mattina, come al solito, avevo bussato alla porta della sua camera per dirgli che la colazione era pronta ed ero scesa al piano inferiore; passarono diversi minuti e cominciai a preoccuparmi, non essendo da lui essere in ritardo, infatti quando andavo a chiamarlo, era già pronto per uscire di casa; così risalii le scale e mi piazzai davanti alla porta, indecisa se aprirla o meno. Quando sentii un mugolio proveniente dall'interno decisi che sarebbe stato meglio bussare ancora, avvertendo della mia imminente entrata: e così feci.
Bussai e dissi: «Nick, sono io... sto entrando».
Forse ammetto che fu colpa mia, visto che non gli diedi il tempo di rispondere, fatto sta che, quando aprii la porta, lo trovai ancora a letto, con a fianco una bella ragazza: non credo i lettori abbiano problemi a capire la situazione, ma ebbi problemi io a capire perché diavolo avessi voglia di cavare gli occhi alla rossa senza cervello (perché dal suo sguardo si poteva notare l'assenza di neuroni nella scatola cranica) accanto a Nick. Sul momento attribuii il fastidio al fatto che quella fosse in casa mia senza che io lo sapessi, quindi balbettai delle scuse sconnesse e tornai di sotto, ancora rossa come un pomodoro maturo. Non mi ero ancora ripresa dalla brutta figura, quando Nick mi afferrò per un braccio e mi trascinò in salotto dove, dopo aver chiuso le porte ed essersi accertato che non ci fosse nessuno nei paragi, come avrebbe fatto un ladro, tentò di darmi delle spiegazioni: «Mi dispiace, io... io... beh, Tiffany...» tentava di dire Nick.
«Ascolta Nick, non devi darmi nessuna spiegazione, io capisco che tu... beh si, che tu abbia una... ragazza, una ragazza si, e... e va bene! Anzi è fantastico!» pronunciai l'ultima parte della frase con una nota di sarcasmo e amarezza, tanto accentuata che Nick la colse.
«Non lo credi davvero» affermò.
«Certo che lo credo davvero, perché non dovrei?».
«Cosa ti da fastidio?».
«Beh, certo, se mi avessi detto di avere una ragazza, non sarei entrata!».
«Non saresti dovuta entrare in ogni caso, non lo fai mai!» sbottò lui.
«Non lo faccio, perché quando ti chiamo la prima volta, di solito, sei già lavato e vestito e non ti stai rotolando nel letto con... con... un'oca!» dissi con rabbia, incapace di trattenermi.
«Beh, questa volta no! E, a parte il fatto che non vedo il motivo di essere arrabbiati, Tiffany non è un'oca!».
Già, non c'era motivo di essere arrabbiata: e allora perchè avrei voluto evirarlo? O quanto meno picchiarlo a sangue?
«Si appunto. Senti facciamo finta che non sia successo niente, ok? Anzi per la prossima volta metti un qualcosa fuori dalla porta, in modo che io non vi disturbi più del necessario» dissi mentre gli voltavo le spalle: «Ah, e salutami Jennifer!» proseguii con ironia.
«Si chiama Tiffany!» lo sentii urlare nella mia direzione, mentre correvo in cucina.
Mi sedetti come se niente fosse a tavola e, come ogni mattina, cominciai a giocare con la colazione: ma che diavolo mi era preso? Mi ero comportata come una fidanzata gelosa!
Impensabile anche per me che adoravo la teatralità! Certo, Nick era bello, bello da far paura, e simpatico e intelligente, ma non era il mio tipo... giusto? GIUSTO?!
Mi convinsi di essere irritata solo perché non sapevo che ci fosse un'oca rossa in casa mia. In quel momento la signora Smith interruppe il corso dei miei pensieri: «Devi mangiare, Macy».
Non mi chiamava mai 'Macy', lo faceva solo quando era preoccupata per me, quindi la conversazione aveva cominciato a non piacermi ancora prima che iniziasse.
«Non ho fame» risposi asciutta.
Lei si asciugò le mani nella tovaglia vicino al lavabo e si sedette di fronte a me al tavolo: «Cosa c'è che non va?».
«Niente, è tutto ok».
Io ero brava a mentire, ma la signora Smith e Charles mi avevano cresciuta e mi conoscevano meglio di mia madre, infatti la donna rispose: «Non ti credo, bambina».
'Bambina'? Ora si che cominciavo a preoccuparmi seriamente!
«Sul serio, non c'è niente che non vada».
«E allora perché quel muso?».
«Quale muso? Io non ho nessun tipo di muso, signora Smith!».
«Si che ce l'hai e se non vuoi raccontarmi niente va bene lo stesso, ma ricorda: non fa bene tenersi tutto dentro» concluse sibillina la donna.
Come diavolo faceva a convincermi sempre? Stava per alzarsi, ma io la bloccai afferrandola per un braccio: «Ok, ok, parlo» dissi rassegnata, ma decisa a non mollare.
Lei sorrise e si rimise seduta. Io chiusi gli occhi e decisi si mentire spudoratamente: neanche mio padre avrebbe capito la verità, e lui mi leggeva come un libro. Non fraintendetemi, non mi piaceva mentire alla signora Smith, ma era necessario per salvare la faccia!
«Ok, mi hanno chiesto consiglio e non so che fare; anzi, che dire...» cominciai mordendomi il labbro inferiore, cosa che mi ero accorta facevo solo quando ero sovrappensiero.
«Chi ti ha chiesto consiglio?» disse la signora Smith interessata.
Dalla sua espressione, capii che aveva creduto all'inizio della mia storiella e così mi preparai alla miglior performance di tutti i tempi: «Un amica che non vedevo da parecchio: non che sia un'amica tanto stretta, io non ho amici, ma pur sempre una conoscente, e non so che cosa consigliarle».
«Di che si tratta?».
«Ha un problema... con un ragazzo».
«Problemi con un ragazzo?».
«Si» confermai.
«Ma perché ha chiesto a te? Dici sempre che non sei brava in queste cose».
«Adesso che me lo ha fatto notare, me lo chiedo anch'io» dissi assumendo un'espressione pensierosa e interrogativa.
«Beh, vuoi dirmi il suo problema?» disse la signora Smith, dopo qualche istante di silenzio.
«Oh si, giusto! Ultimamente ha cominciato a... frequentare questo ragazzo, che credeva un amico -menomale che non ho amici-, ma quando la settimana scorsa lo ha visto con un'altra, aveva voglia di castrare lui e cavare gli occhi a lei. Che cosa ne pensa?» dissi guardando la signora Smith negli occhi.
«Penso che la tua amica, Macy, sia innamorata, anche se ancora non lo ha capito, e gelosa all'ennesima potenza» concluse la donna sorridendo.
Innamorata?! Gelosa?! Che cosa?!
«No, non è possibile! Lei è una, a quanto mi risulta, che si è innamorata un'unica volta, e le era capitato con una scatola di cioccolatini ripieni! Non può essere innamorata; non potrebbe essere qualcos'altro?» chiesi con ansia.
«No» replicò sicura la signora Smith.
Bene... sono fottuta! Amore 1 – Macy 0.
«Ok grazie allora, mando un messaggio alla mia amica e organizzo un appuntamento per dirle tutto» dissi afferrando il cellulare e volando letteralmente via dalla cucina.
Una volta uscita mi precipitai in salotto e stavo per sedermi sulla poltrona in pelle, quando sentii Nick e la sua fiamma (in tutti i sensi, dato l'improbabile colore dei capelli di quella tipa) scendere le scale: se si fossero fatti vedere in cucina, la signora Smith avrebbe capito che l''amica' di cui parlavo ero io!
«Ahahahah si lo so!» rideva l'oca.
«È stato davvero incredibile!» diceva lui.
Io sbuffai e roteai gli occhi: che cavolo si ridevano?
«Vieni, facciamo colazione e poi andiamo» continuò Nicholas.
'Colazione'? 'Andiamo'? Dove?!
Decisi che al 'dove' avrei pensato dopo, dovevo occuparmi della 'colazione' ora.
«Hey!» esclamai attirando l'attenzione dei due, senza un piano ben preciso in testa.
Entrambi si voltarono verso di me e io rimasi immobile, ferma come uno stoccafisso in mezzo al salotto.
«Che c'è?» domandò Nick, ancora irritato dalla nostra discussione.
«Ehm, io... io volevo... io volevo chiedervi di fare colazione con me, fuori, lontano, anzi no, lontanissimo da qui, così da poterci conoscere, stro... stupendissima ragazza di Nick» dissi all'oca, correggendomi appena in tempo, con un sorriso falso quanto il colore dei suoi capelli stampato in faccia.
«Oh si, Nick, possiamo?» disse contenta la stronza, rivolgendosi all'idiota.
«Uhm... ok» rispose lui sbuffando.
«Allora emh... aspettate qui, nel salotto... non, non muovetevi» comincia camminando all'indietro, tentando di raggiungere la porta: «Io avverto Charles che usciamo... ma voi non muovetevi da qui, dal salotto» ribadii sorridendo prima di uscire di scena.
Scrissi veloce un messaggio a Charles e mi affrettai a tornare in salotto. Quando lo feci, l'oca non c'era e per poco non mi venne una sincope.
«Dov'è la tua ragazza?» chiesi allarmata.
Nick se ne accorse e rispose: «In bagno, ti da fastidio anche questo, Macy?» disse duro.
Non raccolsi la provocazione, perché in quel momento uscì la signora Smith dalla cucina, con una montagna di roba (asciugamani soprattutto) da portare in bagno.
Quando la vidimo, sia io che Nick, ci alzammo di scatto dalle poltrone in cui ci eravamo appoggiati e ci parammo davanti all'anziana donna.
«Ragazzi, che state facendo? Devo passare!».
«Dove va di bello, signora?» disse Nick.
«A sistemare questa roba in bagno» disse lei con aria spaesata.
«No!» dissimo all'unisono io e Nick.
Anche lui non voleva che la signora Smith vedesse la rossa, ma perché?
«Non può» continuò lui più calmo, accortosi della faccia spaventata della donna alla nostra esclamazione.
«Non posso?».
«Già, non può! Perché... perché... perché il bagno si è...».
«Allagato» continuò Nick per me.
«E allora bisogna chiamare i tecnici e farli venire subito» disse la signora Smith.
«No!» dissi parandomi davanti a lei per l'ennesima volta.
«No?» disse lei frastornata.
«No, perché la ripariamo noi la tubatura vero, Macy?» disse Nick.
«Esatto! Quindi dia a me, porto io questi di sopra» dissi io togliendo dalle braccia della signora Smith la pila di asciugamani puliti.
«Ok ragazzi, ma se non doveste riuscirci, chiameremo i tecnici».
«Perfetto» mugolai sofferente, da dietro la torre di asciugamani. Accidenti quanto pesavano!
Detto questo cominciai a salire le scale barcollando, ma non prima di aver spiegato a Nick il piano che avevo in testa. Era relativamente semplice: mentre io, dal ritorno dal bagno in compagnia della rossa, distraevo la signora Smith, lui e l'oca, che nel frattempo sarebbe passata sotto la sua custodia, avrebbero preso la macchina e sarebbero usciti, raggiungendo il bar prestabilito, mentre io sarei uscita poco dopo di loro.
Arrivai in cima alle scale, non senza qualche difficoltà, e al primo sgabuzzino che trovai, buttai gli asciugamani, promettendomi di recuperarli più tardi... forse. Proseguii dritto e, alla seconda porta a sinistra, mi fermai e bussai: «Hey, emh... ragazza di Nick, sei lì dentro?».
«Si esco subito!» la sentii squittire.
Subito dopo sentii un tonfo e un gemito di dolore: lo scalino aveva fregato anche lei. Che scalino meraviglioso!
Quando aprì la porta, la trovai con la gonna storta e i capelli scompigliati: «Stai bene?» le chiesi cercando di trattenere una risata.
«Si, ma sono scivolata» rispose con un tono di voce vicino a quello di quando si piange.
«Lo avevo notato» dissi guardandola con una smorfia: «Ehm, ascolta, dovresti venire con me, senza fare rumore».
«Perché senza fare rumore?».
Proprio ora cominciava a fare domande sensate?
«E beh, perché... perché Charles sta dormendo e non vorrei svegliarlo ecco, e quando ti dico io nasconditi, sempre senza far rumore».
«Nascondermi?».
«Esatto, sai al cane non piacciono gli estranei».
«Ehm, ok, se lo dici tu! Lo sai che sei molto simpatica?».
«Grazie».
'Non posso dire lo stesso di te' pensai.
Cominciammo a scendere le scale nel più assoluto silenzio. L'oca era stata di parola: non un fiato. Sentimmo però dei passi e la voce di Nick che pregava la signora Smith di non salire. Porca vacca!
«Nasconditi! Ovunque, ma fallo!» bisbigliai alla ragazza alle mie spalle.
Lei annuì convinta e si accucciò dietro di me: non solo oca, ma anche completamente deficiente! Evidentemente il momento di intelligenza, sorto nel momento delle domande, era svanito lasciando spazio al nulla.
«Non dietro di me!» sussurai irata.
«E dove allora?».
«Non lo so, ma hai meno di cinque secondi per farlo!».
Lei cominciò ad agitarsi e a saltellare sul posto, muovendo le mani come quando vengono calpestate e si prova quindi dolore, così presi l'iniziativa e, dopo averle detto che sarebbe arrivato Nick, scesi le poche scale che mi separavano dalla signora Smith e la intercettai: «Signora Smith!» esclamai incerta su cosa inventarmi: «Non può ancora andare di sopra».
«Perché, di grazia?».
«Perché è tutto allagato! È come se ci fosse una piscina nel bagno».
«Ma signorina, i suoi piedi sono asciutti! e di sicuro non ha cambiato le scarpe».
In quel momento mi resi conto della mia gaffe e mi maledì in 13 lingue diverse, anche in quelle morte.
«Si beh.... certo, perché... io ho... perché ho indossato degli stivali. Sulle scarpe. Degli stivali sulle scarpe!» esclamai sorridendo come un ebete.
«Degli stivali sulle scarpe?» disse scettica l'anziana.
«Si sono dei nuovi stivali in commercio e... ma lasciamo perdere! Andiamo a controllare che... che non si sia allagato di sotto, nel frattempo Nick si occupa del problema di sopra».
«Senz'altro» rispose Nick.
«Uhm... ok» acconsenti la donna.
Scampata per un pelo! Adesso avrei portato la signora Smith lontana dalla cucina e dalla scala del sotterraneo, dando a Nick l'opportunità di uscire di casa con quella.
«Venga, signora Smith, venga» dissi guidandola fino allo studio, situato da tutt'altra parte rispetto alla cucina: «Vede? Qui è tutto pulito, perfetto no?» dissi guardando la macchina di Nick varcare la soglia del cancello di casa.
«Si, ma...» disse la signora Smith, senza parole.
«Ma che sbadata! Ho dimenticato di avere un sacco di cose da fare!» dissi dandomi una piccola sberla in fronte: «Esco, ci vediamo stasera, signora Smith!» dissi salutando allegra.
«Ok, Macy, a stasera» disse frastornata la donna.
Mi precipitai in cucina e poi subito nel sotterraneo. Presi le chiavi di Michelle, la Lamborghini, sperando fosse meno appariscente di Juliet, e solo quando sentii il rombo del motore, riuscii a rilassarmi del tutto; mentre aspettavo che la porta automatica del garage si aprisse, mi abbandonai contro il sedile in pelle nera dell'auto: perché Nick non voleva che la signora Smith vedesse Tanya o Theresa o come diavolo si chiamava? E perché la suddetta signora Smith era convinta che io, o meglio la mia amica, fosse innamorata?
Quando la porta del garage fu completamente aperta, uscii imboccando la salita: riflettendoci se la signora Smith avesse saputo che stavo parlando di me stessa, non avrebbe mai avanzato l'ipotesi dell'amore. Perciò il risultato cambiava: Amore 0 - Macy 0. Parità! Quindi con le mie convinzioni mi avviai verso Beverly Hills, nel solito posto dove io e Nick, facevamo colazione prima che lui si trasferisse da me.
Il tragitto non fu dei migliori, lo ammetto: non frantendetemi, adoravo Los Angeles, non ci si annoiava -quasi- mai, ma il traffico era la più cosa odiosa del mondo, indipendemente dal fatto che si avesse o no fretta e a Los Angeles ce n'era parecchio; infatti sulla Sunset & Boulevard -come in molte altre strade, ad onor del vero- c'era sempre un gran casino e se avevi l'incommensurabile sfortuna di imboccarla nell'ora di punta, non c'era santo che potesse tenere: rimanevi bloccato nel traffico, come un topo in trappola, tra le auto degli altri automobilisti sfortunati come te.
Io come una cretina, pensai fosse il modo migliore per arrivare prima, infondo la Sunset & Boulevard attraversava tutta Beverly Hills: mi sbagliavo di grosso. Ero in coda, da quasi venti minuti, quando qualcuno aprì lo sportello dell'auto e saltò a bordo.
Stavo per cominciare a minacciare di morte chiunque fosse salito, ma la voce di Lewis mi anticipò: «Non sprechi fiato, Cullen, non scenderò, ho delle notizie da darle».
Guardai l'ispettore interessata e annuii per fargli capire che poteva continuare.
«Hanno riconosciuto il nostro cadavere».
Io sgranai gli occhi: «Davvero? Come si faceva chiamare?».
«Samuel Santini: si era trasferito a Long Beach, subito dopo aver abbandonato il suo vecchio nome e aver cancellato la sua vita precedente».
«Ne aveva creata un'altra?».
«Si; si è sposato nel 2003 a 37 anni, nove anni dopo la scomparsa di Philip Jennings, con Jenna Lower, 37 anni attualmente; non hanno avuto figli, a causa della sterilità della donna, e quindi hanno adottato Karim, un ragazzino brasiliano, di quindici anni oggi, di 12 al momento dell'adozione».
«Chi lo ha riconosciuto?».
«La moglie: è venuta da noi al distretto, chiedendo cosa volessimo da suo marito, tanto che lì per lì non capii di che marito stava parlando, poi ha estratto la foto di Jennings e l'ho interrogata».
«Non aveva fatto denuncia di scomparsa?».
«Assolutamente no, e questa cosa, è parsa strana anche a me: abbiamo trovato il corpo una settimana fa e lei non si è neanche preoccupata a quanto pare. Mia moglie avrebbe rivoltato mari e monti, conoscendola» disse con un mezzo sorriso l'ispettore.
«Le avete chiesto perché non aveva sporto denuncia?».
«Si ovviamente, ma ha detto di aver avuto tempo».
«No ispettore, mi faccia capire bene: una donna sposata da 3 anni, non vede rincasare il marito per una settimana, non si preoccupa e non sporge denuncia perché non ha tempo?».
«Esattamente».
«E non vi siete insospettiti?».
«Certo che si! Ma che potevamo fare? Abbiamo cercato di farci spiegare il perché della mancanza di tempo, ma è stata parecchio reticente».
«E il ragazzo?».
«Chi?» disse l'ispettore stralunato.
«Karim, il ragazzo!».
«Oh si, giusto. Ma che c'entra lui?».
«Ispettore, mi prende in giro?».
«Non capisco» ammise Lewis, sforzandosi di comprendere dove volessi andare a parare.
«Ok: mettiamo caso lei sia un ragazzo di 15 anni, che cosa farebbe tutto il giorno in casa?».
«Come fa a sapere che rimane in casa?».
«Quello glielo spiego dopo, mentre andiamo al distretto, adesso risponda».
«Beh, giocherei con i videogames, userei il computer o il cellulare, guarderei la televisione...».
«Esatto!».
«Cosa?».
«Guarderebbe la televisione e userebbe il cellulare!».
«E quindi?».
«La foto di Jennings o di Santini, come preferisce, è stata mandata in onda su ogni telegiornale, è impossibile che il ragazzo non abbia riconosciuto il padre adottivo! E poi questo ragazzo degli amici deve averceli! Uno di loro gli avrebbe sicuramente chiesto il perché la foto di suo padre fosse in televisione!».
«Ha ragione, Cullen!» esclamò l'ispettore: «Questo significa comunque poco, però: io chiederei spiegazioni a mia madre se vedessi mio padre alla TV».
«Anche questo è vero, ciò non toglie che l'intera famiglia non si era minimamente curata della scomparsa dell'uomo».
«Già».
Con questa frase, o meglio, con questo monosillabo, morì la conversazione tra me e Lewis.
Quando notai che non accennava ad andarsene, mi venne in mente una cosa: «Ispettore, come ha fatto a trovarmi?».
«Ho rintacciato il suo I-Phone» disse con un sorriso furbo: «La cosa bella di questo telefono è che ha il GPS e la mia fortuna è che lei lo tiene sempre acceso».
«Ma una chiamata, come tutte le persone normali avrebbero fatto, era troppo banale per lei?».
«Ammetto di non averci pensato: ma comunque rintraccerò più spesso il suo cellulare se significa poter stare in una macchina come questa, con dei sedili così comodi».
«I suoi colleghi la staranno aspettando, in macchina» azzardai.
«Sono venuto a piedi apposta».
Sgranai gli occhi: cosa?!
«È venuto perchè sapeva che ero in macchina e che quando mi avrebbe detto le novità non avrei esitato a recarmi al distretto, vero?».
«Esatto» disse con un sorriso soddisfatto l'ispettore.
Borbottai fino a quando non arrivammo al distretto, come potete immaginare, e solo quando parcheggiai mi ricordai di Nick e del nostro pseudo appuntamento.

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Capitolo 5
*** Keep holding on ***


Capitolo 5: Keep holding on.

Appena uscimmo dalla Sunset & Boulevard tirai un sospiro di sollievo. L'ispettore mi indicò, anche se non ce n'era il minimo bisogno, una serie di stradine laterali per poter raggiungere in fretta il distretto.
Proprio come l'altra volta, la guardia all'ingresso guadagnò cento dollari extra per sorvegliare Michelle, anche se, come l'altra volta, era contento di farlo ugualmente: mi appuntai mentalmente di chiedere all'agente, la prossima volta, se la macchina fosse di suo gradimento e poi, in caso non lo fosse stata, sborsare i famosi cento dollari.
Mentre prendevo nota di questo, il cellulare cominciò a squillare: lo presi solo per farlo smettere di suonare, ma il nome sul display mi fece venire i brividi: porco cazzo! Nick mi stava chiamando; avevo due possibilità: #1. potevo mentire dicendo di essere ancora imbottigliata nel traffico; #2. potevo dire la verità, sapendo che ci sarebbe rimasto male se avesse saputo di essere allo scuro di una parte del caso.
La scelta fu facile: «Cullen» dissi al telefono.
«Dove diavolo sei finita, Macy? È più di un'ora che ti aspettiamo!».
«Si, mi dispiace» dissi con malcelata ironia: «Ma mentre ero imbottigliata nel traffico, Lewis mi ha raggiunta e ragguagliata sul caso: attualmente sono al distretto e le novità sono fantastiche, Nick. Adesso devo andare, ma tu goditi la colazione con Tanya» dissi chiudendo la conversazione senza dargli il tempo di ribattere.
«Tanya?» disse Lewis.
«Non si origliano le conversazioni altrui, ispettore, e comunque non sono sicura sia il suo nome, non sono brava con i nomi delle persone che decido di detestare» lo liquidai.
«Si lo so, Cullen» disse ridendo: «Venga, credo si ricordi dov'è la mia scrivania, ma non vorrei si perdesse» continuò con lo stesso tono.
«Non si preoccupi» dissi sorridendo sarcasticamente.
Arrivati alla reception del distretto, Lewis si bloccò: «Mi hanno detto che dentro c'è la vedova, ha un aspetto familiare per quanto mi riguarda e per quanto ho potuto notare l'altra volta, ma potrei sbagliarmi. È bionda, la riconoscerà subito, ma non le dia troppe noie con le sue domande, Cullen, io la conosco, lei tende sempre ad esagerare» disse Lewis.
«Ok, ok andiamo» dissi sventolando una mano come si fa con qualcosa di poco importante.
Entrammo negli uffici: da un'atroce sensazione mi assalì e mi attanagliò lo stomaco, appena varcammo la soglia della porta... sentivo che la giornata non sarebbe andata bene, e raramente mi sbagliavo.
I poliziotti che si ricordavano di me, si scansarono, come se avessi potuto fare a loro quello che avevo fatto al 'Troll', senza motivo.
Ci avvicinavamo sempre di più alla scrivania dell'ispettore e la sensazione si ingigantiva sempre di più; cominciai anche a scorgere la testa bionda della vedova Jennings, attraverso le sagome degli agenti che passavano davanti a me e l'ispettore.
Come se avesse avvertito la nostra presenza, la vedova si voltò e in quell'istante mi sentii morire: doveva per forza essere frutto della mia immaginazione.
Evidentemente sbiancai, perché l'ispettore chiese una sedia e un bicchiere d'acqua per me e cominciò a chiedermi se mi sentissi bene: non lo sentivo l'unica cosa che i miei sensi percepivano era la donna bionda seduta a quella scrivania. Era diversa, adesso il colore dei capelli era diverso, ma gli occhi marroni, le labbra carnose e il naso dritto mi dissero che non stavo sbagliando: era lei, cambiata certo, ma era lei.
Senza fiato rifiutai il bicchiere d'acqua che Lewis mi stava porgendo e a tentoni arrivai fino alla scrivania dell'ispettore.
La donna mi guardava come se avesse visto un fantasma e tentò di toccarmi, probabilmente per accertarsi che fossi reale, ma io mi scansai bruscamente e i suoi occhi si intristirono: meglio così, me lo doveva dopo tutto quello che mi aveva fatto passare.
«Macy...» sussurrò la donna.
Io la guardai con disgusto e le riservai un'occhiata assassina.
«Vi conoscete?» ci interruppe Lewis sbalordito.
«La conosce anche lei, ispettore» dissi estraendo una foto scattata al mio sesto compleanno: «Guardi bene la foto».
«Non... non può essere!» esclamò l'ispettore alternando lo sguardo dalla donna alla foto.
«Oh si che può essere: evidentemente Jennings non era l'unico con dei segreti» dissi riprendendomi la foto e voltando le spalle alla sottospecie umana seduta dietro la scrivania: «Io me ne vado, quando avrà ripulito il distretto da feccia come questa» dissi indicando la donna a cui erano venuti gli occhi lucidi: «Mi chiami o rintracci il mio telefono, faccia lei» conclusi rivolgendomi all'ispettore.
«No! Non andartene, abbiamo così tante cose da dirci!» gridò la donna nella mia direzione.
Tutti gli agenti del distretto si voltarono verso di lei e poi guardarono me.
«Non ho niente da dirvi, 'madre'» pronunciai a voce abbastanza alta perché potesse sentirmi, virgolettando l'ultima parola: «Non sono così importante da meritare la vostra attenzione, io» proseguii dura.
«Mi dispiace» sussurrò lei. Sembrava pentita, ma era tardi per chiedere scusa.
Dopo quelle due parole, la mia rabbia esplose: «Vi dispiace» sibillai piano: «Ve ne andate, scappate, non mi cercate per dieci anni e tutto quello che sapete dire è 'mi dispiace'? Perdonatemi, ma non vi credo, non solo non vi credo, ma colgo anche l'occasione per dirvi quello che provo nei vostri confronti, madre: IO. VI. ODIO!» urlai scandendo bene le parole.
Lei scoppiò a piangere: «Avrei preferito ci foste stata voi, in quel vicolo, al posto di Jennings: sarei stata molto più felice» aggiunsi ghignando.
Tutti gli agenti del distretto mi guardarono basiti e scioccati, ma nessuno osò prendere le difese di mia madre: si era rifatta una vita, con un marito ed un figlio nuovo, in cui io non ero minimamente contemplata; la guardai come se fosse la cosa più schifosa sulla faccia della terra, con tutto lo sdegno di cui ero capace, voltai le spalle a tutti e andai via.
Arrivata al parcheggio saltai in auto e partii sgommando. Dovevo prendermi un pò di tempo per me stessa ed elaborare tutto: tutti i demoni del mio passato erano tornati prepotenti nel mio presente... 'O forse' pensai 'Non erano mai andati via'.
Accostai davanti ad un negozio di scarpe, appoggiai la testa sul sedile e vi sprofondai dentro, con gli occhi chiusi. Guardai i miei polsi e la scritta su di essi mi ricordò la promessa di tre anni prima: continua a tenere duro. 'Facile per te!' pensai.
La vista di mia madre, del tutto inaspettata, mi aveva scombussolata e non poco: mi passarono davanti agli occhi alcuni episodi della mia vita; New York City, Lewis, la lettera, il trasloco a Los Angeles, la prima volta che era successo; ricordai il dolore e la cicatrice che ne era conseguita; ricordai quella sera; ricordai Charles e i paramedici che mi portavano all'ospedale; ricordai la clinica; ricordai il mio riflesso allo specchio dopo la clinica; ricordai i tatuaggi; ma soprattutto, ricordai tutto il male che mi ero fatta per colpa sua. In poche parole, ricordavo la mia adolescenza.
Molti di sicuro non avranno capito di che cosa io stia parlando: è giusto che io vi spieghi.
Mia madre se ne andò quando io avevo appena compiuto undici anni, per l'esattezza la settimana dopo il mio compleanno. Per i primi tempi, circa 7 o 8 mesi, pensammo fosse stata rapita e così rimanemmo a New York City per seguire le indagini. All'alba del nono mese circa, a mio padre arrivò una lettera dove, scoprii in seguito, mia madre spiegava ciò che era successo e cioé la sua fuga a causa della notorietà e dell'eccessiva ricchezza della famiglia, ricordo soprattutto una frase che scrisse: 'Nostra figlia è un piccolo genio, Theodore, farà strada, si farà conoscere e io non posso sopportare altra fama. Non più'. Imparai queste parole a memoria, mi hanno sempre accompagnata e sempre mi accompagneranno.
Mio padre tentò in tutti i modi di nascondermi la lettera, mi disse solo che mia madre non sarebbe tornata e poche settimane dopo ci trasferimmo nella calda e soleggiata California.
Su una cosa mia madre aveva maledettamente ragione: ero un piccolo genio (del crimine, ovviamente) ed ero anche una piccola stronza, che non sapeva tenere a freno la curiosità.
Così una sera, mentre mio padre era ancora a lavorare, mi introdussi nel suo studio, dopo aver forzato la serratura e cercai quella maledetta lettera, di cui il mio genitore mi negava la vista, in lungo e in largo, facendo attenzione ad ogni minimo rumore.
Alla fine, riuscii a trovarla: la carta era scarsa, un comune foglio A4 piegato in più parti e infilato in una busta altrettanto scarsa, la riconobbi solo grazie alla scrittura panciuta di mia madre, che spiccava sul bianco del foglio; mio padre l'aveva nascosta in un cassetto, chiuso a doppia mandata di cui ovviamente forzai la serratura.
La lettera era breve e recitava:

Caro Theodore,
mi sembra inutile dire che mi dispiace tanto, ma i miei nervi non potevano reggere oltre.
Non tornerò a casa, questo lo avrai sicuramente capito già, e ti pregherei dunque di bloccare le indagini e le ricerche consegnando questa lettera agli agenti che si occupano del caso.
Ti starai sicuramente chiedendo il motivo della mia fuga: la notorietà mi aveva stancata. Io sono una donna di provincia, anche se mio padre e il suo impero finanziario ci hanno presto obbligati a trasferirci in città, alla mercé di giornali scandalistici e paparazzi. Quando ho sposato te, credevo che il sogno di poter tornare alla mia vita normale, lontana dalla città, si potesse realizzare, ma così non è stato: non fraintendermi, non ti sto incolpando è solo che ho bisogno di staccare, sono arrivata al limite.
Inoltre, nostra figlia è un piccolo genio, Theodore, farà strada, si farà conoscere, e io non posso sopportare altra fama. Non più. Perdonami,

Jenny

Quando arrivai alla fine della lettera sentii il mondo crollarmi addosso: mia madre se n'era andata perché non voleva aggiungere la mia -inesistente- fama a quella sua.
Cominciai a piangere, ma non me ne accorsi, riposi la lettera nel cassetto e rimisi tutto per come l'avevo trovato. Uscii dallo studio di mio padre correndo e piangendo mi precipitai in camera mia.
Nei giorni seguenti tentai di non dare a vedere che avevo trovato, aperto e letto quella lettera: continuavo quindi a fare domande e la sera mi maledivo perché era solo colpa mia se lei era andata via; pensavo di essere sbagliata, lei non mi voleva più ed ero sicura che una ragione più profonda di quella che lei aveva dato nella lettera doveva esserci e, se aveva detto che non era colpa di mio padre, allora doveva per forza essere colpa mia.
Avevo 13 anni la prima volta che mi tagliai: quella volta successe per sbaglio; stavo aiutando la signora Smith in cucina e mi ferii, ma provai una sensazione di libertà, come se tutto il male che albergava dentro di me stesse venendo fuori. Continuai quindi a tagliarmi le vene dei polsi, sporadicamente, solo quando qualcosa mi ricordava quelle che credevo fossero le mie 'colpe'.
Questa storia andò avanti per due anni; nessuno era a conoscenza di ciò che facevo, in estate indossavo dei polsini o molti bracciali per nascondere le cicatrici e tutto sembrava andare bene, ma cominciai anche a non mangiare più e di quello si accorsero tutti. So che lo stato di ignoranza in cui vertevano i miei affetti non poteva durare a lungo, ma pensavo sarebbe durato abbastanza a lungo da permettermi di uscirne da sola: una sera però esagerai.
Quando mia madre viveva ancora con noi, aveva comprato un vestito, un vestito blu, senza spalline, lungo fino al ginocchio, che fasciava il busto e si allargava a trapezio. Non lo aveva mai indossato e mio padre, dopo che lei era andata via, si era premurato di non farmelo vedere, ma era bello e, pensando che io non ne conoscessi la provenienza, mi disse di averlo comprato apposta per me e che gli sarebbe piaciuto se lo avessi indossato. Io acconsentii anche se non credevo di potercela fare, ma per lui, che mi aveva sempre protetta, avrei fatto di tutto, quindi lo indossai.
Mi guardai allo specchio e vidi i capelli scuri e ricci di madre, i suoi occhi marroni, le sue labbra carnose e il naso piccolo e dritto, aggiungendo il vestito, in quello specchio vidi lei, così presi quel pezzo di metallo affilato che credevo donasse felicità e mi feci due tagli profondi, per lungo, su entrambi i polsi. Non passò neanche un minuto che svenni.
Il resto è tutt'ora abbastanza confuso: ricordo le urla di Charles e, dopo qualche minuto, l'arrivo dei paramedici e il neon sul tetto dell'ambulanza. Mi risvegliai in ospedale, ero sola, ma un'infermiera mi disse che Theodore non mi aveva lasciata un secondo, si era allontanato giusto in quel momento per andare in bagno. Quando tornò mi abbracciò come se fosse un naufrago e io la sua salvezza. Parlammo e gli raccontai tutto: ormai era inutile nascondersi dietro un dito.
Alla fine del mio racconto mi consigliò di farmi aiutare; ero sempre stata testarda, ed ero convinta di potercela fare sempre da sola, ma quella volta mi resi conto che neanche un pazzo avrebbe detto 'no'.
Così, il giorno dopo le mie dimissioni dall'ospedale, mi apprestavo ad entrare in una clinica d cui sarei uscita solo un anno dopo.
Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui tornai 'libera': era una mattina soleggiata di Aprile e tutto mi sembrò eccessivamente bello. In clinica avevo capito che non era me stessa che odiavo, che quando mi tagliavo non lo facevo perche volevo farmi del male: volevo farlo a mia madre, ogni volta che vedevo qualcosa che me la ricordava mi ferivo, era lei, quella sera, che avevo visto nello specchio, lei quella a cui avevo tagliato le vene. Avevo anche ricominciato a mangiare, anche se non moltissimo, ma comunque un risultato.
Trovai mio padre ad aspettarmi nel parcheggio, per tornare a casa.
Stavo per salire in macchina quando mi specchiai nel finestrino della macchina: capelli castani, lisci, lunghi, occhi azzurri, naso dritto e labbra sottili. Adesso si che vedevo me stessa. Mi guardai come se non mi fossi mai vista veramente in vita mia e quello che vidi di più fu tutto il male che mi ero fatta a causa di quella donna; mi ripromisi quindi che mai più mi sarei fatta del male e che avrei continuato a tenere duro, che avrei combattuto ogni giorno per non ricadere nella trappola che mi aveva imprigionata 4 anni prima.
Due giorni dopo, sui miei polsi (in parte per coprire le cicatrici, in parte per ricordarmi ogni giorno quella promessa che avevo fatto) la scritta 'Keep Holding On' spiccava come petrolio sulla neve bianca.

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Capitolo 6
*** Litigi, scuse e novità ***


Prima di iniziare, vorrei dire che questo è un capitolo di passaggio, quindi niente di impegnativo (in realtà ho dovuto dividerlo perché stava venendo un pò troppo lungo). Con le chiacchiere non sono brava xD quindi vi lascio al capitolo. Buona lettura :)


Capitolo 6: Litigi, scuse e novità.

Ripresami dal mio viaggio mentale indietro nel tempo, tornai a casa come se avessi il diavolo alle calcagna.
Entrai in casa e seguii il vialetto fino alla porta del garage. Quando questa si fu aperta, entrai e lasciai l'auto in mezzo alla stanza, senza neanche parcheggiarla: il che per me era assolutamente strano; da questo quindi si poteva evincere il mio stato di assoluto schock.
Salii le scale del sotterraneo come un razzo e mi ritrovai in cucina in men che non si dica.
La signora Smith, incredula nel vedermi tornare così presto, mi chiese spiegazioni, ma io, che non sentii né il suo saluto né quello di Charles, non risposi e, salite le scale alla velocità della luce, mi chiusi dentro la mia stanza, sbattendo la porta.
Non uscii per tutto il giorno, né alcuno dei domestici, conoscendomi, mi venne a cercare. Sapevano che avevo bisogno di sbollire, qualsiasi cosa fosse successa, e sapevano che se non volevano morire prematuramente, non avrebbero dovuto disturbarmi. Saltai quindi colazione, pranzo e cena, ma i morsi della fame non si fecero sentire per tutto il giorno, nonstante non mangiassi dalla sera precedente.
Verso le 10 e 30 di sera, Nick, rientrato da poco dalla sia giornata 'romantica', salì in camera mia. Aveva un diavolo per capello, ma a me importava poco.
Mi trovò seduta ai piedi del letto a gambe incrociate a fissare la teca dentro la quale avevo fatto sigillare il pezzo di metallo che usavo per tagliarmi: era più un monito che un 'ricordo'.
«Mi spieghi perché stamattina non mi hai detto subito di essere al distretto?» disse lui quasi urlando.
Io non risposi. Ero persa in un mondo in cui nessuno, oltre me, era ben'accetto.
Notai con la parte di cervello ancora presente su questo pianeta, che la signora Smith e Charles erano entrambi sulla soglia della porta della mia camera, visibilmente preoccupati, ma non saprei dire se erano preoccupati per me e per il mio alquanto visibile momento di depressione, oppure per le sorti di Nick, che non sapeva quello di cui ero capace se ero incazzata.
«Macy, non sto scherzando! Abbiamo aspettato più di un'ora il tuo arrivo e quando, dopo la tua chiamata, ho detto a Tiffany che non saresti venuta c'è rimasta male!» esclamò scuotendomi per una spalla.
«...».
«Macy, vuoi rispondere, per le mutande di mia nonna? Tiffany stava quasi per mettersi a piangere quando non ti ha vista, l'hai sconvolta, crede di non piacerti!».
Venni distolta dai miei pensieri dalla sua ultima esclamazione. Ad occhi bassi e pugni chiusi lungo i fianchi, mi alzai e mi avvicinai lentamente a lui: «Lei è rimasta sconvolta?» sussurrai: «Io ho rivisto mia madre oggi, è la vedova Jennings adesso, e tu mi vieni a raccontare che quella stronza di un'oca rossa e per di più completamente cretina, è rimasta sconvolta? Perché non vai a farti un'altra scopata, Nick, e mi lasci qui da sola?» conclusi alzando gli occhi verso di lui.
Un lampo di comprensione attraversò i suoi occhi: «Io... mi dispiace».
«Non m'importa. Sparisci, non sono in vena di litigare con qualcuno, né tantomeno di farmi consolare da una persona che prova solo pena nei miei confronti» dissi rimettendomi seduta.
Forse ero stata un pò dura, ma raggiunsi l'effetto desiderato: lui non disse più una parola e uscì dalla mia camera.
Quando sentii la porta chiudersi, il nodo che avevo in gola si sciolse e senza che me ne accorgessi lacrime calde bagnarono il mio viso. Notai che non succedeva da dieci anni, prima di scivolare in un sonno senza sogni.
La mattina mi trovò ancora vestita e con gli occhi gonfi: ero uno spettacolo orribile. In compenso però avevo deciso di non farmi ostacolare da nessuno, né tantomeno da quella sottospecie di donna: non si meritava la mia considerazione.
Mi ricordai anche delle parole dette a Nick e i sensi di colpa mi assalirono: infondo lui non c'entrava niente in tutta questa storia.
Quindi mi cambiai i vestiti e, uscita furtivamente dalla stanza per evitare di incrociare qualcuno e dare spiegazioni, percorsi quella scarsa ventina di metri che mi separava dalla camera di Nick; non sapevo cosa gli avrei detto, non era mai stato da me scusarmi con qualcuno e adesso non sapevo dove sbattere la testa. Presi allora un bel respiro e bussai leggermente alla porta. Nick venne ad aprire qualche istante dopo, ancora in pigiama, ma apparentemente sveglio (e, in ogni caso, anche se non lo fosse stato del tutto, la mia vista lo aveva destato completamente).
«Macy, che ci fai qui?» chiese più sorpreso che arrabbiato.
«Io... beh, vedi, ieri io non... ecco...».
Accidenti a me e al mio 'nervosismo'.
Vedendomi in palese difficoltà, si fece da parte e mi fece entrare.
La stanza era leggermente più piccola della mia: sulla sinistra c'erano una scrivania, affiancata dall'armadio, e una poltrona nera, sopra la quale, appeso al muro, stava il televisore; sulla destra invece, c'era il letto a due piazze, affiancato da un comodino per ogni lato; appoggiata alla parete della porta, stava una cassettiera e, accanto ad essa, uno specchio a figura intera; la quarta parete, quella di fronte alla porta, era completamente in vetro e dava l'accesso ad un piccolo balconcino, tramite una porta sempre in vetro.
«Io sono venuta per parlare di ieri sera» dissi senza distogliere lo sguardo dalla vista panoramica che si aveva dalla camera.
Lui chiuse la porta e, dal rumore, capii che si era seduto sul letto.
«Ok, ti ascolto».
'Puoi farcela, tira fuori le palle' disse una vocina nella mia testa.
«Come avrai già ampiamente capito, io non ho un buon rapporto con mia madre e ieri sera ero parecchio... sconvolta, ecco, quindi forse sono stata un pò brusca e non volevo».
Mi voltai e lo vidi sorridere: ma che si rideva? Io mi stavo impegnando con tutta me stessa e lui rideva?
Lo guardai con entrambe le sopracciglia alzate: «Mi stai chiedendo scusa?» chiese ridendo.
«No! Io sto... cercando di chiarire la mia reazione di ieri, tutto qui e ammetto che forse, magari, probabilmente, è alquanto possibile che io sia stata un pò acida e dura e per niente gentile».
«Ok, scuse accettate» disse alzandosi e sorridendo.
«Ok, bene! Io vado a...» tentai di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa: «Vado!» esclamai, dopo qualche secondo.
Avevo quasi raggiunto la porta, quando la sua voce mi fermò: «Dovrai raccontarmi tutto, lo sai questo vero? E non parlo solo del caso e di quello che ti ha detto Lewis ieri».
«Si lo so» dissi uscendo e chiudendomi la porta alle spalle.
'E questa è fatta' pensai, espirando rumorosamente.
«Macy, stai bene? Ieri mi sei sembrata parecchio sconvolta» chiese Charles, che aveva appena girato l'angolo del corridoio.
Guardai la porta su cui ero appoggiata fino a qualche istante prima: «Adesso va meglio, Charles, non preoccuparti» dissi riportando gli occhi sul maggiordomo.
«Sono contento» rispose lui sorridendo.
Detto questo andò avanti per la sua strada, mentre io scesi al piano di sotto, pronta per affrontare le domande della signora Smith.
Entrai in cucina con calma, mettendo prima dentro la testa: una volta che mi fui accertata che la signora Smith non ci fosse, entrai del tutto e mi sedetti a tavola.
Davanti alla colazione, già pronta in tavola, non cambiai espressione: come al solito non sentivo la fame e mangiavo solo perché ero obbligata.
Ero già seduta da cinque minuti a fissare immobile la mia colazione, quando scese anche Nick.
Lui mi sorrise debolmente e poi, come se niente fosse successo, cominciammo a parlare, con la TV accesa a fare da sottofondo: lo stavo aggiornando su quello che Lewis mi aveva detto in macchina il giorno prima, quando entrò la signora Smith: «Tutto qui?» chiese Nick.
«Si, tutto qui. Ti sembra strano, vero?» chiesi, notando la sua espressione crucciata.
«Si mi sembra parecchio strano. Infondo io, se mia moglie fosse scomparsa da una settimana, denuncerei subito l'accaduto, anche solo per non far sospettare di me» asserì lui.
«Comunque non credo sia il momento di preoccuparsi ora, ne parleremo con Lewis quando andremo al distretto oggi. A proposito ho trovato la spazzola che cercavi la settimana scorsa. Era nel cassetto del bagno» ribattei.
Quell'ultima parola fu la nostra -quasi- condanna a morte.
La signora Smith si drizzò come un automa, allontandosi dai fornelli e si avvicinò rigida come un palo al tavolo, dove io e Nick eravamo ancora seduti: lì per lì nessuno dei due capì il suo strano comportamento, ma poi lei parlò.
«Come va con il bagno allagato, ragazzi?» chiese sospettosa.
Entrambi sbiancammo a quell'uscita della donna e deglutimmo sonoramente, dopo esserci guardai in faccia per qualche istante.
«Oh, ehm, bene!» esclamò Nick, simulando un sorriso.
«Ah. Bene. E quand'è che avreste asciugato tutto e riparato la conduttura rotta?».
«P-prima di andare via» la mia, suonò più come una domanda, che come una risposta.
«Ovviamente in meno di tre minuti! Avreste un futuro come idraulici, ragazzi» esclamò sarcastica la signora Smith.
«Grazie» disse Nick, fissando il suo caffé, non avendo il coraggio di guardare la signora Smith negli occhi.
«Scoprirò cosa state tramando, ve lo assicuro» sibillò minacciosa la donna.
Alla 'velata' minaccia, Nick si soffocò quasi con il caffé, invece io la sentii a malapena, mentre mi alzavo di scatto dalla sedia per andare alla ricerca del telecomando della TV.
«State zitti! Litigherete e/o vi minaccerete dopo!» esclamai, mentre alzavo il volume.
«... sotto la sabbia di Malibù, stamattina presto; gli inquirenti hanno provveduto a disseppellire il cadavere...» diceva la cronista del telegiornale, mentre le immagini scorrevano.
«Hai visto?» chiesi a Nick.
«Si, un morto a Malibù e allora? Trovano morti ogni giorno, Macy, soprattutto in una città grande come questa» rispose lui.
«Si, ma quanti di loro hanno un tatuaggio sulla schiena come quello di Jennings?» chiesi tentando di tornare indietro nella registrazione.
Per fortuna la televisione, se accesa, registrava tutto e si poteva tornare indietro e rivedere, ogni volta lo si desiderasse.
«Cosa?!» chiese incredulo.
«Guarda!» dissi indicando la schiena del cadavere, quando finalmente riuscii a bloccare la registrazione.
«È assurdo! Adesso i cadaveri sono due».
«Già!» esclamai, adesso che me lo aveva fatto notare: «E Lewis non mi ha ancora chiamata!» sibillai indignata.
«Doveva disseppellire un cadavere alla spiaggia di Malibù, è stato leggermente occupato» disse Nick conciliante.
«Ma non ci vuole molto a scrivere un SMS o a fare una telefonata».
Presi quindi il cellulare e digitai il numero del distretto.
«Dipartimento centrale di polizia di Los Angeles, come posso esserle utile?» disse una voce di donna dall'altra parte della cornetta.
«L'ispettore Lewis, me lo passi» ordinai, per niente gentile.
La donna dall'altro lato ignorò il mio tono e rispose: «L'ispettore non c'è, ma può richiamare dopo se le va».
«Allora prenda un messaggio lei».
«Mi dica» disse scocciata la donna.
«Lo consegni direttamente all'ispettore appena rientra e scriva queste esatte parole: avrebbe potuto benissimo chiama...».
Con l'orecchio libero, sentii Nick andare alla porta e far entrare qualcuno; dalla pesantezza dei passi, ipotizzai fosse l'ispettore, quindi mi affrettai a chiudere la conversazione: «Non importa, ho trovato quello che cercavo».
«Ma...» tentò di ribattere la donna al telefono.
Non le diedi neanche il tempo di finire che chiusi la chiamata.
«So che non avrei dovuto presentarmi, magari lei non vorrà più collaborare alle indagini, ma io ho bisogno di sapere se è così» disse l'ispettore appena mi vide.
«Sono sicuro vorrà ancora collaborare» disse Nick sommessamente, mentre gli sfuggiva una risatina.
Io gli lanciai un'occhiata che, se avesse potuto, avrebbe carbonizzato qualsiasi cosa nel raggio di chilometri.
«Non mi lascerò condizionare l'esistenza mai più, da nessuno, quindi perché non dovrei collaborare?».
«Qualcuno direbbe per eccessivo coinvolgimento, ma visto che è già informata della nuova scoperta,» disse Lewis, indicando l'immagine dell'uomo alla TV: «Non vedo perché non debba chiudere un occhio e dirle di venire con me» concluse.
«Andiamo, allora. Nick, vieni?» domandai girandomi verso il diretto interessato.
«Si certo» disse lui, mentre spegneva la televisione.
Salimmo sull'auto della polizia e, con le sirene spiegate, arrivammo in dieci minuti.

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Capitolo 7
*** Numeri ***


Capitolo 7: Numeri.

Arrivati al distretto, Lewis non si fermò all'entrata principale, ma continuò dritto, fino ad arrivare al parcheggio riservato alle volanti della polizia.
Il parcheggio era molto grande e vi erano parcheggiate circa quindici auto, ma i posti auto vuoti erano altrettanti.
Scesi dall'auto, l'ispettore ci pilotò attraverso corridoi, scale e stanze, fino ad arrivare al piano in cui erano situati gli uffici.
Quel giorno il distretto era un via vai di gente: evidentemente il secondo cadavere aveva fatto fermentare gli animi di tutti.
«Sedetevi, vi aggiorno sulle ultime novità, ragazzi... oh grazie, Albert» disse Lewis prendendo una cartella verde chiaro che gli veniva porta da un agente: «Allora,» continuò: «Stamattina, due ragazzi si sono recati a Malibù, per fare surf».
«Perché quella smorfia, ispettore? Non le piace il surf?» dissi ridendo, quando notai l'espressione disgustata di Lewis.
«No, ma tralasciando il mio 'amore' per il surf, mentre andavano verso il mare, uno di loro è inciampato e si sono accorti di un braccio che sporgeva leggermente dalla sabbia e hanno chiamato noi».
«Quindi o era seppellito in profondità o è stato seppellito ieri» notai.
«Come fai a dirlo?» chiese Nick.
«Lo dico perché il vento di queste ultime settimane ha spostato molto la sabbia, ergo il cadavere era in profondità e il vento lo ha 'riportato in superficie' o era lì da ieri al massimo, per non dire stanotte, e non è stato seppellito in profondità di proposito».
«Beh, in effetti...» concordò l'ispettore.
«Ma perché seppellirlo in un posto come Malibù? Voglio dire ci va un sacco di gente a Malibù, ogni giorno. Se non lo avessero trovato quei due lo avrebbe fatto qualcun'altro» disse Nick pensieroso.
«Magari volevano fosse trovato. Come fosse un avvertimento» ipotizzò l'ispettore.
«Posso parlare con i due ragazzi?» chiesi all'ispettore.
«Certo, ma non credo ne ricaverà molto di più di quello che abbiamo ricavato noi. Non hanno molto da dire. In ogni caso, sono laggiù» rispose Lewis, accennando a due ragazzi che, nella sala caffé del distretto, parlavano tra di loro alla presenza di un agente.
Mi alzai e l'ispettore mi bloccò: «Ma non vuole almeno sapere i loro nomi? O a che ora hanno trovato il corpo? Non credo che le diranno molto: dopo la prima mezz'ora di domande, si sono stancati di parlare e hanno detto che avrebbero parlato solo dopo che li avremmo riportati a casa».
«Si fidi ispettore, a me diranno tutto, anche quello che non hanno detto a voi».
«Se vuole provare a 'sedurli', Cullen, la avverto sin da ora che non ci riuscirà: li abbiamo già fatti parlare con Barbara, l'agente più bella del distretto, e neanche lei è riuscita a cavare un ragno dal buco. Quelli sono due ragazzini con un pò di addominali».
«Non era nelle mie intenzioni ispettore» dissi ridendo della sua ipotesi, mentre mi allontanavo.
Raggiunsi la sala caffé, dove erano stati fatti accomodare i due ragazzi; era una stanza piccolina dove, oltre a quella dalla quale ero entrata io, c'era un'altra porta; a destra, il muro era occupato da un piccolo frigorifero, da un ripiano e da una credenza, oltre che dalla macchinetta del caffé; la parete a sinistra, invece era costituita da vetrate che permettevano di vedere la stanza con le scrivanie degli agenti. Al centro c'era un tavolino con 4 sedie disposte attorno, delle quali due erano occupate da due ragazzi.
Mi affacciai alla porta e bussai leggermente allo stipite, schiarendomi la voce: «Buongiorno agente, mi perdoni, posso scambiare anche io due parole con loro?» chiesi accennando ai due ragazzi.
«Certo, signorina Cullen, si accomodi» disse l'agente gioviale.
«Grazie» dissi sorridendo, mentre mi sedevo ad una delle sedie libere.
I due ragazzi mi guardavano come se fossi stata un alieno: erano entrambi sui venticinque anni, forse meno. Quello seduto a sinistra, era bruno, con i capelli ricci e gli occhi chiari, alto e con qualche muscolo che si intravedeva da sotto la maglietta; il suo amico, seduto a destra, era leggermente più basso, aveva i capelli lunghi, raccolti in un codino alla base della nuca e neri, proprio come gli occhi. La carnagione di entrambi era chiara, nonostante la leggera abbronzatura. Indossavano entrambi dei pantaloncini da spiaggia e delle magliette a maniche corte.
«Sei una poliziotta?» mi chiese quello con il codino, diffidente.
Io sorrisi: «No, anzi detto tra noi, qui dentro mi prenderebbero benissimo a calci se potessero. La cosa più gentile che mi sono sentita dire è 'Fuori dai piedi, Cullen'» dissi imitando la voce dell'ispettore.
«E allora cosa sei?» chiese l'altro.
«L'assistente, dell'assistente, della tirocinante affidata all'agente Jackson. In poche parole, l'ultima ruota di scorta del carro» dissi fingendomi sconsolata.
«E perché sei qui? Noi abbiamo già detto tutto» disse il ragazzo.
«Vedete, a noi 'ruote di scorta', viene assegnato il compito di raccogliere le deposizioni e di archiviarle. Gli agenti più anziani, quelli con cui avete parlato, non vogliono darci i loro appunti per stendere i rapporti, perché secondo loro dobbiamo ancora 'forgiraci il carattere', di conseguenza, noi poveri sfigati dobbiamo andarci a raccogliere le deposizioni di tutti e poi... nessuno vuole parlarci perché si sono seccati di ripetere le stesse cose o gli agenti più anziani ci danno appunti sbagliati per farci fare brutte figure con i testimoni e farci fare la figura dei fessi» dissi l'ultima parte del racconto quasi piagnucolando e rendendomi praticamente ridicola.
Ma il gioco valeva la candela, infatti, con la mia recita, riuscii nell'ardua impresa di scalfire i loro cuori perché il moro, quello con il codino, mi mise una mano sulla spalla e disse: «Hey, su non fare così, deve essere un lavoro difficile il tuo, non preoccuparti, ti diremo tutto quello che vuoi sapere» concluse sorridendo.
«Da-davvero?» dissi tirando su con il naso.
«Si, domanda e ti risponderemo».
«Grazie» sorrisi: «Probabilmente mi avranno dato delle informazioni sbagliate, quindi perdonatemi se dico qualche cretinata e per favore, non ridete».
«Sta tranquilla» rispose quello con i capelli ricci.
«Allora, mi hanno detto che il tuo nome é Jack» dissi indicando il tipo con i ricci: «E il tuo Danny, giusto?» chiesi indicando l'altro.
«Veramente, noi siamo Steve e Carl» disse quello con il codino, indicando prima l'amico e poi sé stesso.
«Ecco, appunto... perdonatemi» dissi abbassando gli occhi.
«No, non preoccuparti, anche noi fanno degli scherzi».
«Grazie. Ehm, allora voi siete arrivati a Malibù alle nove del mattino, vero?».
«Veramente siamo arrivati alle sei, alle nove è già tardi per fare surf, c'è troppa gente in spiaggia» e poi, vedendo che stavo già cominciando ad incupirmi per fingere la delusione di un'altra brutta figura, riprese: «Se vuoi ti diciamo noi come sono andate le cose, così puoi scrivere tutto» si affrettò a dire Carl.
«Grazie, ragazzi, siete due angeli».
Mi guardano con un'espressione da pesce lesso, che mi fece temere gli si fosse fuso il cervello. Notando che non smettevano di fissarmi, mi schiarii la voce.
«Ok, ehm, allora» riprese Steve: «Siamo arrivati a Malibù verso le sei e trenta, perché ci siamo svegliati tardi, sai non abbiamo una ragazza che ci svegli» disse con la stessa espressione di poco prima.
'Santissimi numi' pensai.
«Ehm, si... certo... quindi siete arrivati e poi?».
«Il tempo di indossare le tute e ci siamo avviati con le tavole verso il mare, ma Steve è inciampato e dopo aver capito che c'era qualcuno sotto la sabbia, abbiamo chiamato la polizia».
«Capisco. Avete notato la presenza di qualcuno in spiaggia?».
«In realtà, non c'era nessuno e siamo rimasti un pò perplessi: di solito i surfisti ci sono, specialmente in questo periodo che il vento è stato magnifico» disse Carl.
«Quando lo avete trovato, il corpo era a faccia in giù?».
«Si esatto; non abbiamo avuto il tempo di notare molto, eravamo davvero... scioccati, ecco».
«Capisco. Beh, ragazzi, grazie mi siete stati davvero d'aiuto» dissi sorridendo e alzandomi.
«Aspetta, che ne dici di andare a fare un giro, qualche volta... ehm...».
«Macy, mi chiamo così. Steve».
«Ok, Macy, che ne dici?».
Notai Lewis e Nick alla porta, che mi guardavano; per l'esattezza, Lewis mi stava guardando, Nick mi fulminava con lo sguardo, come se mi stesse sfidando ad accettare la proposta dei due ragazzi.
Con un ghigno dissi: «Ma certo, anzi vi lascio il mio numero, così potrete chiamarmi, anche se vi venisse in mente qualcosa sul caso».
Scrissi il mio numero con l'ultima cifra sbagliata (0011-5539-7482 anziché 0011-5539-7486) e lo porsi a Carl, dopodiché uscii dalla stanza, andando incontro a Lewis e un incredulo Nick.
Quest'ultimo mi strattonò per un braccio, meno di un secondo dopo la mia 'trionfale' uscita: «Che diavolo combini?».
«Di che parli?».
«Hai dato il tuo numero a quei due?».
«E se anche fosse? Qual è il tuo problema?».
«Non li conosci neanche!» alzò lui la voce.
«Li conoscerò» dissi alzando una spalla.
«Come fai a sapere se puoi fidarti di loro?».
«Gli ho dato il mio numero di telefono non il mio codice bancario, dove sta il pericolo? E poi a te che importa?».
«Sono estranei, in questo sta il pericolo e a me importa perché sei la mia... amica» disse esitando sull'ultima parola.
«Il tuo senso di protezione nei miei confronti, mi lusinga, ma non ne ho bisogno, so badare a me stessa! Quindi fatti i cavoli tuoi, anchio ho una vita sociale, cosa credi?».
«Se avete smesso di litigare, io andrei dal medico legale che ha appena chiamato, che ne dite?» si intromise Lewis.
«Si andiamo» dissi lanciando un'ultima occhiata a Nick.
Lui non disse più una parola e seguì in silenzio l'ispettore, proprio come me.
Scendemmo in obitorio per la seconda volta: adesso la vecchia del primo tavolo era sparita e, al suo posto, c'era un uomo sulla cinquantina, sul tavolo accanto c'era un corpo ancora coperto dal lenzuolo e sul terzo il nostro uomo.
«Bentornati! In una situazione diversa, direi di essere contento di riverdervi» esordì il dottore: «Spero che il nostro amico qui non si secchi troppo se parliamo di lui! Capita?» disse sorridendo nella nostra direzione e ridendo a quella che credeva essere una battuta divertente.
«Andiamo... 'spero non si secchi' lui è già secco... ok, non l'avete capita» disse facendo sparire il sorriso, dopo aver notato le nostre espressioni.
«Greg, non abbiamo molto tempo, quindi se volessi iniziare» tagliò corto l'ispettore.
«Si certo» il medico si schiarì la voce e continuò: «La causa della morte è asfissia, anche se mi ci è voluto un pò e parecchie consulenze per arrivare a questa conclusione; per quanto riguarda l'essiccamento, la disidratazione dei tessuti è dovuta al calore trasmesso dalla sabbia al corpo durante il giorno. A giudicare dallo stato di disidratazione, la morte è avvenuta più o meno un mese fa, di conseguenza questo è il primo cadavere e quello di Jennings il secondo; questo tizio ha lo stesso tatuaggio di Jennings sulla schiena e, non solo riporta gli stessi graffi e gli stessi tagli di quello di Jennings, ma gli è stata asportata anche la stessa porzione di pelle, vicino al manico del pugnale».
«Tutto qui?» chiese Lewis.
«Si, non ci sono segni di percosse e gli esami tossicologici sono impossibili da effettuare, a causa di questo» disse provando a sollevare un braccio.
Il braccio essiccato di spezzò e il dottore continuò: «I miei ragazzi hanno dovuto usare tutta la loro delicatezza per caricarlo sul furgone e non ti dico a che velocità abbiamo camminato! Una vecchietta ci ha sorpassati con la macchina urlandoci che stavamo andando troppo piano» disse il medico accennando prima al solito gruppo di sfigati e poi stampandosi in faccia un'espressione sbigottita.
«E adesso questo come lo identifichiamo? Non possiamo fare come per Jennings a questo l'unica cosa rimasta della faccia sono i denti e non sono neanche tanto apposto!» esclamò Lewis rivolto più a sé stesso che a noi.
«Se posso intromettermi, Tom» disse il medico: «Devi sapere che, dai corpi essiccati, lasciati in immersione per qualche ora, in una soluzione di idrato di sodio che reidrata le parti molli delle dita, si possono ottenere le impronte digitali. Quindi ve le farò avere quanto prima».
«Davvero puoi farlo? Sei un genio Greg. Fammi sapere al più presto» esclamò l'ispettore che stava lentamente guadagnando l'uscita insieme a Nick.
«Aspettate!» esclamai facendo segno all'ispettore e al medico di avvicinarsi: «Che diavolo significa questo numero?» dissi indicando due cifre impresse a fuoco sul tallone della nostra 'mummia'.
Entrambi si avvicinarono: «Non lo avevo notato» disse il medico.
Il piccolissimo segno, ristrettosi a causa della disidratazione della pelle, che stava sfuggendo anche a me, era posizionato al centro del tallone della vittima.
«Il numero undici? Che significa?» chiese Nick.
«Pensavamo Jennings fosse un affiliato di qualche setta, magari lo aveva anche lui un numero così, potrebbe essere un codice» riflettei.
«Fotografalo Greg e facci sapere se anche Jennings ne aveva uno» disse Lewis.
Stavamo per tornare ai piani superiori quando i tre sfigati di prima mi vennero vicini con un'espressione speranzosa sul viso; se speravano che io uscissi davvero con loro la risposta era una sola: «No, no e no» dissi intuendo i loro pensieri e indicando uno di loro ad ogni 'no'.
«Ma...» provò a ribattere quello che sembrava più giovane.
«No» sibillai minacciosa.
Con la coda tra le gambe tornarono tutti e tre ai loro cadaveri e io mi affrettai a raggiungere Lewis e Nick.

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Capitolo 8
*** Ok, niente ladri ***


Bonjour a tous :) con un giorno di anticipo rispetto al previsto, dati i miei improrogabili impegni con la spiaggia e il mare, eccovi il nuovo capitolo. Buona lettura :D



Capitolo 8: Ok, niente ladri.

Uscimmo dal distretto con più domande e più dubbi di prima: perché i numeri? Che significavano? Se stavamo avendo a che fare con un qualche tipo di setta o di banda, di che si occupava? Era una setta a livello locale o dovevamo rivolgerci a qualcuno più in alto nella scala gerarchica per avere informazioni? Erano molti i membri?
Le domande senza risposta erano aumentate di giorno in giorno, da quando avevamo scoperto il cadavere di Jennings.
«Taxi!» chiamai alzando un braccio, appena raggiungemmo la strada.
Un tassista si fermò poco più avanti e io e Nick salimmo in silenzio: «353 San Vicente Boulevard, Santa Monica, per favore» dissi al tassista.
Il tassista annuì rigido e premette un pulsante sul cruscotto, quello che credetti essere il tassametro. Passammo una parte del viaggio in silenzio, poi Nick disse: «Mi sembri pensierosa».
«Lo sono: i cadaveri sono già diventati due e noi non abbiamo idea di dove sbattere la testa. Se ne venisse trovato un altro o se qualsiasi tipo di informazione trapelasse, i media assalterebbero il distretto, le forze di polizia e, se si sapesse che collaboriamo alle indagini, anche noi; di conseguenza, se abbiamo a che fare davvero con una società che opera nell'ombra far sapere all'intera California che siamo immischiati in questo casino, non sarebbe un bene».
Alle mie parole il tassista, che si era rilassato appena partiti dal distretto diretti a casa, si era irrigidito: pover'uomo, infondo non era cosa di tutti i giorni sentire i nostri discorsi; suggerii quindi a Nick di chiudere il separatore che divideva i sedili posteriori, su cui eravamo seduti, da quelli anteriori.
«Hai ragione, ma per ora non lo sa nessuno e possiamo continuare le nostre indagini con calma» disse Nick.
Io alzai una spalla: «In ogni caso, siamo lontani dalla risoluzione del caso: non abbiamo alcun tipo di indizio, a parte le impronte del vicolo dove è stato trovato Jennings che potrebbero essere di chiunque, i numeri sotto i piedi delle vittime che potrebbero significare tutto o niente e i modi in cui sono morti».
«Possiamo seguire la traccia dell'azoto liquido» consigliò Nick.
«L'azoto liquido si compra anche al supermercato. Dato che viene usato anche in cucina, non ci vogliono permessi speciali per ottenerlo e le diverse transazioni non sono quindi rintarcciabili. Siamo in un vicolo cieco, accettalo» dissi scendendo dall'auto.
Lui fece lo stesso e, percorso il vialetto d'entrata, prese le chiavi dalla tasca e aprì la porta.
«Grazie, tenga il resto» dissi al tassista attraverso il finestrino.
Diedi le spalle al tassista e raggiunsi Nick in casa.
Lo sentii sbuffare dalla cucina: «Hey che succede?» dissi mettendo la testa dentro.
«La signora Smith ha lasciato la finestra aperta» disse Nick camminando per andare a chiuderla.
«La finestra aperta? Strano di solito le chiude sempre tutte» affermai.
Mi guardai intorno alla ricerca della donna o di qualcosa fuori posto, ma niente sembrava spostato.
«Magari l'ha lasciata aperta apposta, per far cambiare l'aria» disse Nick alzando una spalla.
Mi affacciai dalla suddetta finestra e mi guardai intorno, finché sul terreno ancora bagnato dagli annaffiatoi, non vidi due orme, troppo grandi per essere della signora Smith e troppo piccole per essere di Charles: se io e Nick eravamo rimasti fuori tutto il giorno c'era qualcosa che non andava.
Notai che c'erano solo impronte rivolte verso la finestra e non verso il cancello d'uscita.
«Nick, credo di aver lasciato l'agenda in macchina l'altro giorno, ti seccherebbe andarla a prendere? Non vorrei perdere tutti i dettagli del caso che ci sono dentro» chiesi continuando a guardare fuori dalla finestra attentamente.
«Mi spieghi come fai a dimenticare sempre tutto?».
«Genetica credo. Lo fa anche mio padre» ribattei ansiosa.
«Ok, ok vado» disse incamminandosi verso i sotterranei.
Io aprii un cassetto della cucina e tirai fuori un coltello: di solito usavo gli altri per giocare al tiro a bersaglio, ma la situazione adesso era diversa; se le orme erano rivolte verso la finestra solamente e non verso il cancello, vuol dire che l'intruso era ancora in casa.
Doveva essere un uomo di circa un metro e settantacinque, probabilmente bianco.
Sperando che Nick non smettesse di cercare la mia agenda, che in realtà non era mai esistita dato che tenevo a mente tutto, in macchina, aprii lentamente la porta della cucina, che si affacciava quasi direttamente nel salotto.
L'uomo poteva essere un qualsiasi ladro e quindi sarebbe andato a cercare una qualunque porta chiusa a chiave, credendo che i 'tesori' fossero lì, oppure avrebbe preso un qualsiasi oggetto, anche se non di grandissimo valore.
Guardai i soprammobili più costosi del salotto: non erano stati toccati.
'Ok, niente ladri' pensai.
Avanzai guardinga fino al divano e mi abbassai dietro la spalliera, quando sentii dei passi risuonare per le scale, pregando fosse Charles o la signora Smith così avrei potuto mandarli via.
Sbirciai oltre il divano e, come avevo previsto, un uomo bianco, sulla cinquantina e alto più o meno un metro e settanta, camminava guarandosi intorno alla ricerca di qualcuno che potesse nuocerli.
Ringraziai per una volta tutti i santi del paradiso per avermi donato la mia bassa statura e nascosta in silenzio, aspettai che l'uomo passasse vicino al divano per stendere la gamba e farlo inciampare.
Purtroppo, dovetti anche bestemmiare quegli stessi santi, che un minuto prima stavo ringraziando, per aver fatto spuntare Nick dalla cucina, un secondo prima che l'uomo inciampasse nel mio piede: «Non c'è nessun tipo di agenda in macchina, Macy... anzi, adesso che ci penso, io non ti ho mai visto usare...» disse Nick guardandosi i piedi e alzando poi lo sguardo: «...un'agenda» concluse guardando l'uomo che in un attimo gli fu addosso.
L'intruso mollò un pugno sul naso di Nick, che stese quest'ultimo in meno di un batter d'occhio e, credendo fosse finita, cominciò a correre verso la finestra della cucina ancora aperta.
Con l'intenzione di mutilarlo, strappandogli un orecchio, o ferirlo gravemente, prendendo una vena principale, tirai il coltello con la punta in avanti, ma tutto quello che riuscii a fare fu sfiorarlo, facendo così in modo che si accorgesse anche di me: lui si voltò e, prima di uscire dalla finestra con un solo balzo, ghignò nella mia direzione, con un'espressione indecifrabile sul volto.
Dopo che fu uscito, mi affacciai alla finestra, non prima di aver staccato il coltello dal muro in cui si era conficcato, per accertarmi se ne fosse andato e poi tornai correndo verso Nick che era ancora riverso sul pavimento sanguinante: «Nick, guardami, sono io, sono Macy, mi riconosci?» dissi scuotendolo con forza.
«Mamma, ciao! Com'è l'Italia?». Wow, la botta doveva essere stata davvero forte!
«No, Nick, non sono tua madre e tu devi avere una commozione celebrale, vieni ti porto in ospedale».
Effettivamente quando era caduto aveva dato una testata allo stipite della porta, ma non credevo gliel'avesse data così forte!
«Io non voglio andare all'ospedale... ba bù» disse mentre lo aiutavo a rimettersi in piedi, facendo le smorfie che si fanno ai bambini piccoli per farli ridere.
Mi credeva una bambina? Santissimi numi!
«Come ti ho già detto, io sono Macy, non una bambina e se non vuoi andare all'ospedale, allora ti porto...» mi interruppi mentre pensavo: «Al lunapark» conclusi sperando di convincerlo a salire in macchina, rimanendo in tema 'bambini'.
«Ok...» mormorò prima di accasciarsi su di me.
Accidenti alla mia bassa statura e maledetto chi me l'aveva appioppata!
Caddi per terra con lui -svenuto- di sopra a schiacciarmi: «Porco cazzo, Nick, ma quanto pesi?!» ansimai cercando di prendere aria.
Rotolai su un fianco ribaltando la situazione, dopodiché mi alzai e lo afferrai da sotto le ascelle: in qualche modo dovero pur portarlo fino in macchina, no? Oppure potevo chiamare un'ambulanza. Mi diedi della stupida per non averci pensato prima e cominciai a cercare il telefono come una dannata.
Alla fine lo trovai nella borsa, in mezzo a un mucchio di stronzate varie, e composi il numero d'emergenza.
Mi rispose una voce di donna: «911, qual è la sua emergenza?».
«Un uomo si è introdotto in casa mia e ha colpito il mio amico che credo abbia una commozione celebrale, mandate all'istante un'ambulanza» dissi in preda al panico, vedendo che Nick non si riprendeva.
«Può fornirci una descrizione dell'uomo?».
«Ve la do dopo una descrizione dell'uomo, mandate una fottutissima ambulanza!!» urlai.
«Mi dica il suo nome e i suoi dati anagrafici, dobbiamo inserirla nel database» disse la donna con calma.
«Mi sta per caso prendendo per il culo? Vaffanculo lei e i suoi stramaledettissimi computer!» urlai isterica mentre riattaccavo.
Tirai quindi il telefono in un luogo a caso alle mie spalle e riafferrai Nick -ancora incosciente- per le ascelle cominciando a tirarlo verso le scale della cucina.
Arrivata lì mi posi il problema di come avrei dovuto tirarlo fin lì sotto e, senza pensare troppo, cominciai a scendere le scale al contrario, trascinandomi Nick dappresso.
Ad ogni gradino che scendevamo, lui sbatteva la schiena contro la pietra dei gradini e io gli chiedevo 'scusa'.
Poteva anche sembrare una scena comica se non fosse stato che avevo un moribondo tra le mani.
Arrivati alla fine in macchina, riuscii a sollevarlo quel tanto che bastava a farlo entrare nella Porsche color panna: avevo provato ad 'issarlo' sul SUV per farlo stare più comodo, ma io sono alta uno e sessantacinque circa, lui più di un metro e ottanta, e ancora non faccio magie.
Quindi appena il garage si aprì partii sgommando e passai con il rosso a 210 km/h in circa cinque semafori.
Ogni tanto, quando sembrava si stesse riprendendo cominciavo a chiamrlo per nome, sperando mi riconoscesse, ma tutto era inutile, visto che era bello che andato.
Arrivai all'ospedale e, dopo aver parcheggiato nel posto riservato alle ambulanze, entrai chiedendo di un medico competente e di due infermieri che mi aiutassero a tirare Nick fuori dall'auto.
Gli infermieri lo presero e lo deposero delicatamente su una barella. Cominciarono a camminare a passo svelto lungo il corridoio e io gli correvo dietro, tentando di tenere Nick sveglio, mentre un dottore mi faceva delle domande riguardo le sue condizioni. Quando passarono le porte, che facevano accedere all'ala dell'ospedale riservata ai dottori e al personale, mi bloccai sulla soglia della porta, continuado a guardare, oltre i vetri e con sguardo assente, il gruppetto di persone attorno a Nick che si allontanava.
«Ma perché non ha chiamato l'ambulanza?» mi disse una donna seduta vicino alla porta.
«Come fa a sapere che non è arrivato con l'ambulanza?».
«Forse lei non se n'è accorta, ma quando è entrata ha cominciato ad urlare, non a parlare ad alta voce» disse la donna con voce canzonatoria: «Non è un atteggiamento che si addice ad una signorina».
L'avrei picchiata: giuro che in quel momento l'avrei picchiata.
«Mi scusi, ma a lei che diavolo importa del mio atteggiamento? Si faccia i cazzi suoi piuttosto e guardi che l'unico problema di suo figlio è la madre, che lo lascia giocare in mezzo al fango e non lo tiene d'occhio!» scattai inviperita.
«Come fa a sapere che...».
«Come faccio? È chiaro come il sole che è qui perché suo figlio ha cominciato a vomitare senza sosta! Se lei lo tenesse d'occhio, il marmocchietto non mangerebbe il fango e non gli verrebbe un'indigestione tale da dover costringere i medici a sprecare risorse e soldi della comunità, per fargli una lavanda gastrica. E prima che me lo chieda, si vede dai suoi vestiti sporchi di vomito e fango e da tutti i fazzoletti di carta pieni di moccio che ci sono vicino a lei. Inoltre so che è un maschio, perché una bambina non mangerebbe mai del fango e quindi lei non sarebbe qui se avesse avuto una figlia femmina!» conclusi.
La donna mi guardò come se mi fosse spuntata una seconda testa che in quel momento stava per divorarla e, pallida e con gli occhi sgranati, si allontanò correndo, girando la testa ogni tanto per controllare che non la seguissi per accopparla.
Mi lasciai cadere sulla sedia dell'ospedale come se tutte le energie fossero fuggite via con quella signora. Andai anche per prendere il telefono, ma mi ricordai di averlo lanciato nel salotto probabilmente, dopo la chiamata al 911.
'Che tu sia maledetto 911!' pensai in un momento di stizza.
Passai le seguenti 4 ore aspettando che mi dessero notizie, ma nessuno si degnò di farmi sapere qualcosa sulla salute di Nick.
Mi domandai che ore fossero e ripercorsi tutta la giornata: verso le dieci, Lewis era piombato in casa nostra; avevamo, quindi, passato circa 3 ore al distretto e poi eravamo tornati a casa, dove la nostra sopresina ci attendeva; considerando inoltre che erano passate circa 4 ore buone da quando ero arrivata all'ospedale con Nick, direi che erano più o meno le sette e mezza di sera.
Sbuffando come una locomotiva a vapore, mi alzai e cominciai a camminare avanti e indietro per il corridoio: chi diavolo era quell'uomo? Se non era un ladro -perché ero sicura non fosse un ladro- che stava cercando in casa? E perché non era armato? Pensandoci in effetti, se dovessi commettere un'effrazione, porterei con me almeno un'arma, per difendermi in caso le cose andassero storte. E come me credo farebbe chiunque.
In quel momento interrompendo la fiumana di pensieri che dilagavano liberi nella mia testa, un medico uscì dalla zona d'emergenza: «Black?» chiese ad alta voce.
Io mi girai e gli andai incontro: «Io! Cioé, il mio nome è Cullen, ma sono la sua migliore amica, i suoi genitori sono dall'altra parte del mondo» balbattai confusa.
«Mi segua, signorina» disse il medico indicandomi il corridoio oltre la porta.
«Allora? È grave?» chiesi ansiosa mentre camminavamo.
«No, il naso era rotto, ma quello tornerà a posto in un pò di tempo, per quanto riguarda il resto, aveva una piccola lesione alla parte anteriore del cranio dell'emisfero...».
«Dottore, mi perdoni, ma io non capisco un accidente di quello che dice, mi devo preoccupare?».
«No, non deve assolutamente preoccuparsi, ma il paziente rimarrà qui per accertamenti per qualche giorno e poi potrà tornare a casa».
«Accertamenti di che tipo?».
«Dobbiamo essere sicuri non abbia niente di grave e non peggiori. Quando lo dimetteremo, avvertirà dei leggeri mal di testa e della sonnolenza qualche volta, ma è normale, non dovrà minimamente preoccuparsi» disse il dottore sorridendo: «Ecco, questa è la stanza del signore, ha dieci minuti scarsi e soprattutto, non lo faccia agitare» mi ammonì l'uomo.
Io annuii e abbassai la maniglia della porta: quando entrai, trovai il deficiente che rideva con un'infermiera bionda -tutta tette, ovviamente.
Mi schiarii la voce lui mi guardò confuso e poi mi sorrise: «Hey, Macy, come ci sono finito in ospedale? E perché ho un mal di schiena incredibile?» disse massaggiandosi la parte dolorante.
«Non te lo ricordi?».
«A tratti, ma il contesto generale mi sfugge».
A quel punto, dopo aver lanciato un'occhiata torva nella direzione dell'infermiera che non sembrava aver la minima intenzione di andarsene, mi sedetti sulla sedia vicino al letto e raccontai tutto.
Verso la fine, cominciò a guardarmi con tanto di occhi: «Mi hai trascinato?!» chiese incredulo.
«Beh, si io...».
«Questi vestiti costano un occhio della testa!» esclamò interrompendomi.
«Si, ma...».
«Non posso credere di aver pulito l'intera casa con la schiena!» mi interruppe ancora.
«Ok, però...».
«Cristo, non potevi... che ne so? Appoggiarmi su un telo?» continuò come se non mi avesse sentita.
Ragazzi, io non ero un'assassina, ma non mi piaceva per niente essere interrotta, e lui aveva commesso tre volte lo stesso madornale errore!
«Hey!» esclamai: «La vuoi piantare? Stavo dicendo che se non ti avessi trascinato, tu non saresti qui a parlare con me, ma ancora svenuto in salotto! Quindi devi ringraziarmi, non rimproverarmi perché ti ho 'ucciso' i vestiti!» dissi tutto d'un fiato.
«Si, si, hai ragione, mi dispiace, ma se penso ai miei poveri vestiti...».
Lo interruppi con un'occhiata che non prometteva niente di buono e lui si zittì.
«Adesso devo andare, ma ti chiamo appena trovo il cellulare e ti faccio sapere, riposati e non combinare casini» dissi mentre raggiungevo la porta: «Ci vediamo domani!».
«A domani» rispose accompagnando il saluto ad un gesto della mano.
Uscii dall'ospedale a passo di carica: presi le chiavi della macchina dalla tasca e raggiunsi la macchina dall'altra parte del parcheggio, dove l'avevo spostata durante le 4 ore di agonia, per non farmi fare una contavvenzione.
Saltai dentro e prima di partire composi il numero del distretto dal telefono della macchina.
Accesi il motore, mentre aspettavo che qualcuno rispondesse e mi misi in marcia lentamente, verso la stazione di polizia.
«Dipartimento centrale di polizia di Los Angeles, come posso esserle utile?» disse la solita voce anniata di donna.
«L'ispettore Lewis, è urgente».
«Glielo passo subito» disse la donna.
Evidentemente era ansiosa di liberarsi della chiamata per tornare a fare il nulla assoluto, perché l'ispettore prese il telefono dopo qualche secondo: «Lewis, chi parla?».
«Ispettore, sono io, Macy. Qualcuno si è introdotto in casa mia oggi e ha aggredito Nick» esordii.
«Aggredito?!» chiese incredulo.
«Si, per Diana, aggredito! Non è difficle! Ho a mente una descrizione dell'uomo, tra cinque minuti sarò al distretto, ma credo di averlo preso di striscio con un coltello, ci dovrebbe essere del sangue secco sul ripiano della cucina di casa mia, si faccia aprire dalla signora Smith o da Charles e lo vada a prendere, voglio beccare quel grandissimo figlio di... sua madre» continuai dopo un secondo di esistazione.
«Manderò due agenti a casa sua; l'aspetto al distretto Cullen, si sbrighi» concluse chiudendo la chiamata.
Premetti il tasto per chiudere la conversazione e pigiai sull'accelleratore, cominciando a sfrecciare attraverso le luci di L.A..

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Capitolo 9
*** La Mano Rossa ***


Capitolo 9: La Mano Rossa.

Durante il tragitto cercai di concentrarmi solo ed esclusivamente sulla guida, ma riuscire ad isolare i pensieri non era facile: ero ansiosa per la salute di Nick, preoccupata per la signora Smith e Charles, incredula perché qualcuno era riuscito ad eludere il sistema di sorveglianza, arrabbiata per non essere riuscita a prendere quello stronzo che era entrato in casa mia e molto altro.
«Ho bisogno di una vacanza» borbottai mentre mi fermavo al semaforo.
Il verde scattò dopo pochi secondi e io pigiai l'accelleratore con impazienza: cominciai a rallentare, solo quando scorsi le luci che illuminavano la pietra su cui era scritto 'Los Angeles Police Department'.
Parcheggiai e scesi dall'auto; mentre chiudevo le portiere, avvertii una presenza alle mie spalle, mi girai di scatto e la faccia di Lewis, che mi scrutava con un'espressione tra il severo e il preoccupato, mi fece saltare per aria dallo spavento.
«Cullen, tutto bene?» chiese guardandomi in faccia.
«Tutto bene?» chiesi lentamente: «Mi chiede se va tutto bene? Oggi me ne sono capitate di tutti i colori -ne hanno anche inventati altri di colori, per potermi permettere di usare questa espressione- e lei mi chiese se va tutto bene? Tra le altre cose, ispettore, mi ha fatto venire quattro infarti contemporaneamente!» esclamai.
Lui mi guardò come se non capisse che intendevo: «No, non va tutto bene!» sbottai.
«Non preoccuparti, lo prenderemo. Adesso entriamo, siamo già pronti per l'identikit» disse indicandomi la strada con fare rassicurante.
Io mi incamminai e lui mi venne dietro.
Arrivammo nella stanza degli uffici e tutti gli agenti presenti mi guardarono spaventati: «Che diavolo hanno da guardarmi?» domandai sottovoce all'ispettore.
«Ehm...» esitò lui.
«'Ehm...' cosa?» chiesi.
«Non riescono a capire come una ragazza della tua... statura sia riuscita a mandare via un intruso da casa».
Io alzai un sopracciglio e, spostando il mio sguardo dall'ispettore agli agenti, dissi loro: «Che c'è? Non avete mai visto uno gnomo uscire illeso da una colluttazione con un gigante?».
Vedendo che non staccavano gli occhi da me, anzi mi stavano letteramente squadrando e consumando, continuai alzando la voce: «Non avete per caso qualcosa da fare? Magari rintracciare un assassino o ancora meglio un aggressore?».
A quel punto si girarono tutti, tornando a fare altro. Alla scrivania dell'ispettore, era seduto un giovane agente, con un blocco da disegno in mano e una specie di portapenne a fianco.
«Macy, lui è l'agente McGowell, farà l'identikit del soggetto,» disse guardandomi, poi rivolgendosi all'agente disse: «McGowell, lei è Macy Cullen. Adesso vi lascio soli, così potrete dare un volto al nostro aggressore, e poi, Cullen, verrà con me a sporgere denuncia» concluse l'ispettore, dopodiché si allontanò.
«Se vuole sedersi per favore, iniziamo subito» disse sorridente l'agente.
«Preferisco mi dia del tu» risposi.
«Bene, allora: siediti di fianco a me, così puoi vedere anche tu e darmi istruzioni di conseguenza. Comunque io sono Derek».
«Ok, che vuoi sapere, Derek?».
«Partiamo dagli occhi».
«Ok allora, erano piccoli e allungati, probabilmente era imparentato con un asiatico, ma non troppo allungati».
Lui scarabbocchiò un occhio e, quando decisi che poteva andare, scarabbocchiò anche l'altro e li migliorò entrambi.
«Proseguiamo: il naso?».
«Era schiacciato (e questo avvalora l'ipotesi di una parentela con qualche asiatico) e grosso, le narici erano molto piccole rispetto al resto del naso».
«Ok, così?».
Non sembrava proprio quello: «No, era più lungo e soprattutto era molto vicino agli occhi, cioè gli occhi erano vicini tra di loro» spiegai confusa.
Lui rise: «Allora correggiamo subito» disse prendendo la gomma da cancellare.
«Adesso è molto meglio» dissi guardando il 'ritratto'.
«Andiamo avanti, la bocca?».
«Le labbra erano sottili e la bocca, nel complesso, fine ed era lontana dal naso» dissi guardando il suo lavoro.
«Per il resto?».
«Orecchie grandi, ma non a sventola, fronte spaziosa, sopracciglia folte e doppio mento. Non aveva segni particolari, anche se ho notato qualche neo qui e lì, i capelli erano corti, brizzolati e ricci direi. Oh si, aveva anche la barba, però non molta».
«Hai una memoria fantastica» sorrise Derek.
«Si riesco a ricordare molti dettagli se la cosa ricordare mi riguarda».
«E se te lo dessi, ricorderesti anche il mio numero?» disse continuando a disegnare.
«Posso provarci» risposi sorridendo.
Infondo era un bel ragazzo e, al contrario di quello che pensava Nick, io avevo una vita sociale.
E poi diciamocela tutta: con quella divisa era così sexy, accidenti!
Derek scrisse il suo numero su un foglietto e, dopo averlo piegato, me lo porse. In quel momento arrivò l'ispettore e osservò da sopra le spalle di Derek il ritratto dell'aggressore.
Adesso: io ho visto molte reazioni 'strane', ma quella dell'ispettore... mi lasciò basita.
Sbiancò come se avesse visto un fantasma o avesse conosciuto Nessie di persona e ci avesse anche preso il thé, e poi arrossì fino all'inverosimile, tanto che mi preoccupai stesse per svenire per mancanza d'aria.
Di questo non mi accorsi solo io, ma anche l'agente che lo seguiva e Derek, che si era voltato in attesa di un giudizio da parte di Lewis.
«Cu-Cu- Cullen, è sicura c-che sia questo l'uomo?» disse balbettando, direi che suonò più nervoso che sbalordito.
«Si, sicurissima, sembra una foto» dissi confusa.
«Oh, Dio non è possibile! Che idiota!» disse lasciandosi cadere su una sedia, appoggiando i gomiti sulle gambe e coprendosi il volto con le mani.
«Perché?» chiesi titubante, dopo aver scambiato un'occhiata con Derek e l'altro agente.
«William!» esclamò rivolgendosi ad un agente anziano: «Porta qui Miller e Anderson».
L'agente annuì e sparì tra le scrivanie: tornò poco dopo con affianco due uomini vestiti in giacca e cravatta nere, con camicia bianca e pantaloni e scarpe altrettanto neri.
I due uomini portavano occhiali da sole (al chiuso) neri, e alla cintola avevano una fondina e un distintivo: quest'ultimi erano diversi tra loro, anche se i loro proprietari sembravano usciti dallo stesso negozio di abbigliamento.
«Cullen, loro sono l'agente Miller dell'F.B.I.» disse indicando il tipo a sinistra: «E l'agente Anderson, della C.I.A.» disse indicando l'altro.
Io sgranai gli occhi e aprii la bocca: C.I.A.?! F.B.I.?! Collaboravano con la polizia?! E da quando?! Domanda più importante: collaboravano tra loro?!?!
In quel momento sembravo più o meno uno stoccafisso senz'aria, ma comprendetemi, lo shock era stato troppo: «Cosa?!» dissi urlando: «Volevo dire,» proseguii più calma: «Cosa?!» urlai di nuovo.
I due uomini si tolsero gli occhiali e dopo lo shock sovvenne la rabbia: il tipo della C.I.A. era il tipo che era entrato in casa mia e aveva aggredito Nick!
«Lei,» dissi con rabbia indicandolo: «Brutto figlio di pu...».
«Cullen!» mi riprese l'ispettore.
«... buona donna!» mi corressi: «Ha agrredito il mio amico! Lo ha mandato all'ospedale e ha fatto venire una sincope a me!» ruggii.
Tutto il distretto si voltò verso di noi e mi resi conto che da qualche giorno io ero l'attrazione principale del 'Circo L.A.P.D.' (chissa quanto costava il biglietto, dovevo reclamare almeno la metà degli incassi).
«Si calmi, signorina» disse l'uomo con calma.
«Calmarmi?! Mi sta per sbaglio chiedendo di calmarmi?! Con il coltello che le ho tirato e che non l'ha presa, staccandole un orecchio, le taglio la lingua e le cavo un occhio! Come si permette di dirmi di stare calma?! Lei è solo un fottuto bast...».
«Cullen!» ripetè l'ispettore.
«... cretino! Un fottuto cretino!» conclusi urlando.
«Ha davvero un'ottima mira con i coltelli e ammetto di non essermi accorto di lei, complimenti».
Quel tipo mi stava facendo diventare una bestia, ma lo sguardo ammonitore dell'ispettore mi stava implorando di non perdere la pazienza.
Quindi, respirai profondamente ad occhi chiusi e dissi sottovoce: «Voglio una spiegazione».
«Cosa scusi?» chiese Anderson.
«Voglio una spiegazione! E la voglio ora!» urlai.
«Ha problemi nel controllare la rabbia?» mi chiese calmo.
Ed ecco che l'occhio sinistro cominciò a chiudersi a scatti: «Io non ho nessun tipo di problema, ma se lei parla un'altra volta, per dire un'altra colossale caz...».
«Cullen!». L'ispettore stava diventando ripetitivo.
«... zata, lei avrà problemi seri nel procreare» ringhiai.
Anche se all'esterno non sembrava impressionato, lo vidi deglutire e rispose: «Bene allora, passiamo alle cose serie».
«Perché si è introdotto in casa mia? No, mi correggo, perché non credo lo abbia fatto di sua spontanea volontà: perché la C.I.A. si è introdotta in casa mia?».
«Cercavamo i dettagli del caso, per distruggerli. Lei e il suo amico siete civili, non potete essere messi al corrente delle indagini. Peccato però che non abbiamo trovato niente» concluse.
«Io tengo tutto a mente, non mi fido a lasciare scritti e a quanto pare faccio bene» dissi guardandolo in tralice.
«Già... in ogni caso, visto che non credo ci sia modo di persuadervi o obbligavi a lasciare il caso, potrete continuare con le vostre indagini da dilettante» disse altezzoso.
«Mi faccia un piacere: chiuda la fogna che ha sotto il naso» sibillai: «Per favore» dissi con più calma.
«Che ne dite di lasciar perdere questa discussione?» disse l'agente Miller.
«Perché l'F.B.I. e la C.I.A. collaborano allo stesso caso?».
I due agenti e l'ispettore si accomodarono, mentre Derek e l'altro agente andarono via: «Vede, signorina,» disse Miller indicandomi una sedia vuota: «I cadaveri giù all'obitorio, facevano parte di...».
«Una società segreta» completai io.
«Appunto. Il fatto è che soprattutto quei due, erano ricercati da tempo, solo che non conoscevamo le loro identità».
«Di uno di loro, non la conosciamo tutt'ora» affermai.
«Si, è vero» confermò l'ispettore: «Stiamo aspettando le impronte digitali e poi procederemo all'identificazione».
«Impronte digitali? Credevo fosse completamente essiccato, come potete ottenere le impronte digitali?» disse Anderson.
«Idrato di sodio, mi annoia spiegarglielo, quindi si accontenti di questo» dissi.
«Bene, dicevamo comunque che fanno parte di una società segreta, detta 'Mano Rossa'. Si occupano di parecchie cose: traffici vari (da quelli per droga a quelli di esseri umani, passando per quelli di oggetti antichi), controllo e gestione di diverse società della malavita californiana, omicidi su commissione e ci risulta siano anche al centro di diverse guerre tra bande. Adesso hanno cominciato a 'fare le pulizie di primavera': fino all'anno scorso, il capo era un certo Christian Wollaby che, dopo essersi trasferito all'estero per sfuggire alla legge, è stato ucciso; a lui è subentrato il suo braccio destro Thomas McLoud, al quale alcuni soggetti, che il suo vecchio boss considerava indispensabili, non vanno a genio. È parecchio che lo teniamo d'occhio, ma non abbiamo mai potuto formulare un'accusa per mancanza di prove» disse Miller.
«Mancanza di prove? Avete detto che si occupa di qualsiasi tipo di operazione criminale e non avete prove? Che razza di poliziotti siete?» dissi sbalordita.
«Il vecchio Tom, non fa mai niente di persona: affida tutti gli incarichi ai suoi uomini e, quando questi vengono arrestati, ci sono almeno cinquanta persone pronte ad affermare che in quel momento questi uomini erano con loro».
«Ok, ma nonostante le testimonianze, ci devono essere delle prove: le prove sono sempre ovunque, bisogna soltanto vederle e saperle riconoscere tali» affermai convinta.
«Vero, ma finora non siamo mai riusciti a trovarle. Adesso abbiamo saputo dei due cadaveri e ci siamo subito mossi. Abbiamo poi saputo che lei, signorina, aveva scoperto più cose in due settimane, che noi in quasi tre anni e le nostre agenzie hanno deciso di collaborare con il dipartimento centrale di L.A. e con l'ispettore qui presente» concluse Anderson.
«Ok, allora come ci dobbiamo muovere?» chiesi.
«Bella domanda: direi che è questo il punto. Come ci muoviamo, senza che loro lo sappiano? Hanno occhi e orecchie ovunque, non siamo mai riusciti ad anticipare le loro mosse per mancanza di indizi e siamo in una situazione di stallo da un anno» disse Miller.
«Importante però è che nessuno sappia che io e l'agente Miller siamo qui o potrebbero scapparci di nuovo».
«Bene. Adesso devo andare, la signora Smith sarà preoccupata» dissi alzandomi: «Oh, agente Anderson, spero che la C.I.A. pagherà le cure del mio amico, non ho intenzione di sborsare un centesimo per le colpe degli altri».
«Ovviamente, signorina Cullen» disse serio.
Annuii e salutai l'ispettore, dopodiché uscii per dirigermi a casa.
Mentre ero in auto stavo inventando una serie decente di scuse per non far allarmare la signora Smith riguardo la salute di Nick.
Sghignazzai tra me e me: quando Nick sarebbe tornato a casa avrebbe mangiato come se avesse passato mille giorni nel deserto senza cibo né acqua e sarebbe stato coccolato e strapazzato come fanno i bambini con gli orsetti di peluche: così impara a rimproverarmi per avergli rovinato i vestiti... vestiti?
'Oh, cazzo' pensai: 'Non ha niente da mettersi, devo portargli dei vestiti se non voglio che giri nudo per tutto l'ospedale!'.
Misi in funzione il telefono dell'auto e lo chiamai: «Si pronto?» disse insonnolito all'altro capo del telefono.
«Ciao Nick, come va?».
«Ciao Babù, bene, non posso lamentarmi, tranne che per il cibo».
«'Babù'? Che significa?».
«Sai che quando ero mezzo tramortito ho detto 'ba bù' e ti ho praticamente chiamata così, quindi mi sono chiesto 'perché non farne un soprannome?' quindi ecco cosa ne viene fuori» disse.
Dalla voce sembrava soddisfatto di se stesso e della sua 'geniale' trovata, io invece ero rimasta senza parole: «Ma che ti sei fumato?».
«In ospedale non si può fumare, Macy».
«Allora è stata la botta in testa ad averti fatto male! Vabbé, lasciando perdere questo discorso che riprenderemo più avanti perché non ho intenzione di farmi chiamare come un verso da bambini, hai dei vestiti lì?».
«No, i miei sono sporchissimi e abbandonati sulla sedia».
«Passo a prenderti dei vestiti a casa e vengo a portarteli; ho anche delle novità sul caso se ti interessa».
«Macy, io non vorrei contraddirti, però l'orario di visita è terminato».
«Si ma un tipo mi deve un favore, quindi tra una mezz'oretta al massimo sarò lì».
«Per curiosità, quante sono le persone che ti devono un favore?».
«Parecchie. Adesso vado ci vediamo dopo».
«A dopo».
Chiusi la telefonata e parcheggiai davanti casa. Percorsi velocemente il vialetto ed entrai nel modo più silenzioso possibile, per evitare le domande fino al mio effettivo rientro.
Peccato però che non avevo fatto i conti con la tenacia della signora Smith: «Macy, tesoro, cosa è successo a Nick? Degli agenti sono venuti a prendere del sangue, pensavo fosse il vostro, oh Dio quanto mi sono preoccupata!» disse alzandosi dal divano e correndomi incontro.
«Signora Smith, non è niente di grave, le spiegherò tutto al mio ritorno, adesso devo prendere dei vestiti di Nick».
«Oh si, dei vestiti, ti aiuto io» disse guardandomi con occhi vacui.
Cominciò a salire le scale e io la seguii a ruota. Pochi minuti dopo stavamo riempendo una borsa con i vestiti, lo spazzolino e le scarpe di Nick. La donna aveva preparato la borsa per almeno un mese, nonstante le mie ripetute proteste sul fatto che a Nick non servissero tutti quei vestiti per tre giorni al massimo.
«Fa come ti dico io, Macy, potrebbero servigli» diceva lei.
«Ma, signora Smith, ha una 'camicia da notte' per stare in ospedale e rimarrà lì dentro per meno di una settimana! Che se ne fa? Questi vestiti non entreranno nemmeno nell'armadietto della camera!» rispondevo io.
Andammo avanti così per circa dieci minuti. Alla fine, stufa di non essere ascoltata e inorridita all'idea di dovermi portare due borsoni (si due, perché da uno zaino eravamo passati ad un borsone e da un borsone due) pieni di vestiti giù per le scale, alzai i tacchi di soppiatto, mentre la donna si recava in cucina per darmi 'Qualcosa che quel povero ragazzo possa mangiare' secondo lei.
Arrivata in macchina lanciai le borse nel portabagagli e partii in fretta e furia, prima che la signora Smith potesse inseguirmi con le cose da mangiare per Nick.

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Capitolo 10
*** Stiamo scherzando, vero?! ***


Capitolo 10: Stiamo scherzando, vero?!

«Lo sai, vero, che se mi beccano posso perdere il posto di lavoro?» sussurrò Mark.
«Si, lo so, non c'è bisogno che me lo ricordi, non mi farò beccare» risposi: «Mi infilerò nella stanza di soppiatto e in massimo dieci minuti sarò fuori, rilassati».
«Spero sia come dici tu» disse scettico.
«Non ti fidi di me?» dissi con aria da cucciolo bastonato.
«No, assolutamente no».
«Bravo ragazzo» dissi sfottendolo.
Fece una smorfia e si allontanò, non prima di avermi raccomandato altre 100 volte di stare attenta.
Arrivata davanti alla stanza di Nick, la aprii e scivolai dentro silenziosamente.
Appena richiusi la porta, qualcosa mi colpì in testa e tutto divenne più buio di quanto non fosse prima.

«Macy, Macy stai bene?» disse una voce, non bene identificata: «Babù mi senti?».
Aprii gli occhi e misi a fuoco l'immagine di Nick inginocchiato sopra di me.
«Che diavolo è successo?» dissi mettendomi a sedere, ancora stordita.
«Io, beh... ti ho, ecco si... colpita» disse balbettando incerto.
«Colpita? E con cosa? E, di grazia, perché lo avresti fatto?» continuai confusa, ma leggermente più lucida.
«Ti ho colpita con la lampada» ammise titubante: «Oggi, poco dopo che sei andata via, qualcuno è entrato nella mia stanza, per fortuna io ero nel parco dell'ospedale a prendere una boccata d'aria. Ecco, ho creduto fossi un'intrusa» si affrettò a spiegare.
«Io un'intrusa? Sono poco più alta di un puffo, come avrei potuto aggedirti, me lo spieghi?» cominciai; poi mi bloccai: «Woah, aspetta: qualcuno si è introdotto nella tua stanza? Perché? Come hai fatto a capirlo?» dissi tutto d'un fiato.
«Una domanda alla volta, per favore: alla domanda di come avresti potuto aggredirmi, dato che sei un puffo, ti rispondo che ci sono nanerottoli che riescono a mettere al tappeto dei giganti (prendi Davide e Golia); poi, si, qualcuno è entrato nella mia stanza; il perché non lo so; e l'ho capito perché ha lasciato questo» disse indicandomi un cartoncino di carta attaccato al muro.
«Potrebbe essere che qualcuno abbia voluto lasciarti un biglietto, magari un'ammiratrice segreta che ti sei fatto qui in ospedale» lo liquidai.
«Oh, ma certo! Come ho fatto a non pensarci prima?» disse sarcastico: «Perché è ovvio che tutte le pazienti qui, per quanto pazze, vanno nelle camere degli altri pazienti ad attaccare biglietti, in codice tra l'altro, ai muri con dei coltellini svizzeri! È ovvio!» concluse.
«Stiamo scherzando, vero?! Coltellini?».
«Si, guarda qua» disse tirando fuori un coltellino svizzero dal cassetto del comodino accanto al letto: «Ho chiesto a tutti gli infermieri di non toccare niente e gli ho convinti a non chiamare la polizia convincendoli che probabilmente era solo uno scherzo. Per te significa qualcosa?».
Io non risposi, ero troppo persa nei meandri contorti del mio cervello: perché qualcuno doveva avercela con Nick? Non ero neanche sicura che ce l'avessero con lui: l'aggressione in casa era opera di Anderson e dell'agenzia, Nick non era il bersaglio diretto, quindi questo avrebbe potuto essere anche un caso, o forse...
«Hai detto che è successo poco dopo che io sono uscita?».
«Beh, si all'incirca, perché?».
«Potrebbe essere un avvertimento per me. Vedendomi uscire da questa stanza, avranno pensato che sarei tornata e quindi hanno fatto tutto questo casino».
«Ne sei davvero convinta?».
«No, fammi vedere il biglietto».
Lui accese la luce e chiuse le persiane. Io mi avvicinai al muro e considerai l'altezza a cui era attaccato il biglietto, adesso sostenuto con una puntina.
«Hey Nick, vieni qui» dissi senza guardarlo: «Mettiti qui davanti al biglietto».
«Ok».
«Lo hai spostato?».
«Cosa?».
«Quando hai rimosso il coltello e lo hai sostituito con la puntina, hai abbassato il biglietto? Lo hai spostato?».
«No, perché».
«Ammesso che tu non abbia spostato il foglietto, il tipo che è entrato qui dentro deve essere alto più o meno un metro e novanta e deve essere entrato con una scusa» dissi pensierosa.
«Come fai a dirlo?»
«Considerando che tu sei alto un metro e ottanta e il cartoncino è appeso circa 10 centimetri più in alto di te e considerando anche che di solito appendiamo le cose allo stesso livello degli occhi, il nostro uomo è alto un metro e novanta, forse qualche centimetro in più; sarebbe quindi stato difficile non notarlo se si fosse intrufolato, quindi aveva una scusa per entrare qui dentro; inoltre io sono andata via poco prima della fine dell'orario di visita e tu probabilmente sei uscito poco dopo che io avevo alzato i tacchi, giusto?».
«Si, circa due minuti dopo».
«Quindi il tizio sapeva che la stanza era vuota e che tu non eri qui dentro».
«Giusto».
«Quindi non era un'aggressione, perché se lo fosse stata non avrebbe aspettato che tu uscissi: probabilmente ha detto agli infermieri che era un tuo parente o un tuo amico».
«Vuoi vedere il biglietto?».
«Si prendilo».
Prese il biglietto e me lo porse: sulla carta bianca spiccava una sequenza di numeri scritti con inchiostro rosso e firmati con la sigla 'M.R.'
«M.R. Significa qualcosa per te?» chiese Nick sedendosi sul letto.
«Si» risposi asciutta.
Mi rivolse uno sguardo stupito e interrogativo e mi ricordai di non avergli riferito le novità.
Parlai per circa cinque minuti buoni e spiegai tutto a grandi linee, prima di andare via, con la promessa di portare notizie più precise.
Quando uscii dalla camera, con addosso il coltellino e il biglietto, Mark era già dietro l'angolo ad attendermi per scortarmi fuori dall'ospedale.
«Hai saputo?» mi chiese.
«Si e, se la prossima volta che succede una cosa del genere non vengo informata, considerati carne morta» mormorai prima di andarmene.
Attraversai velocemente il parcheggio dell'ospedale ormai deserto e raggiunsi l'auto. Mi lasciai cadere sul sedile e dopo aver acceso la luce, posizionata sopra lo specchietto retrovisore, esaminai il biglietto: alcune sequenze di numeri erano separate tra loro da uno slash, formando un totale di 86 numeri.

65666665/78687978658469/7376/67658379/79/7669/6779788369718569789069/83658265787879/7182658673.
M.R.

Avevo già visto codici del genere: si chiamavano ASCII ed erano relativamente semplici, infatti ad ogni coppia di numeri, da 65 a 90, corrispondeva una lettera dell'alfabeto e gli slash erano probabilmente gli spazi tra le parole.
La firma invece era inconfondibile: Mano Rossa.
Al di fuori del distretto, nessuno sapeva di me e Nick e quindi la domanda sorgeva spontanea: come avevano fatta a sapere che stavamo seguendo le indagini?
Per quanto riguarda il perché del codice, era ovvio che volessero assicurarsi che nessuno oltre me capisse il messaggio.
Misi da parte il biglietto per prendere il coltellino: era leggermente più piccolo di quelli normali, circa 74 mm, quando quelli standard erano di circa 91 mm.
Cercai la marca e la trovai sulla lama più grande: Victorinox.
I coltellini avevano prezzi variabili, a seconda di quante funzioni possedevano, ma Victorinox, insieme a Wenger, era una marca costosa: il coltello in questione, aveva il manico in madreperla e 33 funzioni. Non proprio economico: considerando la preziosità dell'impugnatura e le spese di spedizione dalla Svizzera, avrei detto che quel coso, poco più grande del mio palmo, costasse circa 500 dollari.
Mi domandai il perché avessero lasciato un gioiello simile (perché era inutile negarlo, avevo un gioiello tra le mani) conficcato in un muro a reggere uno squallido biglietto, e naturalmente non trovai risposta.
Decisi che per il momento sarebbe stato meglio tornare a casa, decodificare le stringhe di numeri e tranquillizzare la signora Smith e Charles sulle condizioni di Nick.
E così tornai a casa: ormai era quasi l'una e all'interno tutte le luci erano spente. Sorrisi tra me e me pensando che nonostante la signora Smith fosse testarda, anche lei aveva ceduto al sonno.
Richiusi piano la porta alle mie spalle e salii silenziosa in camera mia: finalmente un po' di pace.
Mi buttai a letto a peso morto e, poco dopo aver appoggiato la testa sui cuscini, caddi in un sonno profondo.
La mattina dopo, quando aprii gli occhi, la prima cosa che vidi, furono i piedi del letto e quelli del comodino, e la prima cosa che percepii fu la morbidezza del tappeto.
«Come cavolo faccio a cadere sempre dal letto, anche quando non ho la forza per muovere un dito?» borbottai infastidita.
Mi rialzai piano e mi trascinai fino in bagno. Dopo essere uscita dalla doccia, alzai gli occhi sullo specchio: dire che la ragazza che mi stava guardando era un mostro, equivaleva ad offendere tutta la categoria dei mostri. Ero semplicemente orribile, terrificante, assolutamente inguardabile.
Se qualcuno, nel cuore della notte, avesse scorto il mio viso nell'ombra, dopo essersi appena ripreso da un incubo avrebbe potuto solamente credere che stesse facendo un incubo peggiore di quello precedente oppure sarebbe uscito di testa e si sarebbe sparato ad una tempia, convinto che la morte fosse venuta a prenderlo.
Avevo due occhiaie che facevano a gara a chi arrivava più lontano, i capelli scompigliati (si, anche dopo la doccia, incredibile vero?) e le guance senza colore.
Non mangiavo da due giorni e continuavo a non avere fame, ma sapevo che appena avessi messo piede di sotto, la signora Smith mi avrebbe costretta a mangiare per sei persone.
Sospirando mi asciugai e mi pettinai, almeno per darmi una parvenza di ordine. Tornata in camera, mi vestii con calma, scegliendo una canottiera bianca, morbida, lunga fin sotto i fianchi e dei jeans stretti neri. Misi i miei immancabili trampoli (chiamati dalla gente comune tacchi) che mi aiutavano a sentirmi meno gnomo e più persona normale. Misi delle lunghe collane nere e qualche anello dello stesso colore.
Ammettiamolo: adesso vedendomi allo specchio sembravo un po' meno spaventosa. Presi la borsa e scivolai fuori dalla stanza.
Arrivata in salotto lanciai la borsa sul divano, decisa a riprenderla solo quando fossi uscita, e mi avviai in cucina.
Ad attendermi al varco, indovinate chi c'era? Si, sempre lei. Lei che con tutto il cibo che preparava, popolava i miei incubi peggiori, lei che era sempre troppo apprensiva nei miei confronti: la signora Smith.
«Oh, cara, che ti è successo?» disse appena mi vide.
«Finora niente e spero che anche in futuro sia lo stesso, perché?».
«Sei così magra! Non mangi da molto! Vieni, siediti, ti ho preparato una bellissima colazione» disse entusiasta.
«Veramente io vorrei soltanto...» cominciai.
«Sciocchezze! Mangerai tutto e mi assicurerò che tu lo faccia» disse sedendosi davanti al posto destinato a me.
Sospirando, consapevole che non avevo via d'uscita, mi sedetti: sulla tavola mancavano soltanto i piedi del tavolo (che non potevano essere cotti perché dovevano reggere il tavolo) e quelli della sedia, che non potevano esserci perché dovevano assicurarmi un posto dove sedermi.
'Cristo, come farò a mangiare tutto?!' pensai disperata: 'Mi porteranno all'ospedale per farmi una lavanda gastrica se manderò giù solo la metà di tutta questa roba! Andrò a fare compagnia al piccolo mangiatore di fango!'.
Deglutii tentando di pensare ad un qualunque modo per uscire da quella situazione, peccato però che il mio cervello avesse fatto quello che IO avrei voluto fare: era andato in vacanza alle Hawaii pur di evitare la tortura.
Con un sospiro di rassegnazione, mi misi a mangiare: uova, bacon, pane, marmellata, burro, toast e chi più ne ha più ne metta.
Alla fine mi fermai solo per bere un pò sotto lo sguardo assassino della signora Smith, secondo la quale evidentemente, dovevo ingozzarmi senza neanche bere.
Distolsi gli occhi dai suoi, che mandavano lampi, e li rivolsi alla TV senza guardarla veramente. A salvarmi dallo strazio, intervenne il mio cellulare che cominciò a squillare: «Non muoverti, lo prendo io» disse la signora Smith.
Tornò poco dopo con il mio telefono e mi trovò proprio per come mi aveva lasciata, con il bicchiere alle labbra.
«Cullen» risposi per poi riprendere a bere lentamente.
«Il suo amico è scomparso, Cullen» disse la voce dell'agente Miller al telefono.
Sputai tutto quello che avevo in bocca addosso alla signora Smith che si alzò fulminea dalla sedia lasciandola cadere per terra: «Cosa?!» dissi urlando al telefono: «Glielo lavo io» dissi poi alla signora Smith a mo' di scuse.
Lei mi guardò impassibile e andò a cambiarsi il grembiule.
«Che cosa significa che non...» pensai alla donna presente nella mia stessa stanza e abbassai il tono di voce per non farle venire un infarto con la notizia: «Che cazzo significa che non trovate il mio amico, Miller?!» sibillai.
«Siamo andati stamattina da lui, perché hanno avvertito l'ispettore Lewis che potevamo riportarlo a casa, ma non lo abbiamo trovato. Tutta la sua roba era li, ma lui non c'era».
«Beh, non me ne frega un accidente se non c'era, trovatelo!» urlai isterica.
«Non è così facile, potrebbe essere ovunque».
«Nick!» sentii dire da Charles in salotto.
«Potrebbe essere a casa» dissi dura: «La prossima volta che ve lo perdete, vi farò spedire a dirigere il traffico nei sobborghi più infami di L.A.» conclusi chiudendo la telefonata.
Mi alzai in fretta e quasi correndo arrivai in salotto: Nick era lì, stravolto e.. scalzo?
«Charles, puoi lasciarci da soli per favore?».
«Ma si, certo» disse lui tornando di sopra, dopo averci rivolto un'occhiata indefinibile.
«Che cosa è successo? L'agente Miller, quello dell'F.B.I., mi ha chiamata meno di un secondo fa, dicendomi che eri scomparso» dissi aiutandolo a sedersi.
«Si, sono dovuto andare via stamattina» disse.
«Senza scarpe? Lasciando tutte le tue cose in ospedale? Non dicendomi niente? Ti sembro cretina? Che diavolo è successo? E non provare a minimizzare!».
Mi guardò e poi mi chiese di non urlare a causa del mal di testa che gli martellava il cranio.
«Ok, io non urlo, ma voglio spiegato cosa è successo».
«Stamattina, quando mi sono svegliato, mi sono lavato e vestito. Ero in bagno quando ho sentito un rumore venire dalla mia stanza. Ho sbirciato attraverso il buco della serratura della porta e ho visto un tizio, simile a quello che avevi descritto tu ieri sera, solo che questa volta non era entrato con una scusa, ma dalla finestra e quindi mi sono fatto prendere dal panico: ho staccato due chiodi, che non erano fissati bene, dal muro del bagno e ho forzato la serratura della porta che Katia (l'infermiera che hai visto ieri) mi ha detto comunicava con un'altra stanza. Sono entrato nella suddetta stanza e la vecchietta che c'era nel letto ha cominciato ad urlare. Senza preoccuparmi di lei, sono uscito e mi sono messo a correre, nonostante la testa mi girasse, verso l'uscita. Alcuni infermieri hanno provato a fermarmi, ma ho scansato alcuni e travolto altri finché non sono arrivato in strada; ho chiamato un taxi appena mi sono accorto che il tipo di prima mi stava inseguendo, per colpa delle urla della vecchia probabilmente, ho dato la destinazione al tassista e mi sono precipitato qui. Il resto lo sai» disse ad occhi chiusi.
«Stiamo scherzando, vero?!».
«Assolutamente no» disse stanco.
«Fatti accompagnare di sopra da Charles e vai a riposarti, io chiamo Lewis e gli racconto tutto. Gli dico anche di far venire Derek per un identikit».
«Chi diavolo è Derek?».
«La mia nuova conquista» dissi noncurante.
Cominciai a comporre il numero di cellulare di Lewis.
«Chi?» sibillò Nick.
«Ispettore, sono io» dissi al telefono.
«Macy, che significa 'la tua nuova conquista'?» disse il ragazzo alle mie spalle.
«Si, è qui con me, deve venire subito e porti Miller, Anderson e l'agente McGowell».
«Rispondimi, accidenti» continuava a dire il mio amico.
«Bene, l'aspetto» dissi all'ispettore chiudendo la chiamata.
«Allora?!» disse Nick, visibilmente alterato.
«Lewis sta arrivando con tutti gli altri al seguito» dissi riassumendo la breve conversazione avuta con l'ispettore.
«Non mi riferivo a quello».
«Peccato, perché non risponderò più a nessuna domanda. Aspetta, chiamo Charles e ti faccio portare di sopra» dissi andando alla ricerca di Charles.
Ebbi appena il tempo di sentire un suo 'Ma...' di protesta che salii le scale allontandandomi.
Dopo averlo torvato, chiesi a Charles di aiutare Nick e gli dissi che se avesse protestato per essere portato da me, anziché nella sua stanza, avrebbe dovuto ignorarlo. Lui annuii e andò a prendere Nick.
Io tornai in camera mia e presi la copia del biglietto che avevo trascritto in macchina la sera prima, prima di lasciare il parcheggio dell'ospedale.
«Devo decifrare il maledetto codice» mormorai.
Dopo circa cinque minuti, avevo il codice decriptato tra le mani e una gran confusione in testa.
'ABBANDONATE IL CASO O LE CONSEGUENZE SARANNO GRAVI. MR'
Molto schietti gli amici criminali. Era scritto tutto maiuscolo, evidentemente non conoscevano abbastanza bene il codice da sapere che le lettere minuscole erano contrassegnate con i numeri da 97 a 122, quindi o non erano molto informati, cosa che mi sembrava improbabile, visto che avevano scoperto che collaboravamo al caso, o usavano il codice da così poco da non conoscere questo dettaglio. La confusione era dovuta invece alla domanda che mi assillava dalla sera precedente: come facevano a sapere tutto?
Sentii le voci degli agenti nel salotto e mi affrettai a scendere.
«Buongiorno, se volete seguirmi vi porto da lui, non credo sia in grado di fare più di due metri senza barcollare» dissi.
«Certo» rispose Lewis.
Arrivammo in camera di Nick e mi feci da parte per fare passare il drappello di persone che erano al mio seguito.
«Nick, lui è l'agente Miller dell'F.B.I.» dissi indicando il tizio alla mia destra: «Lui l'agente Anderson della C.I.A.» dissi indicando il tipo alla mia sinistra: «E lui l'agente Derek McGowell, che farà l'identikit del tipo che ti ha inseguito stamattina».
Alla mia ultima frase, tre teste si voltarono verso di me e tutte e tre all'unisono dissero: «Cosa?!».
«Ne parliamo fuori. Buon lavoro Derek; se ti serve qualcosa, Nick, chiamami».
«Cos'è questa storia, Cullen?» disse Anderson appena chiusi la porta della stanza.
«Scendiamo di sotto e vi spiegherò tutto».
Li feci accomodare in salotto e, ricordando la 'colazione' della signora Smith, chiesi loro se avessero fame. Alla loro risposta negativa, mi sedetti anch'io e sospirando, cominciai a raccontare tutto.

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Capitolo 11
*** La legge di Murphy ***


Capitolo 11: La legge di Murphy.

«No! Ti ho detto di no! Significa no! Scordatelo!».
«Non puoi costingermi a stare qui!».
«Si che posso, fidati, e lo farò!».
«Non ti permetto di dirmi quello che devo e non devo fare! Chi ti credi di essere?».
«Qualcuno che si preoccupa per te! Non verrai con me al distretto, né oggi né domani, mettitelo bene in testa! E questa è la mia ultima parola, non provare a contraddirmi!» dissi andandomene e sbattendo la porta della cucina alle mie spalle.
Io e Nick stavamo discutendo da circa venti minuti pieni sui diversi motivi pe i quali lui avrebbe dovuto seguirmi alla stazione di polizia, nonostante avesse ancora qualche sintomo del trauma cranico.
Attraversai la cucina come fossi un fulmine e andai in garage.
Quando uscii di casa, ancora leggermente arrabbiata, mi fermai in un piccolo bar, a metà strada tra casa e il distretto.
Ordinai un thé freddo e mi sedetti ad un tavolino: un ragazzino di circa dieci anni, seduto dietro di me, stava attentando alla mia salute mentale continuando ad urlare come un ossesso. Sbuffando, sopportai i primi due minuti di urla, dopodiché mi girai di scatto: «Hey, ragazzino, mi spieghi che problema hai? La vuoi smettere di urlare? La fidanzatina ti ha lasciato? Fidati ha fatto bene, voi uomini siete uno più deficiente dell'altro chissà che non fate a gara... ne troverai comunque un milione di altre che ti vorranno, quindi smettila di violentarmi le orecchie!».
«Ma come si permette? E che ne vuole sapere lei della fidanzata di mio figlio?» disse la madre del 'bambino' imbufalita... che a pensarci adesso, sembrava anche un bufalo.
«Invece di sgridare me, che non sono neanche una sua conoscente, perché non sgrida quel mostriciattolo di suo figlio?».
La donna mi guardò risentita, pagò il conto e lasciò, insieme al figlio, il bar.
Finii il mio thé nel silenzio più assoluto e appena dopo cinque minuti dalla mia entrata, stavo già uscendo.
In pochi minuti ero già nel parcheggio del distretto, intenta a sottopormi alle occhiate divertite dei diversi agenti.
'Che hanno da ridere? Ok, il mio aspetto non è dei migliori, ma non sono così orribile!' pensai.
Arrivai alla scrivania dell'ispettore, aspettandomi di vederlo lì, ma non trovai nessuno tranne la scrivania piena di oggetti sparsi qua e là.
Cominciai quindi a cercare dell'ispettore Lewis o degli agenti con lui: «Avete per caso visto Lewis? O dei tipi alti, con l'espressione sempre scura in viso come quella di chi ha il morto in mezzo al salotto?» chiesi a due donne sulla trentina.
«No, ci dispiace, ma tu dovresti imparare a tenere a bada i tuoi cagnolini» dissero ridendo.
Con un'espressione interrogativa in volto, proseguii nella mia ricerca: dopo pochi minuti, in un'ala più appartata del distretto, trovai Lewis, Miller e Anderson.
Stavano parlottando sottovoce tra di loro e avevano tanto l'aria da cospiratori. Gli andai alle spalle e mi schiarii la voce, facendoli sobbalzare: «Che state facendo?» dissi scandendo bene le parole.
«Oh, Cullen, mi chiedevo quando sarebbe arrivata» disse sarcastico Anderson.
«Si, si, rida pure di me, dato che mi trova tanto divertente non le interesserà sapere le mie teorie» dissi snobbandolo.
«Ma a me importano, Cullen, quindi ce le esponga» disse Miller.
«Non qui, ci dobbiamo spostare».
Mentre finivo la frase e vedevo Lewis annuire, colsi un leggero moviemento alle spalle di Miller.
Quando questo si fu spostato, mi apparve Nick, in abiti casual, che mi guardava con aria di scuse.
Mi tornò allora in mente la frase di quelle due galline in divisa: 'Dovresti imparare a tenere a bada i tuoi cagnolini'.
«Con te facciamo i conti dopo» dissi sbuffando e indicando Nick con aria minacciosa.
Lui deglutì, ma non fiatò.
Cominciammo a seguire Lewis che tra di noi conosceva al meglio il distretto: ci fece attraversare corridoi e stanze ed infine aprì una porta.
La 'stanza' che ci si presentò davanti, non poteva vantare neanche la definizione di 'stanza': era un cubicolo di 2 metri per 2, che sembrava ancora più piccola a causa dello scaffale sulla parete destra, della macchina fotocopiatrice sul fondo e di un distributore d'acqua sulla parete sinistra. Una lampadina pendeva dal soffitto e illuminava fiocamente lo sgabuzzino in cui Lewis ci aveva portati.
«Questa è la 'sala fotocopie' come la chiamiamo noi» disse facendo un ampio gesto del braccio che intendeva mostrarci l'ambiente.
«'Sala'? Voi questa la definite 'sala'?» chiese Anderson.
«Esatto».
«Perché ci ha portati qui? Non potevamo parlare in sala riunioni?».
«No, ha fatto bene a portarci qui» intervenni io.
Quattro paia di occhi (anche quelli dell'ispettore) mi fissarono sconvolti. Poi Miller prese la parola: «Non capisco, si spieghi».
«Entrate, svelti» dissi guardandomi intorno come una ladra.
Quando tutti furono entrati, mi affacciai e diedi un'ultima occhiata fuori dalla porta, per poi richiudermela alle spalle.
«Cos'è questa storia?».
«Ha fatto bene a portarci qui, ispettore, questa è l'unica stanza senza telecamere di sicurezza e poi, nessuno sa chi siete, se vi vedessero troppo tempo in giro si insospettirebbero» conclusi rivolgendomi a Miller e Anderson.
«Io in realtà volevo scherzare, stavo per portarvi in sala riunioni» disse l'ispettore.
«Invece ha fatto bene. Ho motivo di credere che ci sia una talpa nel distretto».
«Cosa?!» esclamarono tutti in coro.
«Si esatto. Partiamo dal principio e vi spiegherò, se avrete domande, fatele alla fine».
Tutti annuirono e cominciai: «I nostri criminali, sanno troppe cose, cose che non potrebbero sapere se non avessero un qualche tipo di informatore. Sapevano che io e Nick stiamo collaborando al caso, ma nessuno oltre agli agenti sapeva questo piccolo particolare. Sapevano anche in quale ospedale, con tutti quelli che ci sono a Los Angeles, era stato portato Nick, e sapevano anche in quale stanza, cosa che sapevamo solo noi. Attenzione, non sto dicendo che la talpa è tra di noi o non vi avrei portati qui, sto dicendo che probabilmente il suo telefono, ispettore, è controllato e probabilmente qualcuno origlia le sue telefonate. Sono stata anche propensa a pensare che qualcuno di noi avesse una cimice addosso, ma le cimici agiscono su una frequenza limitata, che al massimo arriva a 150 metri, quindi è improbabile che ci seguano con un furgoncino, che contiene l'attrezzatura di rilevamento, o me ne sarei accorta. Tra l'altro, non credo che usciate sempre con gli stessi vestiti, quindi visto che la cimice non può muoversi da sola, non è questo il trucco che stanno usando per gabbarci. Vi consiglio di parlare il meno possibile sia al telefono che davanti a terzi, io e Nick siamo bruciati, ma non sanno ancora della presenza della C.I.A. e dell'F.B.I. Tutto chiaro?».
Tutti annuirono e quindi proseguii: «Domande?».
«Io ne avrei una» disse Anderson: «Come faremo adesso ad anticiparli? Devono ancora arrivare i risultati sull'identità dell'ultimo corpo, o meglio del primo, e prima di arrivare a noi, passeranno nelle mani di molti tecnici: qualcuno di questi potrebbe essere la spia».
«Vero, ma dobbiamo rischiare: non possiamo permettere di scoprirci troppo. Non sanno che abbiamo intuito qualcosa, quindi in un certo senso siamo un passo avanti a loro».
«Ok, ma...».
Anderson si zittì improvvisamente e, proprio come me, smise di respirare: «Abbiamo un problema» disse lui.
«Arriva qualcuno» proseguii io.
«Che facciamo?» chiese Miller.
«Ho un'idea, qualcuno di voi ha dieci dollari?» domandai.
Tutti mi guardarono come se fossi stata pazza, cosa che ultimamente succedeva spesso: «Sul serio, qualcuno di voi ha dieci dollari?» sussurrai concitata.
«Io» disse l'ispettore incerto.
«Bene, me li dia, in fretta per favore».
Lui aprì il portafogli e mi diede una banconota stropicciata.
«Bene adesso, Miller, si accucci dietro il dispenser dell'acqua; Anderson, lei dietro lo scaffale; ispettore, lei è il più... piccolo come statura tra di loro, si nasconda dietro me e Nick» tutti annuirono e si posizionarono: «Tu stai al gioco» dissi al mio amico.
Lui annuì incerto e, dopo aver spento la luce della 'stanza', attendemmo che il tizio entrasse.
Un secondo prima che l'uomo aprisse la porta, attirai Nick verso di me e lo baciai.
Non fu niente di dolce e non fu neanche un bacio approfondito: durò meno di un secondo, giusto il tempo perché l'uomo appena entrato dicesse: «Che state facendo voi due qui?!».
Allontanai Nick da me, spingendolo dal petto: «Oh, ci scusi, ma sa siamo giovani e a volte non resistiamo, anzi, perché non va a fare colazione al bar qui di fronte e ci lascia in pace per altri cinque minuti? Le prometto che quando tornerà, saremo già andati via» dissi sorridendo.
«Io... beh...».
«Pago io, lei faccia con comodo» proseguii mettendogli i famosi dieci dollari in mano.
«Ok, ma...».
«Si si, adesso vada, il mio ragazzo non ne può più. Non so se mi capisce» dissi sbattendogli la porta in faccia.
Quando sentirono i passi dell'uomo allontanarsi, tre teste divertite si voltarono verso di me, l'altra, scioccata, stava ancora guardando la porta chiusa oltre la quale l'uomo era sparito.
«Ottima interpretazione, Cullen» disse Anderson.
«Mi deve dieci dollari» disse l'ispettore.
«Non riesce a resistere più vero, Black?» proseguii Miller ridacchiando: «Black» disse incerto l'agente, battendo un colpo sulla spalla di Nick.
Quest'ultimo si girò piano verso di noi e disse: «Sei per caso diventata scema?! Potevi dirmelo!».
«Non avresti mai acconsentito. E comunque, tranquillizzati, la tua ragazza non lo verrà a sapere».
«Io non ho una ragazza e non ero preoccupato per questo!».
«Possiamo parlarne dopo? Adesso abbiamo altre cose da fare, prima che quel tizio torni».
«Come ci muoviamo?» disse l'ispettore.
«Per ora non muoviamoci in nessun modo. Dovete solo stare attenti a non rivelare la vostra identità e a non dare troppo nell'occhio. La cosa più importante adesso è tenere gli occhi aperti e non fidarsi di nessuno che non sia qui dentro».
Tutti tacquero per qualche secondo: «Abbiamo un bel problema» ammisi a voce bassa.
«Oh, davvero» risposero tutti.
Lo dissero tutti con un tono diverso: l'ispettore sconsolato, Miller affermativo e Anderson sarcastico. Solo Nick stava in silenzio.
Uscimmo dallo sgabuzzino ad uno ad uno, senza farci vedere.
«Noi torniamo a casa, ispettore, quando avrà notizie mi chiami, ma non mi dica quali sono».
«Bene» rispose l'ispettore.
«Andiamo» dissi facendo un cenno a Nick.
Lui mi seguì come un'automa, con sgardo vacuo e indecifrabile.
Confesso che se non mi fossi costretta a rimanere lucida, avrei avuto la stessa espressione. Mi sentivo leggermente confusa, quasi stordita, eppure non avevo bevuto niente!
'Magari è stato... no, non è possibile sia stata colpa di quel bacio' cercavo di convincermi: 'Nick è un amico'.
Arrivammo al parcheggio e, appena uscita, andai verso sinistra.
«La macchina è da questa parte» disse Nick, indicando la BMW parcheggiata dalla parte opposta rispetto a quella che avevo preso io.
«Oh, si... giusto» dissi incolore.
Durante il tragitto in macchina nessuno dei due fiatò: per quanto mi riguarda ero completamente persa in un altro mondo.
Arrivammo in pochi minuti e poco prima di entrare notammo una figura vicino alla porta d'ingresso principale: una ragazza con i capelli rossi.
'Qualcuno mi dica che è uno scherzo!' pensai irritata.
«Credo che dovrei scendere qui» disse Nick.
Io grugnii in risposta e accostai.
Quando la rossa ci vide si illuminò: «Ciao, Macy, come stai? È davvero tanto tempo che non ci vediamo! Io sono venuta a trovare il mio Nick!» disse attaccandosi come una piovra al braccio del suddetto ragazzo.
Senza degnarla neanche di uno sguardo, proseguii in direzione del garage.
Dopo aver parcheggiato, obbligai le mie gambe a camminare fuori dal garage e a salire le scale.
«Non può andare peggio» mormorai.
Poi mi vennero in mente la legge e i corollari di Murphy: 'Se qualcosa può andar male, lo farà'.
Arrivai dietro la porta del salotto e sentii la piccola oca piagnucolare: 'Magari la sta lasciando' pensai gongolando.
Mi accucciai dietro la porta e, dopo aver recuperato un bicchiere in cucina, lo appoggiai sul legno per poter sentire meglio: «Capisci? Non so che fare!» diceva lei.
«Mi dispiace, ma io che posso fare, Tiffany?» diceva lui.
«Non lo so. Speravo tu potessi mandarmi da qualcuno, non so dove sbattere la testa».
'Ma di che diavolo stanno parlando?'.
«Ehm... io veramente avrei un'idea, ma devo chiedere a Macy» rispose lui.
'Chiedermi cosa?' mi domandai preoccupata.
Prima che potessi muovere un muscolo, sentii i passi di Nick avvicinarsi alla porta e entrai nel panico. Lui aprì la porta e io ruzzolai dentro la stanza, finendo a gambe all'aria ai piedi del mio amico.
«Che stavi facendo?» chiese lui con aria interrogativa guardandomi dall'alto in basso.
«Oh, beh... io stavo... cercando... un orecchino» dissi facendo una pausa ad ogni parola.
«Tu non porti orecchini, dici sempre che ti danno fastidio».
«Infatti non era mio, ma della signora Smith» mentii.
«Capisco. Alzati, andiamo nello studio, devo chiederti una cosa».
Rivolsi un'occhiata alla rossa svampita dietro Nick e quando lui si mosse, io gli andai dietro.
Entrammo nello studio e lui prese un bicchiere dal mobile bar e mi versò due dita di whiskey.
«È così grave la cosa?» dissi allarmata.
«Come?» rispose lui.
«Mi stai dando del whiskey, sei contrario di solito agli alcolici, e le poche volte che mi hai versato del whiskey, mi hai detto cose che potevano nuocere gravemente al mio stato Zen. Quindi: è grave?».
«Io non so come la prenderai. Tra le altre cose niente è sicuro, devi decidere tu».
Io buttai giù d'un fiato il liquido ambrato: «Parla».
«Siediti» lo guardai preoccupata e continuò: «Fidati, è meglio così».
Feci come mi aveva detto e lo fissai in attesa di una risposta.
«Tiffany è stata sfrattata dal padrone del palazzo in cui abitava».
Io annuii e dissi: «Beh, mi dispiace, ma io che c'entro?».
«Dovresti...».
«Ho capito: vuoi che chiami quel tipo e lo minacci di ridarle la casa?».
«No, veramente dovresti...».
Io scoppiai a ridere quando un pensiero folle mi attraversò la testa e sempre ridendo dissi: «Stai, ahahah, per dirmi... che, ahahah, dobbiamo ospitarla qui? Ahahah!».
Lui tacque e io smisi di ridere: «Ti prego, dimmi che ho detto una serie di cazzate. Ti scongiuro».
«Veramente è proprio questo che volevo dire» disse incerto.
«Oh, per le mutande con gli orsetti di Bush! Dimmi che sta per apparire una telecamera dal nulla e Ashton Kutcher che urla che sono su ''Punk'd''»* dissi disperata.
«No» mormorò flebile.
Mi lasciai affondare sulla poltrona e, con gli occhi chiusi, presi un bel respiro profondo, tentando di visualizzare tutte le possibilità che avevo per togliermi quella Piattola dalle scatole.
«Non ha altri parenti?» chiesi speranzosa.
«No. Tutti quelli che ha vivono in Inghilterra».
Mi ritrovai a pensare a quanto odiassi 'l'America Senior'.
«Non può cercare un'altra casa?».
«Sta facendo proprio questo, ma nel frattempo non ha dove andare».
«Ashton, dove sei?» gemevo disperata.
Dopo qualche secondo, mi rialzai e, sapendo che me ne sarei pentita, dissi: «E va bene. Ma a patto che si trovi in fretta un'altra sistemazione» dissi frenando l'entusiasmo di Nick.
«Assolutamente».
«Ok. Puoi andarle a dare la buona notizia e poi avverti la signora Smith».
«Perché non la avverti tu?».
«Per tre semplici motivi: #1 è una tua amica e io non muoverò le chiappe da qui per lei; #2 alla signora Smith non piacciono gli estranei; #3 la signora Smith è un tipo molto irascibile a volte e non ci tengo a vederla arrabbiata».
Lui deglutì a vuoto e, annuendo, uscì.
Mi lasciai cadere sulla famosa poltrona: 'Tanto peggio di così non può andare'.
L'avevo pensato anche prima però.
Tornai in salotto e un tornado rosso mi investì: «Grazie, grazie, grazie, grazie» continuava a ripetere baciandomi le guance come un cane.
«Io... non... perfavore... allontanati...» dicevo tentando di allontanarla.
«Oh, sei così buona! Grazie!».
«NICK!» ruggii io, quando realizzai di non potermi liberare da sola.
Sentii la porta del salotto aprirsi, una lunga serie di imprecazioni e dei passi frettolosi nella nostra direzione.
«Tiffany, sta ferma!».
Lei parve non sentirlo.
«Tiffany, lasciala respirare!» diceva Nick tentando di togliermela di dosso.
Ma lei continuava a sbaciucchiarmi e a ripetere 'grazie'.
Dovete sapere, miei cari lettori, che ancora oggi, se qualcuno mi dice 'grazie', corro a nascondermi dietro Nick. Si, lo so è infantile, ma credo di avere un disturbo post traumatico parecchio grave.
«Tiffany, smettila!» urlò Nick e poi dopo qualche secondo riprese: «Hey, guarda, Tiffany! Ci sono i saldi!».
Lei come un segugio da caccia alzò lo sguardo e cominciò a saltare in tondo chiedendo dove fossero. Io non persi tempo e corsi a nascondermi dietro il mio amico. Quando lei smise di saltare e si accorse della mia assenza, disse: «Dov'è Macy?».
«Di sopra. È andata a preparare la tua stanza».
«Oh, che carina! Devo ringraziarla!» disse lei, avvicinandosi a Nick quasi fluttuando nell'aria.
Appena fu abbastanza vicina, le ruppi in testa un vaso che trovai lì vicino. Nick mi guardò sconvolto e io risposi: «Mi avrebbe attaccata di nuovo. Falla... riposare. Portala di sopra!» dissi vedendolo allontanarsi.
Nick la guardò, alzò le spalle e disse: «Sta bene lì dov'è».
«Ma scusa, lasci la tua ragazza svenuta sul pavimento?» dissi incredula.
«Lei non è la mia ragazza».
Io alzai un sopracciglio.
«Davvero. Lei non è la mia ragazza! Sono stato con lei una sola volta e dal quel momento mi si è appiccicata addosso come un adesivo!».
«Perché non ti credo?».
«Perché sei troppo testarda?».
«Può darsi. Io salgo di...» non ebbi il tempo di finire la frase che suonarono alla porta.
«Lascia, vado io» dissi a Nick.
Lui annuì e raccolse Tiffany da terra per non farla vedere al nostro visitatore.
«Devi raccontarmi come l'ha presa la signora Smith» dissi sorridendo nella direzione di Nick, prima di aprire la porta.
Il sorriso scivolò via dalla mia faccia appena notai la persona alla porta.
'Se qualcosa può andar male, lo farà'. Maledetto Murphy!
Degli imbarazzanti minuti di silenzio avvolsero me e la persona alla porta, prima che Nick, tornato dalla camera di Tiffany, senza di lei ovviamente, lo interrompesse: «Hey, chi è alla porta?».
«Nessuno» dissi riprendendomi e sbattendo la porta in faccia alla persona in piedi sullo scalino d'entrata.
«Lasciami entrare, Macy, ti prego. Devo parlarti» disse la voce.
«Hey, ma che fai?».
«Chiudo per non far entrare lo sporco in casa» dissi fredda.
Lui aprì la porta e, dopo essersi scusato per il mio comportamento, fece entrare la donna in salotto.
«Mi dispiace ancora, signora...».
«Jennings».
Nick si immobilizzò al centro del salotto: «Jennings?».
«Mia figlia ti avrà parlato di me».
Io ringhiai pericolosamente all'appellativo 'figlia', ma non accennai a muovermi dal posto in cui mi ero inchiodata.
«Che ci fate qui?» sibillai.
«Sono venuta per avere notizie sul caso e...».
«Sareste dovuta andare alla polizia, non da me».
«... e per parlare con te di... noi».
«Punto primo: non potete recuperare quello che 'noi' non abbiamo mai avuto, quindi mettetevi l'anima in pace; punto secondo: come vi siete procurata il mio indirizzo?».
«L'ho trovato sull'elenco telefonico. Mi dispiace averti abbandonata, ma non potevo andare più avanti per colpa della...».
«Fama? Quale? In ogni caso, non mi importa, non voglio sentire le vostre cazzate, non me ne faccio niente, proprio come non me ne faccio niente delle vostre scuse».
«Ma io voglio spiegarti».
«Io non voglio sentire però e adesso fuori da casa mia, mi state insudiciando il tappeto».
«Non permetterti di parlarmi così, sono sempre tua madre!».
«Peccato che non mi importi neanche questo» dissi guardandomi le unghia con indifferenza.
«Sei solo una piccola ingrata».
«E di cosa dovrei ringraziarvi? Di avermi rovinato la vita? Di avermi fatto passare un anno in una clinica? Di avermi fatto sfiorare il suicidio? O di avermi fatta sentire sbagliata per tutta la vita?».
«Io...».
«Un cazzo! Fuori da questa casa! Se volete informazioni su quel crimiale del vostro defunto marito andate alla polizia, non cercatemi mai più. Anzi, fatelo solo quando sarete in punto di morte: verrò al vostro capezzale per augurarvi un trapasso lento e doloroso e, quando sarete spirata, chiamerò l'intera Hollywood per organizzare un festino» ghignai.
Mi guardò con gli occhi lucidi di lacrime e andò via, chiudendosi alle spalle la porta di casa.
Mi buttai sul divano come se fossi stata svuotata di ogni energia e mi appoggiai alla spalla di Nick, che aveva appena preso posto accanto a me. Nessuno dei due proferì parola per lungo tempo.





* Punk'd è un programma di MTV, condotto da Ashton Kutcher, dove si fanno scherzi alle celebrità.


Perdonate il mio imperdonabile ritardo e perdonate anche il gioco di parole, sono stata un tantino impegnata xD

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Capitolo 12
*** C'è qualcosa che non quadra ***


Capitolo 12: C'è qualcosa che non quadra.

«Ragazzi è pronto il pranzo!» esclamò la signora Smith dalla cucina.

Mi riscossi e mormorai: «Non ho fame, glielo dici tu?».

«Dovresti mangiare, ma, se proprio non vuoi, va bene».

Mi alzai e salii le scale dirigendomi verso il bagno: dovevo schiarirmi le idee e dell'acqua gelida in faccia era quello che ci voleva.

Mentre salivo al piano superiore, pensavo alla visita sgradita di poco prima e a come mi fossi comportata: arrivai alla conclusione che non potevo comportarmi meglio e girai il pomello della porta del bagno.

'Perché il bagno è chiuso?' pensai.

Bussai e chiesi: «C'è qualcuno?».

«Macy, sei tu?» disse una vocina fastidiosa proveniente dal bagno.

'Oh cazzo! Mi sono dimenticata della rossa! Devo nascondermi!'.

Mi guardai attorno e non vidi un singolo nascondiglio.

«Esco subito, devo ringraziarti, sei stata un angelo con me!» disse lei.

'Oh, santissimi numi!'.

Cominciai a correre lungo il corridoio e mi infilai nella prima stanza che incontrai.

'Sono braccata da una schizzata. In casa mia!'.

«È assurdo!» borbottai.

Sentii dei passi che si avvicinavano e mi guardai intorno. Il panico mi colse velocemente: ero nella camera della rossa psicopatica!

Come in un film horror, vidi il pomello della porta che ruotava e mi affrettai a cercare un nascondiglio.

L'unico posto degno di nota fu il letto e feci appena in tempo ad infilarvi la testa sotto che lei entrò nella stanza.

Mentre cercavo di infilarmi sempre più giù, il mio piede andò a sbattere contro qualcosa che podusse un rumore sordo.

Per fortuna la psicopatica non se ne accorse e poco dopo uscì dalla stanza per andare a pranzare.

Appena lei si richiuse la porta alle spalle, io uscii dal mio nascondiglio improvvisato e, tanto per curiosità, presi la scatola e ci guardai dentro.

Diversi oggetti vi erano buttati a casaccio, ma alcuni, nonostante il disordine, attirarono la mia attenzione: una telecamera, vecchio modello, che registrava su cassetta, una cartelletta arancione pastello, con su scritto 'TOP SECRET' e, naturalmente, molte altre cassette, probabilmente già usate, per la telecamera sopracitata.

'Chi diavolo usa ancora questi aggeggi preistorici?' pensai incredula.

Per prima cosa presi la cartelletta arancione, piena a giudicare dal peso, e la aprii: vi erano articoli di giornale, ritagli di diverse riviste, foto sbiadite e non, un vecchio rapporto della polizia di NYC e altri documenti vari.

'C'è qualcosa che non quadra: che se ne fa una decerebrata come quella di tutte queste cose?'.

Mettendo da parte la cartella con i documenti, promettendomi che li avrei spulciati per bene in seguito, presi la videocamera.

'È abbastanza vecchia, ha i suoi vent'anni, è stata usata da poco, data l'assenza di polvere, e viene tenuta in perfetto stato: allora perché è stata buttata in questo scatolone come roba vecchia?'.

Aprii lo sportellino che conteneva la cassetta in uso e notai che il nastro non era ancora stato usato del tutto.

«La rossa sta registrando qualcosa» mormorai assorta.

Misi da parte la videocamera e mi concentrai sui restanti nastri: erano 13 in totale e su nessuno vi era scritto il contenuto ma solo una data, probabilmente indicavano i giorni in cui erano stati girati i video .

Le date erano in ordine cronologico: la cassetta più vecchia risaliva al 23 giugno, quella più nuova era del 19 luglio.

'Cinque giorni fa' riflettai.

Mi convinsi che vederci chiaro era l'unica cosa da fare, dovevo (volevo) sapere che cavolo combinava quella tipa.

'È buffo che tu l'abbia nominata, perché, a proposito di quella tipa... sta tornando!' disse una vocina nella mia testa.

Quando sentii un rumore di passi nel corridoio, mi affrettai a rimettere tutto per come lo avevo trovato e mi rimisi sotto il letto, maledicendomi e chiedendomi perché non me ne fossi andata prima.

'Perché dovevi scoprire che sta facendo!' disse la voce di poco prima.

«Perché sono una cretina, ecco perché! Potevo farlo anche un'altra volta» mormorai in preda al panico.

La rossa entrò in camera sua appena io finì di parlare e per fortuna non si accorse di niente: non che sarebbe stata tanto intelligente da farlo, ma non si sa mai.

«Adesso vado al mare con Nick, il mio bellissimo Niiiiick» disse canticchiando: «Mi preparo e mi faccio bellaaa».

Accidenti se era stonata! Non l'avrei augurata a nessuno, peccato che io non fossi nella posizione di parlare. E quando dico 'nella posizione', intendo letteralmente.

Infilata sotto il letto come un calzino vecchio: che schifo!

«Andiamo al mare, andiamo al mare, senza di lei, senza di lei» continuava a dire.

'Quando dice 'lei' che intende?' pensai.

«Oh si, oh si, oh si, solo noi dueeeee!!».

Forse non mi crederete, ma quello è stato l'acuto peggiore della mia intera esistenza!

Sentii bussare alla porta e, dal mio nascondiglio, vidi lei andare ad aprire: «Ciao Nick! Sei pronto?» disse cinguettante la rossa.

«Ehm, si... hai per caso visto Macy? Devo dirle che usciamo».

«No, non l'ho vista. Vuoi chiederle di venire con noi? Io credevo andassimo solo noi due, senza di lei».

'Adessso capisco chi è la famosa 'lei'. Brutta psicopatica' pensai irritata.

«No, devo dirle che rimaniamo fuori per tutta la giornata però. Adesso le lascio un biglietto, magari è uscita».

«Beh, io sono pronta, fammi prendere una maglietta da uno scatolone sotto il letto».

'Sotto il letto?! Ma porca Eva!'.

«Lascia, faccio io, magari è pesante» disse Nick.

'Che Dio sia lodato!'.

Appena Nick si inginocchiò accanto al letto e mise la testa sotto, vedendomi si spaventò e tentando di rialzarsi, sbattè la testa contro il legno del mobile.

Cominciò a borbottare senza ritegno e la rossa gli fu subito accanto.

'Giù le mani da lui, psicopatica!' ruggì una parte di me: 'Mi devo far visitare da un medico competente' disse la parte più razionale di me.

«Non preoccuparti, non è niente. Prendo lo scatolo».

Nick reinfilò la testa sotto il letto: «Che ci fai qui?» sussurrò concitato.

«Te lo spiego dopo, nel frattempo, evita di flirtare con lei davanti a me».

«Perché sei gelosa?» disse ridacchiando.

«Io non sono gelosa! Soltanto, non vorrei vomitare!» sussurrai scocciata.

«Nick, è tutto apposto? Lo hai trovato?».

«Si» disse Nick: «Tesoro» disse guardandomi con un sorrisetto divertente e fastidioso stampato in faccia.

Io feci una smorfia: «Sto per prenderti a sberle, levati dai piedi».

Lui uscì da sotto il letto e io mi affacciai per vedere quello che succedeva.

«Ecco, amore» disse Nick calcando volutamente quella parola: «Lo scatolo».

«Oh, come sei coraggioso! Avventurarti sotto il mio letto con Miki in giro per me».

'Coraggioso?! Ha preso uno scatolone da sotto un letto! E poi chi cazzo è Miki?!'

Ebbi appena il tempo di formulare questo pensiero che sentii qualcosa toccarmi il piede.

Mi voltai lentamente, come se dietro di me avessi potuto vedere la Morte con cappuccio e falce annesse, e quello che vidi fu come una stilettata al cuore: un serpente lungo circa 50 cm si stava avvolgendo lungo la mia gamba e io non riuscivo a fare altro che guardarlo immobile.

'Ecco chi è Miki' pensai in preda al panico.

«Chi è Miki?» chiese Nick.

'Te lo dico io chi è Miki! Porta fuori di qui la psicopatica, idiota!'.

«Il mio serpente».

«Serpente?».

«Si, gli piace stare sotto i letti».

Come se avesse capito che avevo un serpente, potenzialmente pericoloso, attaccato alla gamba, Nick deglutì e si affrettò a dire: «Interessante, perché non approfondiamo il discorso in auto, mentre andiamo a Malibù?».

«Oh, si andiamo!».

Due secondi dopo loro erano usciti e io, appena riuscii a spostare gli scatoloni, mi stavo mordendo la lingua per non urlare: «Via, bestiaccia! Via dalle palle, non sono in vena di scherzare!».

Appena 'Miki' si decise a mollarmi la gamba, gli diedi un calcio e lo spiaccicai contro la finestra, mentre mi affrettavo a richiudermi la porta alle spalle.

«La stanza degli orrori» dissi esausta.

Corsi alla finestra e feci appena in tempo a vedere l'auto di Nick che si allontanava lungo la strada.

Con l'intenzione di esaminare quei fogli adesso che non c'era nessuno in casa, tranne i domestici, mi precipitai in cucina e dal cassetto della cucina tirai fuori il coltello più grande che ci fosse.

«Macy, che stai facendo?» disse la signora Smith, guardando me e il coltello.

«C'è un brutto animale di sopra, non vorrei mi attaccasse».

«Se ti riferisci alla ragazza di Nick...».

«Lei non è la ragazza di Nick» puntualizzai irritata.

«Dicevo, se ti riferisci all'amica di Nick, è appena uscita».

«Non mi riferivo a lei: c'è davvero una brutta bestiaccia di sopra!».

«Peccato, se l'avessi uccisa non sarebbe dispiaciuto».

«Non le sta simpatica, vero, signora Smith?».

La donna fece una smorfia: «Se il suo cervello andasse più lento, andrebbe all'indietro. Con un quoziente intellettivo come quello, mi sorprende riesca a formulare delle frasi di senso compiuto».

«Non le sta simpatica» affermai divertita.

«Non proprio. Buona fortuna con la tua brutta bestiaccia».

«Buona fortuna a lei con le piante del giardino!» dissi notando l'attrezzatura da giardiniere.

Lei mi fece un cenno di ringraziamento e uscì.

'E adesso a noi due, brutta bestiaccia!'.

Armata di coltello e di coraggio (stupidità rende di più l'idea), mi avventurai nella stanza della rossa schizzata.

Entrai guardinga, alla ricerca di Miki: prima di infilarmi sotto il letto presi uno specchietto simile a quello che usano i dentisti, ma più grande e lo usai per guardarci sotto, evitando così un agguato da parte della 'bestia'.

Dopo essermi accertata che sotto il letto non ci fosse niente, sempre con il coltello davanti in posizione di difesa, mi avventurai alla ricerca dello scatolone in questione. Appena riuscii a trovarlo, in mezzo a tutto quel casino di scatoloni identici, lo tirai fuori e quando mi misi seduta per concedermi cinque minuti di pausa con la testa appoggiata al bordo del letto, sentii un sibilo alle mie spalle.

Mi voltai, bianca come un lenzuolo, verso la fonte del rumore e dovetti incrociare gli occhi (come se mi stessi guardando il naso) per mettere a fuoco l'immagine del serpente, tanto era vicino alla mia faccia.

Deglutii rumorosamente e lentamente mi alzai: la bestia fece per mordermi e con una manata ben assestata, lo feci volare contro la porta rimasta semiaperta.

Ripresosi dalla botta uscì dalla stanza velocemente e io maledii per l'ennesima volta in un solo giorno chiunque lassù (o laggiù) ce l'avesse con me in modo così... atroce.

'Devo recuperare la bestiaccia prima che lo veda la signora Smith e soprattutto prima che torni la rossa. Devo anche esaminare questi cosi' pensai guardando nello scatolone.

Andai in camera mia, posai la scatola a terra e, dopo essermi cambiata, mi assicurai che la porta fosse ben chiusa cosicché il serpente non potesse entrare.

«Solo una cretina poteva tenere un serpente come animale domestico!» esclamai in preda alla frustrazione.

Raccattai il coltello dalla stanza della rossa e chiusi, oltre quella, tutte le porte della casa.

Presi il cellulare dalla tasca destra dei pantaloncini e composi il numero di Nick: dovevo sapere quando sarebbero tornati e quindi quanto tempo avrei avuto per fare tutto quello che dovevo prima del loro ritorno.

Al settimo squillo, stavo per rinunciare, ma Nick rispose: «Black».

«Solo i tipi tosti rispondono al telefono con il cognome, quindi tu non farlo. Bando alle ciance, ho combinato un casino, devi tenere la tua ragazza lontana a casa il più a lungo possibile» dissi tutto d'un fiato.

«Ciao, mamma. Com'è l'Italia? Vorrei tanto essere lì con voi. Comunque, credo di potercela fare, ma se hai qualche idea di come fare dimmelo» rispose lui.

«Lei è lì con te, vero?».

«Si mamma, ti voglio bene anche io, ma vorrei spiegato che succede, così posso organizzare meglio tutto».

«Ho fatto scappare la bestiac... Miki, il serpente e devo recuperarlo in fretta, ma devo anche esaminare le cose che ho trovato dentro uno scatolone in camera della tua ragazza».

«Cosa?!» disse lui sorpreso.

«Ti spiego un'altra volta: vicino la spiaggia c'è un motel, passate la notte lì, io ti coprirò con la signora Smith».

«Posto di gran classe, mamma, ma che dovremmo fare per tutta la sera?».

«Niente sesso!».

«Perché?» disse ridacchiando.

«Perché potrei spezzarti le gambe!».

«Per quale motivo lo faresti, mamma?».

«Perché... perché... perché mentre ci date dentro potrebbe sfuggirti qualcosa su quello che sta succedendo e non deve capitare».

«Non ti preoccupare, sarebbe altro quello che mi uscirebbe dalla bocca» rispose.

Dal tono, giurerei stesse ghignando.

«Vaffanculo, Nick! Fai quello che cazzo ti pare, basta che me la tieni lontana!» urlai al telefono chiudendo la chiamata.

Tirai il cellulare (nuovo, visto che l'altro lo avevo distrutto gettandolo in aria) contro la parete e lo feci con tanta violenza che si frantumò.

«Maledetti telefoni!» urlai in preda alla frustrazione.

Imprecai senza pietà sulla stupidità maschile e su quanto fossero maniaci gli uomini: gli metti davanti una rossa tutta tette, ben carrozzata e non capiscono più una mazza.

La mia sequela di insulti contro Nick andò avanti per circa 10 minuti, fin quando non intravidi la coda della bestiaccia strisciante rifugiarsi sotto una poltrona.

«Ti ho beccato brutto rettile schifoso» ghignai soddisfatta.

Avevo un retino in una mano e il coltello nell'altra: stavo per spostare la poltrona e afferrare quel coso strisciante quando Charles piombò nella stanza.

«Macy? Che stai facendo?» chiese vedendomi sul piede di guerra.

Per la caccia, mi ero trasformata: se il serpente voleva la guerra, la guerra avrebbe avuto.

Avevo indossato un paio di scarponcini verde militare, pantaloncini con fantasia mimetica, canottiera bianca e cappellino con la stessa fantasia dei pantaloncini. Aggiungeteci una coda di cavallo alta, due strisce di tempera nera su ogni guancia, il coltello e il retino e sembravo proprio una deficiente.

«Oh, beh... io...» dissi balbettante.

«Aspetta, prima di dirmelo ti faccio un'altra domanda: lo voglio sapere?».

Esaminai la situazione: ero in casa mia, in tenuta mimetica, alla ricerca di un serpente, scappato dalla camera di una rossa deficiente, potenzialmente psicopatica.

«No, non lo vuoi sapere, Charles» affermai.

«Ok. Allora... buon proseguimento» disse allontanandosi.

«Grazie» mormorai quando già lui era andato via.

Presi un respiro profondo e spostai di colpo la poltrona, muovendo il retino con l'intenzione di afferrare il serpente: invece afferrai solo l'aria.

'Ma dove diavolo è finito?' pensai stizzita: 'Credevi davvero sarebbe rimasto lì tutto il giorno aspettando che lo catturassi?' disse una vocina nella mia testa: 'Oh, sta zitta maledetta coscienza!'.

Dovevo davvero farmi controllare da uno specialista.

Ripresi a cercare Miki per tutta la casa, ma senza alcun risultato: la casa era grande e io ero da sola, stremata e avevo anche poco tempo.

Stavo andando il cucina, alla ricerca di un bicchiere d'acqua e lo vidi: la signora Smith stava sfornando i suoi famosi (a livello familiare ovviamente) muffin e Miki era proprio dietro di lei. Adesso immaginatevi la scena a rallentatore: la cretina di turno (che sarei io), lascia cadere le sue uniche armi di difesa (cioè il coltello e il retino), che ha contro il mostro (il serpente) per terra e si lancia a pesce contro il terribile mostro per salvare la povera donzella indifesa (la signora Smith), gridando 'Noooooooooooo'.

A tutt'oggi mi vergogno profondamente di quella scena.

Una volta che mi buttai sopra il serpente, realizzai che non avevo modo di staccargli la testa in caso avesse tentato di attaccarmi (uccidermi).

«Macy, tutto bene?» disse la signora Smith che mi guardava preoccupata dimenarmi sul pavimento.

«Si... tutto apposto» dissi reprimendo una smorfia di fatica: «Ma, ha fatto i muffin? Non vedo l'ora di mangiarli!» continuai nascondendo il serpente dietro la schiena.

Uscii dalla cucina camminando all'indietro e sorridendo come un'ebete. Appena fui fuori portai il rettile davanti ai miei occhi e con tono di sfida gli dissi: «Adesso a noi due, mostro!».

'Tu sei scema!' disse la solita voce: 'Sta zitta anche tu, piccola stronza!'.

Come un razzo mi fiondai in camera della rossa e vi tirai la bestiaccia dentro come fosse un giavellotto. Chiusi la porta a chiave con doppia mandata e tornai in camera mia.

«Non ho il tempo materiale di esaminare tutte cose... devo chiedere un favore» mormorai.

Presi il telefono di casa (visto che il mio telefono giaceva ancora in pezzi in mezzo al corridoio) e digitai il numero di Jackson, il figlio di un vecchio amico di mio padre.

Lui rispose quasi subito: «Hey Jack, sono Macy, la figlia di Theodore, ti ricordi di me?».

«Ma si, certo Macy, come ti posso aiutarti?».

«Hai ancora quell'aggeggio che mi permette di passare i filmati da una cassetta su DVD?».

«Si certo, ti serve?».

«Se passo stasera da te, puoi passarmi circa 13 filmati su DVD?».

«Ovviamente, ti ricordi ancora dove abito, vero?».

«Sicuro, ci vediamo tra cinque minuti».

«Perfetto ti aspetto» disse lui chiudendo il telefono.

Senza neanche cambiarmi, presi i nastri e li infilai in una busta di carta, come quelle della spesa e mi fiondai fuori di casa.

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Capitolo 13
*** Il segreto di Tiffany ***


Il segreto di Tiffany.

 

Ero in viaggio da circa dieci minuti: all'ultimo momento, avevo deciso di portare con me anche i fogli e le foto che avevo trovato, con l'intenzione di fotocopiarli prima di tornare a casa.

Era tardi, è vero, ma Los Angeles è una città piena di vita notturna e si trova facilmente un posto dove poter fotocopiare qualche foglio.

Ci misi circa ventuno minuti per arrivare fino a Stanmoore Drive, dove viveva Jack e quando arrivai, parcheggiai davanti alla sua villetta.

L'8811 di Stanmoore Drive, ospitava una villetta di mattoni, con una scalinata che conduceva alla porta d'ingresso in muratura.

Salii la scala velocemente e suonai il campanello; passarono alcuni secondi prima che la porta si aprisse e apparisse Jack.

Era proprio come me lo ricordavo: alto, capelli neri, spettinati e occhi dello stesso colore. Si era fatto crescere la barbetta e ammetto che gli stava davvero bene, gli dava un'aria da uomo vissuto.

Il fisico, comunque simile a quello di una volta, era diventato più robusto, con qualche accenno di muscoli, ma nonostante questo i vestiti erano dello stesso stile di anni prima.

«Hey, Macy, come stai? È da tanto che non ci si vede!» esclamò Jack.

«Ciao, Jack, sto alla grande, tu?» dissi abbracciandolo.

«Anch'io. Vieni, entra, così passasiamo i tuoi filmati su DVD e parliamo un po' dei vecchi tempi».

«Grazie».

Entrai e mi accomodai su uno degli ampi divani del salotto di Jack.

«Bella casa, l'ultima volta che ti ho visto avevi una ragazza, vivi con lei?».

«Assolutamente no, l'ho mollata l'anno scorso, non eravamo compatibili» disse sorridendo.

«Mi dispiace, non volevo».

«Non preoccuparti, sono contento di averla mollata, mi stava ripulendo a furia di farsi comprare vestiti per i compleanni. Vieni, il convertitore è in questa stanza» disse facendomi stada verso una stanzetta.

La macchina non era niente di che: era un composto tra un videoregistratore e un lettore DVD collegati tramite qualche filo colorato.

«Sei sicuro che funzionerà e non mi fonderà le cassette?» chiesi incerta.

«Tranquilla, funzionerà alla grande».

Gli porsi le cassette e lui le sistemò in ordine sul tavolo: «Da quale vuoi partire prima?».

«Dalla più vecchia» risposi.

«Ok: 23 Giugno. Il filmato dura due ore».

Lui prese la cassetta e la infilò nel videoregistratore.

«Allora: che mi racconti? Per quanto ricordo, la tua vita non è stata mai noiosa» disse ridacchiando.

«Si, è vero» ammisi sorridendo: «Comunque niente di che, qualche caso qui e lì».

«Davvero? Nient'altro? Mi deludi, Macy, sei sempre stata un po' scavezzacollo, mi aspettavo inseguimenti, relazioni clandestine...».

«Stop! Non sono tipo da relazioni clandestine, oggi giorno mantenere i segreti è diventato difficile anche per i più bravi» ammisi: «Comunque, davvero, niente di che, ultimamente sto ospitando un amico e sto collaborando ad un caso con la polizia».

«Un amico? Ed io lo conosco?».

«No, direi proprio di no: si chiama Nicholas Black, lo hai mai sentito?».

«Neanche per sbaglio. Queste cassette c'entrano con il caso a cui stai collaborando?».

«Oh, no, sono solo cose che ho trovato e devo scoprire che sono».

«Sono del tuo amico?».

«No, se no non ci sarebbe stato bisogno di guardarle per conto mio, lo avrei costretto a dirmi che c'era registrato» dissi ghignando.

«Oh, si immagino!».

In quel momento il bip dell'apparecchio di fronte a noi risuonò acuto e ci informò che la copia su DVD era pronta. Jack mise l'altra cassetta e andammo avanti così, a parlare a cambiare cassette, fin quando non finimmo ormai a notte fonda.

«Senti, posso chiederti un ultimo favore?» chiesi incerta.

«Ma si, certo!».

«Non è che hai idea di dove potrei fare delle fotocopie all'una di notte, vero?» chiesi speranzosa.

«Per tua fortuna, quando sei arrivata stavo montando la nuova stampante con la fotocopiatrice incorporata. Se mi dai due minuti finisco di collegare i fili e innauguri la fotocopiatrice».

«Io ti adoro. Letteralmente, Jack, sei la mia salvezza».

«Non preoccuparti, se vuoi da bere di là c'è la cucina, io vado ad installare la stampante».

Annuii e mi diressi in cucina. Mi versai un bicchiere d'acqua e, dopo aver infilato una mano nella busta, uscii uno dei dischi: chissà che c'era scritto.

Non feci neanche in tempo a formulare un qualche tipo di ipotesi che Jack mi chiamò, dicendo che tutto era perfettamente funzionate.

Portai con me i fogli e ad uno ad uno, in pochi minuti, li fotocopiai tutti.

«Grazie, Jack, non so come avrei fatto senza di te» dissi una volta ch fui alla porta.

«Di niente, è stato un piacere. Torna a trovarmi presto, Macy».

«Contaci, amico!» dissi mentre salivo in auto. Lo vidi chiudere la porta di casa e sparire dietro le tende.

Tornai a casa e, dopo aver rimesso l'auto in garage, salii velocemente al piano superiore.

Tutto era silenzioso e le luci spente: tentai di salire le scale al buio, ma inciampai e, per tentare di non rompere niente di quello che reggevo, preferii cadere sbattendo con il fondoschiena.

Dopo essermi alzata e aver imprecato a volontà, mi trascinai fino in camera mia.

Mi lasciai cadere sul letto insieme alle buste, intenzionata a vedere i video e a leggere i documenti. Ovviamente, avrei fatto tutto questo in due sessioni: un giorno i documenti e un altro giorno i filmati, essendo questi ultimi di circa due ore ciascuno).

Decisi di partire con i fogli e le fotografie, essendo più veloci.

Alcuni fogli erano documenti dell'anagrafe: certificati di morte e di nascita.

I nomi sui documenti di morte erano cancellati con il pennarello nero, ma quelli sui certificati di nascita erano visibili: Tiffany Walker, nata il 5 Dicembre del 1990, a Denver, Colorado.

'Perché conservare il proprio certificato di nascita?' pensai.

C'erano poi documenti vari, attestati scolastici, un diploma a nome di Tiffany Walker e qualche certificato, dei curriculum e altri simili.

Avevo fatto fotocopiare anche qualche pagina di un libriccino che avevo notato tra le varie scartoffie: l'oggetto era poco più grande di un'agendina tascabile, foderato in pelle nera e aveva le pagine piene zeppe di numeri.

Analizzai le fotocopie di acune pagine, ma non capii molto, i numeri sembravano casuali: avevo provato con i codici di decodifica che conoscevo e nessuno si adattava a quei numeri.

Misi da parte quindi i fogli decretando che ci avrei pensato più tardi, a mente fresca, a decifrarli e passai alle fotografie.

La prima ritraeva la stronza rossa con alcuni uomini, tutti più grandi di lei, alcuni sulla cinquantina, altri sulla sessantina, ma uno di loro le somigliava particolarmente: aveva dei capelli corti e brizzolati, occhi piccoli e verdi, come quelli della ragazza, labbra carnose e naso aquilino. L'uomo aveva le spalle larghe e superava in altezza la rossa di pochi centimetri, forse due o tre. C'è da contare però che quella tipa era alta uno e ottanta!

Misi da parte quella e ne presi un'altra: in questa l'uomo di prima era ritratto insieme ad una donna dai capelli rossi, con gli occhi grandi e marroni, il naso lungo, ma dritto e le labbra carnose. La donna era esile e longilinea, sembrava quasi stesse per sparire, se non fosse stata incinta: di qualche mese, quattro avrei osato dire, e in effetti l'uomo era molto più giovane rispetto a com'era nella foto precedente.

Conclusi ovviamente che quella donna nella foto fosse la madre della rossa e l'uomo suo padre.

Tolsi di mezzo anche quella foto e ne analizzai un'altra: cinque uomini erano seduti ad un tavolo da poker, tutti avevano un sigaro, cubano ipotizzai, in bocca, le carte in mano, le cip sul tavolo e un'aria assorta, ma allo stesso tempo minacciosa, in volto.

Uno degli uomini era il padre della rossa e gli altri erano presenti anche nella prima foto.

Analizzai il resto della stanza in cui gli uomini si trovavano: sembrava piccola, o forse il tavolo era messo a ridosso del muro, perché quest'ultimo era molto vicino all'obbiettivo, sia da destra che di fronte. I giocatori non sembravano infastiditi dalla presenza di una sesta persona nella stanza che avrebbe potuto benissimo suggerire o aiutare qualcuno a barare, la ignoravano semplicemente.

'Bizzarro: sono giocatori di poker, e i giocatori di poker non vogliono rischiare che qualcuno veda il loro gioco. Allora perché non fanno caso alla sesta persona?' pensai.

La risposta arrivò semplice proprio come la domanda: la sesta persona, non capiva una mazza di poker.

Le altre foto invece erano scattate all'aperto, in mezzo alla natura: nella prima si aveva la vista di un balcone che si affacciava ad una finestra: tutti davano le spalle alla ringhiera e alla foresta, erano sorridenti ma non si toccavano tra loro, segno che non erano conoscenti, ma neanche tanto amici, la seconda invece era scattata in un prato verde e, a parte che la giornata fosse soleggiata e i soggetti in un luogo abbastanza lontano dalla città, date le pecore li vicino, non si poteva dedurre niente.

Una foto mi colpì particolarmente: era in bianco e nero e l'abbigliamento era parecchio diverso da quello delle altre foto: altri uomini, anche loro circa cinquantenni o giù di lì, sorridevano fieri all'obiettivo, ma non osavano sfiorarsi neanche per sbaglio: la congrega con gli anni era cambiata evidentemente, ma le regole erano sempre le stesse.

Riconobbi un ragazzino spettinato, con i capelli scuri, inginocchiato all'estrema destra di tutto il folto gruppo: il padre di Tiffany. Doveva essere in quel gruppo da parecchio tempo, probabilmente tra gli uomini della foto in bianco e nero si trovava anche suo padre, il nonno della rossa.

Non sprecai il tempo a cercarlo, non mi importava più di tanto, erano già le due di notte, quindi prima di andare a dormire misi tutto in un cassetto della scrivania e chiusi a chiave, riportai gli originali in camera della svitata, stando bene attenta a Miki-La-Bestiaccia e tornai di soppiatto nella mia camera.

La mattina seguente mi svegliai tardi, cosa insolita per me che tendevo a dormire poco di solito.

Aprii gli occhi e la luce di fuori mi investì in pieno: mi alzai e con un grugnito molto animalesco chiusi le tende.

Mi feci una doccia fredda per svegliarmi e far connettere la spina al mio cervello e mi vestii velocemente, intenzionata a scendere di sotto per chiamare Nick e chiedergli di non tornare troppo presto a casa.

Scesi di sotto e presi il telefono mentre la signora Smith mi dava il buongiorno e mi diceva che ieri Nick non era rientrato: «Si, lo so, mi aveva informata ha detto che avrebbe passato la serata con alcuni vecchi amici» mentii recitando la balla che avevo inventato e perfezionato il giorno prima.

«Non è tornata neanche la sua amica» disse la signora Smith sospettosa.

«Probabilemente si sarà persa e non ricordava neanche l'indirizzo, è sin troppo stupida» dissi con tono noncurante sparando la prima cosa che mi venisse in mente.

La donna sembrò non credermi, e non aveva poi tutti i torti, ma come se niente fosse andò via borbottando.

Ero arrivata a comporre metà del numero di cellulare di Nick quando mi bloccai: 'Che sto facendo? Gli sto chiedendo di portarsi in giro quella per tutta la giornata? Sono impazzita?'.

Scossi la testa e recuperai il senno: dovevo guardare quei filmati e per farlo dovevo essere sola, quindi dovevo chiamare Nick e dirgli di tenermela lontana per un altro po'.

Ma non potevo permettere che passassero altro tempo insieme, non era consigliabile, non solo Nick avrebbe potuto lasciarsi sfuggire qualcosa, ma mi dava anche fastidio!

'Cosa' disse una vocina gongolante nella mia testa.

«Il fatto che lei sia fuori a divertirsi e io qui a guardare filmini ovviamente!».

'Non ti sta obbligando nessuno' continuò la vocina.

«Smettila e sta zitta, sono obbligata dal buonsenso e sto parlando anche da sola, quindi chiudi il becco e taci per una buona volta!».

Aspettai qualche secondo, ma la vocina non si fece sentire più, così guardai il telefono con lo sguardo pieno di dubbi: 'Chiamo o non chiamo?' pensai: 'Chiamerò dopo! Così potrò farmi dire che cosa è successo e se hanno intenzione di passare il resto della giornata fuori, così avrò un po' di tempo per guardare quei filmati!' conclusi trionfante.

Misi giù il telefono e cominciai ad avviarmi verso le scale, ma non so né come né perché le mie gambe fecero dietro front e le mie mani riafferrarono la cornetta digitando il numero di prima.

«Che diavolo mi succede?» domandai a me stessa disperata.

'Te lo dico io che succede, tesoro, sei gelosa marcia e vuoi sapere che stanno facendo. Ecco che succede' disse quell'irritante vocina dentro la mia testa.

«Io non sono gelosa!» urlai.

La signora Smith si affacciò alla porta della cucina: «Macy, hai detto qualcosa?».

«Assolutamente no, non si preoccupi, signora Smith» dissi con la voce più falsa che mi potesse uscire.

Ovviamente lei non mi credette, ma come prima tornò in cucina senza dire una parola.

Nel frattempo il telefono stava squillando e, intenzionata ad attaccare prima che qualcuno rispondesse, stavo per abbassare la cornetta e rimetterla al suo posto.

Nick però rispose: «Si?» disse assonnato.

«Oh, ehm, Nick, sono io. Come va?».

«Come mai mi chiami con il numero di casa?».

«Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda e comunque ho avuto un incidente con il cellulare ieri».

«Fammi indovinare: lo hai lanciato per aria? Devi togliertelo questo vizio, le compagnie telefoniche stanno diventando ricche solo grazie a te» sussurrò.

«Fatti i cavoli tuoi, come è andata ieri?».

«Aspetta...» disse; sentii un fruscio e poi una porta che si chiudeva: «Che vuoi sapere?» disse parlando con un tono di voce normale.

«Come è andata ieri, cosa avete fatto e soprattutto cosa vi siete detti».

«Non credevo di essermi sposato, devo essermi perso il giorno del nostro matrimonio, Babù» disse ridacchiando.

«Smettila di fare l'idiota e non chiamarmi così» esclamai io che alla sua uscita ero diventata paonazza.

«Cosa vuoi che ti dica?».

«Che non le hai detto niente di niente, per esempio».

«Ok: non le ho detto niente di niente. Contenta?».

«Si se è la verità: lo è?».

«In realtà mentre ci divertivamo, non so se sai cosa intendo, qualcosa glil'ho detta e mi è sfuggito anche qualche grugnito qua e là...».

«Fottiti, Nick» dissi mentre attaccavo.

«Già fatto!» lo sentì dire prima di attaccare.

'Io gli spezzo le ossa appena lo prendo!' pensai imbufalita.

Scaraventai il telefono al suo posto e mi fiondai su per le scale, arrivai davanti alla porta della mia camera e, dopo aver preso il portatile e averci collegato le cuffiette, misi i DVD con i filmati accanto a me sul cuscino del letto e mi sedetti a gambe incrociate con il computer sulle ginocchia.

'E adesso rilassiamoci' pensai.

Inserii il primo disco e la prima immagine mi lasciò basita: la scrivania di Lewis al distretto di polizia.

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Capitolo 14
*** Ne sei proprio convinto? ***


Capitolo 14: Ne sei proprio convinto?

Stavo fissando attonita lo schermo del portatile da cinque minuti buoni, qunado mi riscossi: scossi la testa per liberare la mente e mi costrinsi a premere il tasto play per andare avanti.

Non mi interessava vedere tutto, perché io sapevo la maggior parte delle cose che vi erano registrate, avendole vissute in prima persona.

Ad un certo punto, l'inquadratura e lo scenario cambiarono: si vedevano i tavoli dell'obitorio vuoti tranne che per due cadaveri posizionati sugli ultimi due tavoli.

Guardai la data delle registrazioni ed in effetti, anche se sull'etichetta era riportato 23 Giugno, quella riportata sul video era di qualche giorno prima.

«Dovevano verificare la qualità delle riprese ovviamente» mormorai irritata ed assorta allo stesso tempo.

Si susseguirono anche altre riprese, tra cui quelle del salotto e della cucina di casa mia.

Quando finirono quelle di prova, iniziarono le riprese vere e proprie: la telefonata al distretto era una delle prime, seguiva poi Lewis sulla scena del crimine.

Ricordavo perfettamente il vicolo in cui era stato ritrovato Jennings ed era stretto, compreso tra due abitazioni. Ad un certo punto l'ispettore si allontanava e spariva dall'inquadratura della telecamera: tornava poco dopo con me e Nick al seguito; subito dopo quelle si ritornava al distretto di polizia e si vedeva Lewis che, dopo aver ricevuto una telefonata, si alzava e usciva dall'inquadratura. L'immagine poi cambiava di nuovo, Lewis era in obitorio e lo si vedeva parlare con il medico legale, chiunque capace di leggere il labiale poteva facilmente capire quello che stavano dicendo, data l'alta definizione delle immagini.

Andando avanti di qualche settimana e di qualche DVD, una ripresa catturò la mia attenzione: io e Nick sul taxi il giorno dopo il primo incontro con mia madre.

Erano riusciti a seguirci ovunque, con telecamere nascoste da tutte le parti.

Decisa a non dargli altre soddisfazioni, studiai per bene le inquadrature delle telecamere del salotto e della cucina, in modo da poterle eliminare facilmente.

Dovevo chiamare Nick e metterlo in guardia, dovevo dirgli con chi era, dovevo anche portare i dischi e i documenti alla C.I.A. e all'F.B.I., loro avrebbero potuto rintracciare la stronza e anche il tassista di cui si vedeva chiaramente il volto.

Mentre riflettevo su quello che sarebbe stato meglio fare per primo, venni distratta da un rumore proveniente dal piano di sotto.

'Devono essere tornati' pensai.

Misi da parte il computer e mi sfilai le cuffiette dalle orecchie. Scesi dal letto e guardinga aprii la porta e uscii in corridoio.

«Nick, sei tu?» chiesi dal piano di sopra.

«Si, siamo tornati» rispose lui.

«Io ho un po' di fame, Nick, vado a cercare la signora Smith. Ci vediamo dopo» disse l'ultima parte con voce bassa e sensuale e poi lo baciò leggermente aulle labbra.

In tutto questo, io non ero stata degnata neanche di un saluto, ma solo di uno sguardo di pura superiorità e sfida alla fine del bacetto.

Il mio occhio sinistro non perse tempo e mostrò al nemico la mia palese incazzatura.

Lei sorrise malignamente e andò in cucina.

«Ti devo parlare» esordii dura appena lei fu andata via.

«Dimmi» rispose Nick.

«Non qui, seguimi» dissi incamminandomi verso lo studio.

«Cos'è tutta questa segretezza?» domandò lui quando entrammo e io mi chiusi la porta alle spalle.

«Abbiamo un problema».

«Quale?».

«Vuoi dire 'chi'!».

«Senti, questa notte non ho chiuso occhio, quindi se volessi essere così gentile da dirmi che diavolo vuoi dire, mi faresti un vero favore» disse lui stropicciandosi gli occhi.

«Ah, si? Beh, neanche io sta notte ho dormito, ma non per i motivi che credi tu» spiegai con aria leggeremente irritata, quando vidi i suoi occhi assottigliarsi: «E vuoi sapere che cosa ho scoperto? Ricordi la mia teoria 'La rossa che hai appena portato in casa è malefica'? Quella che ti avevo esposto qualche giorno fa mentre eravamo in macchina?».

«Quella grandissima idiozia? Si, me la ricordo... ma se non sei stata sveglia per i motivi che penso io, perché non hai dormito?» chiese sospettoso.

«Ci stavo arrivando. La mia teoria, per quanto idiota tu la possa trovare, ha trovato conferma: quella... cosa di là è malvagia, perfida, cattiva, spregevole, orribile, malefica, terribile...».

«Ok, hai reso l'idea, adesso mi spieghi come fai a dirlo?» disse lui vagamente irritato.

«Lei è quella che ci spia! Lei lavora per la Mano Rossa! Ha piazzato un sacco di telecamere ovunque, forse non le ha messe tutte lei, ma gli ha aiutati!».

«La smetti di dire stronzate? È un pezzo di pane, non farebbe male ad una mosca, non ne hai le prove, anzi probabilmente le avrai, ma conoscendoti le avrai falsificate per perorare la tua causa!».

«Mi stai dando della bugiarda?!» urlai fuori di me.

«Si! Sei subdola e sei anche meschina quando ti ci metti!» urlò di rimando lui.

«È vero! Hai ragione, sono subdola, ma non ti mentirei, non su qualcosa come questo!».

«Senti, sono stato con lei tutta la sera e...».

«Immagino» dissi acida.

«... e» riprese lui come se non avessi parlato: «Non ha mai accennato al caso o a te, non le interessa del caso, io non le ho detto niente, mi spieghi come farebbe a c'entrare in tutta questa storia?».

«Mi ascolti quando parlo? Ti ho appena detto che ha messo telecamere ovunque! Ci ha spiati e non ha spiato solo noi: lo ha fatto anche con Lewis!».

«Ma non lo conosce nemmeno!».

«Si che lo conosce! Ti ho detto che ho rovistato tra alcune carte ieri, ho trovato anche un vecchio rapporto della polizia di New York: era il rapporto del caso della sparizione di mia madre, era stato archiviato e violare gli archivi non è difficile! Si è semplicemente informata su di me e si è imbattuta anche nell'ispettore! Sapeva chi era e non è difficile trovarlo al distretto: basta inventarsi una storia e chiedere di vedere l'ispettore, dopodiché i suoi complici potevano piazzare le telecamere».

Nick mi guardò come fossi impazzita e alzò un sopracciglio.

«Lo so che detto così può sembrare folle, ma è la verità! Non può rimanere qui, continuerebbe a spiarci!».

I suoi occhi si assottigliarono di nuovo: «Perché non puoi semplicemente ammettere che non la vuoi qui senza inventarti queste stupidaggini?!».

«È vero! Non la voglio qui e non mi sta per niente simpatica, ma non sto dicendo stupidaggini, di sopra ho i filmati che ha girato, ho i documenti e molte altre cose! Come puoi non credermi?!» urlai.

«Non ti credo perché non è vero! È una ragazza normale! Forse solo un po'... imbranata, ma è una ragazza normalissima» disse di rimando.

«Normale come un panda arancione e blu!».

«Cosa?! Un panda arancione e blu? Lo vedi che sei impazzita?».

«Io sto benissimo! Non so da dove si uscito il panda arancione e blu, ma sto benissimo!».

«Ok, ammettiamo per un momento che sia vero quello che dici: come avrebbe fatto?» chiese lui scettico.

«Ad installare le telecamere nascoste, dici? Beh, non lo so, probabilmente mentre eravamo fuori entrambi avrà mandato qualcuno».

«E mi faresti vedere la telecamera con cui ha registrato?».

«Beh, in effetti non posso, è in camera sua e non voglio farle sapere che so tutto. È un modello vecchio tipo, uno di quelli che registrano su cassetta».

«E tu li hai guardati come?».

«Mi sono fatta passare i video da cassetta a DVD, ieri sera».

«E secondo te le telecamere nascoste sono quelle che registrano su cassetta, giusto?».

«Beh, di sicuro no, registreranno su memory card e poi le ha passate su una cassetta, utilizzando il processo inverso a quello che ho fatto io».

«E perché lo avrebbe fatto? Sarebbe stato più semplice lasciare tutto su memory card».

«Ma se vuoi fare le cose in segreto no. Nessuno a Los Angeles ha un video registratore ormai, nessuno avrebbe potuto vederle, solo i suoi amici criminali che probabilmente se ne saranno procurato uno».

«Ti rendi conto di quello che stai dicendo?! È assurdo! Come avrebbe potuto fare?».

«Non lo so ma lei ci sta spiando, io non mi fido! E non dovresti farlo neanche tu!» dissi spingendolo per il petto.

«Vuoi che lei se ne vada?» chiese trattenendomi le mani.

«Si. Voglio che sparisca, entro stasera. È la mia ultima parola» dissi con fermezza.

«Bene, allora vado via anch'io. Non posso lasciarla da sola e tu hai bisogno di schiarirti un po' le idee».

«Cosa?!».

«Hai sentito bene. Me ne vado, è la mia ragazza e non posso lasciarla da sola a Los Angeles senza una casa».

«Non è la tua ragazza! Non hai nessun obbligo nei suoi confronti».

«Chi ti dice che non lo è?».

«Lo hai detto tu, non meno di due giorni fa!».

«Beh, ora ho cambiato idea. Qualcosa in contrario?».

Lo guardai un attimo negli occhi: azzurri e a volte verdi. Guardai il profilo del suo naso, dritto e senza alcuna imperfezione. Guardai la bocca, sempre rossa, anche se non la mordeva mai, sottile e sempre sorridente.

Abbassai un attimo gli occhi sulle mie scarpe e feci la cosa più difficile del mondo per una come me: ammisi che mi piaceva. Mi piaceva e non solo come amico, mi piaceva anche come confidente, come 'collega' e come molte altre cose.

Alzai gli occhi e, dopo aver mandato giù un nodo che mi si era man mano allargato in gola, risposi: «No, non ho niente in contrario, potete andarvene se volete».

Lui mi fissò duro e, dopo avermi dato la schiena, si avviò a grandi passi verso la porta e chiudendola quasi la scardinò.

«La mia vita fa assolutamente schifo» mormorai buttandomi su un divanetto in pelle, posizionato davanti al muro di fronte la scrivania.

Uscii dallo studio solo un'ora dopo, con la speranza che fossero già andati via.

Il salotto era proprio per come lo avevo lasciato, con la differenza che anche da lì si poteva sentire la voce della perfida rossa che chiedeva il motivo di tanta foga nell'andarsene.

'Brutta stronza' pensai.

Pochi minuti dopo li vidi scendere le scale, Nick in testa e la rossa dietro, entrambi con due borsoni in mano.

Io, impalata davanti alla porta, non riuscivo a muovere un muscolo; notai la testa della signora Smith spuntare dalla cucina, quella di Charles sporgersi dal corridoio del pianterreno e quelle dei domestici dai vari angoli della casa.

«Allora sei proprio convinto?» dissi a Nick quando si fermò sulla soglia della casa, dopo che la rossa era già andata fuori.

«Ho già caricato in macchina la maggior parte delle cose, manderò qualcuno a prendere il resto» disse freddo.

Io annuii e gli feci cenno in direzione della porta.

Lui non perse tempo e uscì. Uscì dalla porta e dalla mia vita.

 

Appena richiusi la porta alle mie spalle e mi voltai tutti, inclusi la signora Smith e Charles, ritornarono ai loro compiti e nessuno osò proferire parola.

Costringendo le gambe a muoversi mi mossi con lentezza e pian piano, pensando a tutto quello che era successo, salii le scale in silenzio, fino ad arrivare in camera mia. Non riuscivo a togliermi dalla testa la discussione che avevo avuto con Nick e non riuscivo a non pensare al ghigno soddisfatto di quella piattola di dimensioni umane.

'Non posso arrendermi, non adesso che so tutto' pensai.

Alzando lo sguardo, che sino a quel momento avevo tenuto basso per impedirmi di cadere, entrai in camera mia e velocemente raccattai tutti i documenti e i DVD che avevo nascosto poco prima e li misi in una borsa abbastanza larga da contenerli senza problemi.

Cominciai a correre quando il mio cervello realizzò che adesso che mi ero scoperta non c'era un minuto da perdere, ma prima di uscire di casa mi rivolsi al vaso che conteneva la telecamera nascosta: «Non so come vogliate fare, ma vi ho in pugno e non mi fermerò, né ora né mai. Potete starne certi» dissi minacciosa.

Mi drizzai, sotto gli occhi increduli della signora Smith, e, arrivata in garage, presi Juliet.

Dovevo arrivare al distretto, dovevo farlo in fretta, dovevo farlo prima che Nick spiattellasse il motivo per cui avevano levato le tende e, su questo fronte, ero in netto svantaggio.

Evitai tutte le strade principali e anche percorrendo quelle secondarie, passai circa 6 semafori con il rosso e a 180 km/h.

Arrivata nel parcheggio del distretto, fermai la macchina al centro del piazzale e lasciai anche lo sportello aperto e le chiavi appese nella foga di uscire.

«Gli dia un occhio lei!» urlai al poliziotto che mi aveva chiesto che stavo combinando.

Correvo come se stessi facendo una gara con Bolt e avessi dovuto per forza arrivare prima: passai sotto le braccia di un agente che stava porgendo una scatola ad un collega, passai saltando sopra una donna che si era chinata a raccogliere dei fogli da terra e per poco non travolsi un ragazzino mano nella mano con sua madre.

Appena entrai afferrai il primo agente che trovai per la camicia e lo minacciai di morte se non mi avesse detto dov'era Lewis con i due scimmioni che ultimamente si portava dietro.

Mi disse che erano appena usciti e che non sapeva quando sarebbero tornati.

Tornai indietro frustrata e un secondo dopo stavo facendo dietro front per riportare le chiappe al distretto. Entrai e mi precipitai alla reception dove, senza il permesso dell'agente addetto, afferrai la cornetta del telefono, digitai il numero di Anderson e attesi.

«Anderson, chi parla?».

«Anderson? Sono io, Macy Cullen, ho risolto il caso, se è con l'ispettore Lewis gli dica di non chiamarmi al telefono, perché non ne ho uno al momento e tornate subito indietro!» esclamai.

«Lei non può usare questo...».

«Chiuda il becco lei!» dissi all'agente del centralino che si era intromesso.

«Arriviamo subito, dove si trova?» disse Anderson all'altro capo del telefono.

«No, fermatevi dove siete, vi raggiungerò io, dove vi trovate?».

«Ma perché?».

«Perché si, Anderson, dove diavolo siete?!».

«Siamo a Lakewood Boulevard, a Downey, vicino all'Allen Layne Stadium».

Considerai la distanza: «Sarò lì in cinque minuti, non provate a muovervi» riagganciai con più forza del dovuto e tornai al parcheggio a prendere la macchina.

Con Juliet arrivai anche in meno di cinque minuti e pazientemente mi misi alla ricerca dell'auto di uno dei tre agenti. Un minuto dopo vidi quella di Miller parcheggiata sul bordo della strada.

Scesi velocemente con i dischi e i documenti in mano, aprii lo sportello dell'altra macchina e mi ci infilai dentro velocemente.

«Qui c'è tutto quello che dovete sapere» esordii, ancor prima di chiudere lo sportello, porgendo la cartella ad Anderson, seduto di fianco a me sul sedile posteriore: «E qui ci sono tutte le registrazioni con le quali ci spiavano» continuai dando la busta con i dischi a Miller.

«Cristo!» esclamò Anderson.

«Cosa?» disse Miller.

«Guardate» disse il primo porgendo la foto di gruppo a Miller e Lewis.

«Oh Dio! Ma questi sono Christian Wollaby, il vecchio boss, e Thomas McLoud, quello attuale!».

«Questo è il padre di Tiffany Walker!» dissi indicando Wollaby: «Non è possibile sia Wollaby».

«Magari ha fatto cambiare nome alla figlia per non farla additare da tutti come figlia di un criminale e poi, mi sembra di averla già vista...» ribattè pensieroso Lewis.

«Dove?!» esclamammo io, Miller ed Anderson in contemporanea.

«Non me lo ricordo, ma quando farò mente locale ve lo dirò. Cullen, ora che lo noto, dov'é Nicholas?».

«Con lei» dissi indicando la foto di Tiffany.

Tutti mi guardarono e sbiancarono: «Credo abbia capito che ho scoperto tutto e io e Nick abbiamo litigato e lui se n'è andato con lei perché doveva difenderla ed è una cosa troppo complicata, da poter spiegar adesso, se lei crede che io sappia, gli farà del male e non posso permetterlo, dobbiamo fare qualcosa» dissi tutto d'un fiato.

«Almeno adesso sappiamo da dove partire, torniamo alla centrale e coordiniamo le operazioni» disse Lewis.

«No! La centrale è sorvegliata! Ma perché nessuno mi ascolta quando parlo?! Dovremmo fare tutto tra di noi, nessuno deve sapere o Nick potrebbe lasciarci la pelle. Non possiamo chiedere aiuto».

Tutti annuirono e dopo qualche istante di silenzio, Lewis disse: «Dobbiamo comunque coordinarci tra di noi quindi, Cullen, le serve un cellulare».

Ammisi che aveva ragione, anche se c'era ben altro a cui pensare e, dopo aver fissato il luogo del prossimo incontro, io scesi dalla macchina e con Juliet, volai verso il primo negozio di telefonia.

Quando uscii dal negozio, infilai velocemente la mia scheda sim nel telefono nuovo e mi avviai verso la macchina.

Salii e avviai il motore, ma appena l'auto si accese il mio cellulare cominciò a squillare: senza guardare il numero risposi.

«Cullen».

«Ciao, Macy, vuoi rivederlo vivo il tuo amichetto? Allora perché non fai alla lettera tutto quello che dico? E sta attenta, io ti vedo, proprio come lo fanno le telecamere del traffico: guarda su» disse la voce di Tiffany.

Alzai lo sguardo e, guardando fissa la telecamera di sorveglianza del traffico, annuii.

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Capitolo 15
*** Nella tana del lupo ***


Capitolo 15: Nella tana del lupo.
 

«Torna a San Vicente Boulevard, da lì ti verrà davvero semplice raggiungere me e il tuo amichetto».

«Voglio parlare con lui prima, non muoverò un muscolo, se non ho la certezza che sia ancora vivo» dissi cercando di risultare autoritaria.

«Non sei nella posizione di poter avanzare richieste» disse lei minacciosa.

«Non mi importa, voi volete me, non Nick, quindi se vuoi che porti le chiappe lì devi farmi sentire la sua voce. Adesso!» abbaiai.

«Bene, come ti pare».

Dopo neanche un secondo sentii la voce di Nick: «Macy, mi dispiace!».

Risultava lontana e leggermente soffocata, ma senza alcun dubbio era lui.

«Adesso sei contenta? Muoviti, torna a San Vicente Boulevard, e non provare a parlare con nessuno, anzi, stacca anche il GPS. Ti chiamerò io e ricorda che ti vedo» disse riattaccando.

'Ma porca pu... pupattola!' pensai.

Avviai il motore e mi affrettai a fare retromarcia, partii velocemente e in meno di cinque minuti fui a Santa Monica.

Riesaminai la telefonata di poco prima; erano passati meno di due secondi, da quando la rossa aveva detto che mi avrebbe fatto sentire la voce di Nick e considerando che la voce del mio 'amico' risultava lontana, c'erano almeno due persone in quella stanza, oltre Nick: la rossa e un complice. Potevano essere anche di più, anzi molto probabilmente erano sicuramente di più, ma erano in due senza ombra di dubbio.

Era una trappola e ne ero consapevole, ma non potevo ignorare tutto quello che era successo.

Appena arrivai davanti casa, il mio cellulare squillò ancora: numero nascosto.

«E adesso?» domandai appena ebbi aperto la chiamata.

«Procedi verso Nord-Est verso la 14th e gira all'incrocio con la 7th verso destra, percorri Entrada Drive. Imbocca poi Ocean Avenue e subito dopo prendi la Pacific Coast Highway e percorrila tutta fino ad arrivare a Corral Canyon Park. Non provare a fregarmi, ti chiamerò quando sarai arrivata a Canyon Park. Sono 24 chilometri da percorrere, dovresti farcela in mezz'ora, non un secondo di più o Nicholas è morto» lo disse tutto in un fiato e riattaccò.

'Di bene in meglio'.

Nonostante i miei pensieri tutt'altro che positivi, ingranai la marcia e partii come un fulmine, alla faccia dei limiti di velocità.

'Non voglio neanche lontanamente immaginare quante multe per eccesso di velocità mi arriveranno' pensai irritata.

Cominciai a percorrere la Pacific Coast Highway, ma arrivata poco prima di Corral Canyon Park, dovetti pigiare violentemente sul freno: la strada era completamente intasata da macchine, camion e furgoni tutti incolonnati lungo la strada.

Gli automobilisti suonavano con i clacson senza fermarsi un istante e io venni assalita dallo sconforto: '10 minuti, mancano 10 minuti e qui la situazione non sembra cambiare'.

Mi guardai intorno, se era vero che lei mi stava guardando allora stava anche vedendo il motivo del mio ritardo, magari mi avrebbe chiamata e mi avrebbe dato qualche minuto in più.

Purtroppo per me, nonostante avessi guardato in giro, alla disperata ricerca di una telecamera di sorveglianza del traffico, non ne avevo vista nessuna, e se da un lato era una pessima cosa, dall'altro avevo tutto il tempo per spedire un SMS a Lewis, per informarlo della situazione senza rischiare di essere intercettata.

Presi il cellulare e velocemente scrissi la mia posizione a Lewis, chiedendogli di perquisire ogni casa o capanno nei dintorni di Canyon Park per trovarci... per trovarli.

Appena spedii il messaggio, il cellulare squillò e la paura mi invase: mi aveva vista? Come? Non c'erano telecamere, ne ero sicura, quindi come diavolo c'era riuscita?

Risposi comunque, nonostante la mia voce non fosse del tutto ferma: «Si?».

«Sei in ritardo, non vuoi proprio bene al tuo amico, magari devo farlo fuori».

Dopo questa affermazione, sentii lo scatto di una sicura che veniva rimossa e i gemiti di Nick in lontananza.

«No! Ferma! C'è traffico per strada, sono bloccata, mi serve più tempo» esclamai in preda al panico.

«Più tempo, eh?» rispose lei calma: «Ti do altri due minuti, dopodiché mi dispiace per entrambi, ma qualcuno il cui nome inizia per 'N' e finisce per 'icholas' farà una brutta fine... buona fortuna» ribattè fredda chiudendo la chiamata.

Considerai la distanza e il traffico che mi separavano dalla meta: non ce l'avrei mai fatta.

E poi in quel momento, un motociclista passò vicino alla fiancata destra della mia auto e con una nuova energia, dopo aver spento il motore e preso le chiavi della macchina, cominciai a correre lungo la strada, alla ricerca di qualcuno con una moto, fermo in coda.

Alla fine, dopo pochi secondi per mia fortuna trovai un uomo che, appoggiato alla moto, non sembrava volersi muovere.

«Mi serve la sua moto» dissi parandomi davanti a lui.

«Come scusi?» disse l'uomo guardandomi stranito.

«Poco più indietro c'è una Ferrari F430 Spaider, serie limitata, va da zero a cento in tre secondi e c'è il pieno: mi serve la sua moto» dissi sventolandogli le chiavi di Juliet sotto il naso.

«Beh, io...».

«Per favore! Non baratterei mai Juliet con una moto se non fosse importante».

L'uomo mi scrutò per un attimo, valutando quello che avrebbe dovuto fare, poi prese le chiavi di Juliet e mi diede quelle della moto.

«Grazie» dissi saltando su e facendomi strada in mezzo al traffico.

«Hey, il casco!» sentii l'uomo urlare, quando ormai ero lontana.

Non mi girai nemmeno e proseguii dritta per la mia strada.

Dopo neanche un minuto ero arrivata e un'altra chiamata stava facendo vibrare il mio telefono.

Premetti il pulsante e non ebbi il tempo di dire una parola che la voce di Tiffany mi diede altre istruzioni: «Adesso svolta su Solstice Canyon Road e percorrila tutta fino al quarto bivio, quando incontrerai Roberts Road. Da lì in poi devi solo salire, fino ad incontrare un edificio. Fermati lì, hai cinque minuti» chiuse di nuovo il telefono senza aggiungere un'altra parola e io mi affrettai a seguire le sue istruzioni.

Ci misi circa 3 minuti, considerando il fatto che la moto stava fondendo per consentire a me di toccere i duecento all'ora, ma alla fine ci riuscii e appena trovai il posto parcheggiai la moto poco lontano e feci gli ultimi metri a piedi.

Mi ritrovai uno spiazzo, con circa cinque diverse auto parcheggiate, ma nessuna di queste era quella di Nick; inoltre sulla destra c'erano delle piccole strutture in legno, che assomigliavano a dei ripostigli degli attrezzi, come quelli che stanno in alcuni giardini; alla mia sinistra c'era l'edificio vero e proprio, nel quale, ipotizzai, sarei dovuta entrare.

Lo stabilimento era situato in mezzo al nulla, attorno a noi c'erano solo alberi e cespugli, non si vedeva neanche l'ombra di un animale e cominciai a farmela sotto: loro potevano essere anche una ventina, nel peggiore dei casi, e io ero da sola, disarmata, neanche Lewis sapeva dov'eravamo io e Nick esattamente e per di più le possibilità di rintracciarci erano una su un milione, dato che il GPS del mio cellulare era spento e quello della macchina... beh, quello della macchina non mi era tanto di aiuto, dato che la povera Juliet poteva essere ovunque il quel momento.

Mi convinsi che piangermi addosso non era un bene, ma a costo di lasciarci la pelle, dovevo tentare, quindi prima di varcare la porta del capanno ed essermi guardata attorno, accesi il GPS del cellulare, sperando che il segnale arrivasse forte e chiaro al satellite, e lanciai il telefono per terra, in mezzo ad un cespuglio, in modo che se lo avessero cercato non lo avrebbero trovato.

A quel punto, dopo aver preso un respiro profondo, aprii la porta di metallo ed entrai: la stanza che mi accolse era lunga e completamente vuota, sembrava un magazzino quasi, le finestre erano di quelle simili a quelle dei capannoni industriali e le porte erano tutte in metallo.

Tutto era buio e silenzioso e, data la scarsa assenza di luce, a causa delle finestre impolverate che non facevano filtrare neanche un raggio di sole, avanzai a tentoni lungo la parete, finchè non riuscii a trovare un interruttore.

Pigiai il pulsante e le luci si accesero immediatamente.

'Avrei pensato ci mettessero più tempo, tutto sembra abbandonato' pensai.

Poco prima avevo creduto che nell'ampio vano non vi era nulla, dovetti ricredermi però perché la stanza, nonostante l'assenza dei mobili, non era vuota: Nick era legato, mani e piedi, ad una sedia al centro del capanno e cercava, con il solo aiuto della bocca, di togliersi il fazzoletto bianco dalla bocca, che gli impediva di parlare.

Mi avvicinai in fretta a lui e lo aiutai a togliere il bavaglio: «Stai bene? Ti hanno fatto del male?».

«È una trappola, vattene!» urlò.

E poi un forte dolore alla testa ed il buio.

 

Il risveglio non fu dei più dolci: sentivo la testa pulsare e un forte odore nauseabondo.

Aprii lentamente gli occhi e subito notai che qualcosa non andava: tutto era buio, nonostante adesso avessi gli occhi spalancati e sentivo delle voci.

«Io mi fidavo di te!».

Nick.

«Non avresti dovuto, sciocchino» disse un'altra voce ridacchiando.

Tiffany.

Tentai di portare le mani sulla testa, ma non ci riuscii e capii di essere legata e anche bene.

«Oh, ma guarda un po'! La tua amica si è svegliata, saà il caso che io le dia il benvenuto per come si conviene» disse la rossa schioccando le dita.

Un attimo dopo, una forte luce mi investì gli occhi e mi costrinse a serrarli, fin quando non mi fui abituata. Mi costrinsi ad aprirli, solo quando lei me lo impose, minacciando Nick.

«Stai diventando ripetitiva» dissi acida.

«Si, è vero, hai ragione, ma funziona, quindi perché dovrei evitarlo?».

«Per non andare all'inferno nell'ora della tua morte, forse?» dissi sarcastica.

«Non ti facevo un tipo religioso».

«Non lo sono».

«Neanche io. E adesso che abbiamo dichiarato l'ovvio, direi di passare alle cose serie: prima che ti uccida» disse accennando ad una vasca che sembrava una piscina: «Hai qualche domanda da pormi?».

«Qual è il tuo vero nome?».

«Tiffany Wollaby. Immagino tu sappia chi è mio padre».

«Chi è? È ancora vivo?» chiesi stranita.

«Si, il suo omicidio è stata tutta una farsa, lo stavano cercando in troppi, anche alcuni tra di noi, quindi lo abbiamo dovuto fare sparire. Thomas è comunque il suo secondo, nonostante lui sia... 'morto'» disse mimando le virgolette.

«Perché avete ucciso Jennings e quell'altro tizio?».

«Quell'altro tizio? Non avete neanche scoperto il suo nome? Tzè... siete patetici. Kenny Stevenson, era una spina nel fianco, aveva quasi scoperto tutto e sospettavamo da tempo che stesse passando informazioni ai nemici di mio padre. Non potevamo permettere andasse in giro a spiattellare tutto, noi saremmo stati finiti».

«Ok, Stevenson vi minacciava, ma Jennings?».

«Lui era più che altro una questione personale... mio padre non lo aveva mai tollerato, ma dopo aver visto sua moglie, si era come ripreso dalla morte di mia madre... voleva sposarla e io ero d'accordo, ma lei era obbligata in un matrimonio fallito con quello sfigato di Jennings e non poteva mollarlo. Credo che restasse con Jennings solo per quel ragazzo, il brasiliano, ma se avesse sposato mio padre avrebbe avuto tutti gli Stati Uniti ai suoi piedi. Il nome di mio padre fa ancora paura, nonostante tutti lo credano morto... in ogni caso, si sono sposati da poco, lo sapevi?» disse con un sorriso malvagio sulle labbra.

Io risposi con strafottenza: «No, ma non me ne preoccupo, ha trovato il suo posto insieme alla gente marcia, proprio come lei».

Non vidi neanche da dove era arrivato, ma un pugno mi colpì vicino al labbro e in poco tempo, il sapore ferroso del sangue mi invase la bocca.

«Te la sei presa, eh? Ti secca che parli così bene di tuo padre?» dissi ghignando a mia volta.

Questa volta il pugno mi colpì il naso e altro sangue si aggiunse a quello di poco prima.

«Hey, rossa, vacci piano con il naso, ci tengo!».

Questa volta, di sicuro, il pugno non proveniva da lei, infatti era stato così forte che aveva fatto cadere me con tutta la sedia all'indietro.

Gemetti di dolore quando atterrai con tutto il mio peso sui polsi stretti dalle corde e subito dopo mi sentii sollevare come una piuma e la sedia tornò alla posizione normale.

«Sei così codarda che ti fai aiutare dai tuoi bestioni? Ti facevo più...» non terminai mai la frase, perché questa volta il pugno mi arrivò dritto nello stomaco, e fu tanto forte che mi mozzò il respiro.

Tossii leggermente e vidi un po' di sangue uscire insieme all'aria dai miei polmoni.

«No, non sono codarda, ma ho appena fatto la manicure e non vorrei dover rovinarmi le unghie».

«Puoi picchiarmi quanto vuoi, ma poi chi ti chiederà tutto quello che hai fatto e ti darà la soddisfazione di vantarti?».

«Hai ragione, magari ti lascio viva per qualche altro minuto, insieme al tuo amico, che per la cronaca è fantastico sia dentro che fuori dalle lenzuola».

Ed ecco che l'occhio sinistro entra in scena... 'Devo farmi curare questo tic, in qualche modo... sempre se uscirò viva di qui' pensai.

«Oh, ma davvero? Beh, sono contenta, non me lo sarei mai aspettato, magari lo provo qualche giorno».

«Sei davvero convinta di poter uscire viva di qui?» chiese sprezzante lei.

No...

«Si, ne sono più che convinta».

«Illusa... sai cosa stanno facendo i miei 'amici' in questo momento?».

«No, illuminami, che stanno facendo?».

«Guarda un po' tu. Derek, gira la sedia alla nostra ospite, sono sicura che la vista le piacerà... da morire».

L'armadio quattro stagioni chiamato Derek, sollevò la mia sedia come un fuscello e mi voltò: quattro o cinque uomini, stavano riempendo la vasca di poco prima di una sostanza bianca.

Erano vestiti in modo strano: indossavano degli occhiali protettivi, dei guanti, degli stivali di plastica e delle tute da lavoro dello stesso materiale.

Derek voltò di nuovo la mia sedia.

«Sai cos'è quella?».

«Fammi indovinare: è bianca, tutti hanno delle mascherine, degli occhiali, dei guanti e delle tute protettive... vediamo un pò... soda caustica?».

«Ottima deduzione, ammiro questa tua capacità sin da quando ti ho conosciuta, è molto utile, ma non sempre: per esempio, questa volta non ti servirà a molto» ghignò lei.

'Non ne sarei tanto sicura' pensai.

«Già, forse hai ragione tu, ma non cullarti sugli allori, potrebbe succedere qualcosa di inaspettato».

«Tipo l'arrivo di qualcuno che non ti aspetti?» disse una voce conosciuta alle mie spalle.

La rossa ghignò, come mai in vita sua e dopo qualche secondo, la figura di Jennifer Wollaby mi si parò davanti.

«Tipo...» sibillai sprezzante.

«Sei stata molto cattiva con me, bambina, che ne diresti di ricominciare? Io non potrei mai sopportare di vederti morire in un modo così brutale» disse accennando alla vasca alle mie spalle: «Quindi, potrei anche chiedere a Chris di ammetterti nel nostro gruppo. Accetta, tesoro, e forse ti salverai» disse mia madre.

«Mi credi così codarda? Posso essere debole, lo sono sempre stata solo per colpa tua, ma non sono stupida. Non lascerò morire Nick, non lascerò che gli facciate del male».

«Io ti ho appena offerto una via di fuga da un destino orribile e tu ti preoccupi del tuo amico che finora non è stato neanche nominato?» disse sarcastica mia madre.

Tutti ammutolirono, inclusa io. È vero, lei non lo aveva nominato, ma il mio primo pensiero era stato lui.

'Maledizione!'.

«Oh, si, ci ho pensato, credi che non sappia che se io mi unisco a voi, lui finirà male? Io al contrario di voi, madre, mi preoccupo per chi mi sta vicino, a voi invece, non importa niente di quello che succede alle persone intorno a voi, pensate solo al vostro tornaconto personale... si, sono felice di poter dire che siete solo una puttana arrivista».

Uno schiaffo mi colpì in pieno viso e mi fece voltare la testa.

«Non permetterti mai più di parlarmi così, ragazzina, siamo io e Tiffany che teniamo il coltello dalla parte del manico e adesso, se non ti dispiace, noi avremmo altro da fare, che guardare la vostra morte, dovremmo far saltare in aria il distretto centrale di polizia di Los Angeles, non vorremmo mai che tutto quello che hai scoperto su di noi, venga reso noto. Goditi la fine, bambina, nonostante tutto, ti ho voluto bene».

«Oh, ma certo! Che sciocca, voi siete sempre stata la madre più affettuosa del mondo! Prima che andiate, avrei un'ultima domanda per la rossa siliconata: che significavano i numeri sotto i talloni delle vittime?».

«È l'ordine in cui dovevano morire: ogni anno facciamo un po' di 'pulizie' e diciamo a quelli che vogliamo fare fuori di marchiarsi un numero al centro del tallone e di scrivere il loro nome e il loro numero in un registo. Una volta che si sono registrati tutti, iniziamo quella che noi chiamiamo 'caccia': diciamo a tutti quelli scritti a cosa serve il numero e loro cominciano a scappare e a tentare di nascondersi... molti di loro però conoscono come funziona la cosa e anziché vivere nella paura di essere uccisi da un momento all'altro, si suicidano. Divertente, vero?» disse Tiffany sorridendo sadicamente.

«Fantastico» borbottai.

«Beh, adesso andiamo. Buona permanenza... 'sorellina'».

E con una risata di scherno entrambe uscirono di scena, mentre un'altra botta in testa mi faceva perdere i sensi.



Mi dispiace essere mancata così a lungo, ma ho trascorso due settimane a Parigi e non ho avuto il tempo di aggiornare né questa né l'altra storia... detto questo, spero mi perdonerete il ritardo e che questo capitolo vi sia piaciuto.
Un bacio,
JulietAndRomeo

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Capitolo 16
*** Film patetici che non andrebbero guardati ***


Capitolo 16: Film patetici che non andrebbero guardati.

Quando mi ripresi, era come se il mio cervello non volesse collaborare per trovare una via d'uscita da quella situazione... spinosa, ecco.

Aprii gli occhi lentamente, proprio come la prima volta, solo che questa volta, la luce mi investì subito.

Quello che vidi, risultò ancora più confuso di come mi sarei aspettata: ero confusa, e anche parecchio, considerando che mi avevano presa a pugni come un sacco da boxe, ma ero abbastanza lucida da capire che qualcosa non andava.

Tutto era capovolto e un innaturale silenzio avvolgeva tutto. Mi chiesi come prima cosa come mai il mondo si fosse rovesciato e poi compresi che non era il mondo ad essersi rovesciato, bensì io.

Ero appesa a testa in giù sopra una vasca, dalla quale usciva un odore di... bruciato e di sostanze chimiche. E poi mi ricordai che cosa conteneva la vasca e cominciai a tentare di trattenere il fiato più a lungo possibile.

«Finalmente uno dei nostri due ospiti si è svegliato!» esclamò una voce sotto di me.

Era di Derek, lo scimmione di prima.

«Ho aspettato che vi svegliaste per cominciare, mi diverte sentire le urla di terrore ogni tanto» continuò sorridendo malvagio.

«Cosa?» domandai io più confusa che persuasa.

«Ho aspettato. Ho aspettato per farvi assistere alla vostra prematura fine. La signorina Wollaby aveva espressamente richiesto di lasciarvi dormire e di uccidervi lo stesso, senza aspettare, ma lei non è qui e io provo un assoluto piacere ad ascoltare le persone che implorano di essere risparmiate. È... fantastico» disse.

«Beh, da me non sentirà un fiato, quindi è prettamente inutile sperare che io la supplichi».

«Combattiva, la ragazza. Vorrà dire che non le dispiacerà allora se aziono la macchina... sa, stasera avrei altre cose ben più interessanti di farvi da baby-sitter da fare... non so se mi spiego».

Il suo sguardo malizioso e allo stesso tempo cattivo, lo aveva aiutato a spiegarsi sin troppo bene, quindi gli risposi.

«Non si preoccupi, azioni pure tutto, la mia è stata una vita fantastica, non ho alcun tipo di rimpianto» dissi con un sorriso ironico sul viso.

«Bene, allora adios!» disse spingendo un pulsante su un piccolo telecomando.

La macchina a cui ero legata, cominciò ad abbassarsi pericolosamente verso la vasca, mentre Derek usciva dalla porta di metallo, da cui ero entrata, ridendo di gusto.

'Si va in scena' pensai.

Cominciai a valutare la situazione, mentre tentavo di svegliare Nick, ancora svenuto, appeso accanto a me.

«NICK, ACCIDENTI, VUOI SVEGLIARTI?» urlai fuori di me all'ennesimo tentativo.

«Oh, cos... cosa?» disse lui, appena si riprese.

«Alleluja! Volevi ti mandassi un telegramma, prima di degnarmi della tua attenzione?!».

«Dov'è Tiffany... e tua madre?» chiese senza darmi ascolto.

«Lascia perdere, a loro ci penseremo quando saremo sicuri di non esserci sciolti nella soda caustica. Adesso dimmi: hai anche tu le mani legate?».

«Si, perché?».

«Smettila con le domande inutili, rispondi solo alle mie domande».

«Ok».

«Cosa vedi davanti a te?» chiesi.

Essendo legati schiena contro schiena e non potendomi girare, dovevo fidarmi delle parole di Nick.

«Oh, beh... c'è... c'è un'enorme macchina... somiglia ad una gru, ma non è una gru... non so come spiegarlo».

«Siamo spacciati. Ascolta, la soda caustica è corrosiva anche se viene inalata, quindi tenta di trattenere il fiato il più a lungo possibile e parla solo quando te lo dico io o per dirmi qualcosa di estramamente importante. Chiaro?».

«Si».

'Bene'.

Cominciai a tastare il nodo che mi legava le mani, in modo da poterlo sciogliere, e in breve tempo riuscii a far cadere le corde che mi segavano i polsi nella vasca sotto di noi.

Ancora qualche minuto ed io e Nick saremmo diventati scheletri.

Sempre tentando di trattenere il fiato e facendo leva sugli addominali, riusci a piegarmi fino a riuscire a vedere i miei piedi, legati tra di loro, appesi ad una corda, più robusta di quelle che ci legavano le mani, collegata ad una specie di carrucola.

Considerai ed esaminai velocemente i nodi, ma il respiro trattenuto, il poco ossigeno al cervello e ai tessuti, cominciò a farmi bruciare i muscoli dell'addome e i polmoni, e la fatica si fece sentire, tanto che dovetti tornare a testa in giù per riprendere fiato.

Dopo che questa operazione fu completa, tornai a fare leva sugli addominali e tornai alla posizione precedente.

Per mia sfortuna, quel giorno non ero uscita armata di casa e non vedevo come avrei potuto sciogliere i nodi, quindi tentai di pensare a qualcosa che potesse aiutarmi.

«Nick» dissi dopo qualche secondo: «Adesso ti sciolgo i nodi delle mani, dopodiché farai tutto quello che dico io senza fiatare, chiaro?».

«Si, hai qualcosa in mente?».

«A dopo le domande, continua a trattenere il respiro» dissi tornando a testa in giù.

Con non poca fatica, data la nostra posizione, sciolsi i nodi che legavano le mani di Nick e buttai la corda nella vasca, guardandola sparire in pochi secondi.

«Adesso devi starmi bene a sentire, alzati per come sto facendo io» dissi rimettendomi a testa in su e aggrappandomi alla corda che teneva i nostri piedi legati: «Dopodiché, senza domande, aspetta fin quando non ti dirò di lanciarti fuori dalla vasca. Chiaro?».

«Ma abbiamo i piedi legati!».

«Avevo detto di rimandare a dopo le affermazioni e le domande stupide, no? Ascoltami per una buona volta!».

Lui annuì e si mise in piedi, aggrappandosi alla corda come avevo fatto io, mentre la macchina continuava a farci scendere di quota.

'Se non funziona, siamo spacciati' pensai.

Guardai Nick che ancora tratteneva il fiato e lui ricambiò lo sguardo.

«Adesso ascoltami bene: dobbiamo avvicinarci alla soda caustica per far sciogliere le corde che ci legano; abbiamo le scarpe perciò i nostri piedi saranno protetti per qualche secondo, forse due o tre, quindi dovremmo buttarci fuori il più velocemente possibile, se hai capito tutto annuisci».

Lui annuì velocemente, con uno sguardo spaventato, ma risoluto, sul volto.

«Bene».

Aspettammo un'altra decina di secondi e poi le corde cominciarono a fumare.

'Funziona'.

Altri due secondi e si furono sciolte completamente.

«Adesso!» urlai.

Entrambi, contemporaneamente, saltammo fuori dalla vasca, ma io, data la stanchezza e i fumi dell'acido che mi annebbiavano la mente, riuscii ad arrivare per un soffio oltre il bordo della vasca.

Mi sentivo la gola secca e irritata, faticavo a parlare e anche a respirare, ma avevo altro di più importante di cui occuparmi.

«Stai bene?» chiesi a Nick con voce rauca.

«Si, tu?» la sua di voce era normale, anche se si vedeva che era scosso.

«Bene. Adesso dobbiamo andare, non c'è tempo» dissi alzandomi barcollante.

«Sei sicura di stare bene? La tua voce è...».

«Si, sto bene. Andiamo» tagliai corto.

Lui annuì, anche se non sembrava convinto, ma si alzò comunque in fretta, o almeno, più in fretta di me, e uscimmo insieme all'aria aperta.

«Di qua» dissi appena fummo fuori.

Per fortuna avevo parcheggiato la moto lontana, perché evidentemente nessuno ci aveva fatto caso e adesso era l'unico veicolo nel raggio di chilometri, forse.

«Hey, voi due, dove credete di andare?».

Derek la bestia, era appostato poco lontano da noi, lungo la strada e adesso incombeva come una montagna persino su Nick.

«Ad avvertire qualcuno» dissi avvicinandomi a lui.

«Oh, davvero, ragazzina?».

«Pessima mossa, amico» sentii Nick mormorare, alle mie spalle.

«Tu hai dato a me della ragazzina? Comincia a scavarti la fossa» soffiai minacciosa con gli occhi assottigliati.

«Perché, che vorresti fa...».

Non terminò mai la frase, perché la ragazzina, gli diede un calcio nelle parti basse, ben piazzato, che lo fece inginocchiare, lacrimando.

«Uh... quello deve avergli fatto male» disse Nick.

«E non ho ancora finito! Questo è per prima, stronzo» dissi mollandogli un destro sul naso: «Dimenticavo, me ne hai dati tre!».

Lo presi per la maglia e gliene assestai un altro sullo zigomo, vicino al naso, che probabilmente adesso era rotto.

A quel punto, dato il peso che aveva, gli lasciai andare la maglietta e quando si stese, gli diedi una pedata nello stomaco: «Non ho la forza di mollarti un altro pugno, ma tu me ne hai dato uno nello stesso punto poco fa, quindi compenso in questo modo» dissi acida.

Poi, dopo averlo messo a nanna, mi voltai verso Nick: «Mi sono sfogata, andiamo» gli dissi.

«Ricordami di non farti arrabbiare mai» disse deglutendo.

«Troppo tardi e adesso monta» dissi indicandogli con un cenno del capo la moto.

Lui salì e, passando sopra la mano di Derek, feci inversione di marcia e sgommando, volammo sulla strada non asfaltata, fin quando non arrivammo sulla Pacific Coast Highway.

Mentre mi immettevo velocemente sulla corsia di marcia giusta, circa una decina di auto, minacciarono di arrivarci addosso... fortunatamente, oggi qualcuno lassù o laggiù era dalla mia parte e nessuno ci investì.

«Nick, chiama Lewis, Miller o Anderson e digli quello che sta per succedere, dobbiamo impedire che il distretto salti per aria e se loro sono informati, la C.I.A. e l'F.B.I. saranno dalla nostra».

«Non posso».

«Che significa che non puoi?!».

«Significa che la strega dai capelli rossi, mi ha tolto il telefono».

«Cazzo!» urlai.

Lo feci così forte, che una vecchietta che passava per strada cominciò ad urlarmi dietro, nonostante stessi andando a 180 km/h.

«Ok, dobbiamo avvertire Lewis e non abbiamo un telefono, come facciamo?» chiesi rivolgendomi sia a me stessa che a Nick.

«Ci fermiamo e chiediamo un telefono».

«Ottima idea» accostai vicino ad un uomo e Nick scese velocemente dalla moto per chiedere il telefono.

«Ricorda che devi dire a Lewis: le due pazze, tentano di far saltare il distretto. Digli che ci vediamo lì e che Anderson e Miller devono contattare le rispettive agenzie».

Nick annuì e chiese al tizio con il cappello che avevamo avvicinato di prestargli il telefono.

Tornò da me con il telefono e il suo proprietario dappresso e mi disse: «Ecco sta squillando».

«Bene, allora ci vediamo dopo» risposi accendendo il motore.

«Co-cosa?» disse lui colto di sorpresa.

«Non posso permettere che tu corra ulteriori rischi» ribattei filando via.

'E ancora una volta sei sola. Puoi farcela... devi farcela. Speriamo che Miller o Anderson capiscano tutto' pensai mentre volavo praticamente sull'asfalto.

Arrivata in prossimità del distretto, cominciai a rallentare, non potevo permettere che qualcuno di loro, appostato fuori, mi notasse. Dovevo agire di soppiatto, sfruttando il cosidetto 'effetto sorpresa'.

'Mi sento come in un film patetico e di scarsa qualità, uno di quelli che tutti guardano e nessuno apprezza' pensai mentre scendevo velocemente dalla moto e cominciavo a strisciare lungo un muro laterale alla stazione di polizia.

Mi fermai solo quando, incontrata una parte di muro leggermente più basso, potei alzarmi sulle punte dei piedi e vedere quello che stava succedendo nel cortile del distretto.

'Sembra tutto tranquillo' pensai mentre cercavo le telecamere di sicurezza.

In fondo si erano inseriti nel sistema di casa mia e potevano farlo anche con quello della centrale di polizia.

Accertatami che non ci fosse niente di sospetto in giro, mi issai sulle braccia e scavalcai agilmente il muretto.

Mi dovetti nascondere subito dopo in un cespuglio lì vicino, per evitare che un agente mi vedesse e mi scambiasse per un'intrusa. Appena l'uomo passò, mi alzai velocemente e sgattaiolai vicino l'ingresso posteriore, seguendo l'agente.

Lui entrò velocemente e io mi affrettai a seguirlo: solo una volta ero entrata dall'ingresso posteriore e quella volta, Lewis ci aveva pilotati velocemente attraverso corridoi, porte e stanze, senza darmi il tempo di poter capire dove fossimo con precisione.

Mi avventurai, sempre nascondendomi, attraverso i primi corridoi, fin quando non decisi di essermi persa. In quel momento, un agente anziano, stava venendomi incontro e l'unico posto in cui potevo rifugiarmi era una porta alla mia destra. La aprii velocemente e altrettanto velocemente la richiusi alle mie spalle.

Sentii l'agente fermarsi davanti alla porta e poi allontanarsi a passo svelto.

Tirai un sospiro di sollievo e cominciai a guardarmi intorno. In meno di un secondo realizzai la mia fortuna. Prima non lo avevo notato, essendo troppo occupata ad evitare di farmi beccare, ma adesso che il mio cervello aveva riconnesso i fili, stabuzzai gli occhi, guardando quello che avevo di fronte.

Ero finita nello spogliatoio del distretto: le pareti erano tappezzate di armadietti e su ognuno di esso erano riportati nome e cognome degli agenti.

Mi ricordai velocemente di Barbara, 'l'agente super sexy del distretto', come l'aveva definita Nick la prima volta che l'aveva vista e, nonostante non conoscessi il suo nome, cominciai a cercare il suo nome. L'avevo vista anchio di sfuggita e portava più o meno la mia taglia, forse era leggermente più alta, ma con qualche svolta qui e li sarei dovuta entrare nei suoi vestiti alla perfezione.

Cominciai così a scorrere tutti gli armadietti e quando alla fine avevo perso le speranze, trovai il suo armadietto: era il terzo in alto partendo da destra e, senza perdere tempo lo forzai e rubai l'uniforme.

Mi andava leggermente larga, ma almeno adesso avevo una copertura... dovevo solo rimuovere la targhetta con il nome, appuntata alla giacca.

Appena riuscii a strappare il cartellino in ottone, mi precipitai alla porta e percorsi il corridoio nella stessa direzione che aveva seguito l'agente di poco prima.

Svoltai qualche angolo, attraversai qualche stanza e percorsi qualche corridoio, ma alla fine riuscii ad arrivare alla sala centrale del distretto.

Camminando a testa bassa e nascondendomi sotto il cappello, evitai le telecamere e mi diressi velocemente alla scrivania dell'agente Morris (era il cognome di Barbara).

Presi il telefono e digitai il numero di Anderson. Per qualche secondo, temetti che non avrebbe risposto, infatti appena Anderson rispose tirai un sospiro di sollievo.

«Anderson».

«Sono io, Macy Cullen» dissi parlando sottovoce: «Sono al dipartimento, credo che tengano d'occhio le telecamere di sicurezza, faccia portare le chiappe qui a quanti più agenti possibili, perché se mi beccano, una volta superata l'incredulita per la mia non-morte, mi faranno fuori per davvero e io sono sin troppo giovane per morire, devo ancora sposarmi, divorziare e spennare il mio ex-marito come un pollo» continuai bisbigliando.

«Che bella prospettiva di vita! Comunque, abbiamo recuperato il suo amico, Cullen, entrambe le agenzie stanno arrivando e anche noi, quindi si calmi».

«Senta: io non sono un tipo aggressivo, ma se portate Nick qui, pretenderò la vostra testa, in modo da poterla appenderla in salotto. Inoltre, ho appena rubato la divisa di un agente di polizia e sono praticamente in incognito, quindi non so quanto posso resistere. Le due pazze hanno intenzione di far saltare il distretto, quindi se vedranno arrivare qui enormi macchinoni della C.I.A. o dell'F.B.I., si insospettiranno e faranno una caneficina e ripeto che nel mezzo ci sono anche io, quindi cercate di non combinare casini».

«Bene, allora riesce a vedere quello che succede all'interno?».

«Ma dico, ha sentito solo questo di tutto quello che le ho detto? E comunque, io non so orientarmi bene qui dentro, quindi non saprei dirle, ma si, posso vedere l'intera sala principale».

«Non ho sentito solo quello e in ogni caso dovrà essere i nostri occhi lì dentro: in ogni uniforme di polizia, dovrebbe esserci un auricolare che esce dal colletto, riesce a metterlo?».

«Ma certo che riesco a metterlo, per chi mi ha presa?» dissi indignata.

«Lo metta e poi, nel taschino dell'uniforme, dovrebbe esserci anche una specie di pinza, la attacchi sul petto, è un microfono. Una volta che ci saremmo collegati con le frequenze radio esatte potremmo comunicare».

«Bene, adesso devo chiudere il telefono, sbrigatevi a trovare la frequenza esatta, perché devo esplorare il resto del distretto, non so come orientarmi e mi serve Lewis».

«Bene» disse chidendo il telefono.

«Bene...» mormorai flebile io.

Solo Gesù Cristo sapeva come avrei fatto a venire fuori da quel casino.

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Capitolo 17
*** Come James Bond ***


Capitolo 17: Come James Bond

Mentre Anderson e Miller e le loro rispettive agenzie, tenatvano di rintacciare le giuste frequenze radio, io cercavo di passare inosservata e di non farmi vedere dalle telecamere di sicurezza.

'Ma perché capitano tutte a me?!' pensai irritata e sconsolata allo stesso tempo.

Cominciai ad allontanarmi dalla scrivania dell'agente Morris e tentai di pensare ad un posto in cui non c'erano telecamere di sicurezza.

'Lo sgabuzzino delle fotocopie non va bene, potrebbe entrare chiunque... ci deve pur essere un posto non sorvegliato!'.

Nel mio vagabondare, ero passata davanti a parecchie porte, ma due particolarmente vicine tra loro, avevano attirato la mia attenzione.

Tornai sui miei passi appena mi resi conto di quello che vi era dietro e, guardinga, entrai.

Le piastrelle che ricoprivano tutti i muri, mi accolsero fredde e prima di mettere un piede dentro, guardai a destra e a sinistra.

Dopo essermi accertata non ci fosse nessuno, entrai e mi richiusi la porta alle spalle.

Alla mia destra c'erano i lavandini e di fronte a questi, i bagni, divisi da divisori di plastica beige.

Mi infilai velocemente in uno di questi e salii velocemente sulla tavoletta del water, dopo aver chiuso la porta, in modo che se qualcuno avesse ficcato il naso, avrebbe pensato che la porta fosse bloccata, ma che nessuno fosse chiuso lì dentro.

«Cullen, mi sente?».

Saltai in piedi dallo spavento e caddi dal water, per poco non mi ruppi una caviglia, ma comunque diedi una facciata alla porta.

«Il mio naso!» esclamai dal dolore.

Era la seconda volta in un giorno che attentavano alla perfezione del mio naso, quando è troppo è troppo!

«Cullen, sta bene?» disse la stessa voce di prima.

«No, non sto bene, Anderson!» dissi quando capii da dove veniva la voce e di chi era.

«Mi dispiace, ma non ha il tempo di stare male. Abbiamo novità».

«Quando questa storia sarà finita, io la manderò all'ospedale, Anderson, glielo giuro».

«Sarò pronto. Abbiamo ragione di credere che vogliano travestirsi e infiltrarsi al distretto, proprio come ha fatto lei».

«Questo lo avevo già capito, grazie» replicai stizzita.

«La C.I.A. ha notato un'intensa attività nei pressi dell'ingresso principale e con qualche cimice qui e lì, abbiamo captato i nomi di quelli che entreranno e abbiamo preso informazioni su di loro».

«Quanti sono?».

«Quattro in tutto. Inclusa la ragazza con i capelli rossi che non sappiamo bene come chiamare, dati i suoi diversi cognomi e la vedova Jennings. Non si lasci ingannare, saranno ben travestiti se devono passare inosservati e abbiamo ragione di credere che abbiano programmato tutto da tempo, quindi avranno anche possibilità di mimetizzarsi al meglio tra gli agenti».

«Bene».

L'ultima affermazione di Anderson, mi aveva colta alla sprovvista: non che mi aspettassi che sarebbero venute entrambe da me a congratularsi per essere riuscita a scampare alla morte, ma speravo di poterle riconoscere in mezzo agli agenti; speravo che avessero un comportamento diverso dai veri poliziotti.

«Come le riconoscerò allora? Voglio dire, come li riconoscerò?».

«È per questo che abbiamo fatto ricerche su di loro. Allora... la ragazza con i capelli rossi, ha un tatuaggio sul dorso della mano, una specie di tribale con dei fiori, non saprei desciverglielo meglio...».

«Si ok, ho capito, un tribale con dei fiori. Gli altri?».

«Ad un tizio, Terence Meadbowe, manca l'anulare sinistro, sembra gliel'abbiano staccato durante una rissa... non credo si potrà sposare mai, e a mio parere, è una...».

«Anderson! Gli altri?».

«Oh, si giusto. Alan Mallory, ha una gamba di legno, ma riesce a camminare perfettamente e molto spesso, sotto i vestiti, non si nota a quanto dicono nel rapporto. È rimasto ferito in guerra».

«Una gamba di legno? Mi prende in giro?».

«Assolutamente no. La vedova Jennings, invece, dovrebbe avere una piccola cicatrice alla base del collo, non si nota molto, ma se si cerca si trova con facilità, è dovuta ad un incidente d'auto di circa otto anni fa».

«Un incidente d'auto?».

«Si, la trovarono in fin di vita all'interno di un un'auto di sua proprietà. Aveva un pezzo di lamiera conficcato nel ventre e perdeva abbondante sangue anche dal collo. L'hanno portata velocemente all'ospedale, ma rimase comunque priva di coscienza per una settimana e divenne sterile».

Rimasi in silenzio, riflettendo su quello che mi aveva appena detto Anderson, quando mi richiamò: «Cullen, ci serve lucida, non può permettersi di sbagliare, c'è in gioco la sua vita e quella di altre cinquanta persone, padri e madri di famiglia, ignari di quello che sta succendendo. Se proprio le va, appena l'avremmo catturata, gliela lascerò per cinque minuti in una stanza insonorizzata e a telecamere spente, ma adesso deve concentrarsi, le passo l'ispettore così la potrà guidare attraverso l'edificio».

Mi ripresi e risposi di si ad Anderson e poco dopo sentii la voce di Lewis: «Ascoltami bene, Macy: non comunicare mai direttamente con noi quando ci sono terzi, non puoi fidarti di nessuno. Chiaro? E adesso dimmi: dove ti trovi esattamente?».

«Sulla tavoletta del water, nella toilette delle donne».

Sentii una voce in sottofondo seguire la mia affermazione: «L'abbiamo trovata, signore, è qui».

«Bene, grazie Harris. Cullen, noi la vediamo, ma non possiamo sentirla attraverso le telecamere, non si preoccupi di farsi vedere, abbiamo noi il controllo dell'impianto di sicurezza, l'F.B.I. ha fatto un ottimo lavoro».

«Perfetto, dove vado?».

«Esca e giri a sinistra, poi prosegua dritto per circa dieci metr, incontrerà una porta, è la sala registrazioni: lì si trovano le registrazioni di tutte le conversazioni della sala interrogatori e delle telecamere del distretto, può vedere anche lei adesso quando entreranno. Probabilmente, arriveranno dall'ingresso principale, ma meglio che lei tenga d'occhio anche quello sul retro».

«Bene.. siamo sicuri che non entrerà nessuno?».

«Si, le chiavi sono all'interno e quando c'è il tecnico la porta è sempre chiusa».

«Quindi se la chiudo nessuno sospetterà?».

«Esatto».

Una volta chiusa la porta, cominciai a fissare i monitor davanti a me, tentando di rintracciare i segni particolari che anderson mi aveva elencato.

'Allora:' cominciai: 'Una gamba di legno, un tatuaggio, una cicatrice e... un dito mancante!'.

«Quando pensa che arriveranno?» chiesi alla fine a Lewis dopo quindici minuti di attesa.

«Non lo sappiamo, probabilmente dovremmo ancora aspettare» rispose Miller al posto dell'ispettore.

«Uffa! E va bene! Ma se mi si addormentano le gambe e non posso più muovere, qui saltiamo in aria tutti e non... porco cazzo, sono lì! O almeno, quello con la gamba di legno è lì!» dissi indicando un punto sul monitor.

«Lo vediamo».

«Come lo raggiungo, ispettore?».

«Esca e svolti a destra, prosegua tutto dritto e prima di arrivare alla sala interrogatori, giri a sinistra. Da lì sarà perfettamente visibile, quindi stia attenta».

«Certo, non preoccupatevi e avvertitemi se ne arrivano altri».

«Abbiamo ragione di ritenere che Mallory abbia anche una delle bombe con se. Una volta che l'avrà presa, la porti nel bagno degli uomini, c'è un doppio fondo nel pavimento che gli agenti usano per nascondere cose non del tutto legali» disse Lewis imbarazzato.

«E lei lo sa, ma non fa niente?».

«Sarebbe inutile, sono giovani e dopo la sospensione, si troverebbero un altro ripostiglio».

«In effetti...» ammisi.

Appena finii di parlare, intravidi il tizio con la gamba di legno. Camminava bene e l'handicap non si vedeva per niente, ma doveva trovarsi una divisa più grande, perché i pantaloni erano troppo corti e se ci si faceva caso, si notava il legno.

Era un armadio e credo che misurasse uno e ottanta, per uno e ottanta, per uno e ottanta... un cubo insomma.

'Un cubo con la forza di Hulk, probabilmente' pensai sconsolata.

Si guardava intorno, con circospezione e esaminava tutti quelli che gli passavano vicini.

«Quello non può batterlo da sola, le serve aiuto, Cullen» considerò l'ispettore: «Torni velocemente indietro, c'è una specie di ripostiglio poco più in là, vi mettiamo le scrivanie o le sedie rotte che devono essere aggiustate, veda se trova qualcosa di utile».

Feci come Lewis mi aveva chiesto e silenziosamente, una volta arrivata davanti la porta, la aprii ed entrai.

Cumuli di sedie, di ferro, di plastica e di legno, e di scrivanie, degli stessi materiali, mi diedero il benvenuto.

Alcune erano davvero malridotte e mi chiesi come avrebbero fatto a farle aggiustare. Non me ne curai più di tanto e, dopo aver frugato qualche secondo, vidi una scrivania di legno abbastanza rotta da permettermi di staccarne un pezzo bello lungo.

«Perfetto» mormorai.

Tornai indietro e notai che nonostante mi fossi assentata per un certo tempo, l'armadio era ancora fermo lì dove lo avevo lasciato, con la stessa aria guardinga.

«Sta aspettando la pausa, quando gli agenti vanno tutti alle loro scrivanie e stuzzicano qualche tramezzino o bevono un caffé. Dovrebbe essere tra... qualche minuto, tutti controllano l'orologio perché hanno due minuti scarsi per potersi rilassare».

Attesi quindi circa un minuto e come volevasi dimostrare, appena l'orologio dell'atri posteriore dell'edificio, battè le cinque, tutti gli agenti, come un gregge compatto, si diressero verso la sala principale.

Dal mio nascondiglio, dietro la colonna portante dell'atrio, spiavo tutti i movimenti dell'uomo e aspettavo il momento giusto per agire.

Appena fu certo che nessuno lo stesse guardando, il tizio uscì dalla giacca un fagotto grigio, di circa venti centimetri.

Mi diede le spalle e si inginocchiò, per poter piazzare la bomba.

Mi avvicinai di soppiatto alle sue spalle e, mentre nell'orecchio sentivo i tre agenti che in coro esclamavano 'ORA!', alzai la trave di legno sopra la testa con entrambe le braccia e, con forza e precisione, lasciai che si rompesse in due sulla testa dell'uomo.

«Non si attacca alle spalle, Cullen» disse Anderson ridendo.

«Ma stia zitto!» risposi stizzita.

Presi la bomba e la misi sotto la giacca della divisa. Poi recuperai quello che era rimasto della trave di legno e lo lanciai dentro la prima porta che incrociai.

«Ha due minuti, Cullen, dopodiché tutti gli agenti torneranno e la beccheranno» disse Lewis.

«Ho... Capito!» dissi in uno sforzo sovrumano di prendere i polsi dell'uomo svenuto e trascinarlo.

«Si ricordi che poi deve anche legarlo se non vuole che scappi» disse Miller.

«E dove vuole che le trovi le corde?!» esclamai.

«Questo è affar suo, ma le conviene trovarle» disse Lewis.

«Grazie mille per il sostegno!» dissi sarcastica.

Loro non risposero e io mi affrettai, con non poca fatica, a trascinare l'uomo dentro la sala di video sorveglianza.

Una volta riuscita a tirare dentro anche i piedi dell'uomo, mi apprestai a cercare delle corde.

'Porco demonio, dove dovrei trovarle delle corde?! Qui ci sono solo fili e cavi e... Aspetta, ci sono! Eureka!'.

Rovistando, trovai dei cavi USB e legai mani e piedi dell'uomo, per sicurezza misi anche dello scotch trovato all'ultimo secondo intorno alla sedia sulla quale, grazie a non so quale tipo di santo lassù, riuscii a sedere il cubo umano che avevo legato come un salame.

«Come sta andando?».

«Sta andando, mi sento James Bond» risposi alla domanda di Anderson.

«Bene, perché credo che abbiamo un altro problema».

«Cioé?».

«Guardi la stanza principale» disse Miller enigmatico.

Cercai il monitor che riprendeva la sala principale e vidi una donna, che camminava a testa bassa e tentava di eclissarsi ogni due per tre dalla stanza.

«Vada» disse Lewis.

«Quella deve essere quella baldracca di mia madre*» ringhiai sottovoce.

«Giri a sinistra e percorra il corridoio fino alla fine, svolti a destra e poi alla seconda a sinistra, la stanza che incontrerà è la sala caffé».

«Bene, vado».

Seguii le istruzioni di Lewis passo passo e in meno di un minuto, mi ritrovai all'interno della sala caffé in cui avevo conosciuto i due surfisti.

'Bei tempi quelli li! Quando ancora non tentavano di sciogliermi nella soda caustica e non volevano farmi saltare in aria!' pensai.

Dalla vetrata della sala caffé, si vedeva chiaramente la donna che, goffa nella sua divisa troppo grande, tentava di non farsi notare.

Lei avanzò verso la parte nord della stanza e io, confondendomi tra gli agenti, le tenni dietro.

Continuavo a nascondermi in viso, perché continuava a voltarsi per controllare che nessuno la stesse seguendo.

In realtà, nessuno tranne me la stava calcolando: erano tutti così presi dal loro lavoro da non accorgersi che era entrata con una bomba sotto braccio... beh, non proprio sotto braccio, ma quasi.

La donna entrò in una stanza che si affacciava sulla sala grande e si chiuse la porta alle spalle.

«Quello è l'ufficio di Carter, l'ispettore capo. Adesso è in ferie, ma non credo che gli piacerebbe sapere che il suo ufficio è saltato in aria» considerò Lewis.

«Come entro?».

«Non lo fai. Non c'è un'altra entrata. Ti prendi una sedia, aspetti che lei abbia piazzato la bomba e poi, quando esci la stendi. Se entrassi se ne accorgerebbe e potrebbe innescare il dispositivo, se la piazza soltanto, la potri rimuovere con semplicità e portarla con te».

Mi sedetti dunque su una sedia, accanto alla porta dell'ufficio in cui era entrata mia madre e aspettai.

«C'è un'infermeria, qui?» chiesi tentando di non muovere le labbra.

«Si, deve imboccare il corridoio sulla sinistra e poi deve andare a sinistra quando incontra il terzo corridoio. Perché lo vuole sapere?».

«Oh, così... chiedevo».

Sentii un rumore alle mie spalle e poco dopo la porta si aprì. Non diedi il tempo alla donna di fare un solo passo che allungai la gamba e la feci inciampare e sbattere a faccia in giù contro il pavimento.

Tutti gli agenti si voltarono verso di me.

«Oh, scusate, sono così maldestra a volte! La porto in infermeria, così starò più tranquilla!» esclamai.

I poliziotti mi guardarono un po' strano, ma nessuno si oppose, forse dato il sangue che usciva dal naso rotto della donna che sorreggevo, pensavano fosse meglio portarla in infermeria per farla controllare.

«Ottima trovata, Cullen» disse Miller nel mio orecchio.

Presi di peso la donna e mi avviai verso l'infermeria, seguendo le istruzioni che mi aveva dato Lewis.

Appena ci fummo allontanate abbastanza, le diedi un pugno sul naso, già di per sé dolorante, e lei svenne completamente.

Dopo averla trascinata con me fino all'infermeria, ed essermi accertata che dentro non ci fosse nessuno, cominciai a frugare e poco dopo trovai quello che cercavo.

L'infermeria del distretto, era vagamente e inquietantemente simile all'obitorio. La differenza era che al posto dei tavoli di metallo e delle bilancie, c'era un solo lettino, bianco, ma altrettanto asettico.

Frugai in cassetti, armadietti e anche nel cestino, fin quando non riuscii a trovare le siringhe che cercavo.

«Morfina?» chiese Lewis perplesso.

«Morfina!» disse Miller piacevolmente sorpreso.

«Morfina...» disse Anderson scocciato.

Non risposi, ma sentii Anderson spiegare che anche lui avrebbe potuto avere un'idea del genere, Miller dirgli che non era assolutamente vero e l'ispettore chiedere se avesse potuto capire anche lui.

«Quando incontrerà il prossimo, non ci sarà bisogno di stenderlo» spiegò Miller: «Una sostanziosa dose di morfina e anche se il prossimo è un armadio come il tizio di prima, si farà un sonnellino di circa quattro ore».

«Geniale!» commentò l'ispettore.

«Già non vorrei interrompere, ma adesso dove la metto, la baldracca?» chiesi.

«Può lasciarla anche in infermeria, di solito è chiusa e lì vicino, dovrebbe esserci il lucchetto» disse Lewis.

«Perfetto!» esclamai una volta trovato il lucchetto e la rispettiva chiave.

Conservai le siringhe all'interno della giacca e tornai alla sala registrazioni.

Qui, il tizio con la gamba di legno, aveva cominciato a riprendersi e io, non volendo sprecare la morfina, presi un pezzo di metallo di uno scaffale che stavano ancora montando e glielo diedi in testa.

«Non farmi incazzare, amico, sono già abbastanza nervosa!».

«Ma con chi parla?».

«Con Capitan Gamba di Legno... non si ha mai un attimo di pace qui dentro! Telecamera 3» dissi.

«Meadbowe è vicino l'obitorio, come è potuto arrivare fin laggiù?».

«Andiamo a stanare Peter Minus**».

«Chi?!» dissero tutti in coro.

«Peter Minus!».

«...».

«Uno dei cattivi di Harry Potter!».

«...».

«Quello che si taglia un dito e poi... oh, lasciate perdere!» risposi stizzita uscendo dalla porta correndo per dirigermi verso l'ascensore.






 

 

*La definizione di 'Baldracca' per indicare la madre di Macy e qualche volta anche Tiffany, me l'ha data LeaRachelBlackbird_et_Ann che spero non si offenda se ho usato la sua espressione che descrive al meglio queste due 'donne'.

**Peter Minus spero lo conosciate tutti, ma per chi non lo conoscesse è lui che tradisce James e Lily Potter, vendendoli a Voldemort e poi fa ricadere la colpa dell'assassinio della coppia su Sirius Black, fingendo la sua morte, dopo essersi tagliato un dito ed essersi trasformatosi in un topo, andando in seguito a vivere con i Weasley. Dato che la saga di Harry Potter è la mia preferita in assoluto, ho pensato di fare un riferimento.

Detto questo, mi dispiace per il ritardo, sono imperdonabile, e non ho alcun tipo di scusa, quindi spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se personalmente non mi convince troppo, quindi vorrei sapere che ne pensate. Un bacio a tutti :)

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Capitolo 18
*** Preferisco morire che aiutarti ***


Capitolo 18: Preferisco morire che aiutarti

 

Mi precipitai come una furia all’ascensore e freneticamente, cominciai a schiacciare il pulsante.

«Andiamo, andiamo, andiamo!» sussurravo agitata.

Dopo quelle che a me sembrarono ore, l’ascensore arrivò e mi ci fiondai dentro.

«Deve premere il…» la voce di Lewis si perse appena entrai in ascensore.

Le porte si stavano chiudendo e io spinsi un pulsante a caso, con la speranza di averlo indovinato.

Arrivai al piano -2, le porte si aprirono e riconobbi all’istante il corridoio che avevamo percorso con Lewis più di una volta per andare dal medico legale.

Silenziosamente, mi avvicinai alle porte di metallo dell’obitorio e cercai di sbirciare tutto quello che succedeva all’interno.

Per mia fortuna, lo spiraglio da cui stavo guardando era abbastanza grande da permettermi di vedere buona parte della sala autopsie.

In questo modo, potetti scorgere Meadbowe in piedi tra l’ultimo tavolo di metallo e il piano illuminato per le lastre.

Puntava una specie di pistola contro i tre sfigati seduti, legati ed imbavagliati a terra in un angolo e nel frattempo parlava con il dottore, il cui naso perdeva sangue e che era riverso a terra, con le spalle nella mia direzione.

«Dimmi dov’è la sala conferenze, non voglio ripetermi» stava intimando al dottore.

«Io non lo so! Io non esco mai di qui, tranne quando mi chiamano sul posto» disse il medico sputtacchiando un po’ di sangue.

«Ascoltami bene: dimmi dov’è questa maledetta sala, perché faccio saltare la testa a qualcuno dei tuoi giovani assistenti».

A quel punto si inginocchiò vicino al dottore e si abbassò per sussurrargli qualcosa all’orecchio.

Sperando che la mia idea della morfina fosse efficace, mi affrettai a raggiungerlo alle spalle.

I tre sfigati si accorsero della mia presenza, e per la prima volta, ringraziai un criminale per averli imbavagliati.

Quasi quasi mi dispiaceva stendere l’uomo che era riuscito a zittire quegli idioti.

Cominciai a camminare silenziosamente nella direzione dell’uomo ancora accovacciato per terra, mentre lentamente uscivo una delle siringhe di morfina.

‘Speriamo funzioni!’ disse una vocina nella mia testa.

Con sommo terrore, mi accorsi che Meadbowe stava per rialzarsi, quindi mandai al diavolo ogni precauzione e mi misi a correre, con la siringa puntata nella sua direzione.

Quando si accorse di me, era troppo tardi: grazie al fatto che non si aspettasse il mio arrivo, riuscii a beccare proprio il collo e a somministrargli la morfina in fretta.

Quando la siringa fu vuota, lui mi respinse, con una forza sovrumana e io finii lunga distesa per terra. Cominciò ad avanzare verso di me con aria minacciosa e un sorriso da iena ridens stampato sulla faccia.

«Pensavi forse di potermi sopraffare con una forza da scricciolo come…» non continuò mai la frase, perché svenne e cadde sopra il dottore, già messo male.

«Idiota, non si è accorto che gli ho infilato una siringa nel collo» dissi mentre andavo a slegare il dottore e gli idioti.

Appena tolsi il bavaglio ai tre deficienti, cominciarono a parlare tutti insieme, come se gli avessero dato l’imput.

«Hey!» urlai con quanto fiato avevo in gola: «Io ho avuto una giornata stressante, hanno tentato di sciogliermi nella soda caustica, di farmi saltare in aria e hanno attentato alla perfezione del mio naso ben due volte! Quindi chiudete le fogne che avete sotto il naso, date una mano al dottore e non provare a salire ai piani superiori, neanche dovesse cadere il cielo o se uno dei vostri cadaveri dovesse risorgere! Sono stata sufficientemente chiara?».

Loro annuirono, quasi spaventati, ma appena finii di parlare, si precipitarono dal medico legale e lo aiutarono a riprendersi.

Io invece cominciai ad incamminarmi per risalire. Sempre facendo attenzione e nascondendomi al minimo accenno di rumori, arrivai alle porte dell’ascensore. Prima che potessi mettervi piede dentro, la voce di Lewis mi fece sobbalzare.

«No, non lo faccia!».

«E perché mai?».

«Di sopra è appena arrivata la ragazza con i capelli rossi, sta aspettando vicino l’ascensore, potrebbe riconoscerla».

«E allora come vuole che salga?».

«Con le scale».

«Con le scale? Ci sono delle scale?».

«Questione di sicurezza, durante gli incendi gli ascensori sono inaccessibili».

«Capisco, dove sono queste scale?» domandai rassegnata all’idea di farmi tre piani di scale a piedi.

«Sulla sinistra, poco più indietro c’è un corridoio: lo percorra tutto e in fondo, troverà una porta».

Seguendo le istruzioni di Lewis, imboccai un corridoio largo, ma molto buio. Misi le mani sul muro, per cercare di orientarmi, quando, ad un certo punto, sentii la voce di Lewis nell’orecchio: «Cullen, sta per caso brancolando nel buio?».

«Tralasciando il fatto che dopo questa storia dovrò farmi ricoverare d’urgenza in ospedale, causa i diversi infarti che mi state facendo venire, si: sto brancolando nel buio. Non avete mai pensato di mettere qualche lampadina qui sotto? È troppo buio anche per un pipistrello!».

«Ogni poliziotto ha una torcia in dotazione, potrebbe usare quella, non crede?».

«E questo per curiosità, quando pensava di dirmelo?».

«Gliel’ho detto ora, non la faccia troppo lunga».

Cominciai a frugarmi dappertutto, alla ricerca di quella maledetta torcia, e alla fine, dopo cinque minuti di ricerca, la trovai appesa alla cintura dei pantaloni.

‘Maledette divise da poliziotto!’ pensai mentre l’accendevo.

La luce della torcia, non andò lontano, perché investì quasi immediatamente la porta che portava alla tromba delle scale: era a meno di 30 centimetri dal mio naso.

«Qui c’è qualcuno che si diverte a prendermi in giro» borbottai.

Nessuno all’auricolare rispose alla mia affermazione, ma udii delle risatine di fondo che non fecero altro che aumentare il mio nervosismo.

Spinsi il maniglione della porta e sempre facendo luce con la torcia, cominciai a salire le scale, contando i piani, per non sbagliarmi.

«Eccomi finalmente!» sussurrai appena fui davanti alla porta di metallo che riportava il numero 0.

«Mi raccomando, Cullen, non si faccia notare, la porta delle scale si trova vicino all’infermeria».

«Bene… Ho una domanda».

«Cioè?».

«Beh, ecco… è armata?».

«Armata? Beh, non sembra, ma perché vuol saperlo? Che intenzioni ha?».

«Le peggiori» risposi asciutta prima di uscire nel corridoio vicino l’infermeria.

Percorsi velocemente la distanza che mi separava dalla stanza centrale del dipartimento e quando arrivai cercai di individuare la rossa psicopatica.

Non fu difficile, quell’improbabile colore di capelli si vedeva da chilometri e chilometri di distanza.

Mi avvicinai a lei lentamente, e quando fui abbastanza vicina, mi tolsi il cappello e le permisi di riconoscermi.

Lei mi guardò con gli occhi sbarrati, come se temesse di avere un’allucinazione e io mi voltai e mi incamminai verso gli spogliatoi femminili.

Intuendo probabilmente le mie intenzioni, lei mi seguì e una volta arrivate agli spogliatoi si richiuse la porta alle spalle.

«Chi non muore si rivede! Mi piace la tua tenacia, sei testarda e anche in gamba se sei riuscita ad arrivare fin qui. Certo, dovrò dare una lezione a Derek, che vi ha lasciato fuggire indisturbarti… glielo avevo detto io di uccidervi subito, ma a lui piace giocare».

«Grazie, ma purtroppo per te non posso dire le stesse cose: sei davvero psicopatica se credi di poter uscire illesa di qui. In ogni caso il tuo scimmione ci ha provato, non è colpa sua se quando Dio divideva i cervelli lui era altrove».

Lei rise, di una risata amara e sgradevole e poi mi guardò proprio per come si guarda una bistecca al sangue: «Già, hai ragione, ma la pazza sei tu se speri di poterlo raccontare a qualcuno credi davvero che ti lascerei andare via per disinnescare la bomba? Sai la mia è la più grande di tutte, ed è posizionata nel posto meno accessibile e più strategico di tutto l’edificio. Adesso che lo sai però, ho un motivo in più per farti fuori» disse prima di avventarsi su di me.

Mi afferrò il braccio sinistro e me lo torse dietro la schiena, cosicché la mano sinistra era all’altezza della spalla destra.

«Puoi ancora salvarti, devi solo unirti a me, devi solo aiutarmi a far saltare in aria questo posto» disse, portandosi dietro di me, al mio orecchio, con quello che di sicuro riteneva essere un tono seducente.

Repressi a stento una smorfia e un gemito di dolore: «Peccato per te che io preferisca morire che aiutarti a spedire al creatore una cinquantina di padri di famiglia» dissi dandole una testata sulla faccia.

Lei mi lasciò andare il braccio e si portò le mani al viso, imprecando in modo sin troppo teatrale per risultare vero. Quando mostrò il volto, il suo naso sanguinava copiosamente, probabilmente glielo avevo rotto e una smorfia di dolore le deformava i lineamenti.

«Come hai osato?!» urlò fuori di se dalla rabbia.

«Sai, devo ammettere che ti dona di più così che come prima».

Lei ringhiò di rabbia come un cane rabbioso e mi si buttò a dosso, facendomi finire lunga distesa per terra. Cominciò a darmi pugni, quasi tutti prontamente parati, fin quando qualcosa non rischiò di perforarmi la schiena.

Mi ricordai della torcia che avevo rimesso nella cintura e, con non poca fatica, la uscii e gliela puntai negli occhi. Rimase accecata per qualche attimo, che mi permise di caricare un bel colpo con la stessa torcia e di assestarglielo in testa. Lei svenne, accasciandosi a terra con un tonfo.

«La prossima volta, prenditela con qualcuna della tua taglia, spilungona! Mi sa tanto che tu e tua madre dovrete farvi fare una plastica facciale» dissi mentre tentavo di metterla in posizione eretta contro uno degli armadietti.

«Dove la nascondo adesso? Di sicuro non posso lasciarla qui» dissi rivolgendomi a Lewis.

«Dove siete?».

«Non ci avete visto?».

«In alcuni posti non ci sono telecamere, quindi ripeto: dove siete?».

«Spogliatoi femminili. Allora: dove la metto?».

«Di lato alla porta, c’è un armadietto: lo apra, Cullen, dentro c’è una chiave, o forse un mazzo di chiavi, non ne sono sicuro, che apre o aprono tutti gli armadietti, una specie di passepartout. Poi deve solamente trovare un armadietto abbastanza grande da contenerla e chiudercela dentro».

«La fa facile lei, ispettore, questa tipa è alta uno e ottanta e io ho circa venti centimetri meno».

«Ma se qualcuno ti aiutasse, credi di poterci riuscire?».

La voce, proveniente dalle mie spalle, mi fece gelare il sangue nelle vene e lentamente mi voltai.

«Cosa. Cazzo. Ci. Fai. Tu. Qui. Spiegamelo» dissi con una calma che nascondeva tutta la mia agitazione.

«Ti serviva aiuto e io sono qui per aiutarti, questa volta non mi mollerai in mezzo ad una strada. Intendo letteralmente» disse Nick sorridendo furbo.

«Sai che ti dico? Eviterò di sprecare fiato dicendoti che sei un coglione, credo che tu lo sappia già».

«Non puoi proteggermi per sempre… tra l’altro sono più grande di te, quindi chiudi il becco e dimmi che cosa devo fare».

Gli rivolsi l’occhiata più truce che mi riuscì e, sbuffando sonoramente, gli dissi quello che doveva fare: «Ci sono delle chiavi in quell’armadietto lì» dissi indicando un punto vicino la porta: «Aprilo, e prendile, ci servono per aprire un armadietto abbastanza grande da contenerla».

Lui annuì e si incamminò. Poi si fermò, come paralizzato: «Come esattamente dovrei aprire l’armadietto?».

«Avevi detto che volevi aiutarmi, no? Trova un modo per aprirlo!».

Lui sospirò e scosse la testa ridacchiando.

«Che hai da ridere?» chiesi.

«Non cambi mai» rispose come fosse ovvio.

Maschi: chi li capisce è brava!

Mentre Nick si occupava di trovare un modo per aprire l’armadietto, io tentavo di non crollare sotto il peso della rossa.

«Oh, accidenti!» esclamai, dopo averla distesa più o meno delicatamente su una delle panche di legno.

«Che c’è? Che succede?» disse Nick, girandosi di scatto verso di me, allarmato.

«Questa stronza mi ha macchiato la camicia di sangue! Quando si sveglia dovrà pagarmi la camicia per nuova» dissi oltraggiata.

«Tu mi hai fatto venire un colpo per un po’ di sangue? Quella divisa non è neanche tua!» disse lui di rimando.

Io mi fermai un secondo a riflettere: «Hai ragione. Ero convinta fosse mia. Comunque, Nick, mi sembri un po’ nervosetto, non è così?».

«Sta zitta e non farmi prendere un altro colpo, potrei rimanerci stecchito» disse tornando a dedicarsi all’armadietto.

Ad un certo punto, trovò quella che sembrava una scopa e cominciò a colpire ripetutamente la serratura in metallo dell’armadietto.

Io lo guardai stranita, ma lo lasciai fare. Ci provò per diciassette volte e alla fine mi stufai.

Aveva cominciato ad avventarsi con più forza e anche con più rabbia sul metallo e il fracasso era assurdo: «Fermo, fermo, fermo, così mi caverai un occhio se non di peggio» dissi trattenendo la scopa all’ennesimo colpo: «Facciamo le cose con classe: siamo in uno spogliatoio femminile».

«E che importa dove siamo? Tanto non c’è nessuno».

«Intendo dire che possiamo scassinarlo, senza dover fare accorrere tutti gli agenti per il gran baccano che stai facendo»  dissi abbassandomi per guardare sotto le panche.

«E come vorresti fare?».

«Con questa!» risposi trionfante, alzandomi.

«Con quella? È roba che si vede nei film, Macy, non funziona nella realtà» disse scettico indicando la forcina che tenevo tra le dita.

«Beh, cos’hai da perdere? Provaci!» dissi passandogli la forcina.

Mi guardò un secondo negli occhi, probabilmente per accertarsi che non stessi scherzando e poi, con uno sbuffo degno di una locomotiva a carbone, prese la forcina e se la rigirò tra le mani con scetticismo: «Non funzionerà mai».

«Lo hai già detto, adesso provaci».

Si avvicinò lentamente all’armadietto e infilò la forcina nella serratura e cominciò a girare.

Questa storia andò avanti per un po’ e quando avevamo perso le speranze, uno scatto e il cigolio dei cardini dello sportello di metallo, ci fecero spuntare un gran sorriso in faccia.

Trovammo all’interno una chiave: era molto piccola e dall’espressione di Nick, avevo intuito che anche lui come me, trovava improbabile il fatto che quella piccola chiavetta fosse un passepartout.

«Tu sei sicura che l’ispettore abbia detto proprio qui dentro, vero?» chiese lui dubbioso.

«Certo che ne sono sicura, non vi avrei perso tempo se così non fosse stato, non credi?» risposi scocciata dal suo scetticismo.

«Ok, allora adesso dobbiamo trovare un armadietto abbastanza grande da non farla soffocare» disse lui.

«Nonostante il soffocamento non sia una brutta idea, ne ho già trovato uno abbastanza grande da contenerla, mentre tu ti avventavi con la scopa sul metallo dell’armadietto».

«Grande!».

Presi la chiave che Nick mi porgeva e aprii l’armadietto, che si rivelò essere quello delle scope e degli stracci per pulire, che avevo individuato poc’anzi e insieme riuscimmo a chiuderla dentro.

«E adesso che si fa?» chiese lui.

«Adesso si va al locale caldaia della centrale, posizionato esattamente sotto i nostri piedi» risposi calma: «Lì troveremo la bomba».

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Capitolo 19
*** Non posso credere che finirà così ***


Capitolo 19: non posso credere che finirà così.



Il locale caldaia era un posto caldo e molto, molto umido. Vi si accedeva tramite una serie di passaggi sotterranei, sconosciuti alla maggior parte degli agenti che non andava volentieri a ficcare il naso laggiù data la forte umidità.

Ovviamente quelli che conoscevano meglio i passaggi per arrivarvi erano l’ispettore capo, l’ispettore Lewis e i tecnici della manutenzione.

Dopo essere usciti dallo spogliatoio femminile, Lewis ci guidò verso la porta che conduceva ai sotterranei del dipartimento. La strada fin qui non era stata difficoltosa, quello che risultò più difficile invece fu scendere gli scalini che conducevano là sotto, senza rischiare di scivolare e rompersi l’osso del collo.

Quando arrivammo in fondo alle scale, sia io che Nick, tirammo un sospiro di sollievo e in qualche minuto riuscimmo a perderci nei cunicoli sotterranei del dipartimento, neanche fosse un castello medioevale.

«Dovete scendere i gradini, girare due volte a sinistra e poi seguire il corridoio fino a quando non incontrerete un bivio: andate a destra e vi ritroverete nella lavanderia del dipartimento, andare a sinistra e incontrerete un incrocio. Andando dritto sarete sotto l’ufficio dell’ispettore capo, andando a sinistra sotto gli spogliatoi maschili e a destra tornerete fino alla sala interrogatori. Quando sarete lì procedete dritto per poi svoltare a destra, sarete a quel punto sotto la sala principale, al locale caldaia».

Inutile dire che nel sotterraneo la frequenza dell’auricolare non riusciva ad arrivare, ed inutile anche dire che al primo bivio abbiamo sbagliato, al primo incrocio eravamo andati a sinistra e all’ultimo invece dritto.

Avevamo vagato per più di venti minuti alla cieca, dato che non ricordavamo più le indicazioni e avevamo smarrito il senso dell’orientamento.

Quando finalmente trovammo il maledetto locale caldaia, scoppiammo dalla gioia e ci affrettammo ad entrare e a cominciare la ricerca della bomba.

«Ha detto che la sua è la più grande, non sarà difficile trovarla» disse Nick poco prima di entrare.

Magari avesse avuto ragione

Il locale caldaia era immenso, tutto interamente occupato da tubi, stufe di qualsiasi grandezza e pozzanghere formate dall’acqua gocciolante dai tubi rotti, in qualche punto.

«Beh, almeno sappiamo per certo che la bomba è qui dentro» disse Nick ottimista.

«Chiamala consolazione!» dissi io sarcastica: «Potrebbe essere ovunque!».

Con un sospiro, uno sbuffo e molta volontà, ci mettemmo alla ricerca della bomba, con la segreta speranza che l’aggettivo ‘grande’ usato dalla rossa psicopatica fosse un’esagerazione.

«Qui non c’è proprio niente, ci ha presi in giro, Nick».

«Io non direi, Babù, guarda un po’ qui…» disse lui dall’altra parte della sala.

Io lo raggiunsi il più velocemente possibile, cercando di non scivolare e di non mettere il piede in qualche pozzanghera.

«Oh, merde!» esclamai quando vidi il congegno davanti a noi.

«Che hai detto?».

«Ho detto ‘merda’ scusa, qualche volta il nervosismo mi fa parlare in altre lingue» dissi automaticamente quasi ignorandolo.

«Non credevo parlassi altre lingue».

«Non è il momento di parlarne, non credi?».

«Si, hai ragione. Come la disinneschiamo?».

«Questo è il punto: non è una bomba normale. Non è una bomba».

«Di che stai parlando? È ovvio che sia una bomba, lo ha detto Tiffany stessa!».

«No, lei non ha mai parlato di una bomba, io l’ho fraintesa. Questa non è la bomba di cui parlava lei, la bomba è quella» dissi indicando la caldaia principale.

«Quella è una caldaia, tutto questo vapore ti ha dato alla testa, secondo me».

«Fidati, questo qui non è un congegno esplosivo completo, è come un telecomando. Quando noi o gli artificieri, cercheranno di aprirlo, questo congegno farà surriscaldare l’acqua così tanto che la caldaia non potrà sopportare né il calore, né la pressione ed esploderà. Le altre bombe erano un diversivo: mentre io mettevo ad uno ad uno K.O. gli altri, Tiffany posizionava questo».

«Aspetta, fammi capire, non possiamo disinnescarla?».

«No, a meno che non distruggiamo la caldaia, ma sarebbe lo stesso controproducente. Sono collegate, distruggendo uno l’altro esploderebbe di conseguenza: guarda questi candelotti qui. Questa è dinamite collegata con la bomba finta, esploderà se distruggiamo la caldaia. Non è molta, o almeno, non abbastanza da far esplodere tutto il dipartimento, ma guardati intorno, Nick: siamo circondati da stufe, a gas, a metano, a petrolio… tirando le somme, siamo spacciati. Bisogna far evacuare il distretto e in fretta, guarda il timer».

«Abbiamo cinque minuti: cinque minuti per tornare di sopra, e ce ne abbiamo messi venti a scendere, e per far allontanare in un raggio di tre chilometri la polizia e gli abitanti nei dintorni? Non ce la faremo mai!».

«Infatti ho detto che siamo spacciati. Mi ascolti quando parlo?!».

Lui grugnì in risposta alla mia domanda e si allontanò in direzione della caldaia.

Io invece mi sedetti per terra, incurante dello sporco che mi circondava e cercai di pensare a qualcosa che avrebbe potuto tirarci fuori da quel casino di dimensioni epiche.

Con la cosa dell’occhio, scorsi qualcosa muoversi vicino la porta della stanza. In fretta appurai che non poteva essere Nick dato che lui era ancora vicino alla caldaia, quindi c’era qualcun altro.

Mi girai di scatto, in tempo per vedere un ghigno indistinto prima che la porta di metallo si chiudesse con un tonfo.

Scattai in piedi come un grillo e raggiunsi la porta, dopodiché cominciai a tirare per tentare di aprirla.

«Nick, vieni qui!» esclamai in preda al panico.

«Perché hai chiuso?!» chiese lui allarmato quando mi raggiunse.

«Non ho chiuso io, c’era qualcun altro, qualcun altro che ci ha chiusi dentro. Maledizione!» urlai dando un calcio alla porta chiusa: «Siamo spacciati. Moriremo qui dentro come topi in trappola».

«Lewis sa che siamo qui sotto, ci verrà a cercare, prima o poi».

«Mi stai prendendo in giro?!» urlai isterica: «Mancano meno di cinque minuti alla detonazione, questo Lewis non lo sa e comunque io stessa non metterei in pericolo la vita di altri agenti per tirare fuori da un sotterrano due idioti!».

«Allora ringraziamo chiunque lassù che tu e Lewis siete due persone diverse. Macy, calmati, devi avere un po’ di fiducia».

«In chi?! In Lewis? Lui non sa quanto manca. In Anderson? La C.I.A. non ha idea di cosa c’è qui sotto. In Miller? Cosa può fare l’F.B.I. adesso? Abbiamo già un piede nella fossa, facciamocene una ragione» dissi sconsolata scivolando contro il muro fino a toccare terra.

Lo stesso fece lui: «Allora adesso che stiamo per morire, mi dici perché non hai amici?».

«Ho te».

«Non voglio essere tuo amico. Non più» disse con sicurezza.

Mi voltai a guardarlo, indecisa se dirgli o meno quello che mi ero accorta di provare.

«Già… neanche io» sussurrai.

«Bene».

«Bene».

Si avvicinò a me e mi abbracciò, facendomi posare la testa sulla sua spalla.

«Non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché non hai amici?».

«Non mi fido della gente. Ho smesso di fidarmi di tutti da quando sono uscita dalla clinica. Solo poche persone possono vantare la mia fiducia, probabilmente è meglio così, non hai qualcuno a cui dare spiegazioni, non hai qualcuno che ti critichi, non hai qualcuno che ti dica cosa devi fare. Sei libero insomma. Quando comincia a fidarti delle persone e ad avere degli amici, automaticamente ti stai intrappolando da solo: immagina di avere un amico caro qui sotto e immagina di essere sopra, insieme a Lewis e agli altri. Non verresti a cercarlo? Non rischieresti la vita per lui o lei? Io si. Per questo preferisco non avere nessuno, darei tutto quello che ho per qualcuno che non lo merita affatto e che probabilmente mi tradirebbe il giorno dopo».

«Si ma lo faresti sapendo di aver salvato una vita».

«E a quale prezzo? La mia vita? Ad essere sincera, lo farei anche per qualcuno di cui non mi fido, per qualcuno che non sia mio amico».

«Hai appena detto il contrario».

«Lo so, ma ho anche detto ‘ad essere sincera’ non mi piace ammetterlo, ma darei la mia vita per quella di chiunque altro, intendiamoci, chiunque altro che non sia un criminale».

«Perché?».

«Perché chiunque è migliore di me. Perché chiunque ama la propria vita più di quanto io non ami la mia. Perché per chiunque si faccia del male per come me lo sono fatto io, la vita non conta poi molto, non credi? Nonostante quello che mi è capitato fosse colpa di qualcun altro».

Lui non rispose, mi fece solo un’altra domanda: «Quando usciremo di qui, se mai usciremo, diventerai la mia ragazza?» lo sentii sorridere della sua stessa domanda.

«Vedremo» risposi sorridendo a mia volta per poi alzarmi.

«Che stai facendo?» mi chiese.

«Vedo quanti minuti rimangono» dissi avvicinandomi al timer.

Con cautela mi sporsi e mi chinai sul timer: due minuti.

«Allora?» chiese Nick dall’altra parte della sala.

«Due minuti scarsi».

«Siamo morti» disse ridacchiando cupo.

«Non è detto» sussurrai.

Lui non mi sentì e io mi annullai dal resto del mondo, restammo solo io e la bomba.

Era posizionata su un tubo e dei cavi uscivano e si collegavano all’altra estremità del congegno. Un filo era collegato con il timer, ed un altro filo, era collegato invece con una piccola antenna.

Alzai lo sguardo e scrutai la caldaia in silenzio. Invisibile, se non si cercava, e sistemata dietro il sistema principale di fili della caldaia, un’altra antenna faceva capolino.

‘Beccata’ pensai soddisfatta.

Mi alzai e mi diressi verso i fili retrostanti al serbatoio.

‘Perché nascondere questa antenna e lasciare in bellavista l’altra?’ mi chiesi: ‘Ci ho messo circa tre quarti d’ora per stendere mia madre e gli altri due, Tiffany aveva tutto il tempo di sistemare la bomba e tornare sopra. A meno che…’.

«Hey, Nick, secondo te, ad occhio e croce, quanto ci vuole per sistemare una cosa del genere?» dissi indicando la bomba.

«Non lo so, io non sono pratico di esplosivi… tre quarti d’ora? Cinquanta minuti?» azzardò lui.

«Bene, grazie».

«Perché questa domanda?».

«Perché nasconderesti una delle due antenne e lasceresti l’altra in bella vista?».

«Per far spaventare qualcuno?».

«No: perché non hai tempo. Immagina di dover fare due sculture, entrambe devono essere discretamente belle e immagina di avere un solo giorno a disposizione. Immagina anche di essere uno scultore discreto, ma che come tutti ha bisogno di tempo per far un bel lavoro. Che faresti se ti dicessero che il tempo a tua disposizione è così limitato?».

Inizialmente lui non rispose, poi come gli fosse venuta un’illuminazione, disse: «Mi impegnerei nella prima statua trascurando leggermente l’altra!».

«Esatto».

«Stai dicendo che ha nascosto una delle due antenne perché non l’aveva collegata benissimo?».

«Si, possiamo disinnescare entrambi con un po’ di fortuna».

«Già, ma abbiamo un minuto» disse lui.

«Io tolgo la dinamite dal congegno vicino a te e tu pensi a quest’antenna, magari oggi ne usciremo vivi».

Feci cambio di posto con Nick e mi chinai sulla bomba ai miei piedi. Il timer segnava 48 secondi, ma non mi soffermai più di tanto su quello, cominciando invece ad esaminare i fili.

Erano in tutto cinque, uno era collegato al timer, uno all’antenna, gli altri tre facevano il giro del congegno e rientravano nella dinamite. I colori erano diversi, nero per quello più in basso, giallo per quello in mezzo e blu per quello in alto.

«Fatto, ho tolto l’antenna da qui, non l’aveva collegata bene, come hai detto tu. Era collegata a due fili, uno nero e uno giallo… perché qui è collegata ad un solo filo?».

«Fammi pensare un attimo».

‘Allora: ho cinque fili. Uno rosso, collegato con l’antenna, uno verde, collegato con il timer, uno blu, uno giallo ed uno nero, collegati invece con la dinamite. Nick ha staccato l’altra antenna, collegata con il serbatoio della caldaia con i fili nero e giallo. Perché la mia antenna ha solo un filo, e perché i colori sono diversi? È lo stesso dispositivo, solo che, anche se in modo diverso, è collegato su un altro apparecchio… c’è qualcosa che non va’.

«Macy, mancano venti secondi».

«Si lo so».

«O la va o la spacca» dissi prima di staccare tirare via contemporaneamente i fili rosso e blu e chiudere gli occhi temendo l’esplosione.

«Puoi aprire gli occhi» disse Nick accanto a me con voce malferma: «Siamo ancora vivi».

Aprii lentamente gli occhi e guardai i fili che mi erano rimasti in mano.

«Porca paletta, me la sono fatta addosso».

«Tu devi essere impazzita! Potevi dirmi che stavi per tirare via entrambi i fili!».

«Mi avresti fermata e comunque poco male, siamo vivi è questo che conta».

«Ancora per poco» disse una voce alle nostre spalle.

Ci voltammo entrambi di scatto, nella direzione da cui proveniva la voce: Christian Wollaby in piedi davanti a noi con un’arma in mano e un ghigno sul volto.

«Come ci è riuscita?» mi disse, accennando alla bomba alle mie spalle.

«Fortuna. Come è arrivato qui sotto?».

«Fortuna».

«Touché».

«Mi dica come ha fatto a disinnescarla».

«I fili mi hanno aiutata: nella mia bomba, il filo rosso era visibilmente collegato con l’antenna, il filo nero, come del resto quello giallo e quello blu all’esplosivo, il filo verde al timer. Nell’altra bomba, il filo nero e quello giallo erano collegati all’antenna, mentre mancavano quello rosso, quello blu e quello verde. Quest’ultimo è da non considerare essendo collegato al timer, come non è da considerare quello blu. Infatti quello blu collegava la dinamite al timer, mentre quello verde il timer alla batteria. Quello rosso, collegato soltanto in apparenza con l’antenna, era invece connesso all’esplosivo. Se io avessi staccato il filo nero o quello giallo, avrei attivato il segnale e fatto esplodere la caldaia, se avessi staccato solo quello blu o quello rosso, l’altro avrebbe fatto saltare tutto. Nella caldaia è stato sufficiente rimuovere l’antenna. Le basta come spiegazione?».

«Ci farebbe davvero bene averla dalla nostra parte, signorina Cullen, eviteremmo molti… inghippi» disse esitando sull’ultima parola.

«Peccato che io non condivida le vostre ‘scelte’, nevvero?».

«Già, un grande peccato. Purtroppo devo uccidervi e magari manderò qualcuno per far passare la vostra morte per uno sgradito incidente. Comincerò prima da lei, signorina, le auguro un buon viaggio nell’oltretomba» disse ridendo amaramente.

«Non ci provi neanche» disse Nick alle mie spalle.

«Sta zitto» sussurrai.

«No, per una volta sta zitta tu» rispose di rimando.

«Abbiamo un eroe! Vuoi davvero sacrificarti per quella lì?» disse Wollaby disgustato.

«Dov’è il problema? Le reca fastidio?».

«Mi sembra squallido, ma del resto, conoscendo la vita che conducono i suoi genitori, in mezzo ai ‘meno fortunati’ li chiamano, signor Black, non mi aspettavo niente di diverso».

Nick scattò in avanti, pronto a dargliele di santa ragione, ma prima che potesse afferrarlo, Wolalby gli sparò ad una gamba. Lui si accasciò a terra e io cominciai a muovere qualche passo nella sua direzione, prima di essere fermata.

«Non così in fretta, signorina Cullen. Dove eravamo rimasti? Ah, si! Addio» disse prima di premere il grilletto.

L’ultima cosa che sentii, prima che un dolore al petto mi cogliesse, furono una risata ed un urlo di terrore, poi il buio.












Ta-da! Eccomi qui con un'altro capitolo, dopo un mese e mezzo di assenza (sono imperdonabile, lo so).
Se non mi avete ancora mandata a quel paese, dopo un mese e mezzo, significa che la storia vi piace davvero tanto... fortissimo! :D
Dicevo, mi dispiace per la prolungata assenza, ma sono stata sommersa di compiti e non ho avuto neanche il tempo di potermi guardare allo specchio, né tantomeno di aggiornare.
Mentre ero in francia ho aggiornato una storia, ma stavo lavorando al capitolo già prima di partire quindi ho dovuto solo fare copia e incolla da Word e mi è venuto semplice.
Come al solito ringrazio tutti quelli che la metteranno tra le seguite, le ricordate e le preferite, chi recensirà e infine anche solo chi leggerà.
Grazie ancora per non avermi buttata nel dimenticatoio e a presto (spero xD).
Un bacione :)

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Capitolo 20
*** Love never dies ***


Capitolo 20: Love never dies.


Caldo.

 

Poi freddo.

 

Voci.

 

Poi silenzio.

 

Buio.

 

Poi luce.

 

Vita.

 

Poi morte.

 

«Dobbiamo... Di là... Operazione... Sedativo...».

Udivo squarci di conversazione. Erano uomini, parlavano in fretta, ma io non capivo.

Aprii gli occhi: una mascherina, un uomo e un camice. Un dottore. Luce.

«Signorina, mi guar...».

Poi buio.

 

 

Dieci minuti prima.

 

Non potevo crederci, l’aveva fatto. Aveva premuto il grilletto.

Ma non era stato fatale, a quanto pareva.

«Adesso tocca a te, le farai compagnia» disse con fare minaccioso.

Mi puntò la pistola in fronte, ma tutto quello che riuscivo a vedere era lei, riversa per terra in una pozza di sangue. Lei che aveva smesso di agitarsi, lei che fino a due minuti prima sorrideva perché era riuscita a disinnescare quell’affare.

Lei il cui futuro era incerto, adesso.

Lei che mi aveva rubato, accoltellato, mutilato il cuore e che non se ne era neanche accorta.

Chiusi gli occhi, nel tentativo di distogliere lo sguardo da Macy e appena ci riuscii, sentii uno sparo.

Eppure non sentivo altro dolore se non quello alla gamba; mi ritrovai seriamente a pensare che se la morte era cosi, poteva anche essere accettabile.

Poi sentii un tonfo e riaprii automaticamente gli occhi: Wollaby era riverso per terra, ai miei piedi e senza vita, con un buco nel cranio.

Guardai verso la porta del locale caldaia e vidi Anderson con una pistola fumante ancora in mano.

Poi vidi tutti gli altri: Lewis, Miller, gli agenti del distretto.

Mi lasciai cadere a terra, del tutto esausto e sospirai con tutta la forza che mi era rimasta.

«Hey, Black, sta bene?» chiese Lewis.

«Si, più o meno, Macy no, occupatevi di lei, fatelo subito, io me la cavo».

«Miller la sta già portando di sopra, c’è un’ambulanza qui fuori, l’abbiamo fatta venire prima, mentre pian piano recuperavamo i membri della Mano Rossa, sparsi per il distretto. Che diavolo è successo qui sotto?» chiese Lewis mentre mi aiutava a mettermi in piedi.

«Abbiamo trovato l’ultima bomba, era... particolare, ecco, Macy l’ha disinnescata e poi è arrivato lui» dissi indicando il corpo senza vita di Wollaby: «Ha sparato prima a me, alla gamba e poi a Macy, al petto. Adesso voglio andare in ospedale, voglio sapere come sta Babù».

«Adesso è nelle mani dei medici, non puoi fare niente, ragazzo; si riprenderà, tranquillo, ha la pellaccia dura quella ragazza».

«Non ho alcun dubbio, ma voglio andare lo stesso da lei» insistetti io, mentre venivo trascinato di peso fuori dal seminterrato.

«L’unico posto dove andrai è la sala operatoria, devono estrarti questo proiettile, poi dopo l’operazione non sta a me dirti quello che devi fare, ma ai medici. Vedi di star attento, sei stato fortunato, oggi» disse l’ispettore mentre mi aiutava a salire i gradini per tornare in superficie.

Io sbuffai, ammettendo tra me e me che Lewis aveva ragione.

«Forza ragazzo, l’ultimo gradino... eccoci» disse Lewis quando tornammo alla luce del sole.

Dei paramedici mi aiutarono a sistemarmi sulla barella e mi portarono fuori, verso l’ambulanza che stava certamente aspettando fuori.

Quando uscimmo, vidi l’ambulanza che aspettava, come avevo già previsto e, sullo sfondo, che adesso appariva sfocato, una piccola folla di curiosi, che cercavano di allungare il collo per vedere cosa stesse succedendo.

Mi caricarono di peso, con tutta la barella, sull’ambulanza e, una volta chiuse le porte posteriori del veicolo, il medico seduto accanto a me, dopo le solite domande di rito e qualche controllo superficiale, mi mise una mascherina sul viso e in pochi secondi mi addormentai.

 

 

Bip... bip... bip...

‘Che suono sgradevole!’ pensai.

Allungai il braccio destro alla ricerca del comodino e della sveglia che aveva disturbato il mio sonno.

Capii che c’era qualcosa che non andava quando toccai quello che doveva essere il mio comodino: ‘È di plastica?!’.

Quello non era decisamente il mio comodino: di plastica, troppo piccolo e soprattutto troppo alto!

L’altra cosa che mi mise in allarme, fu il senso di calore che mi attorniava il naso e la bocca, mentre nel resto del corpo, quella predominante, era la sensazione di freddo.

Aprii gli occhi, lentamente e ammettiamolo, anche con un po’ di fatica. Sentivo le palpebre pesanti, come se il mio stesso corpo mi stesse suggerendo di non aprire gli occhi, di non muovermi, di lasciarmi avvolgere di nuovo da quel torpore in cui ero cinque minuti prima.

Lo avrei fatto, ma quello sgradevole rumore, unito all’ancora più sgradevole sensazione che qualcosa non andava mi costrinse a fare il contrario di quello che mi suggeriva l’istinto.

E così quello che mi si parò davanti quando sollevai le palpebre, fu il soffitto spoglio, asettico e completamente bianco di una camera che indubbiamente non era la mia.

Tentai di girare la testa, ma l’intorpidimento in cui si trovava il mio collo era di gran lunga superiore alla mia volontà o alla mia effettiva forza, che dir si voglia.

Comunque, alla fine, combattendo con i miei stessi muscoli, riuscii a girare la testa, quel tanto che bastava per farmi capire che ad emettere quel bip, non era la mia sveglia, ma un elettrocardiografo, che segnalava la frequenza dei miei battiti cardiaci.

‘Sono in ospedale’.

Due tubicini, collegavano il mio braccio sinistro a due sacche appese sopra il mio letto, una piena di liquido trasparente, l’altra di sangue.

Realizzai di essere nel bel mezzo di una trasfusione e tentai di non muovere il braccio, per velocizzare il processo.

Mi chiesi il motivo della mia presenza in ospedale e la fitta di dolore al petto, in corrispondenza di una macchia rossa sulla superficie candida delle garze, mi fece ricordare ogni evento.

Il mio ultimo ricordo era un sofferente ‘no’ ed uno sparo.

La prima emozione che mi colse fu l’angoscia che arrivò insieme a mille pensieri, uno più odioso e spiacevole dell’altro.

‘Magari Wollaby mi credeva morta e ha sparato a Nick... io sono viva e lui no. È tutta colpa mia, se non avessi ficcato il naso in questa storia non sarebbe successo niente’ il mio cervello elaborò questo pensiero prima che io stessa potessi rendermi conto della situazione, prima che io stessa potessi scendere a patti con la mia coscienza.

‘Ho ucciso Nick. È morto per colpa mia’.

I miei pensieri negativi furono interrotti da due voci concitate provenienti dal corridoio. Tesi dunque le orecchie, togliendo dalla bocca la mascherina per l’ossigeno, e tentai di captare qualche informazione sull’identità dei due interlocutori.

«Sono due giorni che questa storia va avanti. Deve smetterla di disubbidire alle regole, sono fatte apposta per tutelare la sua salute» sussurrava irritato un uomo.

«Non mi importa, accidenti! Sono due giorni che glielo ripeto: voglio vederla. E non tornerò indietro, nella mia camera mi ci dovrà portare di peso se vuole che muova le chiappe da qui, dottore» diceva una voce, che credevo di aver già sentito.

«Io ho trent’anni, ma ieri mia moglie mi ha trovato un capello bianco in testa che due giorni fa non avevo! Lei sta davvero mettendo a dura prova la mia pazienza!» disse a voce più alta il dottore.

«Non m’importa, di qui non mi schiodo!» rispose a tono l’altro.

Il dottore emise quello che definii uno sbuffo, particolarmente forte e parecchio esasperato: «E va bene, ma ha solo cinque minuti, dopo di che mando due degli infermieri più grossi che ho e la faccio legare al letto. Mi ha capito bene?».

«Si, dottore» disse l’altro aprendo la porta della mia stanza.

«Non credevo sapessi tenere testa ad un dottore, sei sempre stato così... ‘rispettoso’, di solito sono io quella che litiga con chiunque comandi» dissi sorridendo appena Nick mise piede nella mia stanza.

Lui mi guardò per come si guarda un fantasma, anzi, per come si guarda una che è tornata dal regno dei morti con la testa di Frankestein come trofeo e poi, dopo un secondo di riassestamento, come un fulmine, un fulmine zoppicante per l’esattezza, si fiondò su di me e mi abbracciò.

«Sei viva» disse con sollievo.

«Ti sbagli, sono stecchita, non mi vedi?» dissi buttando piegando la testa, con la lingua in fuori e gli occhi in su.

«Ho creduto ti avesse uccisa, smettila di scherzare» disse lui serio, girandosi per andare a raccogliere le stampelle che aveva lasciato cadere quando era entrato nella mia stanza.

«Sei un uomo di poca fede, neanche io sono riuscita ad uccidermi, credi ci possa riuscire uno con le scarpe come quelle di Wollaby?».

«Che c’entrano le sue scarpe?» chiese lui accomodandosi sulla sedia accanto al mio letto.

«Le hai viste? Erano più brutte di quelle che ti danno al bowling, solo un idiota le porterebbe, e non posso farmi uccidere da un idiota... il mio orgoglio ne risentirebbe sin troppo».

Lui scosse la testa, senza nascondere un sorrisino e non rispose, così ripresi: «Credevo fossi morto».

Alzò gli occhi, spaesato dal brusco cambio di tono che aveva assunto la mia voce: «No, Anderson gli ha sparato prima. Un attimo prima. Credevo che sarei morto, anzi, stavo per farlo e il mio unico pensiero eri tu. Non vedevo nient’altro che il tuo corpo riverso per terra in mezzo al sangue» disse guardandomi negli occhi: «Non hai risposto alla mia domanda, mentre eravamo lì sotto» concluse.

«Non sono brava con questo genere di cose» risposi afflosciandomi sul cuscino, senza forze a causa della trasfusione e del dolore al petto: «Di solito preferisco non parlarne ed evitare l’argomento. Se non fossi appena sopravvissuta ad un colpo al petto, farei lo stesso; forse sono gli antidolorifici, forse questa maledetta trasfusione che mi toglie ogni energia a farmelo dire, ma quando eravamo lì sotto e Wollaby è entrato, con la pistola e la pazzia che si portava appresso, volevo soltanto che tu non fossi lì. Chiamalo come ti pare, amicizia, amore, senso materno, paura, follia, ma volevo essere da sola, aver messo un’altra persona e soprattutto te in pericolo, mi ha fatto sentire male, più spaventata del normale. So che questo è qualcosa che avrebbero provato tutti, ma quello che non mi spiego è stato l’odio incondizionato e irrazionale nei confronti di quella stronza psicopatica di Tiffany quando era con te, il sapere che ti eri divertito quella volta a passare tutto il tuo tempo con lei e, soprattutto, riesco a spiegarmi solo ora il peso che mi ha schiacciata quando te ne sei andato con lei, quando l’hai difesa a spada tratta, accusandomi di essere una bugiarda e di volerle semplicemente buttare fango, ma... sta zitto e lasciami finire» dissi quando vidi che stava per ribattere: «Dicevo, me lo sono spiegata solo ora e se da un lato sono contenta di dirti finalmente tutto, dall’altro me ne vergogno profondamente... e non guardarmi con quella faccia da deficiente, prova a farne parola con qualcuno e ti strappo gli attributi, Nick, non sto scherzando. Quello che voglio dire è che... sono contenta di dirti tutto e... non lo so. Non sono il tipo con cui una relazione può funzionare bene. Se mi vorrai sarà a tuo rischio e pericolo, ti avverto» dissi concludendo il mio monologo.

Lui sorrise, mentre si alzava dalla sedia aiutato dalle stampelle e lentamente, con un po’ di fatica, si sdraiò sul mio letto, accanto a me: «Due giorni fa ho rischiato di morire, credo di aver corso un rischio molto più grande di questo, Babù» mi rispose sorridendo.

Le mie mani cominciarono a sudare, ero agitata, tremavo, guardando il suo sorriso così luminoso ed intenso.

Era come il letto sotto di me non esistesse più, era come se nulla intorno a me esistesse, c’era solo il suo sorriso e la sua anima accanto alla mia.

Era quello l’amore? Non lo sapevo, non avevo mai provato tanta eccitazione, terrore, felicità, sgomento e paura tutte insieme, neanche di fronte ad un’arma carica che minacciava morte.

Quando il suo sorriso si spense e lentamente le sue labbra sfiorarono le mie, mi sentii come non ero mai stata prima, pensavo e mi chiedevo se lo volevo veramente, ero assalita dai dubbi, ma poi sentii il suo cuore battere velocemente. Ora sentivo anche il mio cuore a mille, li sentivo battere insieme mentre lo nostre labbra giocavano armoniosamente l’una con l’altra.

Mossi la mia mano, anche se la mia mente non aveva mai ordinato di farlo, accadeva tutto senza un perché. Gli sfiorai il fianco e sentì le cuciture della mia maglietta sotto le dita. Gli accarezzai la schiena e sentii il calore del suo corpo contro la mia mano.

Era bello sentire le nostre labbra giocare, era fantastico sentire le nostre lingue sfiorarsi gentilmente, era come se tutto in quegli istanti fosse dannatamente perfetto.

Quando lasciò le mie labbra, il sorriso tornò ad illuminare il suo volto e dopo una fugace occhiata alle sue labbra, nascosi la testa nell’incavo della sua spalla, tra il collo e la clavicola.

«Dormi, Babù, credo tu ne abbia bisogno» mormorò al mio orecchio.

Non ci volle poi molto: la sua voce soffice e il suo profumo inebriante, mi spinsero nel mondo dei sogni, in meno di qualche minuto.










So che il capitolo è corto e so anche che vi ho fatti aspettare una vita, se non di più, ma ci ho messo un secolo per descrivere il bacio, dato che con le scene romantiche e il resto non ci so fare per niente.
Spero quindi che comprenderete lo sforzo e come sempre spero di aggiornare al più presto con l'ultimo capitolo...
-Alleluja!- urla qualcuno.
-Sta zitto, se non ti piace non seguirla la storia!- risponde arrabbiata l'autrice.
Dicevo... spero di pubblicare al più presto l'ultimo capitolo.
Il capitolo è dedicato a LeaRachelBlackbird_et_Ann che mi hanno sostenuta e sempre seguita e recensita.

Detto questo un bacio enorme :D

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Capitolo 21
*** Epilogo ***


Capitolo 21: Epilogo.


«Ah!» un urlo proruppe nel grande salotto di casa mia.
«Ah!» urlai io di rimando, presa in contro piede: «Che diavolo ti urli, Nick?! Mi hai fatto venire un principio d’infarto!» continuai portandomi una mano al cuore.
Chiusi la porta di casa e poggiai le chiavi di casa nella ciotola accanto alla porta.
«Cosa... che... tu...» scosse la testa per far mente locale e poi riprese: «Che cosa hai fatto ai capelli, Macy?» disse scandendo bene le parole.
«Oh! Ti piacciono?» dissi eccitata con un sorriso enorme.
«Macy, non so se te ne sei accorta, ma sono biondi... e verdi...» disse incerto.
«Lo so! Belli, vero? Avevo voglia di un cambiamento, quindi mi sono detta, perché non farlo drastico?» dissi passandomi una mano tra i capelli.
Dopo la brutta avventura con la Mano Rossa, di qualche settimana prima, avevo bisogno di un cambiamento: ‘nuovi capelli, nuova avventura’, mi ero detta.
Mi ero tinta i capelli di biondo e poi, sfruttandone la lunghezza, li avevo colorati, partendo dalla metà, con le sfumature del verde, fino ad arrivare, alle punte, al verde smeraldo.
«Drastico? Questo è... eccessivo, non drastico! Sembri un clown!».
Assottigliai gli occhi e con il gelo nella voce risposi: «Beh, non ho intenzione di cambiare per un bel po’, quindi fatteli piacere, Nicholas».
Così, alzando il naso, entrai in cucina, da cui poco dopo si sentì un rumore di piatti rotti.
«Ma perché avete tutti la stessa reazione?!» domandai scocciata alla signora Smith.
La donna mi guardava ancora con gli occhi spalancati e la bocca altrettanto aperta, quando la porta della cucina si aprì.
«Esca subito da questa casa, o chiamo la polizia» disse la voce di Charles alle mie spalle.
«Cosa?! E perché dovresti farlo?» chiesi voltandomi verso di lui.
«Macy?!» disse la sua voce scandalizzata: «Mi dispiace, credevo fosse un estraneo» riprese abbassando l’attizzatoio del caminetto.
«Voi, tutti e tre» dissi includendo anche Nick che era appena entrato in cucina: «Non capite la moda. E non sapete distinguere le novità da un estraneo» continuai guardando l’attizzatoio.
«Ma, tesoro, non ti piacevano come prima?» disse dolcemente la signora Smith prendendomi una mano tra le sue.
«Certo, ma avevo bisogno di cambiare» risposi sorridendo.
«Ma sei uscita da poco dall’ospedale, non credi che dovresti aspettare un po’ per rivoluzionare la tua vita?» riprese ancora lei.
«Non mi sono fatta asportare un occhio, ho semplicemente cambiato colore ai capelli. Tra un po’ di tempo saranno di nuovo come prima» constatai tranquilla: «E poi, che importanza ha se sono uscita da poco dall’ospedale?».
«Beh, ok. Hai ragione, tesoro, sta tranquilla, sei sempre bellissima» disse la signora Smith accarezzandomi una guancia.
«Si, Margaret ha ragione, Macy» concordò Charles.
«Solo io credo che assomigli ad un clown uscito da un circo?» disse Nick scandalizzato rivolgendosi a Charles e alla signora Smith.
Gli diedi uno scappellotto sulla nuca e risposi: «Evidentemente si, quindi sta zitto. Vado di sopra, ho una mail da spedire».
Mi feci spazio tra Charles e la signora Smith ed uscii dalla cucina, sorridendo.
Cominciai a salire le scale, ma la voce di Nick mi fermò al quinto gradino: «Indipendentemente dai capelli -non posso credere che sto per dirlo- sei sempre bella, ogni giorno che passa sempre di più» disse sorridendo.
«Lo so che i capelli ti piacciono, ma che non vuoi ammetterlo, puoi dire tutto quello che vuoi, ma io conosco la verità» risposi prendendolo in giro.
«In realtà, mi piace quello che c’è sotto i capelli».
«Il mio cervello? Oh si, anche quello è magnifico» dissi mentre lui saliva i pochi gradini che ci dividevano.
«Mi riferivo ad altro, ma va bene lo stesso».
Mi baciò piano, a fior di labbra quasi, e poi si allontanò.
Gemetti frustrata, ancora con gli occhi chiusi, e sentii la sua risatina, prima che poggiasse le labbra sul mio orecchio e mi sussurrasse: «Non avevi qualcosa da scrivere?».
«Mostro» soffiai aprendo gli occhi e posandoli nei suoi.
«Ma chi?» disse guardandosi intorno: «Io? No, in realtà sei tu il mostro, mi tenti in ogni momento e io da bravo ragazzo devo trattenermi dal non saltarti addosso».
«Ma che romantico!» dissi ricominciando a salire le scale.
«Dicevi che non ti piacevano le smancerie» disse lui ancora fermo all’inizio della rampa.
«Touché» ribattei io arrivando in cima.
Lui non rispose e io mi avviai in camera mia.
Erano passata a malapena una settimana da quando ero stata dimessa dall’ospedale ed ero potuta tornare a casa.
Nick, che era stato dimesso molto prima di me, mi aveva fatto trovare la casa addobbata a festa ed effettivamente mi aveva fatto trovare anche una festa... era il mio compleanno e lo avevo dimenticato.
In quelle settimane ero stata troppo sovrappensiero per poterci pensare, e in effetti dopo che avevano tentato di uccidermi, il mio compleanno era l’ultimo dei miei problemi.
In quei giorni, le televisioni americane erano piene di immagini di Tiffany, di mia madre e di Wollaby. Tutti i membri della Mano Rossa erano in televisione ventiquattr’ore su ventiquattro, e per fortuna né il mio nome, né quello di Nick erano trapelati, Lewis aveva mantenuto la promessa.
La cosa più brutta fu la rivelazione della vera identità di mia madre.
Al telegiornale avevano svelato che in effetti il suo vero nome era Jennifer Cullen e non Jenna Lower.
I miei vicini di casa, che ricordavano benissimo mia madre, erano venuti a farmi visita, qualche volta, ma prontamente Nick riusciva sempre ad inventare una scusa per non farmeli vedere.
Se c’era una cosa che odiavo più di mia madre era la pietà e tutti quelli che venivano a parlarmi, avevano negli occhi solo quella.
Da quanto mi aveva riferito Lewis, Miller ed Anderson erano tornati a Washington, alle rispettive agenzie, mentre in qualche giorno si sarebbe tenuto il processo a mia madre, a Tiffany e a tutti gli altri che erano stati catturati grazie alle informazioni ricavate dai vari interrogatori e dai documenti ritrovati in casa di Wollaby. Quest’ultimo era stato portato all’obitorio e poi neanche Lewis sapeva che fine avesse fatto il suo cadavere, fatto sta che il medico legale lo aveva fatto sparire in pochi giorni.
Lewis mi aveva anche informata che anche io e Nick avremmo dovuto testimoniare ai processi e se da un lato, speravo che questa faccenda si fosse definitivamente chiusa, dall’altro ero contenta di essere artefice dell’incarcerazione di mia madre e di quella sottospecie di sanguisuga rossa.
Abbassai la maniglia della porta ed entrai nella mia stanza. Tutto sembrava lo stesso, ma io ero cambiata, adesso mi sentivo una persona nuova, avevo sconfitto il fantasma di mia madre e avevo un figo stratosferico come ragazzo.
Mi avvicinai alla scrivania, posta accanto alla vetrata che dava sul balcone, pigiai il bottone d’accensione del computer e mi diressi verso il comò, situato davanti al letto.
Spostai il quadro che stava sopra il mobile e aprii la cassaforte nascostavi dietro.
Immisi la combinazione e poi abbassai la maniglia. Una piccola teca di vetro con un pezzo di metallo affilato dentro spiccava tra le carte e i documenti contenuti dentro la cassaforte.
Presi la piccola teca e un piccolo sorrisetto mi spunto sul viso.
Gettai uno sguardo al computer che nel frattempo si era avviato, e poi ripresi a guardare la teca.
Mi diressi verso la scrivania e mi sedetti davanti al computer, posando la teca davanti a me.
Entrai nella mia casella e-mail e aprii la finestra per poter scrivere una nuova mail; immisi l’indirizzo di mio padre e poi mi fermai a riflettere su quello che avrei dovuto scrivere.
Alla fine il risultato fu questo:
 
¡Hola señor!
Come stai papà? La Spagna ti era mancata vero?
A dire la verità manca anche a me, l’ultima volta che ci siamo andati insieme tu sei stato morso da un serpente, ma non è andata male per il resto, no?
Ok, questo non c’entra niente e sto divagando, dato che in realtà volevo metterti a conoscenza di alcune cose...
Ricordi quel caso che io e Nick stavamo seguendo? Te ne ho parlato?... Forse no. Beh, comunque, ti basti sapere che stavamo seguendo un caso e le cose sono un po’, come dire... precipitate e siamo finiti entrambi in ospedale, a lui hanno sparato ad una gamba, a me al petto, ma sto bene adesso e sono a casa, quindi sta tranquillo, non c’è bisogno che tu prenda il primo volo per L.A.
Passando alla notizia che credo ti darà un po’ da pensare, durante questo caso ho incontrato la tua ex moglie, mia madre, era la vedova del primo cadavere e la moglie del capo di una banda di pericolosi assassini, aveva fatto uccidere suo marito perché intralciava i suoi piani e ha tentato di sciogliere me nella soda caustica... adorabile, no? : /
Comunque, tra un paio di giorni ci sarà il suo processo e io dovrò testimoniare. Attualmente sia la sua che la nostra foto sono su tutte le televisioni, quindi ti prego, papà, non prendere il primo volo per Los Angeles, so che non sopporti che tutti ti stiano addosso e ti facciano domande su quella donna.
Beh, tra le altre cose c’è anche un’altra novità: io e Nick stiamo insieme.
So che quando leggerai dirai ‘beh, è normale, sono amici e vivono nella stessa casa’. No, io intendo che stiamo insieme, insieme, cioè è il mio ragazzo. A tutti gli effetti. Rinnovo a questo punto l’invito a non tornare in America per uccidere Nick e fargli la solita ramanzina ‘lei è mia figlia, sta attento, ragazzo!’ perché metteresti in imbarazzo me e in soggezione lui, lo so che poi esageri, ti conosco.
Beh, cos’altro?... oh, si! Ho deciso di buttare via la teca di vetro con dentro quel pezzo di metallo. Non devo ricordarmi più di essere forte, questa esperienza ha già messo a dura prova la mia forza di volontà e poi, adesso che quella donna è dietro le sbarre (e a sbattercela sono stata io) mi sento completamente realizzata, non ho più niente da temere, non ho più niente che possa fermarmi.
Sono libera. E in parte lo devo anche a Nick, se non ci fosse stato lui credo che ad un certo punto avrei gettato la spugna e sarei ricaduta in tutto quello che per anni ho evitato come la peste: la depressione cronica.
Ci sono così tante cose che vorrei dirti, ma adesso devo sbarazzarmi di quella fastidiosa teca e non ne ho il tempo, ti scriverò il più presto possibile.
Un beso y un abrazo, papito, te quiero muchísimo,
 
 
Tu hija,*
 
Macy.
 
 
Ps: Mi sono tinta i capelli, di biondo e di verde, nella prossima mail ti mando una foto. Hasta la vista.
 
 
Rilessi l’e-mail più volte, assicurandomi non contenesse errori e di aver scritto tutto.
Poi soddisfatta del risultato premetti invio e mi concessi di appoggiarmi alla sedia e rilassarmi un attimo, godendomi la vista del panorama.
Dopo qualche minuto riportai lo sguardo sulla teca di vetro di fronte a me, con uno slancio l’afferrai e mi fiondai fuori dalla mia stanza.
Scesi le scale di corsa, attirando l’attenzione di Nick e di Charles che, seduti in salotto, discutevano sull’ultima partita dei Lakers.
«Macy!».
Non feci caso al richiamo di Nick e proseguii dritta per la mia strada, proseguendo per il lungo corridoio che portava alle varie stanze della casa, fino ad arrivare al giardino posteriore della casa.
Lì, in fondo, si trovava il capanno degli attrezzi.
Era una piccola costruzione in legno che io e Theodore avevamo costruito in un’estate, per giocare insieme. In seguito quando ero cresciuta era stata adibita a capanno per gli attrezzi.
Aprii la porta, mentre con la coda dell’occhio scorgevo la signora Smith che, inginocchiata su alcune piantine, mi fissava stupita per la mia presenza lì, dove l’ultima volta che avevo messo piede avevo quindici anni.
Entrai senza curarmene e ne uscii poco dopo con un martello.
Misi per terra la teca e la guardai l’ultima volta. Avrei potuto semplicemente aprirla per prendere il metallo, ma volevo che non ne rimanesse niente, quindi con un colpo deciso, e dopo aver indossato gli occhiali di protezione, la mandai in frantumi.
Soddisfatta della mia ‘impresa’ presi il metallo affilato e mi voltai per tornare indietro, abbandonando i pezzi di vetro e il martello nel giardino.
Scansai Charles e Nick che mi avevano seguita, evidentemente, e rientrai in casa, diretta in cucina.
Una volta rientrata, oltre ai passi di Nick, sentii quelli pesanti di Charles e quelli leggeri della signora Smith, che curiosa si era unita ai due uomini, e mi diressi in fretta in cucina.
Quando arrivai, spalancai la porta e velocemente, quasi correndo, mi piazzai davanti al cestino dell’immondizia che conteneva il metallo (la signora Smith era molto rigorosa, per quanto riguardava la raccolta differenziata).
Mi rigirai ancora per qualche secondo il metallo tra le mani, guardandolo come se lo vedessi per la prima volta e sorrisi.
Sorrisi di gusto e, mi rendo conto solo ora che, guardandomi dall’esterno potevo sembrare una squilibrata, ma non mi importava.
In quel pezzetto di metallo erano rinchiuse le mie paure, i miei complessi mentali e la mia adolescenza. Erano rinchiuse tutte le cose che non volevo, tutte le cose che disprezzavo e, quando lo gettai con forza dentro la spazzatura, mi sentii libera, davvero libera dopo tanti anni.
Una lacrima mi scese sulla guancia destra e, subito dopo, quando sentii due braccia forti circondarmi, un sorriso mi illuminò il viso, come non succedeva da una vita.
Alle braccia di Nick si aggiunsero quelle delicate della signora Smith, mentre Charles, restava rigido sulla porta.
Mi allontanai dolcemente da Nick e dalla signora Smith e mi diressi verso il mio salvatore.
Lo abbracciai con tutta la forza che avevo e lo sentii rilassarsi, circondandomi con le sue braccia.
«Grazie Charles. Se non fosse stato per te, non sarei qui. Non ti ho mai ringraziato, quindi anche se una sola parola non sarà mai abbastanza, grazie».
«È stato un piacere».
In quel momento il campanello suonò e Nick andò ad aprire. Mentre io lo seguivo, Charles e la signora Smith mi rivolsero uno sguardo pieno d’affetto per poi tornare ognuno alle proprie mansioni.
Non riuscii neanche a mettere piede in salotto che la figura di Lewis mi rivolse uno sguardo preoccupato.
«Ispettore, che ci fa qui?» chiesi io, fremendo già i curiosità.
«Ci sono novità» disse l’ispettore asciutto.
«Accidenti, le cose devono tirargliele fuori con le tenaglie!» esclamai, sedendomi sul divano.
L’ispettore mi imitò e poi si passò una mano tra i capelli.
«Vedo che sta meglio, Cullen» constatò.
«Si, molto meglio, adesso... lei invece, mi sembra sempre lo stesso».
«Come mai qui?» chiese Nick, inserendosi nella discussione.
«Sembra vi siate ripresi del tutto dalla convalescenza» ripeté l’ispettore.
«Si e lei mi sembra combattuto» dissi osservandolo.
«Lo sono. Non so se devo dirvi quello per cui sono venuto o no. Ovviamente potrete sempre rifiutare» disse l’ispettore guardandomi con curiosità.
«Beh, dato che è venuto fin qui, ce lo dica!» esclamò Nick.
«Stamattina è stata rapita una bambina, a Lakewood» disse l’ispettore.
«Beh? Che stiamo aspettando? Più tempo perdiamo, più probabilità ci sono che non venga trovata viva!» dissi balzando in piedi.
Nick sorrise sotto i baffi e l’ispettore scosse la testa.
«Sapevo che non avrebbe rifiutato» disse prima di uscire di casa.
Presi le chiavi della macchina, ancora parcheggiata nel vialetto di casa e prima di uscire mi voltai verso Nick.
«Se questa volta, mi segui senza che io lo voglia, in qualcosa di sin troppo pericoloso, ti stacco la testa a morsi. Chiaro?» dissi minacciosa.
Lui si avvicinò velocemente a me: «Mi piaci quando sei così aggressiva» mi sussurrò in un orecchio prima di superarmi ed uscire prima di me.
«Hey, non stavo scherzando!» gli urlai dietro prima di chiudermi la porta alle spalle.
Una nuova avventura stava iniziando, ma questa probabilmente sarà un’altra storia.







*'Un bacio e un abbraccio, ti voglio molto bene, tua figlia' è la traduzione dei saluti di Macy a suo padre.



Ed eccomi qui, sempre in ritardo, con l'ultimo capitolo di questa storia. Non posso credere di stare per cliccare su 'completa'.
Non ci voglio pensare.
Passando ai ringraziamenti: un grazie a tutti quelli che hanno messo la storia tra le preferite, a quelli che l'hanno inserita tra le seguite e a tutti quelli che l'hanno aggiunta alle ricordate.
Un enorme grazie a tutti quelli che l'hanno recensita e grazie anche a tutti quelli che, leggendo in silenzio, sono arrivati a questo capitolo.
Un grazie enorme a tutti voi che mi avete aiutata ad arrivare alla fine di questa storia.
Un bacio enorme, 
JulietAndRomeo <3

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