Racconti di sabbia

di Trick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eco e Narciso - Sirius/Dorcas ***
Capitolo 2: *** Vola via da qui - Severus/Madama Bumb ***
Capitolo 3: *** Una cosa da pazzi - Frank/Alice ***
Capitolo 4: *** Carduelis Britannina - Lucius/Tonks ***
Capitolo 5: *** Ho scelto il mio nome - Rabastan/Alice ***
Capitolo 6: *** Fra capo e coda - Rufus/Minerva ***
Capitolo 7: *** Uno dei due - Evan Rosier/Hestia Jones ***
Capitolo 8: *** Senza rispondere - Peter Minus/Bertha Jorkins ***
Capitolo 9: *** La bambola imitatrice - Remus/Marlene ***
Capitolo 10: *** Scacco matto - Remus/Lily ***



Capitolo 1
*** Eco e Narciso - Sirius/Dorcas ***


"Racconti di sabbia"  partecipa all'iniziativa I ♥ Shipping indetta da Collection of Starlight. Mi sono sentita abbastanza masochista da gettarmi in quest'ennesima questa nuova impresa mastodontica: un'antologia di fan fiction concentrate su tutte le ship ufficiali (canon e fanon) della Vecchia Generazione. Non so se sarò in grado, ma sento di volerci provare. Al massimo, ci rimetto le penne. :)
 QUI trovate l'elenco di tutte le ship sulle quale scriverò - possibilmente in ordine, ma dal momento che sono schifosamente disordinata, non ci giurerei.
Per chi non lo sapesse, la mitologia narra che la ninfa Eco - costretta da Era a ripetere sempre le ultime parole udite - si fosse innamorata di Narciso. Il bel giovane, tuttavia, la respinse, ed ella fuggì fra le vallate solitarie, finché di lei non rimase che la voce. Da qui, il titolo "Eco e Narciso".





Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo

*

Eco e Narciso
Sirius Black/Dorcas Meadowes


Aveva creduto di morire così tante volte che ora non le riusciva proprio di accettare il fatto che stesse morendo realmente. Eppure, lui era lì, con la bacchetta puntata verso il suo petto, e l'unica cosa a cui lei riusciva a pensare era che la sua tomba sarebbe stata piena di narcisi.
La bocca di Lord Voldemort si storse in un sorriso soddisfatto.
«È un piacere rivederti, Dorcas Meadowes».

*

Sirius aveva la nausea al solo pensiero di attraversare la solitaria stradina che lo separava dal cimitero di Ottery St. Catchpole.
Aveva sempre detestato le funzioni religiose (in verità, aveva sempre detestato la religione in sé, perlopiù perché non era mai stato in grado di capirla) e, in particolare, detestava quelle funebri. Sosteneva di ritenerle inutili ancor più delle altre; nella morte non c'era proprio nulla che qualche bel discorso potesse migliorare ed era da idioti cercare di farlo. Non c'era possibilità di ribattere, con lui, e nessuno dell'Ordine aveva avuto la fortuna di convincerlo a presenziare al funerale di Fabian e Gideon Prewett. Nemmeno James, l'unico a cui Sirius tendesse a dar retta, di norma, aveva avuto successo.
Era arrivato pochi minuti dopo l'inizio della cerimonia, si era seduto sul bordo del marciapiede all'altro capo della strada e si era acceso una sigaretta con una lentezza quasi riguardosa, come se volesse rimarcare il fatto che sì, Sirius Black odiava i funerali, ma rispettava la morte. Aspirò la prima boccata e gettò indietro il capo, sbuffando nell'aria un leggera nuvola di fumo grigiastro. Rimase a fissarla mentre saliva verso il cielo limpido e si dissolveva nel nulla.
Non credeva in Dio ma, a volte, aveva davvero l'impressione che qualcuno si stesse prendendo gioco di tutti loro – e di lui, innanzitutto. I McKinnon non erano morti che da due settimane e loro stavano già seppellendo i Prewett; non gli era concesso nemmeno il tempo di accettarne la scomparsa e avvertire il morso straziante della loro mancanza. Restavano solo un sacco di stupidi funerali celebrati di nascosto e Sirius li odiava, perché gli facevano sempre pensare che c'erano anche un sacco di buche ancora vuote, lì attorno.
«Che diavolo stai facendo, Sirius?».
Sirius emise un leggero sbuffo e alzò vagamente le spalle.
«Qua ci fottono tutti» rispose amaramente, scuotendo la chioma corvina. «Ci stanno davvero fottendo un po' tutti».
Dorcas annuì tetramente e rivolse uno sguardo tormentato in direzione del cimitero. Dopo pochi secondi, scoppiò in una risatina priva d'allegria.
«A Fabian e Gideon sarebbe piaciuto, come elogio» spiegò.
«Già. Non erano tipi da stronzate, loro».
«Hai una sigaretta?».
Sirius si rigirò fra le dita quella che stava fumando e gliela allungò con un sorriso sghembo. La guardò fumare silenziosamente per qualche istante. Dorcas non era una di quelle donne che saltavano all'occhio per la propria bellezza. Era graziosa, magari, ma aveva un naso troppo largo e gli zigomi troppo pronunciati per poter essere considerata bella. Tuttavia, i suoi modi di fare si erano rivelati abbastanza accattivanti da ingarbugliare Sirius quel tanto che bastava a vederla più di una volta. Non era accaduto molte altre volte, dacché si ricordava. Aveva avuto un discreto numero di belle accompagnatrici, ma Sirius era certo che di nessuna di loro avrebbe serbato un ricordo nitido quanto quello di Dorcas.
Non ne era innamorato, esattamente come lei non era innamorata di lui, e non se ne sarebbe mai innamorato, esattamente come lei non si sarebbe mai innamorata di lui, e al momento nessuno dei due chiedeva altro.
«Non potresti comprartele da sola, le sigarette?» le chiese lui, tagliente.
«No. Mi piace il sapore della tua bocca».
«Lo so».
Dorcas scosse la testa come se stesse scacciando una mosca particolarmente tediosa.
«Che fai, stasera?».
«Proverò a stare vivo, suppongo. Potrei essere io, il prossimo da infossare. Tieni a mente che non mi piacciono i fiori e che gli uomini di Dio mi infastidiscono, per cortesia».
«Non fare lo stronzo con me. Non provarci nemmeno» replicò gelidamente Dorcas. «Pensi che inscenare il teatrino della tragedia conti qualcosa, in tutta questa merda?».
Sirius parve rabbuiarsi improvvisamente.
«Non farmi incazzare: sto dicendo la verità. Questa merda è una tragedia, Dorcas. Una fottuta tragedia. E no, non so se stasera sarò vivo, né se domani mi alzerò vivo, né se avrò tempo e voglia di fare sesso con te da vivo, stanotte. Sta andando tutto a puttane, quindi non farmi incazzare, oggi» ribatté tutto d'un fiato, agitando nervosamente le mani. «Fanculo, quanto odio i funerali. Sono inutili».
Dorcas continuò a fissarlo con calma, incurante del suo tono aggressivo. Si era ormai abituata a quell'aspetto convulso del suo carattere: Sirius era un ordigno costantemente in procinto di esplodere e l'unico modo per evitare che accadesse, in effetti, era ignorarlo pazientemente.
«Sono un modo per ricordare chi non c'è più» lo ammonì placida, aspirando piano una boccata di fumo.
«Sono solo un modo per perdere tempo. Credi che a Fabian e Gideon freghi qualcosa, di quello che stanno dicendo di loro?».
«No. Ma frega a me. Frega a tutti noi. E, cazzo, dovrebbe fregare pure a te».
Sirius scosse il capo, infastidito.
«Stronzate: ecco, cosa sono. Inutili stronzate. E ci toccheranno, prima o poi, ma saranno sempre le solite inutili stronzate».
Dorcas gettò a terra il mozzicone e lo schiacciò con una violenta pedata del tacco.
«Sei sempre stato così cinico?».
«Non lo so» rispose rapidamente Sirius, mentre un'ombra triste gli incupiva i begli occhi grigi. «Ci sono troppe cose che non so più».
«Sai cosa vuoi fare stasera?».
Sirius sogghignò divertito.
«Sì».

*

«Verrei al tuo funerale».
Dorcas aprì di colpo gli occhi e alzò di scatto la testa dal cuscino per guardare Sirius. Lui aveva i capelli neri scompigliati attorno al bel volto e fissava il soffitto con aria pensierosa. La luce della luna illuminava ogni tratto del suo corpo incredibile e Dorcas si ritrovò a chiedersi per la centesima volta come diavolo fosse possibile che un simile pazzo potesse essere tanto bello.
«Cosa?».
«Verrei al tuo funerale» ripeté atono Sirius. «Sul serio».
«Non so che dire» rispose Dorcas dopo qualche istante di silenzio. «Nella tua ribaltata visione del mondo, Sirius, cosa diavolo significa? È un complimento? Un avvertimento? Un'informazione di servizio?».
«Un fatto. Verrei al tuo funerale, se mai dovessi morire».
«Oh. Beh, grazie. È proprio quel genere di cose che ogni donna spera di sentirsi dire dall'uomo con cui ha appena finito di fare sesso».
«Non tutte le donne hanno la fortuna di fare sesso con Sirius Black».
«Narciso è morto di se stesso, sai?» sbottò divertita Dorcas.
«Scrivilo sulla mia tomba. “Qui giace Sirius Black, morto di se stesso”».
Dorcas ridacchiò appena.
«Lo ricorderò, razza di idiota».

*

Gli occhi di Lord Voldemort erano rossi e terrificanti, ma Dorcas non riusciva a distoglierne lo sguardo. Era terrorizzata e l'idea di morire la spaventava più di ogni altra cosa al mondo, ma proprio non era capace di non guardare. Si chiese se, un attimo prima di morire, fosse normale impazzire. Perlomeno, continuava a ripetersi senza alcun motivo, avrebbe avuto almeno un narciso sulla propria tomba e questo, stranamente, la faceva sorridere.
«Sorridi, Meadowes?» sibilò lentamente Lord Voldemort, avvicinandosi a lei con un fruscio agghiacciante del lungo mantello scuro. Il suo volto serpentino era a pochi centimetri dal viso di Dorcas e lei, di nuovo, non riusciva a distoglierne lo sguardo.
«Sto per ucciderti e tu sorridi?».

Stordita, Dorcas scosse il capo, sotto lo sguardo sconcertato di Lord Voldemort, e scoppiò in una fragorosa risata.
«Pensavo solo che mi sarebbe piaciuto partecipare al mio funerale» spiegò, mentre sentiva gli occhi bruciare per le lacrime. «Mi sarebbe piaciuto parecchio, davvero».






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Capitolo 2
*** Vola via da qui - Severus/Madama Bumb ***




Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo

*

Vola via da qui
Severus Piton/Madama Bumb



Sebbene fosse più piccolo e mingherlino della maggior parte dei suoi coetanei, Rolanda lo aveva notato immediatamente: era impossibile – impossibile – non rivedere in quel ragazzino l'ombra sputata di James Potter. Aveva lo stesso viso sottile, la stessa zazzera nera e, per Merlino, portava perfino gli stessi buffi occhiali rotondi. Rolanda lo squadrò con maggiore attenzione. Si guardava attorno con un'espressione timida e spaurita e il suo sguardo continuava a slittare nervosamente in direzione del Cappello Parlante.
«Sembra la copia di James Potter» bisbigliò al suo orecchio la voce seria di Aurora, seduta alla sua sinistra. «Con un po' di fortuna, potrebbe avere il suo stesso talento nel volo».
Rolanda fece un mezzo sorriso storto e guardò l'amica in tralice.
«Lascia che sia io a giudicarlo» disse. «James Potter era un Cacciatore incredibile, ma non mi dava mai retta».
«C'è da dire, a suo favore, che tu eri un Capitano un po' ossessivo».
«C'è da dire, a mio favore, che James Potter era James Potter, e avrebbe fatto uscire di senno chiunque».
Aurora sbuffò divertita e tornò a rivolgere la propria attenzione sul piccolo Harry. La sua espressione rigida si addolcì in un leggero sorriso.
«Sembra fragile».
«Lascia che sia io a giudicare anche questo» sentenziò Rolanda con un sogghigno.
Voltò casualmente la testa verso l'altro capo del tavolo e le capitò di scorgere Severus: aveva gli occhi socchiusi e fissava il ragazzino con una smorfia di puro disgusto sulla faccia. Rolanda fece un sospiro rassegnato. Aveva dimenticato quanto grande fosse l'astio che correva fra James Potter e Severus, ma non immaginava che il collega potesse arrivare a disprezzare Harry, dopo tutti gli anni trascorsi.
Mentre il Cappello Parlante smistava a Grifondoro una ragazzina dai folti capelli crespi di cui non aveva capito il nome, Rolanda appuntò mentalmente di intavolare con Severus uno di quei lunghi discorsi che lui aveva sempre odiato.

*

Era assai raro che Severus sentisse la necessità di prendere una boccata d'aria. I suoi sotterranei erano un luogo cupo e soffocante per la maggior parte degli abitanti del castello, ma per lui rimanevano una delle poche zone in cui potesse trovare silenzio. Quando gli studenti abbandonavano la sua aula di Pozioni, lui rimaneva seduto alla propria sedia con gli occhi chiusi, beandosi della meravigliosa tranquillità che solo una stanza deserta sapeva offrirgli.
Quella mattina, tuttavia, i sotterranei sembravano stringere perfino la sua indole apatica e, colto da un impulso nervoso, era uscito di gran fretta.
Quando si era reso conto di non avere la minima idea di dove stesse andando, era già arrivato a metà del porticato che conduceva all'infermeria. Fece un respiro profondo, si appoggiò ad una delle colonne di pietra e si passò una mano sul viso.
Sciocco. Arrogante. Inutile.
Harry Potter era la fastidiosa miniatura di quel dannato di suo padre, ma ciò che stava torturando Severus – ciò che lo aveva torturato fin dal primo istante – era stata la consapevolezza che in quel ragazzino, in fondo, ci fosse molto più di James Potter. Aveva messo rapidamente a tacere quell'impressione, perché sapeva che gli avrebbe causato soltanto un maggiore numero di grane: detestarlo, dopotutto, era una scelta facile.
C'era Lily, in quel marmocchio. C'era così tanto di Lily da impedirgli di guardarlo senza avvertire una fitta allo stomaco. Era un mortale dosaggio di gelosie e rimpianti, e Severus, esperto dell'arte delle Pozioni, era perfettamente a conoscenza di quanto certi miscugli fossero pericolosi per gli uomini.
Non aveva mai raccontato a nessuno di Lily; solo Silente aveva giurato di mantenere quel segreto e Severus non dubitava della promessa fatta. Non ne aveva mai parlato con nessun altro – e non aveva né la forza né i motivi per farlo. Non ne aveva parlato nemmeno con Rolanda, sebbene fosse probabilmente ciò che di più simile a un'amante potesse avere.
Non avrebbe mai potuto amarla quanto aveva amato Lily, ma gli era sinceramente cara e la sua presenza, stranamente, era a suo modo confortante.

*

Rolanda riconobbe con stupore l'ombra scura appoggiata alla colonna del portico. Era strano che Severus uscisse di sua spontanea volontà dai propri sotterranei senza che ci fosse un motivo di indiscutibile serietà. Si grattò pensierosa la punta del naso: non era un bell'affare, senz'altro.
«Severus» lo chiamò.
Lui si voltò e per un momento parve fissarla con espressione astiosa. Incurante del suo sguardo cupo – Rolanda aveva smesso di curarsene, dopo tutti quegli anni – si avvicinò a lui e si appoggiò alla colonna di fronte.
«Rolanda» la salutò con tono indifferente lui, alzando appena il mento.
«Sputa il Boccino, uomo dei sotterranei» lo prese in giro lei con un sorriso storto. «Qual'è il problema?».
«Se avessi avuto bisogno di un'infermiera, mi sarei diretto in infermeria».
«Oh, perlomeno oggi sei di umore migliore del solito» ribatté lei, incrociando le braccia.
Severus non rispose.
«Finiscila» lo rimproverò lei. «Harry Potter non è suo padre, Severus. Non puoi stare con il naso attaccato al didietro della sua scopa a causa del cognome che porta. È ridicolo».
«Non accetto critiche da una strega che ha fatto di una scopa il suo mestiere».
«Tieni a freno quella lingua serpentina o scoprirai a tue spese quanto possa rivelarsi letale una scopa» lo avvertì con voce secca Rolanda, mentre aggiustava con aria distratta il risvolto della manica destra. «Io torno nelle mie stanze. Mi sento sempre stupida quando vengo fin qua per cercarti».
Severus rimase a fissarla mentre si allontanava in direzione del Salone d'Ingresso: non si stava nemmeno sforzando di trovare il modo di fermarla.

*


«Rolanda».
Rolanda non lo aveva nemmeno sentito arrivare – non lo sentiva mai arrivare, in effetti, come se lui fosse in grado di muoversi senza produrre il minimo rumore. Il suono improvviso della sua voce la fece sobbalzare: per lo spavento, si lasciò sfuggire il manico di scopa che stava lucidando.
«Severus!» esclamò, facendo un sospiro fiacco. «Ti possa Schiantare un Bolide...! Mi hai fatto venire un infarto».
Lui la fissò con calma estenuante, senza rispondere. Era pallido e sembrava piuttosto provato.
«Severus?» riprese Rolanda con voce allarmata, avvicinandosi a lui e sfiorandogli distrattamente un braccio. «Che sta succedendo?».
Severus fece un respiro profondo e aprì la bocca per parlare: sembrava quasi che avesse qualcosa incastrato in gola.
«Devi andartene».
Rolanda sbatté le palpebre senza distogliere lo sguardo dai suoi cupi occhi scuri e scosse il capo con aria stordita.
«Cosa?».
«Devi andartene» ripeté lui in un basso mormorio. «Immediatamente».
«Che diavolo stai dicendo? Sto lucidando i miei manici e--».
«Voglio che te ne vada. Prendi una scopa e vola via».
Severus non scherzava mai, ma Rolanda non lo aveva mai sentito parlare con quel tono tanto urgente: era terribilmente agitato e non era da lui: lui non era mai agitato.
«Cosa sta succedendo?».
Lui chiuse gli occhi, massaggiandosi stancamente le tempie.
«Non importa. Voglio solo che te ne vada il più lontano possibile da Hogwarts, stanotte».
Fece per girarsi sui tacchi e andarsene, ma Rolanda lo afferrò brutalmente per la manica della vesta e lo costrinse a fermarsi.
«Severus» sibilò rabbiosa, mentre una voce nella sua testa gli urlava di picchiarlo. «Cosa sta succedendo?».
«Vola via da qui, finché ne hai il tempo».

*

Le parole di Severus l'avevano profondamente spaventata. Dopo pochi istanti dacché lui l'aveva lasciata sola ai bordi del campo di Quidditch, era corsa in direzione dell'ufficio di Minerva.
Aveva spalancato la porta senza nemmeno bussare, nonostante fosse un comportamento che Minerva odiava e nonostante lei lo sapesse fin troppo bene. Rimase piuttosto interdetta nel trovare l'ufficio della vicepreside così affollato a quella tarda ora della sera.
Riconobbe immediatamente Remus e le sue sopracciglia schizzarono in alto, mentre la consapevolezza di cosa la sua presenza a scuola significasse si faceva largo dentro di lei.
«Oddio...» mormorò. «Stanno arrivando a Hogwarts».
Vola via da qui.







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Capitolo 3
*** Una cosa da pazzi - Frank/Alice ***


Di Frank e Alice Paciock non si sa davvero nulla, se non che sono entrambi Auror e Purosangue. A riguardo, mi sono presa un sacco un paio di licenze artistiche – chiedo venia, ma tant'è.
La famiglia Blishwick non è proprio Canon. In realtà, non lo è per niente, dal momento che compare nell'albero genealogico del film – il che è un'eresia, lo so, ma tant'è Blishwick suonava bene. Tutte le altre famiglie Purosangue citate nella fan fiction sono Canon (MacDougal, Gamp, Brown, eccettera...), ma i loro membri sono di mia invenzione.
Sto rileggendo per l'ennesima volta tutte le opere di Jane Austen e... beh, temo ve ne accorgerete. Metto le mani avanti, comunque, nel caso qualcuno volesse sottolineare il fatto che la mia versione di Frank, Alice e tutti gli altri giovani Purosangue sono troppo... uhm, diciamo antiquati. Sì, forse lo sono, ma mi piace pensare che lo fossero tutte le famiglie Purosangue di un certo livello. E poi, ripeto, sono in modalità Austen a go-go.


Racconti di sabbia
 
Fan fiction perdute nel tempo

*

Una cosa da pazzi
Frank Paciock/Alice Paciock



Ora che aveva compiuto sedici anni, Alice non aveva più scuse per annoiarsi tanto durante i ricevimenti. Eppure, mentre sedeva accanto alla madre e fingeva di ascoltare i barbosi e logorroici discorsi di Mafalda MacMillan, non riusciva a non pregare che il cielo la colpisse con un fulmine e ponesse fine alle sue sofferenze.
«...così ho osservato a mia volta il tessuto che Madama McClan mi porgeva e ho immediatamente esclamato: “Mia carissima amica” - proprio così, le ho detto - questa veste damascata calzerebbe alla signora Flint con la stessa grazia di un Troll con un abito di chiffon!”».
Le signore scoppiarono in una lieve risata e Alice, cercando disperatamente una distrazione con lo sguardo, arricciò le labbra in un perfetto sorriso divertito. Stava quasi per arrendersi all'inevitabile fastidio che quel pomeriggio le avrebbe recato, quando il giovane Frank Paciock si fermò a pochi passi da loro.
Era un giovane dal portamento indiscutibilmente da Grifondoro. Nonostante i folti capelli scuri fossero rigorosamente pettinati e le basette rigidamente definite, e nonostante tenesse entrambe le braccia dietro la schiena, come si conviene a qualunque educato damerino di classe, c'era qualcosa di troppo “Grifondoro” che balzava subito all'attenzione. Alice non avrebbe saputo dire se fossero i suoi occhi azzurri, così allegri e curiosi, o, piuttosto, la mascella definita da una lieve barba trascurata, ma Frank Paciock, nel complesso, sembrava gridare: “sono un Grifondoro”.
«Frank!» esclamò d'un tratto Augusta Paciock, scorgendo la figura del figlio accanto a lei. «Proprio non ti avevo visto arrivare».
Frank le rivolse un lesto sorriso, prima di inchinarsi con estremo garbo verso le altre streghe: Alice aveva l'impressione che fosse stato cresciuto a burro e bon ton.
«Buonasera, care signore» scandì. «Mi chiedevo, e spero vivamente non sia troppo disturbo, se fosse possibile approfittare della cortesia della signorina Blishwick e chiederle di unirsi a noi: temo che la nostra discussione sui M.A.G.O. stia degenerando e sono certo che l'intervento di una più delicata mente femminile saprà risolvere ogni questione».
Alice inarcò pesantemente un sopracciglio. Nonostante Frank avesse quattro anni in più di lei e fosse un Grifondoro, era stato Caposcuola; Alice aveva già avuto modo di sentirlo parlare, ma mai – mai – lo aveva sentito esprimersi in modo tanto studiato. Guardò di sottecchi tutte le streghe che la circondavano e si stupì nel vedere quanto compiacimento Frank fosse riuscito a destare in loro.
«Oh, Frank, naturalmente!» esclamò deliziata sua madre, Teodora, posando una mano sulla spalla della figlia e rivolgendole un'occhiata radiosa. «Alice sarà lietissima di seguirti. Non è vero, Alice, mia cara?».
«Ne sarei lietissima, signor Paciock».
Frank le tese la mano destra con un mezzo sogghigno e la aiutò ad alzarsi.
«Temo di non potervi promettere di essere in grado di riportarvela fra breve» ammiccò verso di loro, generando una serie di divertite risatine.
Mentre si allontanavano, Alice sollevò il capo verso di lui, trattenendo a sua volte un'importuna risata.
«Dove hai imparato a incantare così le povere streghe di mezz'età?».
«Mi riesce naturale: ho un'imbarazzante attrazione per le rughe».
Alice rise e Frank, che appariva compiaciuto del suo divertimento, non aggiunse altro. La condusse oltre un corridoio dalle pareti tappezzate di splendidi arazzi che la famiglia MacMillan doveva custodire da generazioni intere, e poi giù, lungo le scale, fino ad arrivare ad una piccola balconata che si affacciava sul giardino. Qualcuno doveva aver gettato un Incantesimo Riscaldante tutto attorno, perché sebbene fosse pieno inverno e il grande parco dei MacMillan fosse ricoperto di neve, Alice avvertiva ancora un tiepido tepore.
Seduti attorno ad un bel tavolo di legno dalle gambe finemente intagliate, riconobbe subito diversi compagni di scuola.
Randolph Brown, un Prefetto di Corvonero al suo ultimo anno ad Hogwarts; Godwin Gamp, un paffuto ragazzino che divideva con lei la sala comune di Tassorosso e a cui rivolse immediatamente un aperto sorriso; i fratelli MacDougal, veterani battitori di Corvonero, Abraham e Arnold; infine, Gaspard MacMillan, padrone di casa, che si alzò rapidamente per stringerle la mano.
«Alice» esordì in tono pomposo. «Perdonaci se non ti abbiamo chiamato prima, ma temevamo fosse inappropriato per una giovane strega unirsi ad un gruppo di giovani maghi. Spero che la situazione non crei troppi disagi a nessuno dei presenti».
Alice evitò accuratamente di sottolineare che Gaspard, con i suoi modi pomposi e i suoi discorsi pieni di nulla, riusciva sempre a metterla a disagio. Si limitò ad annuire con un sorriso educato e sedette su una seggiola che Frank le aveva appena offerto. Quando si fu seduta, lo sentì avvicinarsi cautamente al suo orecchio.
«Posso uccidere Garpard in qualunque momento tu preferisca».
Lei si morse il labbro inferiore per evitare di ridere.
«Stavamo giusto dicendo, un momento prima che tu arrivassi» le spiegò Randolph Brown, aggiustandosi gli occhiali con un movimento meccanico, «che non riteniamo affatto saggia la decisione del Preside Silente di conferire a James Potter la spilla di Caposcuola».
Abraham MacDougal emise un verso di scherno.
«Andiamo, Randolph. Sappiamo tutti che il solo motivo per cui nutri così tanto rancore per Potter è che volevi essere tu, il nuovo Caposcuola».
«Non nutro affatto rancore, ma sfido chiunque a dire che James Potter abbia meritato quest'onore. Nei suoi sette anni a Hogwarts non ha combinato che danni».
«Sciocchezze» ribadì Abraham. «È il miglior Cacciatore che la casa di Grifondoro abbia mai avuto – e un notevole Capitano, mi duole dirlo».
«Siete troppo di parte. Pare quasi che siate due Grifondoro, voi due».
«Non posso che darti ragione» esclamò divertito Frank, aprendo le braccia con aria drammaticamente rassegnata. «I Grifondoro sono incorreggibili, intrattabili e rumorosi».
«Frank!» rise Gaspard. «Tu sei stato Caposcuola di Grifondoro solo fino a tre anni fa!».
«Per l'appunto. Non vedo miglior intenditore dell'animo di un Grifondoro del sottoscritto. Ho dovuto rincorrere James e la sua banda di scapestrati per tutti gli anfratti del castello».
«E immagino tu sia d'accordo con la scelta di Silente».
«Lo sono. James Potter era un ragazzino insolente e arrogante – e devo ammettere che quando ero Prefetto era solito combinarne di tutti i colori – ma credo che gli scherzi siano un capitolo chiuso della sua vita. L'ho incontrato pochi mesi fa a Diagon Alley e l'ho trovato estremamente cresciuto... suppongo che Lily Evans sia il motivo principale del suo cambiamento» aggiunse con un mezzo sogghigno. «Cosa ne pensa, signorina Blishwick?».
Alice trasalì nel sentirsi interpellata. Non immaginava che qualcuno volesse sentire la sua opinione in merito, eppure tutti gli sguardi sembravano ora puntati su di lei. Conosceva James Potter solo di fama, e non aveva idea del genere di persona che potesse essere. Sapeva, tuttavia, che James Potter e i suoi Malandrini erano sempre pronti a spalleggiare i più indifesi in qualunque rissa da corridoio – e in quei tempi, a Hogwarts, di risse se ne vedevano parecchi. Ricordava che Sarah Thruston, al suo quarto anno, si ritrovò da sola in compagnia di Rosier e della sua banda di Serpeverde e, a sentir lei, sarebbe finita decisamente male se loro non fossero intervenuti a difenderla.
«Ha un buon cuore» sentenziò dopo qualche secondo di riflessione.
Mentre tutti la fissavano con aria stupita, Frank Paciock scoppiò in una fragorosa risata.
«Una tipica, educata e perfetta risposta da Tassorosso!» rise. «Nessuno potrebbe mai dubitarne!».
Anche Alice si lasciò andare ad un timida risata. Si sentì improvvisamente più a suo agio e iniziò a discorrere amabilmente con tutti i presenti di faccende di mediocre importanza, come chi si sarebbe aggiudicato la coppa del Quidditch per quell'anno e come proseguivano gli addestramenti di Frank all'Accademia Magica per Auror.
«È vero che vi fanno affrontare dei draghi?» domandò a voce bassa il piccolo Godwin, stringendosi nelle spalle. «Ho sentito che lo fanno».
«Non ho mai visto un solo drago all'interno dell'Accademia. La cosa più temibile rimane il cibo della mensa» rispose lui con un sorriso ilare, facendo nuovamente ridere tutti.
«Quando pensi di diventare un Auror a tutti gli effetti?» lo interrogò Gaspard. «Credo che tua madre abbia parlato di marzo, non è vero?».
«Aprile, al massimo».
«Non credo che al tuo posto avrei scelto di fare l'Auror» disse improvvisamente Randolph, scrutando intensamente il compagno. «Capisco che tu discenda da generazioni di Auror, Frank, ma... i tempi stanno cambiando. Si sentono cose davvero raccapriccianti e pare che questa storia di Lord Voldemort non sia... ecco, una storia».
Un alone di impenetrabile serietà calò d'un tratto attorno al tavolo. Alice strinse istintivamente le mani al grembo, socchiudendo gli occhi. L'ipotesi di una guerra – tutte quelle maledette ipotesi che tutti avanzano – la faceva rabbrividire. Non riusciva a credere che qualcuno potesse realmente immaginare di distruggere l'intera comunità magica.
«Mio padre combatté nella guerra contro Grindelwald al fianco di Alastor Moody, ed è Alastor Moody in persona che ora sta addestrano me a combattere questa guerra, se mai dovesse esserci» replicò con estrema forza Frank. «Se ciò che si dice su questo fantomatico Lord è vero, se davvero ha intenzione di uccidere ogni Nato Babbano e ogni Mezzosangue, allora è nostro preciso dovere fare tutto quanto è in nostro potere per fermarlo. Siamo gli ultimi discendenti rimasti delle più grandi famiglie di Purosangue che abbiano mai vissuto in Gran Bretagna e – Merlino! - non sarò di certo io a rinnegare il nome che porto».
Per Alice, sentirlo parlare con quel tono così deciso e prorompente fu come inghiottire un macigno. Si morse appena il labbro inferiore e inclinò piano il capo verso di lui, torturandosi un ricciolo biondo sfuggito alla stretta acconciatura che sua madre le aveva sistemato quella mattina.
«Credi ci sarà realmente una guerra?».
Frank si voltò verso di lei e la guardò intensamente qualche istante. Le sue labbra si arricciarono in un affettuoso sorriso.
«Credo di sì, signorina Blishwick».
Gaspard attirò l'attenzione con un soffocato colpetto di tosse.
«Mio padre è convinto che si stia esagerando, e lo sono anche io. Non esiste alcuna prova degli effettivi obiettivi di Lord Voldemort. Nessuno può dirsi certo che ci sarà una guerra».
«Oh, per Godric, Gaspard!» esclamò Frank, stupefatto. «Non puoi fingere che non stia accadendo nulla! Intere famiglie di Babbani continuano a sparire nel nulla da mesi, ormai! L'aria del Ministero è tesa come non lo era dal 1939 – e tu sai cosa questo significhi. Si sta arrivando alla rottura definitiva... perfino Hogwarts non è più un luogo sicuro».
«Hogwarts!» ripeté sconcertato Randolph, scuotendo incredulo il capo. «Frank, ho come l'impressione che Alastor Moody stia avendo una pessima influenza su di te. Nessun posto è sicuro quanto Hogwarts!».
«Tu credi, amico mio? E sia, ma non tentare di convincermi che non sia cambiato nulla. I Lestrange, i Malfoy, i Rosier, i Black... come puoi non essertene accorto? Eppure, quando eravamo bambini giocavamo tutti insieme durante occasioni come questa» mosse la mano a mezz'aria, indicandosi vagamente attorno. «Le nostre famiglie si stanno dividendo, i Purosangue si stanno dividendo. Presto, a noi tutti verrà chiesto di decidere da quale parte stare, ed io spero vivamente che ognuno di voi sarà in grado di fare la scelta giusta, perché quella sbagliata, Merlino, potrebbe distruggere per sempre il mondo che conosciamo».
Randolph fece un sospiro stanco, si sfilò gli occhiali e alzò una mano con espressione rassegnata.
«Non lo so, Frank. Mi sembra una pazzia».
Alice ispirò ed espirò profondamente un paio di volte, torturandosi febbrilmente le mani.
«Io combatterò» dichiarò infine, stringendo fra loro le labbra e alzando con fierezza il mento. «Quando arriverà il momento, i Blishwick sapranno da quale parte stare. Siamo gli ultimi Purosangue: difendere la comunità magica è un nostro dovere».
Frank le rivolse un'occhiata raggiante e Alice ebbe l'impressione di aver notevolmente alimentato la sua stima per lei. Una parte di sé, da qualche parte, fu immensamente lieta di quella consapevolezza.
Il loro dibattito non ebbe il tempo di proseguire, poiché l'orologio dei MacMillan suonò le sei in punto e i giovani iniziarono a prepararsi per ritornare alle rispettive dimore. Frank Paciock si dimostrò estremamente lesto nell'aiutare Alice a sistemare lo scialle sulle spalle. Lei ruotò appena la testa verso di lui e lo ringraziò con un aperto sorriso.
«Grazie a lei, signorina Blishwick. Mi sarei sentito tremendamente scoraggiato senza il suo appoggio».
«Non credo che lei sappia scoraggiarsi, signor Paciock».
«Eccome. Le assicuro che saperla incapace di accettare l'inevitabilità della guerra mi avrebbe alquanto rattristato».
Alice chinò tristemente il capo.
«Io sono molto riluttante a questa guerra. Ne sono terrorizzata, a dirgliela tutta, e prego ogni notte che un miracolo ci salvi da questa disumane eventualità. Non sono una guerriera – non lo sono mai stata – e l'ipotesi di dover combattere non potrebbe mai non spaventarmi» mormorò. Alzò lo sguardo su di lui e fece un improvviso sorriso mesto. «Non sono una Grifondoro, io».
«Signorina Blishwick, mi creda, lei è già molto più coraggiosa di molti Grifondoro di mia conoscenza».
«No, non credo. Vorrei solo fuggire... vorrei poter essere in qualunque altro posto, quando scoppierà tutto. Il solo motivo per cui mi costringerò a restare sarà perché non posso, non posso, non difendere i principi nei quali mi è stato insegnato a credere. Non posso scappare, signor Paciock, ma non esiterei a farlo, se potessi».
Frank la osservò in silenzio per qualche istante. Poi si inchinò, le prese una mano e la portò educatamente alle labbra.
«Questo le fa onore, ed io sarò onorato di restare al suo fianco quando verrà il momento. Randolph Brown potrà anche ritenerci due pazzi, ma la guerra è ormai troppo vera per poter essere scambiata per un'assurdità da visionari».
«E se non fosse così? Se in realtà non stesse accadendo nulla?» sussurrò con tono lamentoso Alice, chiudendo gli occhi. «Se stessimo soltanto immaginando che il mondo stia per crollare? Se fossimo davvero pazzi, signor Paciock?».
Lui scosse il capo con aria immensamente desolata.
«Noi non siamo pazzi, signorina Blishwick. È questo il problema».








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Capitolo 4
*** Carduelis Britannina - Lucius/Tonks ***


Sono piuttosto scioccata dal risultato di questa fan fiction. Non so sinceramente che diavolo mi sia saltato in mente, ma quando ho dato un'occhiata alla straziante lunghissima lista di ship e ho letto Lucius Malfoy/Ninfadora Tonks, beh, bum! È stato un attimo. Ispirazione improvvisa, che bastarda. A chi interessasse, la coppia principale rimane sempre e soltano Remus/Tonks - toglietemi tutto, ma non questo. 
→ "Carduelis Britannina" è il nome latino del tipico cardellino inglese che la gente ha la crudeltà di ingabbiare.





Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo

*

Carduelis Britannina
Lucius Malfoy/Ninfadora Tonks
*


Alla fine del gioco, avevano perso tutto. Forse, si diceva Tonks, non ci avevano creduto abbastanza. Forse, non avevano avuto abbastanza fortuna. Forse, non era così che le cose dovevano andare.
Avevano continuato a lottare fin quando avevano avuto fiato per farlo e la maggior parte di loro se ne era andata in piedi, esattamente come aveva vissuto. Avevano continuato imperterriti, fino al tracollo del mondo, a resistere per quanto di più caro possedevano. C'erano stati momenti in cui avevano creduto di essere a un passo dalla vittoria; la sentivano scivolare per poco sulla punta delle dita e si ripetevano che sì, la prossima volta sarebbe stata quella decisiva.
Poi, Harry era morto.



Tonks sedeva ritta e impettita nella propria stanza, vestita con un sontuoso abito damascato e con i capelli sbiaditi acconciati in un ricercato chignon. Il suo sguardo fissava la gigantesca finestra che si affacciava sull'ampio giardino dei Malfoy, ma era evidente che la sua mente vagava a centinaia di miglia di distanza da lì. Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra e stringendo i pugni con rabbia feroce.
«Remus Lupin è stato condannato a morte».
«A morte, a morte! Sì. Lo hanno preso questa notte».
«Domani, dicono in giro. A Hogwarts. No, non so perché proprio lì!».
«Remus John Lupin, sei stato imprigionato con l'accusa di sovversione e alto tradimento al Ministero della Magia».
Lei era lì, quel giorno, schiacciata fra la gente che affollava il parco di Hogwarts. Chi per curiosità, chi per muta solidarietà e chi per pura rassegnazione, erano accorsi da ogni parte della Gran Bretagna per assistere all'esecuzione di uno degli ultimi e più importanti baluardi dell'Ordine della Fenice rimasti in piedi. Anche Remus Lupin, il licantropo di Albus Silente, era dovuto soccombere alla prorompente potenza del regime di Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato.
Lei era lì, celata in quel mare di sconosciuti e nascosta nel mantello. Sapeva che era pericoloso uscire con il suo vero aspetto – lo sapeva da anni – ma Remus stava per morire, lei era lì, e non avrebbe mai permesso che qualcuno le impedisse di guardarlo ancora con i suoi occhi. Era lì, in piedi, con l'impressione di aver smesso di formulare qualunque pensiero. Respirava e piangeva, sì, ma senza nemmeno accorgersene. Scuoteva debole la testa e fu in quel momento che lui sollevò lo sguardo su di lei.
La fissò per un secondo che a Tonks parve un'infinità. Sembrava ci fosse un mostro dentro di lei che voleva scoppiare, mordere, ruggire, stracciare, uccidere, ma non riusciva a muoversi. Non riusciva più a fare nient'altro che non fosse guardarlo.
Non credo sopravviveremo a tutto questo, Ninfadora” le aveva confidato qualche sera prima, mentre giocherellava distrattamente con la spallina del suo reggiseno. Mi dispiace”.
Remus... non è colpa tua. Abbiamo fatto il possibile, solo... beh, loro hanno avuto più fortuna di noi”.
Lui le rivolse un sorriso tenero e posò il volto nell'incavo del suo collo, inspirando piano il suo profumo.
Dio, ti amo così tanto... ti ho sempre amata così tanto.
Tonks affondò una mano fra i suoi capelli grigi e gli baciò appena la tempia. Non aveva la più pallida idea che quella notte sarebbe stata l'ultima che avrebbe trascorso fra le braccia del marito.
«Questo Wizengamot ti dichiara colpevole e ti condanna a morte».
Tonks non smise mai di guardarlo e, sebbene le lacrime le avessero appannato la vista, non poté evitare di cogliere quell'ultimo rapido sorriso che lui le rivolse. Niente più di una smorfia rassegnata e di un “ti amo” letto sulle labbra. Niente addii struggenti, niente grida di dolore, niente ultimi baci.
Fu veloce, fu sterile, fu vuoto.
Fu atroce.


«Buonasera, Ninfadora».
Tonks si costrinse a non voltarsi verso di lui o avrebbe provato nuovamente a ucciderlo. Continuò a tenere il capo abbassato e lo sguardo puntato sull'Incantesimo Incarceramus che le serrava saldamente i polsi l'uno con l'altro. Era un'immagine deprimente, nel complesso, come poteva esserlo una bambolina di porcellana riccamente vestita e con le mani legate o un cinguettante pettirosso rinchiuso in una gabbia dorata.
«Ho detto: “buonasera”» ripeté con più forza Lucius Malfoy.
«Ho sentito» ribatté gelidamente Tonks.
Sentire il tacco dei suoi stivali calpestare il parquet mentre avanzava verso di lei le ricordava il ticchettio di un orologio – il suo orologio.
La vittoria dell'Oscuro Signore e la rinnovata ascesa della famiglia Malfoy aveva indubbiamente giovato all'aspetto di Lucius. I suoi capelli biondi erano perfettamente lisci e lucenti, il suo volto era disteso e rilassato e i suoi abiti costosi, ricercati e tradizionali. Azkaban e la disgrazia in cui era caduto sembrava essere per Lucius Malfoy nient'altro che un ricordo poco piacevole relegato al passato. Tutto, di lui, ostentava la sua vittoria.
«Sarebbe cortesia che tu rispondessi, quando ti saluto».
«Sarebbe cortesia che tu morissi, quanto non ti parlo».
Lucius Malfoy si portò una mano alla fronte con un verso di estenuante rassegnazione, come se stesse cercando di insegnare i rudimenti della scrittura ad un bambino particolarmente ottuso.
«Non ci siamo, Ninfadora...» mormorò sibillino, avvicinandosi alla finestra e appoggiandosi con le mani al davanzale. «Non ci siamo proprio».
«Non chiamarmi Ninfadora. Io sono la signora Lupin».
«Tu sei la vedova Lupin».
Tonks scattò come una furia con l'intenzione di ucciderlo in quel preciso istante, ma le corde si serrarono improvvisamente e la tirarono bruscamente verso la testiera del letto, facendola cadere in ginocchio a pochi passi da Lucius. Lui la scrutò ansimare per la rabbia e per il dolore ai suoi piedi, domandosi come fosse possibile che lei dimenticasse di essere incatenata ogni volta che lui entrava nella sua stanza. Eppure, avrebbe dovuto essersi abituata.
«Non impari mai, non è così? Nessuno di voi lo ha mai fatto» le disse Lucius con tono leggero. «E dire che, ormai, la situazione è evidente. Hai perso, mia cara. Hai perso prima la battaglia, ora la guerra. Mi chiedo per quale sciocco motivo ti ostini ancora a resistere. Se ti piegassi, potresti sopravvivere».
Tremante, Tonks sentiva il desiderio di sentire il collo di Lucius Malfoy spezzarsi sotto le sue mani acuirsi vertiginosamente dentro il suo petto. Di questo passo, sarebbe diventata matta. D'un tratto, nella sua mente si riaffacciò l'ipotesi che fosse quello, in realtà, che lui aveva intenzione di fare. Voleva che lei impazzisse lì, in quella dannata stanza piena di orpelli e gingilli dorati, sola, sconfitta e umiliata. Voleva strapparle anche il senno, alla fine.
«Sopravvivere?» ripeté Tonks in un mormorio impercettibile, ruotando appena il capo verso di lui. Se i suoi occhi scuri avessero avuto il potere di uccidere, difficilmente lui sarebbe sopravvissuto. Le sue pupille rilucevano di un odio cocente e insanabile. «Sopravvivere? Perché?».
Lucius storse il naso nel vederla adirarsi tanto: detestava tutto quel rancore non meritato. Dopotutto, lui le aveva salvato la vita. Aveva evitato che Lord Voldemort la uccidesse, gli aveva richiesto personalmente che la giovane nipote di sua moglie venisse risparmiata.
Posso correggerla, mio Signore” continuava a ripetere, sebbene sapesse perfettamente che non stava facendo alcun progresso. “È una strega dallo straordinario talento e, per quanto mi dolga dirlo, rimane pur sempre per metà una Black. Ha solo seguito l'influenza di Silente per troppo tempo”.
«Hai ucciso i miei compagni» continuò a sentenziare Tonks, sporgendosi febbrile in avanti. Lucius alzò il capo con aria composta, ma non era in grado di distogliere lo sguardo dai suoi occhi lucenti. Come poteva quella dannata Sanguesporco, figlia di una traditrice e concubina di una bestie riservare a lui – lui, che l'aveva salvata – tanta folle avversione? Leggeva l'odio sul suo viso e sapeva perfettamente che se solo si fosse azzardato a sciogliere l'incantesimo che la teneva legata al letto, lei avrebbe tentato di ucciderlo anche a mani nude. Avrebbe tentato in qualunque modo, sebbene sapesse di essere solo una giovane strega disarmata di fronte ad uno dei più potenti Mangiamorte di Lord Voldemort. Lucius non sapeva spiegare la sua stoltezza.
«Hai ucciso mio padre. Hai ucciso mio marito» sputò con rabbia Tonks, graffiando le lenzuola candide con le unghie. «Non osare parlarmi di vita».
«Non riesci ancora a valutare la grandezza di quanto ho fatto per te» le spiegò Lucius, muovendo un braccio a mezz'aria e mostrandole la raffinatezza degli arredi. «L'Oscuro Signore ti voleva morta. Bellatrix continua a volerti morta, giorno dopo giorno, ma io ti ho salvato. Io sto continuando a salvarti. Non hai più nessuno, a parte me!» gridò concitato, picchiando con violenza un pugno contro il muro e stringendo le labbra in una smorfia scocciata. «Io, e io soltanto, ti sono rimasto! Harry Potter è morto! Silente è morto! Quell'idiota di Black è morto! I Weasley e quell'accozzaglia di Babbani e Sanguesporco da cui erano circondati sono morti! Tuo marito è morto! Morto, morto, morto!».
Tonks aveva appoggiato la fronte alle braccia, in un rigido pianto silenzioso. Lucius inspirò profondamente: più della sua acredine, odiava le sue lacrime. Significavano che ancora soffriva, che ancora non si era rassegnata e che ancora, dannazione, aveva intenzione di resistergli. Per quanto diavolo ancora avesse la testardaggine di combatterlo restava un mistero.
«Tornerò anche domani» la informò con voce fredda.
Si era appena avviato verso la porta, convinto che non avrebbe più udito la sua voce fino al giorno successivo. A differenza di tutte le serate precedenti, invece, Tonks rialzò il volto rigato dalle lacrime e gli sibilò malevola:
«Narcissa sa che sei innamorato di me?».
Lucius si bloccò di colpo e si volse con uno scatto verso di lei. Il sorriso di Tonks fremeva di malignità e nei suoi occhi era comparso un lampo di folle vendetta.
«Dimmi, Lucius...» riprese con più convinzione. «La mia cara zia lo sa?».
Lui fece una smorfia di superiorità e finse di aggiustarsi il polsino della giacca.
«Ninfadora, io sono uno dei più importanti Purosangue in circolazione. Come ha potuto un'idea tanto sciocca attraversare la tua testa?».
«Dimmelo tu, perché. Hai fatto pressioni a Voldemort perché non mi uccidesse, continui a tenere Bellatrix Lestrange lontana da me ed io so perfettamente quanto questo sia compromettente per la tua posizione. Sono una fottuta Sanguesporco, no? Sono la figlia di una reietta e la moglie di un licantropo. Che scusa hai usato per spiegare questo tuo strano affetto per me? Hai detto loro che mi volevi, forse? Che volevi il mio corpo? Sì? E allora, spiegami, perché non mi hai mai toccato? Perché non mi hai mai sfiorato nemmeno con un dito? La tua non è lussuria, non è il depravato desiderio di umiliarmi, non è vero?».
Quando vide che lui non rispondeva, Tonks emise uno sbuffo di cinico divertimento.
«Cazzo. Ti sei davvero innamorato di me».
«Non capisco di cosa tu stia parlando» scosse il capo Lucius. «Ti ho salvato perché, per quanto tu sia completamente sciocca, rimani una mezza Black dai notevoli poteri. Il tuo aiuto all'Oscuro Signore sarebbe--».
«Stronzate» lo interruppe bruscamente. «Vieni qui ogni fottuto giorno a ricordarmi quello che ho perso... a ricordarmi chi ho perso. Perché, Lucius, perché ci tieni così tanto a rimarcare il fatto che Remus sia morto?».
«Perché era solo uno sporco licantropo che ha avuto ciò che gli spettava».
Il sorriso di Tonks si trasformò in un ghigno perverso. Fino a quel momento, Lucius non era ancora riuscito a cogliere la straordinaria somiglianza che correva fra lei e Bellatrix. Parte di lui, per quanto cercasse di mostrarsi impassibile, se ne ritrovò segretamente intimorito.
«Non ti amerei nemmeno se fossi soltanto una briciolo dell'uomo che era Remus».
Lui la ignorò e si affrettò ad abbassare la maniglia. Stava per aprire la porta, quando la sentii ridere – e la sua risata, buon Dio, era così diversa dalla cristallina risata che Lucius aveva sentito un tempo, quando la scorgeva al Quartier Generale degli Auror o quando la spiava per conto dell'Oscuro Signore. Era così dannatamente non lei, ma lui sapeva che era ancora viva, che poteva ancora tornare e che sarebbe tornata, a qualunque costo. Sarebbe stata la stessa brillante donna che aveva tanto bramato, prima o poi; solo che, questa volta, sarebbe stata sua.
«Non sono io, quella in gabbia, vero?» rise sprezzante lei, scrutandolo con aria spietata. «Sei tu, Lucius, quello fottuto».








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Capitolo 5
*** Ho scelto il mio nome - Rabastan/Alice ***



Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo
*

Ho scelto il mio nome
Rabastan Lestrange/Alice Paciock
*


La fissava gemere sul pavimento con l'espressione un po' annoiata e un po' disgustata di chi ha appena schiacciato un grosso insetto. Pallido e sciupato, il suo viso rotondo era distorto in una maschera di dolore, con gli occhi gonfi e arrossati dalle lacrime che scendevano fino alle labbra e al mento, i lunghi capelli biondi scarmigliati attorno alla fronte sudata, ed ogni centimetro del suo corpo florido tremava incessantemente. Soffriva, soffriva più di quanto avesse mai sofferto, Rabastan lo sapeva e si beava della vista del suo dolore con aria compiaciuta.
L'hai scelto tu.
C'era qualcosa di perversamente terapeutico nella soddisfazione provocata dal vederla lì, ai propri piedi, sconfitta e umiliata, con la camicia da notte candida strappata poco sotto la spalla e i vetri del lampadario frantumato conficcati nei palmi delle mani.
«Ti prego...» la sentì rantolare appena. «Ti prego...».
Una microscopica parte di lui si ritrovò a pensare che avrebbe dovuto portarla via da quella casa distrutta e dalla ferocia follia di Bellatrix. Avrebbe potuto salvarla, forse, se solo l'eco delle risate strappatele da quel dannato Paciock non gli stessero ancora rimbombando nella testa. La guardava, lì a terra, ai suoi piedi, e la vedeva patire le pene dell'inferno e scongiurare pietà e misericordia per il bambino, il dannato bambino, ma lui la vedeva ben più lontana, con l'abito a fiori che ondeggiava al vento e i riccioli biondi acconciati sulle spalle, e Frank Paciock, sempre lì, sempre dannato, con la mano appoggiata alla sua schiena a gioire del suo sorriso.
Aveva scelto lui.
E il bambino, quel dannato, maledetto bambino, quel lurido bambino che portava il suo nome, piangeva e strepitava e strillava, e Rabastan avrebbe solo voluto ammazzarlo. Avrebbe potuto eccome, ma non riusciva a muoversi.
«Rabastan... ti prego».

*

«Rabastan, ti prego».
Stupefatto, Rabastan Lestrange sgranò stupidamente gli occhi. Rimase a fissarla inebetito, con le labbra dischiuse e un continuo ronzio confuso nel cervello. Alice chinò gli occhi con timorosa colpevolezza, si alzò di colpo dalla raffinata poltroncina e si avvicinò a lunghi passi alla finestra che si affacciava sul cortile della grande dimora dei Blishwick. Iniziò a tormentarsi le mani e quando parlò nella sua voce risuonò una note di genuino dispiacere.
«Sappiamo entrambi per quale motivo mi stai chiedendo di sposarti».
Rabastan si alzò a sua volta in piedi e si lisciò istintivamente il mantello.
«Alice, io...».
«Non sarò io a sostituire Andromeda Black nel tuo letto nuziale» lo interruppe con voce bassa. «Lei è fuggita e Narcissa è destinata a diventare la signora Malfoy a breve. Mi rendo conto della spiacevole situazione in cui sei finito, ma...» si voltò per rivolgergli un'occhiata penetrante, «io sono una Blishwick».
«Una nobile casata...».
«Dai vanti ben diversi dei Lestrange» continuò imperterrita. «Mi dispiace, Rabastan. Comprendo che tu voglia mantenere alto l'onore della famiglia che rappresenti, ma non credo di essere la donna giusta».
Paralizzato dall'incredulità, aveva continuato a fissarla in silenzio. L'improvvisa sensazione del fallimento gli rovinò addosso con la consapevolezza che suo fratello aveva avuto successo laddove lui si era impantanato. Di nuovo, Rodolphus continuava ad essere il primogenito di spicco e l'importante baluardo degli ultimi Lestrange, mentre lui, Rabastan, aveva permesso che un sudicio Sanguesporco gli rubasse la promessa sposa. Non amava Andromeda Black, né mai probabilmente avrebbe potuto amarla, ma sarebbe potuta diventare una moglie devota e servizievole come la sorella più giovane si apprestava a diventarlo per Malfoy. Non poteva vantare né la bellezza eterea di Narcissa né la tempra e la passionalità di Bellatrix, ma Rabastan si sarebbe accontentato, arrendendosi ancora una volta alle ben più floride possibilità del fratello maggiore. Andromeda avrebbe dovuto pagare lo scotto dell'umiliazione, della vergogna, della sua fuga d'amore con quel cane di un Tonks, eppure era lui, Rabastan, la testa sul quale stavano scrosciando tutte le derisioni e le beffe delle famiglie Purosangue.
Aveva sperato di poter trovare in Alice Blishwick quello che non aveva potuto ottenere da Andromeda Black; lo aveva sperato al punto tale da convincersi che nessuna giovane nubile avrebbe mai potuto rifiutare la sua proposta di matrimonio. Era ricco, era nobile ed era puro. Era un Lestrange, ma ora quella dannata ragazza – una Tassorosso, per giunta! - gli si opponeva. La bellezza di Alice Blishwick si discostava largamente da quella delle sorelle Black: di modesta statura, dai fianchi floridi e dal portamento semplice e sereno di una persona a cui non è mai stata insegnata l'arte dell'ambizione. Non era niente, a conti fatti, non era che l'ultima discendente nubile di una casata destinata a estinguersi con lei, eppure sembrava non interessarle. Lui e ciò che poteva offrirle non le interessava.
Rabastan si sentì montare dalla furia.
«Non potete pretendere altro» le ringhiò con una smorfia. «Credete forse che saranno in molti ad accorrere alla porta di vostro padre per chiedere la vostra mano? Non possedete né la ricchezza dei Malfoy né il fascino dei Black né potete vantare conoscenze altolocate. Non siete che una famigliola di periferia alla stregua dei Weasley, come potete rifiutare me? Sono quanto di meglio potreste mai ottenere».
Per un attimo Rabastan credette che l'offesa l'avrebbe fatta inferocire, che l'avrebbe scacciato dalla propria proprietà, dandolo in pasto agli Ippogrifi allevati nelle scuderie del padre. Invece, la giovane Blishwick rimase impassibile, rigida davanti alla grande finestra del salotto e con le mani compostamente strette al grembo. I suoi grandi occhi celesti luccicavano appena, ma Rabastan non intravide nulla nel suo viso che potesse esprimere rabbia o indignazione. Sembrava serena, tranquilla... compassionevole.
«Mi sposerò solo per amore» ripeté con un sorriso mesto. «E mi dispiace, Rabastan, che voi non possiate capire quanto questo sia importante».
«L'amore non è che...».
«L'amore è vitale» lo interruppe. Si avvicinò di qualche passo a lui e gli posò appena la mano sul petto. «Spero solo che un giorno possiate rendervene conto a vostra volta».
Il ricordo fin troppo limpido della sincerità e dell'apprensione della giovane strega tentò di torturarlo per diversi giorni a seguire. Lo tenne distante, ripetendosi che non c'era nulla di giusto in quella maledetta Tassorosso, nulla di puro, nulla di nobile. Era solo Alice Blishwick, era solo l'ultima di una dinastia di perdenti. Era solo una ragazza dal viso rotondo e il sorriso allegro che mai avrebbe potuto rendere onore alla famiglia dei Lestrange. Eppure, parecchi mesi più tardi, quando la Gazzetta del Profeta pubblicò l'annuncio del suo matrimonio con quel ridicolo Auror, sentì nuovamente la collera montargli nel petto. L'aveva osservata ridere dalla fotografia in bianco e nero e agitare una mano accanto a quello stoccafisso con la divisa degli Auror – quell'idiota – fin quando il pensiero che lei sarebbe dovuta essere sua non divenne troppo feroce e gli fece strappare ogni centimetro del giornale.
Avrebbe dovuto essere sua.

*

«Rabastan... ti prego».
«Ti avevo offerto una straordinaria possibilità, Blishwick. Avrei potuto donarti tutto ciò che una donna potrebbe desiderare, qualunque gioiello e qualunque abito... avresti avuto ogni cosa, se solo avessi scelto me».
Rabastan si inginocchiò davanti al suo volto cereo con un sogghigno maligno. Avvertiva nell'aria qualcosa di tremendamente giusto, come se ogni pezzo avesse dovuto incastrarsi proprio lì, nel soggiorno di casa Paciock, con lui che finalmente sovrastava quella folle sciocca che lo aveva denigrato per l'ennesima volta e che aveva portato ogni membro della comunità magica ad additarlo come un idiota, un fallito, un incompetente. L'ombra del fratello Rodolphus, l'ombra di qualunque altra conquista dei Lestrange. E ora Alice era davvero lì, sconfitta e umiliata, e la sua fastidiosa bontà era distante nel tempo e nello spazio.
«Saresti stata ricca. Saresti stata potente. Saresti stata tutto ciò che non potrai mai più essere, ma hai fatto la tua scelta, e alla fine era la scelta sbagliata, Blishwick».
Le afferrò con rudezza il mento e la costrinse a sollevare il capo verso di lui. Quando incrociò i suoi brillanti occhi celesti, Rabastan trattenne a stento un brivido. Vi era qualcosa di folle, nel suo sguardo intenso, qualcosa di malato nella feroce determinazione con cui lo fissava. Sembrava voler gridare, sembrava esplodere di coraggio e virtù, sembrava non temere più né lui né la morte, e Rabastan si convinse di non aver mai visto un paio d'occhi più belli di quelli di Alice Blishwick. Sebbene gli stesse morendo ai piedi, sebbene le grida infinite e il dolore gli avessero ormai strappato la voce, pareva proprio che fosse lei, quella in procinto di vincere.
Tremanti, le labbra di Alice si storsero in un sorriso beffardo che lo fecero rabbrividire.
«Rabastan, ti prego...» mormorò con audace sarcasmo. «Il mio nome... è Alice Paciock».

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Capitolo 6
*** Fra capo e coda - Rufus/Minerva ***


Oggi sono particolarmente in vena di tirare avanti questa mastodontica raccolta – e dire che ho una vita da questa parte dello schermo da mandare avanti a sua volta, eh. Che posso farci?


Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo
*

Fra capo e coda
Rufus Scrimgeour/Minerva McGranitt



«Non starai gongolando un po' troppo?».
Le sottili labbra di Minerva si arricciarono in un sorriso borioso. Sollevò appena il capo dalla coppa dorata che stringeva fra le mani e rivolse al ragazzo un'occhiata impertinente.
«Ne ho tutto il diritto. Grifondoro ha vinto la Coppa di Quidditch per merito mio».
Rufus fece uno sbuffo e si avvicinò alla poltrona sulla quale si era acciambellata come un gatto. Della rumorosa festa improvvisata nella sala comune di Grifondoro non restava che qualche festone rosso e oro abbandonato sul pavimento e diversi calici vuoti appoggiati un po' su questo e un po' su quel tavolo. Agli occhi di Rufus, quel caos era oltremodo intollerabile e se solo quella disgraziata di Minerva non gli avesse chiesto di dimenticare i propri doveri di Caposcuola per quella sola serata, avrebbe probabilmente dato di matto.
«Non sei rimasto nemmeno un minuto per festeggiare» disse lei.
Rufus si lasciò scivolare sulla propria poltrona preferita, situata in una posizione particolarmente tattica per il controllo di qualunque cosa accadesse all'interno della sala comune. Intravide un paio di mozziconi di sigarette Babbane davanti al davanzale di una delle grandi finestre, lasciata un poco aperta, e fece una smorfia stizzita.
«Dimenticavo» riprese con tono divertito Minerva. «Tu odi le feste».
«Sono Caposcuola».
«Lo è anche Margareth Collins, ma non mi pare che questo le abbia impedito di pomiciare con Herbert Proudfoot nella sala da tè di Madama Piediburro».
Rufus la fissò con espressione pensierosa.
«Com'è possibile che tu sia sempre informata su qualunque sciocchezza accada in questa scuola?».
Lei fece le spallucce e riprese a rimirare la coppa.
«Nessuno studente sano di mente racconterebbe al proprio Caposcuola cosa combina o non combina a Hogsmeade. E tu, poi, sei proprio uno di quelli a cui non raccontare nemmeno cosa si combina o non si combina al gabinetto».
«Che vorresti insinuare?».
Senza sollevare lo sguardo dalla coppa, Minerva inarcò un sopracciglio con profondo divertimento. Rufus fece un sospiro rassegnato: quella ragazza era tremenda. Presuntuosa, ironica e dannatamente intelligente, Minerva McGranitt era una di quelle giovani streghe che Rufus non avrebbe augurato di sposare nemmeno al peggiore dei suoi nemici. Più che di una dama, sfoggiava la bellezza sfacciata e incurante di una guerriera delle brughiere scozzesi, con i lunghi capelli neri spettinati attorno al viso e gli occhi verdi rilucenti di brillante arguzia. Era selvaggia, esattamente come le terre dalle quali proveniva, e Rufus ben si ravvedeva dal farsi incantare da quella sua aria da studentessa modello. Nascosta sotto la divisa e gli eccellenti voti, c'era una strega malata di competizione – e questo Rufus proprio non riusciva a sopportarlo, perché lui, per primo, sapeva di voler vincere sempre.
«Io non insinuo mai. Io faccio constatazioni» ribatté lei pungente. «E ho constatato, Rufus, che sei un vecchio bigotto nascosto nel corpo di un diciassettenne».
«Sono Caposcuola».
«Sì, mi era giunta la voce...» lo prese in giro Minerva, appoggiando il capo sul palmo della mano. «Rissati, Rufus, o un giorno le regole finiranno per ammazzarti».

*
«Saresti un ottimo Auror».
«Ho già trascorso fin troppo tempo fra le mura del tuo Ministero» ribatté pungente Minerva con un sopracciglio boriosamente inarcato. «Francamente, Rufus, quel posto mi dà la nausea».
«Francamente, Minerva, quel posto ti dà lo stipendio».
Le sue labbra sottili si storsero in un sorriso saccente. Minerva si allungò verso di lui, evitando con la grazia di un gatto il grande calice di Idromele che stava sorseggiando. Se solo non fosse stato certo che l'avrebbe fatta adirare, sarebbe scappato a ridere davanti alla sua espressione pretenziosa. Era fastidiosa e saccente, c'era poco da discutere – e, a conti fatti, Rufus non le avrebbe chiesto di cambiare, né lei avrebbe mai tollerato una proposta simile.
«E se ti dicessi che non lavorerò a lungo in quel buco?».
«Di che stai parlando?».
«Il Preside Silente mi ha offerto la cattedra di Trasfigurazione» soffiò soddisfatta. «E io ho accettato».
Rufus si fece quasi sfuggire dalle mani il bicchiere di Whisky Incendiario. Lo sconcerto del primo impatto durò ben poco e venne rapidamente sostituito da un'ombra scura e maldisposta e una profonda ruga comparve in mezzo alla sua fronte. Appoggiò cauto il bicchiere al tavolo del Paiolo Magico al quale si erano accomodati venti minuti prima e rimase in silenzio qualche istante. A modo suo, anche Minerva sembrava improvvisamente cauta e attenta ad ogni reazione del giovane mago.
«Silente ti ha... cosa?» mormorò Rufus, e l'ultima parola parve quasi un sibilo furente.
«Hai capito perfettamente».
«Tu hai... non mi hai detto nulla».
Minerva sollevò austera il naso.
«È la mia vita, Rufus. La mia, non la tua».
«Credevo di farne parte».
Lei accusò il colpo con quanto più contegno possibile. Senza calare lo sguardo, né smuoversi dalla sua impassibile posizione composta, continuò a fissarlo con una luce dura e fredda negli occhi verdi. Rufus sentiva la collera montare vorticosamente dentro di lui e a poco servì ripetersi nuovamente il mantra con il quale aveva sempre sopportato ogni colpo di testa di Minerva: è fatta così.
«Sebbene tu non abbia alcuno scrupolo nel lasciare da parte me per il tuo lavoro, io non ti ho mai chiesto di mettere da parte il tuo lavoro per me» lo ammonì con voce tremante. «Dunque non osare intrometterti nelle mie scelte».
«Avrei solo voluto esserne informato prima».
«Lo avrei comunque accettato. Non sarebbe cambiato niente».
«Sarebbe cambiato tutto!» esclamò concitato lui, sbattendo il pugno sul tavolo e attirando su di loro l'attenzione di due maghi seduto al tavolo a fianco. «L'avrei saputo prima, avrei potuto dirti se ero d'accordo con--».
«Con cosa?» replicò testardamente lei, afferrando il bordo di legno con entrambe le mani e fulminandolo con un'occhiata gelida. «Con cosa, Rufus? Con le mie scelte? Credi davvero che io abbia bisogno del tuo parere per decidere cos'è meglio per la mia vita? Io non ho bisogno di nessuno».
«Tu hai sempre bisogno di qualcuno. Sei davvero così sciocca da credere di potertela cavare da sola? Sei una testa calda, agisci sempre prima di pensare ed io, povero idiota, ti sono sempre dietro per sistemare ogni tua imprudenza. Hai pensato alle conseguenze? Hai pensato che sarai perennemente a Hogwarts? Hai pensato che anch'io faccio parte della tua vita?».
Minerva aprì la bocca per protestare, ma si bloccò tutto d'un tratto e rimase ferma. Fece un respiro profondo, socchiuse le palpebre e bevve d'un sorso quel poco che restava del suo Idromele. Poi si alzò di scatto, estrasse dal portamonete una manciata di Zellini e le lanciò sul tavolo.
«Eccoti la risposta, Rufus» ringhiò fra i denti prima di svanire rapidamente oltre la porta del Paiolo Magico.
Lui non tentò nemmeno di fermarla.
Era fatta così.
*

Quasi le venne un colpo quando si ritrovò Rufus Scrimgeour nel bel mezzo del corridoio del settimo piano. Era ormai sera inoltrata e Minerva si era appena accertata che nessuno dei suoi studenti di Grifondoro avesse oltrepassato varco celato dalla Signora Grassa. La giornata era stata oltremodo spossante e a ben poco era servita la Pozione Rinvigorente di Poppy; avvertiva un gran bisogno di riposare e le palpebre si arrischiavano a socchiudersi da sole.
Quando lo vide, la sonnolenza svanì di colpo e lasciò spazio ad un fastidioso senso di smarrimento. Lui parve provare la stessa sensazione – e Minerva fu attraversata dal pensiero che Rufus avesse percorso i corridoi del castello con la speranza di non incontrarla affatto.
Erano trascorsi anni dall'ultima volta in cui avevano avuto modo di parlarsi. Entrambi avevano inutilmente cercato di risanare un rapporto che non era mai stato destinato a perdurare, ci avevano riprovato e avevano fallito innumerevoli volte. Avevano litigato ancora, ancora e ancora, ma nessuno dei loro tentativi era valso a qualcosa. Forse erano troppo simili; forse erano troppo diversi; forse non era così che sarebbe dovuta andare, si erano detti, e qualunque cosa avessero condiviso si era seccata con la rispettiva decisione che non avessero più niente da recuperare. Dopotutto, la loro non era stata che una storia come tante altre e il tempo aveva fatto il suo corso, portandoli agli antipodi della società magica.
«Minerva» disse Rufus stupito, e più che un saluto parve proprio un'esclamazione non voluta.
«Rufus» rispose lei. «Perché sei qui?».
Lui fece un profondo sospiro e indicò vagamente un punto alle sue spalle.
«Sono qui per conto del Quartier Generale degli Auror» spiegò con rigida professionalità. «Devo parlare con Silente».
«Ricordi dov'è il suo ufficio?».
«Naturalmente».
«Bene».
Rimasero in silenzio diversi secondi, senza che nessuno dei due si decidesse ad aggiungere altro. Era assurdo, pensò Minerva, che l'indifferenza generata dal passare dei giorni potesse svanire così rapidamente. Ritrovarselo davanti l'aveva scossa fin dentro le viscere; e dire che mai avrebbe pensato di poter provare sentimenti tanto caotici nel rivederlo. Non c'era amore, non c'era affetto, non c'era nulla di quello che c'era stato in passato: c'era solo turbamento e imbarazzo e lei, sempre così ostinata ad avere il controllo su tutto, iniziava a innervosirsi.
«Devo andare, ora» la liquidò sbrigativamente Rufus, riprendendo nuovamente i proprio passi. «Ho molte cose di cui discutere con Silente e il tempo non è dalla mia parte. Arrivederci, Minerva».
La superò senza aggiungere altro, ma per una volta, per la prima volta, uno dei due si decise a fermare l'altro. Chissà, ripensò nuovamente Minerva, forse il motivo per cui nessuno dei due si era rivelato adatto all'altra era proprio quello: non si erano fermati abbastanza, non si erano fermati quando avrebbero dovuto fermarsi e si erano intromessi quando avrebbero dovuto lasciar andare.
«Rufus» lo richiamò Minerva.
Lui si bloccò e rimase immobile con le spalle rivolte verso di lei.
«È per Riddle? È per quella storia dei Mangiamorte?».
«Sì» rispose dopo qualche istante.
«È vero quello che si vocifera? È vero quello che sta facendo?».
Rufus si voltò per rivolgerle un'occhiata preoccupata.
«Sì».
Minerva fece una smorfia addolorata e serrò per un attimo gli occhi. Lei e Tom Riddle, ormai noto con la timorosa nomea di Lord Voldemort, avevano frequentato Hogwarts nello stesso periodo. Non erano mai stati nemmeno conoscenti – né qualcuno dei due avrebbe voluto esserlo – ma il semplice fatto che conoscesse quel folle che andava incitando lo sterminio dei Babbani e dei Nati Babbani era maggiormente frustrante. C'era un'atmosfera cupa e densa di aspettative e ansie, in quei tempi, e Minerva non era del tutto certa che sarebbe svanita in fretta.
«Devo andare» la informò Rufus. «Stammi bene».
«Fa' attenzione».
Per la seconda volta, lui si bloccò di colpo. Senza muovere un muscolo, rimase piantato nel mezzo del corridoio, con le mani insaccate nelle tasche della divisa da Auror e il capo chino sul pavimento.
«Fa' attenzione, Rufus» ribadì Minerva, senza avere la più pallida idea del motivo di quell'ondata di apprensione. «Qualunque cosa succeda... fa' attenzione».
Lui si voltò quel poco che bastava per rivolgerle un flebile sorriso amaro.
Era fatta così.





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Capitolo 7
*** Uno dei due - Evan Rosier/Hestia Jones ***


Non si sa se Hestia Jones fosse o meno un membro del primo Ordine della Fenice. Nella fotografia che Moody mostra a Harry nel quinto libro lei non compare, ma questo non significa necessariamente che non ci fosse. Voglio dire, ehi, in quella foto compare pure Aberforth e ci viene espressamente detto che lui non faceva parte dell'Ordine. Magari Hestia era a fare la spesa, quando l'hanno scattata; magari non c'era e basta, ma io ho dovuto arrangiarmi.
In questa fan fiction, quindi, Hestia è nata attorno agli anni Cinquanta ed è un membro del primo Ordine della Fenice. E ora questa coppia assurda mi piace da impazzire. Sono uscita di senno.


Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo
*

Uno dei due
Evan Rosier/Hestia Jones



Ai tempi di Hogwarts era tutto differente; lo erano loro, lo era il mondo fuori e lo era qualunque cosa li agitasse dentro. Hestia non avrebbe mai creduto possibile che la propria vita si potesse rivoltare su stessa, eppure l'aveva fatto, aveva schiacciato ogni serenità che ancora si avvinghiava all'eco sereno dei giorni passati ed ora era lì, immobile e spenta, seduta su un sofà tarmato a contare i grani di polvere che ricoprivano il tavolo.
Non si era nemmeno lavata le mani.

*

Della battaglia che aveva appena distrutto mezza Montford non restavano che un gran cumulo di macerie e un paio di Obliviatori del Ministero che ancora inseguivano qualche Babbano che gridava di aver visto “gente folle che faceva magia, magia vera”. Il polverone sollevato dall'esplosione della piccola locanda si era ormai diramato, gli Auror si erano già Smaterializzati e i membri dell'Ordine erano svaniti ben prima del loro arrivo. Solo Hestia aveva deciso di rimanere e si era mischiata all'orda di Babbani che si era accalcata nella via. Piangevano e urlano, si stringevano l'uno con l'altro, e poi urlavano di nuovo. Diverse pattuglie di polizia erano già piombate sul luogo del disastro; le luci dei lampeggianti delle automobili si allungavano e si ritraevano sulla facciata distrutta, creando delle ombre a forma di artiglio che celavano appena gli interni scoperti. Hestia riuscì a riconoscere ciò che restava di una stanza da letto.
«Una bomba! Una bomba!» strillava un'anziana signora con i bigodini scomposti e la camicia da notte a fiori. «È stata una bomba! Una bomba!».
No, non lo è stata” pensò d'istinto Hestia, affondando le mani nelle tasche dei jeans Babbani.
Poi lo vide.
Sembrava dannatamente fuori posto fra la folla esagitata, dritto e impettito accanto a un lampione al quale era esplosa la testa, come se l'atmosfera tragica non lo potesse attaccare nemmeno un poco – come se lui non c'entrasse niente. Hestia non sapeva se lui l'avesse a sua volta vista, né si soffermò a pensare che potesse annidarsi un'imboscata dietro al fatto che lui, un Mangiarmorte, fosse ancora lì, in mezzo al disastro che aveva generato, piuttosto che essere fuggito al sopraggiungere degli Auror.
Voleva agire e basta, doveva agire e basta.
Senza attendere oltre, si fece largo a forza attraverso la gente, e aveva appena estratto di soppiatto la bacchetta quando lui si era voltato di colpo verso la sua direzione. Hestia si irrigidì e l'imprudente audacia che l'aveva trascinata fino alle sue spalle scemò di colpo, lasciando spazio ad un'orribile sensazione di pericolo. D'istinto, le sue piccole dita si strinsero attorno all'impugnatura di salice.
Non vedeva Evan dacché lui si era unito ai Mangiamorte e si era fatto marchiare l'avambraccio; si ritrovo scioccamente a pensare che il suo viso non era cambiato poi così tanto. Gli ondulati capelli chiari gli ricadevano un poco più lunghi sulle spalle e il suo colorito era più pallido e cereo, ma i suoi occhi azzurri la scrutavano ancora con lo stesso annoiato distacco di sempre, come se non riuscisse a visualizzarla davvero.
«Giù la bacchetta, Hestia» la ammonì con voce roca e lei trasalì nel rendersi conto di quanto quella, al contrario, fosse profondamente mutata. «Siamo circondati da Babbani».
«È nascosta dal cappotto» gli rispose, cercando di apparire ben più sicura di quanto non fosse. «Potrei ammazzarti ora e tu cadresti a terra senza che nessuno di loro se ne accorga».
Evan soffiò divertito e distolse lo sguardo da lei per scrutare un punto indistinto oltre le teste delle persone davanti a lui.
«Non è nel tuo stile».
«Cosa ne sai, tu?».
Lui sorrise sotto i baffi.
«Lo so».
Hestia si mosse il più velocemente possibile e puntò la bacchetta alla sua schiena prima che lui potesse muovere un solo dito. Per un attimo ebbe l'impressione che l'idea di scansarsi non lo avesse nemmeno sfiorato, ma si costrinse a pensare che era lei, quella che lo teneva sotto scacco, ora. Era lei, era la sua bacchetta, quella ben piantata contro di lui – lei che avrebbe potuto ucciderlo in qualunque momento.
«Non pensi mai che avremmo potuto essere felici, noi due?» le domandò d'un tratto, girando appena la testa per rivolgerle un'occhiata in tralice. «Ci pensi mai, Hestia?».
Lei chiuse gli occhi e affondò ancora di più la bacchetta nella sua schiena.
«No».
«Bugiarda» la accusò con tono cordiale. «So che ci pensi».
«Vuoi sapere a cosa penso? Penso che hai fatto la tua scelta, e che se non dovessi ammazzarti oggi, farò qualunque cosa per ammazzarti la prossima volta».
«Lo spero» ribatté. «Perché io cercherò di fare lo stesso e francamente mi dispiacerebbe non vederti fare nemmeno un tentativo».
«Sarò io ad ammazzarti, Evan. Tienilo a mente. Io ammazzerò te».
Contro ogni logica, Evan scoppiò in una leggera risata.
«Siamo proprio nati nelle vite sbagliate, io e te... del tutto sbagliate».
«Avresti potuto cambiare».
«Io sono nel giusto esattamente quanto tu credi di esserlo. E l'unica cosa giusta è che nessuno di noi conosce un motivo valido per il quale cambiare, a conti fatti».
«Non c'è niente di giusto in quello che fai» gli ringhiò. «Non c'è mai stato qualcosa di giusto in nessuna cosa tu abbia mai fatto».
«Io ero davvero innamorato di te, Hestia» soffiò debole. «Ma non c'era nulla che né io né te potessimo fare. Te l'ho detto. Siamo nati nelle vite sbagliate».
Si voltò finalmente verso di lei, incurante della bacchetta premuta sull'addome e sollevò la mano destra per toccarle il viso. Hestia scansò rapida il suo gesto premuroso e gli scoccò un'occhiata glaciale.
«Vattene» sibilò con rabbia.
Evan sbuffò divertito una seconda volta e annuì con aria ironica.
«Solo un ultimo consiglio: la prossima volta in cui proverai a uccidermi, mettici un po' più di volontà o sarò io ad ammazzare te».

*

Hestia ne era più che mai certa: aveva esitato. Aveva visto con immane chiarezza l'incertezza con cui aveva abbassato di qualche centimetro la bacchetta, e dire che lei era , disarmata davanti a lui e senza alcuna via di fuga; ma Evan si era bloccato per un istante e quell'istante, Merlino, gli era stato fatale.
Il volto di Alastor Moody avrebbe portato i segni del duello con Evan Rosier per il resto della sua vita, ma non era lui, quello caduto. Non era lui, quello che aveva esitato a un passo dalla sopravvivenza.
Mettici un po' più di volontà o sarò io ad ammazzare te”.
Hestia aveva ancora il suo sangue sulle mani.



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Capitolo 8
*** Senza rispondere - Peter Minus/Bertha Jorkins ***


Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo
*

Senza rispondere
Peter Minus/ Bertha Jorkins


Per Bertha Jorkins non era stato facile convincere i mille abitanti del piccolo villaggio di Liqenas di non essere altro che una reporter per una modesta testata giornalistica britannica.
Mi occupo di viaggi” aveva spiegato al titolare dell'unica locanda della zona. “La rivista per cui lavoro è molto interessata al Lago di Prespa”. Non era certa che avesse capito: gli abitanti di Liquenas in grado di masticare qualche parola d'inglese erano davvero pochi e lui aveva continuato a fissarla con espressione vuota per diversi istanti, prima di annuire sbrigativo e lanciarle la chiave della stanza numero tredici. Che avesse compreso o meno, tuttavia, non era certo un problema di Bertha; era alla ricerca di Alkan Masereka, ex-Battitore della nazionale albanese di Quidditch che aveva misteriosamente rifiutato l'ingaggio offertogli dalle Vespe di Wimbourne per poi svanire nel nulla. L'Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici era intenzionato a scoprire cosa gli fosse accaduto ed eccola lì, Bertha Jorkins sperduta nei Balcani e senza la più pallida idea di dove poter cercare Masereka. Credeva che la madre fosse originaria di Liquenas, ma era probabile avesse confuso il nome del villaggio, perché a Liquenas nessuno sembrava aver mai udito il nome di Masereka. Sembravano non essere mai nemmeno esistiti, dei Masereka.
E lei, allora, dove diavolo era finita?

*

Peter era rimasto immobile davanti a lei e l'unica cosa alla quale era stato in grado di pensare era che la sua fronte arrivava a malapena al suo seno. Si era sentito umiliato, spaventato e profondamente arrabbiato tanto con Sirius quanto con James, fermi a sghignazzare del suo imbarazzo; si era sentito adirato pure un poco con Remus, che avrebbe avuto la forza di impedirglielo e per l'ennesima volta non aveva mosso un dito.
Bertha aveva due anni in più di lui, era alta almeno il doppio e parlava quattro volte tanto, ma quando Sirius aveva avuto la pessima idea di spingerlo addosso a lei per chiederle se avesse desiderato portarselo ad Hogsmeade quel fine settimana, lei aveva accettato con aria divertita.
Peter aveva sgranato gli occhi. Nessuna ragazza aveva mai voluto andare a Hogsmeade con lui: lui non era affascinante quanto Sirius, né simpatico quanto James o gentile e intelligente quanto Remus. Non era niente di tutto ciò, sapeva che non lo sarebbe mai stato – lo sapevano tutti – ma Bertha aveva ugualmente accettato.
Aveva i capelli biondi e scarmigliati, il volto lungo e la bocca molto larga, ma a modo suo era comunque abbastanza carina. Peter non riusciva a decidere se invitarla a Hogsmeade fosse stata un'idea molto buona o un'idea molto cattiva.


*

Nonostante fossero trascorsi più di quindici anni da quell'ultima occasione in cui avevano parlato, a Peter erano bastati pochi istanti per riconoscerla. I capelli biondicci erano acconciati in modo goffo e aveva scelto un improbabile completo da Babbana color aragosta per mimetizzarsi fra gli abitanti di Liquenas. Peter la osservò cinguettare con un macellaio che probabilmente non stava capendo che un quarto delle sue parole e pensò scioccamente che dovesse essere piuttosto fiera della vita che stava conducendo. Non aveva la più pallida idea del motivo che avesse portato Bertha in quel villaggio sperduto dell'Albania orientale, né come una tale coincidenza fosse possibile, ma si sentì improvvisamente teso e spaventato.
Cosa gli sarebbe potuto accadere se avesse dovuto scoprirlo? Sarebbe stata in grado di riconoscerlo? Dopotutto, tredici anni trascorsi dietro le fattezze di un roditore avevano lasciato un segno indelebile sul suo viso. Era scialbo, era svuotato, era vecchio; e pure lei, sotto il vestito elegante e il trucco impiastricciato, era cambiata.
Rifletté a lungo sulle possibilità che gli rimanevano, mordicchiandosi nervoso le unghie sporche. Poi chiuse gli occhi, si concentrò e si trasformò in un piccolo topo dall'aspetto malaticcio.
C'era solo una cosa che poteva fare.

*

«Al Ministero dicono che Ludo Bagman sia un Mangiamorte» cinguettò con aria allegra Bertha, controllando per l'ennesima volta l'infusione del tè verde di Peter. «Non ti sembra assurdo? Per me lo è. Voglio dire, conosco Ludo Bagman da secoli e proprio non ce lo vedo ad andare in giro ad ammazzare i poveri Babbani. Ludo Bagman, hai presente? Il Battitore».
Peter la guardava con le labbra appena dischiuse e l'espressione vacua e distante; eppure era attento ad ogni sua parola, assaporava il trillo acuto della sua voce, godeva di ogni suo gesto nervoso. Talvolta, i suoi modi lo stordivano al punto tale da farlo fuggire – o da fargli picchiare più e più volte la testa contro lo spigolo del tavolo – ma qualcosa in lui finiva sempre col suggerirgli di restare con lei e annuire semplicemente ai suoi esasperanti monologhi.
«Peter, mi stai ascoltando?».
«Certo... il Battitore, Ludo Bagman».
Bertha storse le labbra, si sedette di fronte a lui e incrociò le dita delle mani con aria profondamente concentrata. Sotto il suo sguardo indagatore, Peter si sentì improvvisamente molto più svestito di quanto già non fosse.
«Questa storia dell'Ordine della Fenice ti sta facendo impazzire, sai?» decretò con sicurezza lei dopo qualche istante di riflessione. «Dico davvero, Peter, ti sta proprio facendo impazzire. Guardati: tremi, ti agiti, stai sempre zitto... a volte ho l'impressione che tu non mi stia nemmeno a sentire».
Peter deglutì stentatamente.
«Io... io sono sempre stato piuttosto zitto» buttò lì con una mezza risatina impacciata.
Lei lo liquidò con un cenno sbrigativo della mano.
«Oh, andiamo, Peter, sai perfettamente di cosa sto parlando. Sai cosa si vocifera sul conto di Silente? Dicono non sia normale che si ostini ad opporsi al Ministero, che stia macchiando qualcosa di grosso al sicuro fra le mura di Hogwarts...».
«Sono sciocchezze» borbottò Peter. «Silente non... non approva i nuovi sistemi del Ministero della Magia. Dice che non possiamo combattere Tu-Sai-Chi e i suoi Mangiamorte con le loro stesse Maledizioni. Dice che dobbiamo essere migliori».
Bertha lo scrutò per qualche istante ancora, poi si alzò con un verso sarcastico e tornò a controllare la teiera fumante.
«Pensa ciò che vuoi, ma di certo non riuscirai a cambiare la mia opinione».
Confuso, Peter scosse il capo.
«Non era mia intenzione... tu puoi pensare a ciò che vuoi».
«È quello che faccio».
«Certo, io intendevo solo dire che..» azzardò Peter. Si interruppe di colpo, si massaggiò appena le tempie e infine alzò entrambe le mani in segno di resa. «Per amor di Morgana, possiamo parlare d'altro?».
Bertha si voltò e gli rivolse un lieve sorriso. Dopo avergli appoggiato il vassoio per il tè davanti al naso, si slacciò il grembiule, girò attorno al tavolo e si fermò a pochi centimetri da lui, sorreggendosi al bordo del tavolo. Gli passò affettuosamente una mano fra i capelli per poi accarezzargli appena la guancia rotonda rasata di fresco.
«Mi piace tanto quando mi dai ragione... anche se lo fai senza rispondermi».

*

Se si possiede la capacità di trasformarsi in un topo, introdursi di soppiatto all'interno della stanza di una locanda di second'ordine è un gioco da ragazzi. Seduto su una sedia sbilenca, Peter continuava a rigirarsi la bacchetta fra le mani senza osare distogliere lo sguardo dalla porta. Lei sarebbe arrivata a momenti e lui avrebbe dovuto agire con estrema rapidità.
Socchiuse gli occhi ed ispirò profondamente, mentre il suo udito avvertiva l'eco delle scale di legno che scricchiolavano al di là della parete.
Era arrivata.
Si alzò di scatto al rumore della chiave infilata nella toppa.
Doveva essere rapido.
La porta si aprì e Bertha entrò nella stanza, rivolgendogli inconsapevolmente le spalle.
Era stato fortunato.
«Incarceramus!».
Dalla punta della sua bacchetta scaturirono grosse funi che si avvilupparono attorno ai polsi e alla caviglie di Bertha; la strega cacciò uno strillo acuto e franò sul pavimento, sollevando una leggera nuvola di polvere. Peter s'affrettò a chiudere la porta e per un attimo rimase ad osservare inorridito il risultato dell'incantesimo che aveva evocato.
«Chi c'è!?» gridò Bertha, mentre si dimenava su se stessa. «Chi c'è!?».
«Non muoverti» disse Peter, stupendosi di quanto suonasse roca e distante la propria voce. «Se ti muovi, le corde si stringeranno di più».
«Chi c'è?» piagnucolò ancora. «Chi c'è lì?».
Mi piace tanto quando mi dai ragione.
«Lumos» mormorò Peter.
Bertha era riversa a terra, le braccia serrate attorno al torso e le gambe strette l'una contro l'altra. Un ciuffo di capelli chiari le era scivolato davanti al volto esangue. Parve paralizzarsi quando fu in grado di alzare lo sguardo verso il proprio aggressore. Lo studiò attentamente con occhi stravolti, e Peter quasi credette di poter seguire il filo logico che l'avrebbe portata a riconoscerlo. Lo stava scrutando con troppa attenzione – era questione di minuti, secondi.
«Peter?».
Peter non trovò il coraggio di risponderle.

*

«Mio Signore...» balbettò cauto Peter, spingendo Bertha all'interno della fatiscente cascina e piantando con forza la bacchetta nella sua schiena. «Mio Signore, ho trovato... ho trovato Bertha Jorkins. Lavora al Ministero della Magia».
«Bertha Jorkins?» si levò un sibilo sinistro nella penombra. «Oh, quale immenso piacere. Non abbiamo mai molti ospiti, qui».
L'istinto la spinse a cercare di dimenarsi dalla stretta di Peter, ma lui fu più svelto e la spinse di nuovo sul pavimento. Atterrò con un grido e rimase con la guancia schiacciata a terra e il fiato corto; sentiva le viscere stringersi, sentiva di non aver mai provato un terrore tanto feroce. Aveva la sensazione che sarebbe morta da lì a poco, e la consapevolezza non faceva che alimentare il pensiero di non voler morire – non in quel momento, non così.
«Peter...» supplicò ancora. «Peter, sei tu?».
Peter non trovò il coraggio di risponderle nemmeno quando dovette disfarsi del suo cadavere.
Mi piace tanto quando mi dai ragione, anche se lo fai senza rispondermi.

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Capitolo 9
*** La bambola imitatrice - Remus/Marlene ***


Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo
*

La bambola imitatrice
Remus Lupin/Marlene McKinnon



«Bonny-Lee era entusiasta della bambola che le hai regalato» sussurrò con un sorriso gentile Marlene, senza distogliere lo sguardo dal lato della scuola di Kingsford che si affacciava su Triumph Road. «Soprattutto quando ha scoperto che poteva ripetere qualunque sua boccaccia».
Remus sollevò il viso dalle pagine del Daily Mirror. Non lo stava nemmeno leggendo, si stava limitando a scorrere vagamente da una notizia all'altra, domandandosi per quale motivo non gli fosse venuto in mente prima di incantare la Gazzetta del Profeta in modo che solo lui avesse potuto riconoscerla. Avrebbe potuto sapere qualcosa sul provvedimento che il Ministro Bagnold e Crouch volevano approvare sull'uso delle Maledizioni Senza Perdono, e agli occhi di qualunque Babbano di ceto medio sarebbe stato semplicemente un ventenne con lisi abiti di seconda mano e la faccia stravolta di un tossico intento a leggere un giornale da comunisti. Invece no, il pensiero non lo aveva sfiorato fin quando non si era seduto sulla panchina di ferro della fermata dell'autobus di Triumph Road.
«Ne sono felice» le rispose appena.
«Non avresti dovuto disturbarti».
«L'ho fatto con piacere».
Il sorriso di Marlene si fece un poco più largo e un po' più triste.
«Lo so, ma non devi sentirti in obbligo di fare regali a mia sorella».
«Era il suo compleanno».
«Non importa».
Non era per te” avrebbe voluto dirle Remus. “Era soltanto un regalo per Bonny-Lee, perché so cosa significa avere sette anni e dover restare nascosti in casa. Tu non c'entri, era solo per Bonny-Lee”. Invece, rimase zitto e distolse lo sguardo, ripetendosi che quello non era assolutamente il momento migliore per causare un litigio con Marlene. Non dubitava che ne avrebbero riparlato presto – con lei se ne riparlava sempre presto – ma quella non era né l'ora né la circostanza adatta.
«Eccoli» sviò di colpo Remus, attirando l'attenzione di Marlene su un'ordinata fila di ragazzini che era appena uscita da una porta secondaria della Kingsford.
Assottigliò gli occhi alla ricerca di una testolina bionda piena di riccioli. Nonostante la distanza, individuare la piccola Amy Collins fu piuttosto facile: svettava di almeno una spanna dal compagno di classe più alto.
«Mi chiedo come si possa far male ad una bambina».
«È una Nata Babbana che non sa ancora di essere una strega» rispose apatico lui. «Niente potrebbe attrarre di più i Mangiamorte».
«Se solo potessimo beccare la spia all'Ufficio delle Relazioni con i Babbani...».
Remus fece uno sbuffo divertito.
«Se solo...».

*

Alla fine nessuno di loro aveva potuto far qualcosa per salvare Amy Collins. Credevano di essere preparati, credevano di aver studiato ogni possibilità, credevano di aver già anticipato qualunque imprevisto fosse potuto succedere, e forse la causa della sua morte era da imputare a tutto quel credere. Forse, continuava a ripetersi Remus seduto nel sua piccola cucina, avevano di nuovo sopravvalutato ciò che potevano e non potevano fare, e gli sarebbe importato molto meno se solo a pagarne lo scotto non fosse stata una bambina di dieci anni.
La campanella d'ottone appesa nell'ingresso iniziò a trillare improvvisamente. Remus scattò in piedi, afferrò la bacchetta e corse verso la porta principale, appiattendosi contro il muro e pronto a Materializzarsi al minimo segnale di pericolo. Avvertiva appena l'eco dei passi di qualcuno che risaliva le scale esterne e ringraziò la buon'anima di sua madre di avergli lasciato quella campanella incantata per riconoscere gli intrusi sui gradini di casa.
Chiunque fosse dall'altra parte della porta bussò per tre volte, rimase immobile, ribussò altre due volte, restò di nuovo immobile e poi bussò ancora un'ultima volta. Remus sentì i muscoli rilassarli un poco: era uno dei segnali adottati dai membri dell'Ordine, uno dei tanti che significava semplicemente “non è detto che sia un Mangiamorte”.
«Chi sei?».
«Sono Marlene McKinnon. Mia sorella Bonny-Lee ha compiuto sette anni tre giorni fa e tu le hai regalato una bambola con i capelli verdi che imita le sue smorfie. Avrei preferito non l'avessi fatto e tu sai perché».
«Vuoi entrare?» le chiese lentamente Remus, serrando ancora di più la bacchetta e pregando che rispondesse “no”.
Era la loro seconda parola d'ordine, il loro ultimo tentativo di salvarsi a gli uni con gli altri: “Vuoi entrare” intendeva “Ti hanno preso e sono lì con te? Devo scappare?”.
«No» rispose in fretta Marlene. «No, tranquillo, non voglio entrare».
Con un sospiro di sollievo, Remus agitò la bacchetta e liberò la porta dagli incantesimi di protezione.
«Ti farei accomodare in soggiorno, se solo ne possedessi uno».

*

«È tardi, dovresti stare con la tua famiglia» osservò Remus, cercando di non infilare un accento critico nel proprio tono di voce. «Che ci fai qui?».
«Casa mia è protetta, Remus».
Remus prese due bicchieri dalla credenza e una bottiglia piena di liquido ambrato che sua madre doveva aver travasato chissà quanti anni prima.
«Whisky Incendiario?» chiese curiosa lei.
«E chi può permetterselo? Credo sia del Kilbeggan».
«Cosa?».
Remus fece un sorriso ironico. Nonostante tutti gli anni trascorsi in compagnia di maghi e streghe che ben poco avevano avuto a che fare con il mondo dei Babbani, capitava ancora che qualche domanda gli suonasse ancora assurda. Cos'era il Kilbeggan, gli aveva chiesto... a lui, figlio di una Babbana irlandese e momentaneamente residente nella sua vecchia casa di Limerick.
«Whisky. Semplice, economico e per nulla speciale whisky».
Marlene sorrise.
«Andrà benissimo».

*

«Che ci fai qui?» ripeté con maggior insistenza Remus. «È davvero molto tardi e di norma la gente non si prende il disturbo di visitare un posto come Limerick per un goccio di Kilbeggan».
Marlene abbassò il capo. Un ciuffo sfuggito dalla lunga treccia scura le ricadde davanti al viso affilato.
«Non facevo altro che ripensare a quella bambina e tutto d'un tratto ho sentito il bisogno di andarmene via. Sei il primo che mi è venuto in mente... è come se fossi sempre al centro dei miei pensieri».
Remus la guardò in tralice e la vide sogghignare appena. Marlene era la perfetta personificazione del detto “lanciare il sasso e nascondere la mano”: provocava con rapidità sconcertante, incurante di quali ferite sarebbe andata a punzecchiare, e poi rimaneva muta, a volte arrossendo e a volte sorridendo sotto i baffi, come se non avesse mai nemmeno parlato. Eppure parlava eccome, Marlene, e sapeva esattamente quando e come parlare. Aveva una faccia pulita e genuina, con gli occhi grandi e il sorriso aperto; una di quelle facce che difficilmente portano la gente a pensar male, perché a nessuno sarebbe mai venuto in mente che una donna dall'aria tanto mite potesse essere tanto fastidiosa.
«Marlene...» la rimproverò un poco esasperato Remus. «Ti prego...».
«Era solo una battuta» ribatté lei a mo' di scusa, arricciando ancora le labbra in un sorriso tutt'altro che sereno. «Ho bisogno di distrarmi, Remus. Ne abbiamo bisogno entrambi».
Remus appoggiò il braccio allo schienale tarmato del piccolo sofà e fece un sospiro carico di pesante stanchezza. Si passò una mano sul volto segnato e si bloccò con i polpastrelli sulle palpebre, massaggiandole con piccolissimi movimenti rotatori.
«Era solo una bambina...» sentì sussurrare Marlene.
«Marlene» la riprese nuovamente lui, abbassando la mano per guardarla in viso.
Sul momento, vederla stringere con forza il bicchiere di whisky con gli occhi gonfi di lacrime lo lasciò spiazzato. Credeva di aver imparato ad affrontare i piccoli cedimenti nei quali tutti loro scivolavano di tanto in tanto, ma ogni volta capiva sempre un po' di più che la natura umana non poteva accettare la guerra come un'abitudine. Perlomeno, la sua natura non ne era in grado. Silenziosa come se avesse il timore di disturbare, Marlene piangeva seduta accanto a lui e per l'ennesima volta Remus si rese conto che non possedevano altro che frasi di conforto prive di senso.
Si avvicinò a lei e intrecciò le proprie dita con le sue. Marlene serrò con decisione gli occhi con un moto di dolore e poi si lasciò scivolare sulla sua spalle, sprofondando il viso nel tessuto sdrucito del suo maglione.
Nessuno parlò fino all'alba.

*

Marlene aveva quell'aria da ragazzina giocosa e ingenua di cui ci si sarebbe potuti innamorare molto facilmente e Remus non credeva assolutamente di poterne essere immune. Rideva con slancio e senza freni, e sembrava proprio voler vivere la propria vita con il brio di una giornata di primavera. Da quando tutto quel disastro infernale era iniziato, tuttavia, la sua sensibilità la faceva rabbuiare più spesso, ed era allora che tutta la sua insicura fragilità riemergeva sul suo viso. Remus l'aveva vista piegarsi come un filo di grano innumerevoli volte e si era sempre premurato di esserle a fianco, di essere lì, di essere pronto a ripetere che sarebbe andato tutto bene, che ogni sarebbe finita e che dovevano solo attendere l'opportunità decisiva.
Non sempre era stato convincente; non era facile esserlo quando lui per primo avrebbe avuto bisogno di un briciolo in più di speranza. Marlene lo sapeva bene e nonostante tutto lo ascoltava con tutta con se stessa, e poi tornava a sorridere guardando le nuvole primaverili.
Remus si era chiesto parecchie volte se non lo stesse facendo per lui.
«Lupin» lo chiamò il ringhio soffocato di Moody. «Lupin, è meglio che ce ne andiamo».
Remus annuì con espressione assente, senza distogliere lo sguardo da ciò che restava della casa dei McKinnon: calcinacci e legni rotti, pezzi di mobilia, qualche arredo irriconoscibile e stracci colorati incastrati fra le pietre. Quasi del tutto nascosta sotto una trave, Remus riconobbe una piccola testolina verde. Si avvicinò con estenuante lentezza senza nemmeno rendersene conto, si inginocchiò e raccolse la bambola incantata che aveva regalato due settimane prima alla piccola Bonny-Lee per il suo settimo compleanno. Marlene aveva detto che ne era stata entusiasta, perché non aveva mai posseduto una bambola in grado di ripetere tutte le sue boccacce e i suoi sberleffi.
Remus si sentì invadere dal feroce bisogno di gridare, ma qualcosa dentro di sé continuava a frenarlo, a impedirgli di fuggire. Stretta fra le sue mani tremanti, la bambola di Bonny-Lee continuava a piangere.

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Capitolo 10
*** Scacco matto - Remus/Lily ***


Questa storia stava marcendo nel mio hard-disk dall'anno scorso, temo. Temo anche fosse un residuo della fantastica prima edizione di I ♥ Shipping di CoS e ora che l'ho ritrovata mi dispiace un sacco non averla terminata per tempo. È sempre colpa della vita sociale da quest'altra parte dello schermo. Mi pareva fosse una sfida tristemente non portata a termine, ma non ricordo né di chi né quali fossero gli obblighi, mi dispiace tantissimo.
Tant'è che questo è ciò che brucava nella zona abbandonata dei miei documenti, mi sono sentita in colpa ed eccola qui. Con questa salgo a quota -140 altre ship da coprire. Ce la posso fare... eh, beh.


Racconti di sabbia
Fan fiction perdute nel tempo
*

Scacco matto
Remus Lupin/Lily Evans



L'eco sordo dei passi di Remus pareva risuonare all'interno di quelle pareti cupe come una marcia funebre. Camminava lentamente con quel suo incedere calmo un po' tutto suo e le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, scrutando curiosamente le centinaia di sfere luminescenti riposte sugli alti scaffali. Ne stava cercando una, ne era certo, ma in quel momento non riusciva a ricordare quale.
Non ricordava nemmeno quando e perché fosse entrato nell'Ufficio Misteri.
Un'altra volta.
«Remus?».
Rimase impietrito. Sebbene fossero anni – secoli – che non sentiva il suono di quella voce, l'avrebbe riconosciuta fra centinaia di altre donne: tuttavia, non era possibile. Lei non poteva essere lì, alle sue spalle, all'interno dell'Ufficio Misteri... lei sarebbe dovuta essere a Godric's Hollow, sotto tre metri di terra.
Si voltò con profonda cautela e trattenne il fiato. Lily Evans era proprio lì, davanti a lui, con i capelli ramati raccolti in una treccia e la spilla da Prefetto bene in vista sulla sua divisa di Hogwarts. Quando lo vide, i suoi begli occhi verdi parvero incupirsi.
«Mi dispiace, Remus» gli disse con un sorriso mesto.
Inizialmente, Remus non riuscì a capire per quale motivo Lily dovesse dispiacersi per lui. Non capiva nemmeno perché lei fosse lì, né come fosse possibile che lui si trovasse all'interno di quel dannato Ufficio, quando pochi istanti prima era a Hogwarts a combattere.
La rivelazione lo colpì come una doccia gelida, mentre una miriade di immagini fluttuavano vorticose davanti ai suoi occhi. Hogwarts, i Mangiamorte, la Torre Nord, le Acromantule, il duello con Dolohov... Dolohov.
«Buon Godric...» mormorò fra sé. «Sono morto».
Lily annuì una volta soltanto. Stava per aggiungere qualcosa, quando Remus fu travolto dall'agghiacciante consapevolezza che non sarebbe tornato a casa, quella notte. Portò le mani al volto e premette con forza le palpebre, tentando di ricacciare indietro qualunque mostro stesse risalendo la sua gola. Tonks lo aveva supplicato di tornare con il loro bambino stretto fra le braccia. Aveva appoggiato la fronte al suo petto, irrigidita in un pianto silenzioso e fiero e lui le aveva giurato che sarebbe tornato da lei, in un modo o nell'altro e a qualunque costo.
Ed ora era morto.
Fu in quel momento che lo sguardo gli ricadde casualmente sulle proprie mani. Le sollevò davanti al volto, studiandole con aria turbata. Fissò entrambi i dorsi, i palmi e ogni singolo dito, senza riuscire a credere che quelle mani lisce e bianche appartenessero proprio a lui. Ne portò al volto una e si sfiorò titubante la mandibola: non aveva un solo filo di barba. Si toccò il naso, la bocca, la fronte e più cercava di visualizzare nella mente il proprio aspetto, più si rendeva conto di non essere più lui.
«Sei il Prefetto di Hogwarts, Remus» le spiegò Lily con un sorriso, camminando verso di lui e stringendogli con salda gentilezza la mano. «Di nuovo».
«No, Lily» ribadì con decisione lui. «Io non posso morire».
«Lo so. Lo abbiamo creduto tutti» rispose lei. «Andiamo, Remus. Ci stanno aspettando».
Lui non si mosse di un centimetro.
«Perché tu?» domandò a bruciapelo. «Perché sei venuta proprio tu, perché io ho ancora quindici anni? Perché non ci sono James e Sirius, qui?».
Lily parve ferita dalle sue domande. Assottigliò minacciosamente gli occhi e lo fissò con un moto di improvviso astio.
«Sai perfettamente il perché, Remus. D'altronde, sei sempre stato tu, il Malandrino intelligente».
Remus fece una smorfia nauseata.
«Sono passati anni, ormai, Lily...».
«Non qui. Non in questo posto. Qui il tempo non esiste più».
«Cosa ti aspetti che faccia, quindi? Devo prenderti per mano e trotterellarti dietro come se fossimo davvero due adolescenti? Devo chiederti di venire a Hogsmeade con me e fare a botte con Prongs? Devo--».
«Devi chiudere la partita. Con me, ora».
Lily alzò l'indice e indicò un punto alle spalle di Remus. Lui si girò e sul suo viso comparve un'espressione imperscrutabile. Davanti ai suoi occhi, in chissà quale momento, erano comparse due belle poltrone rosse che appartenevano alla sala comune di Grifondoro: Remus non avrebbe potuto non riconoscerle. Fra loro, c'era un piccolo treppiedi di mogano e una scacchiera dall'aspetto malandato.
Lily si avvicinò a passo sicuro e si lasciò sprofondare su una delle due poltrone.
«Ricordi, Remus? Era maggio e quella sera pioveva».
Remus si avvicinò senza nemmeno rendersene conto e prese posto davanti a lei. Da qualche parte, in lontananza, gli pareva di sentire il tintinnante rumore della pioggia che sbatteva contro i finestroni della sala grande. Eppure, erano ancora lì, nell'Ufficio Misteri, circondati da profezie e polvere vecchie di secoli.
«Non finimmo mai questa partita» continuò Lily, fissando pensierosa i pezzi della scacchiera. «Ricordi? Sirius fece esplodere una decina di Fuochi d'Artificio Freddi davanti alla porta del dormitorio delle ragazze».
Remus sorrise teneramente.
«Quell'idiota... sperava che Mary MacDonald sarebbe scesa in mutandine» commentò con una risatina rassegnata, scuotendo appena il capo. «Alfiere in C7».
Lily ridacchiò candidamente.
«Ci vollero ore prima di riuscire a spegnere il fuoco che aveva appiccato al cappello di Sturgis. Cavallo in E3».
«E delle mutandine di Mary MacDonald non vi fu nessuna traccia» terminò con tono nostalgico Remus. «Mi manca il tempo in cui bastavano un paio di Fuochi d'Artificio a strapparci una risata. Gli anni in cui nessuno aveva ancora realizzato quanto grande realmente fosse la minaccia di Lord Voldemort. Gli anni in cui eravamo tutti insieme, e il mondo ci sembrava tanto più piccolo di noi».
Lei lo fissò senza aggiungere una parola. Remus continuò a scrutare le caselle bianche e nere della scacchiera, nonostante avesse ormai dimenticato quale mossa avesse intenzione di fare. Grazie a Lily, la sua mente stava rivivendo i sette anni trascorsi ad Hogwarts ad una velocità disarmante; difficile dire come fosse possibile che non si perdesse un qualche racconto e che lui, dopo una vita e dopo una morte, ricordasse ancora ognuna delle fanciullesche avventure dei Malandrini. Era così perso nei propri pensieri che si accorse al pelo delle goccioline che avevano iniziato a bagnare la vernice della scacchiera.
Aggrottò confuso le sopracciglia e rivolse a Lily un'occhiata interrogativa. Lei alzò il capo al soffitto dell'Ufficio Misteri.
«Ricordi, Remus? Era maggio e quella sera pioveva».
Remus dischiuse le labbra, ma non trovò niente da dire. Appoggiò a sua volta la nuca al poggiatesta della poltrona e rimase lì, immobile, mentre la pioggerellina estiva gli bagnava il naso e gli zigomi, mentre l'acqua fresca gli entrava nella camicia e l'odore di bagnato si insinuava lentamente dentro di lui.
La pioggia gli aveva sempre ricordato la cittadina di Kinsale, dove aveva vissuto con la madre per gran parte della sua adolescenza. Quando pioveva, a Kinsale, Remus aveva sempre l'abitudine di spalancare il piccolo lucernario della sua camera. Sebbene s'affacciasse su Pearse St., il vento riempiva la piccola soffitta dove dormiva dell'aroma aspro del mare. L'olfatto sopraffino di Remus, poi, riusciva a cogliere l'odore delle brughiere e delle grandi vallate bagnate che circondavano la cittadina. In quei momenti, desiderava con tutto se stesso poter essere lontano da Pearse St. e dagli strilli dei pescatori che bevevano Guinnes al Blue Haven, sotto casa sua. La pioggia aveva il profumo della libertà, il retrogusto amaro di qualcosa che in un'altra vita avrebbe potuto afferrare e non mollare mai più.
«Perché non mi hai mai invitato a Hogsmeade?» domandò Lily con casualità. «Ti avrei detto di sì e tu lo sapevi. Pedone in D7».
«E tu sapevi che non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Non a James. Torre in A3».
Lily inclinò appena il capo e appoggiò il mento alla mano con espressione impenetrabile. Remus sollevò lo sguardo su di lei, realizzando per l'ennesima volta dopo una vita intera quanto fosse bella. Aveva la bellezza frizzante e genuina delle brughiere irlandesi, la freschezza d'animo della pioggia di Kinsale. Si chiese cosa sarebbe cambiato, se solo le avesse permesso di entrare in profondità nella sua vita, di aiutarlo ad afferrare quella libertà che da sempre gli era sfuggita. Lei parve leggergli nel pensiero – e forse fu proprio quello che fece.
«Avrei davvero voluto andare a Hogsmeade con te, Remus. Una volta, due volte, dieci volte... avrei potuto chiacchierare con te per altre mille volte, e probabilmente non mi sarei mai stancata».
«Era così che doveva andare, Lily. Regina in F6».
«È così che tu hai scelto».
«Non capisco cosa tu voglia recriminarmi. Hai amato davvero James e continuerai ad amarlo esattamente come io continuerò ad amare mia moglie».
«Mi avresti amato?».
La domanda era arrivata talmente inaspettata che Remus non seppe cosa dire per diversi minuti. Lily stava insinuando un numero così grande di ipotesi e assurdità che si ritrovò a pensare che non sapesse nemmeno lei dove aveva intenzione di concludere. Dove voleva arrivare, con quelle intricate supposizioni? E lui, da quella cotta adolescenziale che aveva messo a tacere per rispetto nei confronti di James, avrebbe saputo realmente innamorarsi di lei? Le parole gli uscirono dalla bocca prima ancora che terminasse di formulare il pensiero.
«Eccome, Lily... eccome».
Lily sorrise.
«Alfiere in C6. Scacco matto, Remus».


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