Anamnesi

di Kimmy_90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Una Storia. ***
Capitolo 2: *** 2. Stelle Cadenti ***



Capitolo 1
*** 1. Una Storia. ***






[WARNING]

Questa storia è, di fatto, un
enorme *Crossover*.


I personaggi presenti, in larga parte, sono altrui, salvo pochi originali. Citarli tutti all'inizio costituirebbe Spoiler, quindi ho preso le mie misure per evitare questo fastidioso inconveniente ed anche dare a Cesare quel che è di Cesare. I.e., vedi sotto.

Per quanto riguarda i personaggi, nello specifico, “prestati”, posso garantirvi che sono quasi tutti abbastanza “mainstream” da essere noti a chiunque legga. Sicchè, se siete interessati a questa storia, in ogni caso non dovreste aver problemi.

Per ulteriori note, vi mando alle NdA in fondo al capitolo.

Enjoy.



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DISCLAIMER

Questa è una fan fiction: molti dei personaggi coinvolti non mi appartengono, ma sono proprietà dei rispettivi autori; per una lista dettagliata (verrà via via aggiornata), cliccate qui.

Ne approfitto per ringraziare ogni singolo autore/sceneggiatore/regista/scrittore/fumettista o affine per aver scritto la sua opera ed i rispettivi editori/affini per averla portata al grande pubblico.

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Anamnesi






Schiuse gli occhi in un singulto, strabuzzandoli, l'aria ch'entrava nei suoi polmoni lacerante e dilaniante per l'impeto con cui inspirò.
Da quel movimento, così repentino, la sua gola emise un fischio rantolato, roco, un rumore che gli fece vibrare il collo – sino a poi tossire. Fu così che si accorse di poter sentire.
Della luce che investiva le sue pupille capiva poco o niente: c'era un qualcosa, vivido, forte e potente, che gli feriva gli occhi per l'intensità con cui lo colpiva – così si accorse che poteva anche provare dolore.
La sua mente, immobile, pareva muta ed arrendevole di fronte alla moltitudine di informazioni che riceveva, senza comprendere né da dove, né come tradurle.
Poi la luce sparì. Fu un attimo, come di connessione persa, in cui il flusso di dati che gli investivano il cervello si arrestò: ma fece presto a riaprire le palpebre, dopo averle sbattute di riflesso. Accadde ancora, ed ancora, senza che lui potesse comprendere cosa, come.
A stento andava definendo un quando, riconoscendo uno scorrimento, un flusso che separava eventi, definendo gli eventi stessi. Il concetto del “di nuovo” si insinuò nella sua testa, facendogli lentamente apprezzare l'esistenza del prima e del dopo. Luce, buio, luce, buio, luce, buio. Ma all'inizio – c'era dunque un inizio – era stata solo luce. Solo poi il buio.
Prima e poi: scoprì il tempo.
Ma prima ancora?
Non lo sapeva.
Lentamente venne il freddo. Si accorse di provarlo piano piano, un rumore di fondo intento ad aumentare, senza tregua, diventando sempre più fastidioso: gli si infilava dentro, in quel qualcosa, quel qualcosa che lui aveva e che gli faceva sentire l'aria, la temperatura, quel qualcosa che iniziò a tremare, che non sapeva dove iniziava, dove finiva, e l'unica cosa che pareva sapergli dire era “soffro”.
Ebbe dunque un movimento, uno spasmo involontario, che gli fece grattare il gomito sul cemento: in quel momento fu un tripudio di scoperte illuminanti: c'era dell'altro, che si estendeva oltre, c'era, forse per davvero, un corpo, e c'era qualcosa che non era corpo, e c'era qualcosa che controllava e non controllava, qualcosa che provava dolore e che non le provava. C'era divisione, c'era lui e c'era altro, e lui era: di colpo, dal susseguirsi di logiche, scoprì di esistere, e questo lo fece stare male.
Non c'era solo il freddo, non c'era il dolore della luce, non solo il dolore dell'io che si scontra con l'altro: c'era di più.
Forse era anche di peggio.
Brancolando nel buio, nella nebbia di una mente confusa, scorse le idee, e le pensò. Pensare faceva male, scoprì, e questo si unì alla schiera delle cose spiacevoli.
I suoi occhi ancora non interpretavano la luce che lo accecava, non avrebbero potuto, di norma, interpretare qualcosa che non conoscevano.
Eppure, dopo aver sbattuto un'infinità di volte le palpebre, scorse le immagini.
Le immagini lo affascinarono: complesse, apparentemente prive di significato – il significato, questo apparve nella sua mente: le cose tendevano ad avere un significato.
Sentì qualcos'altro muoversi.
Poi smise.
I concetti iniziarono a cadergli addosso come pioggia, e la luce, lei per prima, era quella che continuava a far piovere, con le sue immagini, con le sue distinzioni, forme e colori, vicino e lontano – i suoi occhi ricordarono, finalmente, ricordarono come si faceva a vedere.
E lui, che aveva capito che era lui, non un altro, ma lui, e che era una cosa, e che le cose avevano un significato, e che le cose avevano le idee – o almeno alcune, quelle come lui –, ebbe un'idea – no, anzi, ebbe dell'altro: egli volle.
Volle non chiudere le palpebre, per poter continuare a vedere le immagini.
E, con suo immenso stupore, ci riuscì.
Lo stupore gli piacque, la volontà ancor di più.
Provò allora a fare il contrario, e chiuse gli occhi, forzatamente. Gli riuscì talmente bene che li strizzò sino a farsi del male: di colpo, terrorizzato, smise, riaprendoli. Il dolore non svanì immediatamente, ci mise un po'.
Scoprì la paura.
E scoprì di potersi fare del male da solo: bastava volerlo.
Non seppe come, né, in seguito, perché: ma la reazione a tutto ciò fu di nuovo quel movimento, di non sapeva cosa, involontario in parte, ma non del tutto.
Si rese conto che lo faceva stare bene.
Allora lo fece ancora.
E nonostante gli facesse male, strizzò nuovamente gli occhi. E si ricordò del gomito. E allora venne una cosa incredibile: realizzò di potersi muovere.
Rotolò su un fianco – scoprì così di avere un fianco – e le immagini cambiarono.
Divennero nuove, e nuovamente strepitose, da guardare ed osservare a oltranza.
Si rese conto di quanti miliardi di immagini esistevano al mondo. Ebbe il concetto del mondo.
C'erano lui e il mondo.
E il mondo era infinito.
E lui era infinito.

La sua mente, spossata, collassò.







Capitolo 1: Una storia.

Tutti, qui, hanno una storia.”



Quando riaprì nuovamente gli occhi, la cosa avvenne in modo decisamente differente.
Dopo un primo accecamento dovuto all'organo intorpidito, riuscì a distinguere un soffitto bianco ed una serie di lampade appese ad esso. Respirava lentamente, spossato, mentre faceva scorrere lo sguardo su quella che aveva tutta l'aria di essere una camera d'ospedale.
Era talmente stanco che non fece troppa attenzione ad un'infinità di dettagli circa la sua mente ed i suoi ricordi: lapidò, rapido, quanto aveva vissuto prima – quanto prima? Non lo sapeva – e, per il momento, decise anche di non crucciarsi di sapere di essere in un ospedale, né di indagare sulla fonte da cui proveniva tale conoscenza: chi mai, in fondo, risvegliandosi in un letto d'ospedale si porrebbe una domanda del genere?
I concetti nella nostra testa sono le poche sicurezze su cui possiamo costruire la nostra inutile vita, pensò lui, farò bene a tenermeli stretti.
Eppure, continuò a pensare, queste non sono cose su cui dovrei elucubrare, nemmeno di riflesso. A meno che, continuò, io non sia ubriaco.
Levò le sopracciglia, illuminato, nell'unico gesto che le poche forze rimastegli in corpo parevano volergli concedere. Anzi, tanto bastò a spossarlo.
Richiuse lentamente le palpebre, respirando lento, assaporando la morbidezza delle lenzuola in cui dormiva.
No, si disse. Non posso essere ubriaco.
Sto troppo bene, in questo istante.
E si riaddormentò.

“Mi hanno detto che ti sei svegliato.”
La voce gli si insinuò nelle orecchie, fastidiosa, costringendolo ad un primo risveglio: solo l'udito e parte della mente si destarono, in realtà – il resto del corpo, e, soprattutto, del cervello, continuavano a dormire.
Svegliati.”
Il rumore di sottofondo si tramutò in un ordine, scocciato e ben scandito, che gli fece riaprire definitivamente gli occhi.
La figura di un uomo gli incombeva addosso: due occhi azzurri lo fissavano fra l'apatico e l'interessato – curiosa combinazione –, sotto una fronte lontanamente corrugata e sovrastata da corti capelli brizzolati. Il volto trapezoidale aveva un'idea di barbume scuro, come muschio adagiato su di una collina irregolare.
“Bravo.” continuò l'uomo, senza mutare tono.
Lo vide, con la coda dell'occhio, sedersi sbuffando, le gambe forse accavallate, ben spalmato sulla sedia.
Lui cercò di mettersi a sedere, ma la cosa pareva ancora al di fuori della sua portata.
“Lascia stare, non ne sei ancora capace. Questione di qualche ora.” tagliò rapido quello. “Allora.” fece poi, quasi allegro, o forse meglio sullo schernitore andante “Sentiamo la tua storia.”
“La mia storia?”
L'uomo storse le labbra, senza nemmeno guardare l'altro negli occhi: si allungò, come per stiracchiarsi, sbadigliando in modo platealmente falso.
“Va bene” continuò dunque, annoiato. Poggiò il gomito sul ginocchio, ed il mento sulla rispettiva mano: tutto flesso in avanti, tornò al contatto visivo con l'altro.
“Io sono un medico. Sai cos'è un medico?”
Quello flesse le sopracciglia, perplesso.
“Certo che so cos'è un medico.” rispose, offeso.
“Tutti lo sanno” ribatté l'altro, seccato. “Ora, sai perché hai bisogno di un medico?” continuò, quasi retorico.
Lui provò a pensarci su, e se ne uscì con la più banale delle risposte: “Immagino di stare male.”
“Sei sagace, ragazzo.” fece il medico, più che sarcastico.
E non aggiunse altro.
Rimasero a guardarsi per qualche istante, muti.
Alla fine il medico sbuffò, alzandosi in piedi e prendendo a camminare per la stanza.
“Di solito, a quest'ora, se ne escono tutti con la loro storia. Se non lo fai da te, mi tocca chiedertelo esplicitamente:” tornò a cercare gli occhi del ragazzo, l'espressione da professore intento ad interrogare uno scolaro la cui preparazione si prospetta alquanto insufficente. “Qual'è la tua storia?”
“La mia storia?”
“Sì, la tua storia.” rimarcò, spazientito.
Il ragazzo non rispose, ma parve pensarci sopra. A lungo. Alla fine si strinse nelle spalle, arricciando le labbra.
“A dire il vero credo di avere un'amnesia.” rispose, placido. “A ben pensarci, non ricordo nemmeno il mio nome.” La cosa non lo sconvolgeva affatto: eppure sapeva, decisamente sapeva di dover essere preoccupato in merito.
Il medico gli si avvicinò di qualche passo, insistendo: “No, questo è normale.” fece, roteando gli occhi “La tua storia di qua è andata, intendo – i tuoi veri ricordi sono persi, rinuncia –, ma la storia rimane.” Attese, invano, continuando a fissare il ragazzo. “Muoviti.” Insistette, autoritario.
Ma il ragazzo rimase in silenzio, senza un singolo gesto, senza mutare espressione: era il volto dell'ignoranza, che, ingenua, tenta di capire un discorso fondato su basi che non possiede.
“Perché dovrei muovermi?” chiese infine.
“Me la vuoi raccontare o no?” ribatté il medico, seccato, adirato in più dal dover costringere l'altro a far qualcosa di cui, in fondo, a lui interessava ben poco. Ascoltare le storie degli infetti – una rottura di scatole inenarrabile. Ci mancava solo che dovesse pregarli per farsela raccontare: sfiorava l'apice del ridicolo.
”Perché fra un po' inizierà a farsi sfocata, non avrai più le idee chiare in merito – il che complicherà particolarmente il lavoro mio, già di per sé noioso, e degli altri.”
“Gli altri chi?”
“Gli altri. Non ti interessa chi.
“Ma..”
Il ragazzo si arrestò, vedendo il medico serrare le labbra, quasi fosse intento a trattenere un urlo: l'uomo guardò il soffitto, poi guardò il pavimento, ed infine tacque, congiungendo le mani davanti al bacino e rimanendo immobile, in piedi, in attesa.
Il tempo trascorse. Silenzio.
Il ragazzo non pareva intenzionato a dir niente.
Il ragazzo, molto semplicemente, non aveva niente da dire: sperò, per qualche minuto, che il medico si decidesse a dire qualcosa, a spiegargli qualcosa, a magari ricominciare il discorso da un punto più coerente. Forse, nella sua amnesia, si era perso qualche dettaglio che l'altro dava per scontato.
“Mi scusi, ma io non capisco.” fece infine, iniziando a sentirsi colpevole di tal ignoranza.
Lo sguardo del medico, allora, si fece vigile. Tornò, sbuffando, ad accasciarsi sulla sedia accanto al letto, per poi rimanere a fissare l'altro, meditabondo.
Fu, nuovamente, silenzio: ma questa volta al ragazzo parve non fosse un silenzio da poter rompere, ma una pausa, coerente, nello spartito del medico.
“Ti hanno trovato tre giorni fa.” iniziò, difatti, a narrare. “Nudo come mamma t'ha fatto, disteso sul cemento ed amorevolmente incosciente. No, non eri ubriaco. No, non eri fatto. E no, non eri il primo che trovavano in queste condizioni: ce ne sono parecchi. Un giorno li trovano, sistematicamente ignudi, intenti a camminare per strade che palesemente non conoscono, o, come te, dormienti felici e beati. Li portano qui, e, da anni, sempre la solita tiritera: non ricordano chi sono, hanno solo vaghe idee sul come funzioni la loro civiltà, presentano una mente poderosamente confusa – ma tutti, tutti, hanno una storia. Sono convinti di essere qualcun altro, che faceva qualche altra cosa, in qualche altro mondo decisamente diverso dal nostro, ma per altri aspetti molto simile: alcune storie sono più improbabili di altre, ma nessuna è veramente troppo strana – voglio dire, non ho ancora incontrato persone, chessò, nelle cui storie le leggi fondamentali della fisica sono completamente ribaltate. Ci sono quelli convinti di poter fare magie o idiozie simili, ma nessuno ha ancora avuto da pontificare sull'attrazione gravitazionale. Quindi, sono storie. Sono ovviamente fondate su basi coerenti con questo mondo – e tutti, come ti dicevo, tutti hanno una storia.” Altra pausa nello spartito: gli occhi azzurri, contornati da piccole rughe, rimanevano incollati sul ragazzo, in attesa di una qualche reazione.
“Qual'è la tua storia?” ridomandò, infine.
Silenzio.
Il silenzio assistette ad un lento mutare: nel silenzio, il medico passò da vigile a scocciato, da scocciato a interessato, da interessato a incuriosito, da incuriosito ad entusiasta: uno due, tre minuti, ed il suo volto, infine, si illuminò gaudente, gli occhi fissi sul ragazzo.
Ma fu solo un istante, l'illuminazione sparì, ne rimase l'ombra sull'espressione ora lontanamente divertita e concentrata.
“Tu non hai veramente una storia.”
“Non so di cosa stia parlando, signore...”
“Non era una domanda, stupido.” lo lapidò, alzandosi. “Torna a dormire. E prega che non ti venga in mente nessuna storia, nel mentre, o ti potrei ammazzare.”
Il medico uscì rapido, passo lungo, dalla sua stanza.
Il ragazzo rimase solo.


Non aveva un nome, un passato, un ricordo. Sapeva benissimo di avere un'amnesia, e soprattutto sapeva che tutte le amnesie facevano sì che si sapessero un sacco di cose, ma non si ricordasse nulla o nessuno.
Ed ora, da quel che aveva capito, non aveva nemmeno una storia.
La cosa della storia, però, non la sapeva.
Sia per l'una che per l'altra cosa, sapeva per certo di dover essere preoccupato. Era solo, in un mondo che non conosceva, con un medico che concionava di un ipotetico qua, il che implicava anche un ipotetico : avrebbe dovuto sentirsi spaurito e terrorizzato – anzi, forse avrebbe addirittura dovuto avere un attacco di panico.
Forse avrebbe dovuto iniziare a dare di matto, urlando e chiedendo aiuto, supplicando e piangendo finché non fosse passato qualcuno ad immobilizzarlo e sparargli una dose palesemente eccessiva di morfina nella flebo.
Ma lui non si sentiva affatto così. Provava una gran tranquillità, e trovava il letto estremamente comodo. L'unica cosa che lo turbava era il sonno: ma, per risolvere, sarebbe bastato dormire.
E quindi si riaddormentò.








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[Nda]
Qualche rapido appunto, senza dilungarmi troppo
  • Crossover: come già detto, è legittimo domandarsi, “con chi”? Risposta: TUTTI. No, davvero, troppo complicato farsi un elenco. Sebbene, in realtà, esista il problema dell'
  • Attribuzione: n alcuni casi scrivere chi è chi (non è detto che il pg sia palese), ovvero scrivere in fondo al capitolo “tiziocaio appartiene a gigiopirulo”, potrebbe essere uno spoiler epocale... farò un file a lato che linkerò, in fondo alla pagina, con le specificazioni di appartenenza, ed ognuno scelga se leggerlo o meno.
  • Circa la notorierà dei personaggi coinvolti: ribadisco che non dovreste avere problemi e penso che li conosciate quasi tutti. Ad ogni modo, se avete fra i 14 e i 28 anni, possedete un televisore/usufruite di servizi online, siete moderatamente mainstream, siete stati al cinema negli ultimi 10 anni, avete mai visto un tg, possedete una vaga conoscenza della cultura italiana ed americana, specialmente del popolo urbano, se avete avuto un'infanzia relativamente felice, se avete letto almeno venti libri in tutta la vostra vita... insomma, se siete un normale frequentatore di efp o, con una possibilità d'errore parecchio grande, se siete un “quasinormale” italiano/svizzero, garantisco che conoscerete più che bene almeno il 60% dei personaggi, del 20%, come minimo, ne avrete sentito parlare, ed il restante 10%, tendenzialmente, non è importante. Ma la cosa carina è che, almeno per i personaggi centrali, sarò costretta a parlare abbastanza della loro “storia”, nei termini necessari per far proseguire la trama, quindi alla fin fine – a parte il giochino dell “indovina chi ho usato per fare la parte da due righe del vigile urbano” – non dovrebbero esistere reali problemi di comprensione.
  • Durata/lunghezza/promesse di portarla a conclusione: boh. La sto scrivendo per diletto, perchè non scrivo da troppo tempo, perchè è una storia il cui scheletro avevo pronto da anni e che mi è venuta voglia di scrivere. Spero, al solito, di concluderla, ma non posso neanche lontanamente garantire. Né, tanto meno, ho idea di qualti capitoli potranno uscirne né quanto tempo possa prendere. Di base, è Long. Conoscendomi, è Very Long. Il che, per voi, “xè mal”, dato che per una very long story abbisogno di ulissici tempi. Avvisati.








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Capitolo 2
*** 2. Stelle Cadenti ***


DISCLAIMER

Questa è una fan fiction: molti dei personaggi coinvolti non mi appartengono, ma sono proprietà dei rispettivi autori; per una lista dettagliata (verrà via via aggiornata):
[SPOLER, ATTENZIONE, SCONSIGLIATO LEGGERE] LISTA PERSONAGGI ALTRUI /ATTRIBUZIONI



Capitolo 2: Stelle Cadenti.

Inutile epiteto per far sembrare una cosa di fatto terrificante come fosse, invece, quasi epica. No. Epica un cazzo.”
“A cadere ci si fa solo male al culo.



“Buondì.”
Buondì, rispose mentalmente lui. Ma non aprì gli occhi.
Continuava a pensare che, in fondo, dormire fosse la cosa migliore da fare. Forse era l'unica che sapeva fare – di sicuro gli riusciva particolarmente bene. Un lontano pensiero gli suggeriva che questa era una strategia sbagliata, considerato che l'ultima volta si era dimostrata più che fallibile.
Ma c'era qualcosa di diverso, qualcosa che lasciava aperto lo spiraglio delle possibilità – ovvero il poter continuare a dormire.
Dicono che chi dorme molto, se non malato fisicamente, è depresso.
Lui non si sentiva depresso, o almeno nulla gli faceva pensare di esserlo. Forse lo era, dato che non ricordava nulla – magari non ricordava di essere depresso –, e, per certi versi, si rendeva conto di sapere molto poco, il che avrebbe effettivamente potuto deprimerlo.
La storia della depressione, però, la sapeva. Un punto in più per... …. per lui.
“Io non penso che tu possa dormire per sempre, ed anzi, da che ne so dovresti essere già ben che sveglio. Sono passati a controllarti meno di cinque minuti fa.”
“In cinque minuti ci si può riaddormentare.” rispose il ragazzo, tradendosi più che consciamente.
“Buondì, dunque.”
“Buondì.”
Ma rimase con gli occhi chiusi. Forse, si disse, era un modo per nascondersi dalla realtà in cui si era ritrovato.
Forse ne sapeva, prima, di queste cose: per questo continuava ad elucubrare in merito. Magari aveva qualcosa a che fare con la psicologia. O con la filosofia. O con entrambe.
O con nessuna, realizzò – aprì gli occhi, turbato da quel suo ultimo pensiero: e se ciò che credeva di sapere, invece, non esisteva? Se erano parole prive di significato, frutto della sua mente? Era quella la sua storia? No, una storia era un susseguirsi di eventi, di cose, di fatti. Queste erano solo piccole luci nel suo universo, bagliori di conoscenza. Reale o fittizia?
“Esiste la psicologia?” domandò, di colpo, in un sol fiato: solo poi levò gli occhi sulla persona lì presente, scoprendo che non era affatto il medico con cui aveva discusso... prima. Non sapeva quantificare quanto prima, ma poco importava.
“Certo, è – diciamo – lo studio della mente umana.” rispose quello, con un sorriso accondiscendente.
Il ragazzo osservò il suo nuovo interlocutore, notando che aveva poco o niente a che vedere con il medico: era grosso, anzitutto, e abbondante di muscoli; leggermente alto, ma non troppo – il medico pareva allampanato, in confronto – : ma, alla fine, il tratto distintivo non poteva che non essere la lunga barba castana contornata da altrettanto lunghi capelli, sconsideratamente folti e voluminosi. La sua voce era bassa e confortante.
“Ed esiste il rugby?” domandò poi il ragazzo, dopo averlo osservato per qualche istante.
L'uomo abbozzò una risata, roboante, che si quietò rapida in un sorriso largo sui denti banchi e dritti.
“Sì, certo. Non sei il primo a darmi del giocatore di rugby. E' bello sapere che tutti si ricordano del rugby – ma no, non gioco a rugby.”
Preso in contropiede, il ragazzo lo osservò muto per qualche altro istante.
“Forse dovresti pensare di iniziare.” concluse.
“Sì, forse dovrei.” annuì l'altro, sedendosi. “Allora, io mi chiamo Sib. Tu?”
“Boh.”
“Seriamente?” fece quello, perplesso.
Evidentemente era un'opzione possibile, per quanto ai limiti, vista l'espressione di Sib. Il ragazzo corresse rapidamente il tiro, spiegando:
“Nel senso che non me lo ricordo.”
“Intendo quello della tua storia.”
“Uh.” mormorò, aggrottando le sopracciglia. “A quanto pare non ho una storia.”
A quanto pare?”
“Ne avevo parlato prima – non so quanto prima – con il medico.”
Quale medico?”
Il ragazzo tacque un istante, riconoscendo nel tono una vaga sorpresa. Non stava chiedendo 'chi?', ma piuttosto 'come/perchè diamine tu hai parlato con un medico?' .
Non serviva essere particolarmente lucidi per realizzarlo.
E a dire il vero, ora come ora, il ragazzo si sentiva decisamente poco lucido: i dubbi si susseguivano. Forse non esisteva medico? Se lo era immaginato?
Fantastico, quindi era anche fuori di testa, oltre che depresso. Oppure le due cose andavano di pari passo.
Sib, vedendolo disorientato, giunse in suo soccorso: “Alto, volto irregolare, fronte ampia, burbero, ti ha chiesto della tua storia?”
“Sì.” rispose il ragazzo, in un sospiro di sollievo.
“Ah. Quel medico. Non ti preoccupare, dunque. Andiamo avanti.”
“Cos'ha che non va?” domandò invece l'altro, preoccupato.
“Niente di particolare, puoi stare tranquillo. Semplicemente non è un medico.”
“Perché” – irruppe una voce, roca, dalla porta – “ti ostini a sabotare i miei metodi di comunicazione con i novellini?”
Il ragazzo, sollevando il busto, vide la figura del medico-non-medico avvicinarsi a lui, comparso dal nulla.
“Quindi tu non sei un medico.” fece il giovane, lentamente, quasi volesse convincersi della cosa.
“Non ufficialmente. Diciamo che aiuto.”
“Piantala con questa storia, Serge.” lo ammonì Sib, roteando gli occhi. “Poi si capisce perché i nuovi sono disorientati. Eri appostato? Origliavi?”
Serge rimase lì, in piedi, scrutando i due, senza dar risposta.
“Sì, ovviamente.” si rispose da solo Sib.
Silenzio, ancora.
“Serge, per favore” – un 'per favore' non molto educato – “puoi andartene così posso fare il mio lavoro?”
“Nessuno vieta che io stia qui” ribatté l'altro. “Così possiamo lavorare in due – sinergia, Sib. Vedrai che efficacia.”
“Certo, sinergia, infatti non ti sei nemmeno degnato di darmi il rapporto sulla storia del ragazzo.”
“Il ragazzo non ha una storia.” tagliò corto Serge.
A maggior ragione...” rincarò Sib, i denti stretti in quello che quasi pareva un ringhio.
“Stavo facendo ricerche in merito, per la cronaca. Il mio lavoro. Bastava che aspettassi il rapporto, felix.
Nella vignetta, il ragazzo si era messo maldestramente a sedere, ascoltando interessato lo scambio di battute fra i due. Pro: pareva esserci un'organizzazione, dietro a tutto questo marasma in cui si trovava. Contro: Serge non era un medico.
“Andiamo avanti, allora.” riprese Sib, con l'aria di chi più che un rospo ha ingoiato una vacca, per giunta gravida. “Facciamo questa cosa della sinergia.” Marcò l'ultima parla con palese disappunto incredulo, e si voltò verso il ragazzo. Cercò, dunque, di riprendere con metodo quanto iniziato prima: “Sei senza nome, il che è normale. Di solito estrapoliamo un nuovo nome da quello della tua storia, almeno per iniziare ad avere un riferimento – ma se quanto riferito qui da Serge è vero, sei senza storia, il che ci complica la faccenda.”
“Tutto questo caos per un nome?” domandò il ragazzo, perplesso. “E' solo un nome.”
“E' importante.” rispose Sib, calmo e quasi paterno “Se inizi dal nome hai un punto per costruire chi sei. Se è, diciamo, 'uguale ma diverso' al nome che avevi nella tua storia, ti aiuta a dissociarti da essa in modo meno traumatico.”
“Tanto, poi, nessuno si dissocia dalla sua storia” interruppe Serge. “Pippe mentali che non servono a niente.”
“Grazie, Serge, il tuo contributo è molto sinergico.”
Il ragazzo espirò, confuso, ma determinato a risolvere quanto prima la questione. Non voleva farsi bloccare da un semplice nome. Voleva andare avanti, aveva bisogno di saperne di più: e tutto lasciava intendere che ci sarebbe voluto tempo, un sacco di tempo, che non voleva perdere così scioccamente.
“Posso chiamarmi Bianco e la finiamo là?”
“Bianco?” domandò perplesso Sib. Serge, divertito, annuiva.
“Boh. La stanza è bianca, è la prima cosa che mi è venuta in mente. Magari posso chiamarmi Rugby, se Bianco non ti piace. A me non interessa.”
“Pragmatico, il ragazzo” commentò Serge.
“Senti” fece Sib, sospirando pazientemente “non puoi avere un nome così casuale. Voglio dire, alla lunga bisogna anche considerare le implicazioni sociali...”
“Sib, lascialo chiamarsi Rugby. E' fico.”
Sib sfiatò, esausto a causa della compagnia di Serge: portò lo sguardo sul ragazzo, guardandolo dritto negli occhi:
“Vuoi veramente chiamarti Rugby? Ne sei certo?”
Il ragazzo non rispose.
Adesso iniziava ad avere dei dubbi.
“Va bene” ammise infine il giovane “forse è un po' troppo frettolosa, come scelta. Tirata a caso. Ma non ho una storia, quindi non ho bisogno di slegarmi da qualcosa che non ho, no? Non è poi così importante, da quel punto di vista. Forse lo è da, quello che hai detto tuo, il punto di vista sociale. A dire il vero non so quali siano nomi 'socialmente accettabili'. Aiutatemi voi.”
Serge e Sib si guardarono, improvvisamente carichi di una responsabilità più gravosa del solito.
Di norma, l'iter che affrontavano con i nuovi era leggermente diverso: si iniziava convincendoli che no, la loro storia non era vera – compito semplificato dal fatto che lentamente i ricordi in merito si facevano sempre più vaghi. Entro qualche ora si era riusciti a spiegargli in che condizione si trovavano, e che avrebbero dovuto iniziare un percorso di reinserimento nella società piuttosto prolisso. Nella ricerca del nome erano sempre collaborativi e tranquilli – non che il ragazzo si stesse dimostrando poco collaborativo, anzi, ma per allora Serge avrebbe già dovuto dargli una rapida infarinata riguardo la loro infezione, il loro passato ed il loro futuro.
Qui, il disgraziato, continuava a brancolare nel buio: a conti fatti c'era da stupirsi che si fidasse di loro due.
Alcuni tentavano di scappare, all'inizio – più volte Sib le aveva prese (più raramente rese) da qualcuno intento a cercare un'ipotetica libertà. Libertà che non esisteva, a meno di tentare un suicidio. Da quel mondo non si scappava. Dalla realtà non si scappava.
Ma no, il ragazzo, nonostante fosse ancora all'oscuro della questione principale, era più che collaborativo.
Sin troppo collaborativo.
Forse era proprio perché non aveva una storia.
“Sai...” ammise infine Sib “In genere ci limitiamo ad anagrammare il nome della storia finché non ne esce qualcosa che agli altri suona orecchiabile e civile.”
“... ok.” fece il ragazzo, senza tradire alcuna delusione in merito: voleva davvero solo chiudere la faccenda quanto prima – era più che evidente.
“Quindi...” cercò si riprendere Sib, mentre pensava ad una strategia alternativa.
“Anagramma Rugby e Bianco, allora. Tanto fa... le lettere sono solo lettere, alla fine.”
Sib fece per sospirare profondamente, ma Serge lo interruppe prima ancora che potesse finire d'inspirare: “Bair.”
“Bair?” fece il ragazzo
“O, se vuoi complicarti la vita, Bayir.”
“Bayir.” ripetè quello, marcando la 'y' aggiunta. “Bayir. Sì. Ok.”
“Va bene?”
“Bene. Benissimo.”
“Bayir...” sembrò masticare Sib. “Ok...”
“Fatto?” domandò Bayir.
“Fatto.” fece Sib, annuendo perplesso, come fosse deluso dalla semplicità in cui si era risolta la cosa. “Adesso hai un nome.” Ma, in fondo, era solamente un problema in meno.


***



L'aria fredda dell'esterno giungeva a lei in una bava di vento, una vaghissima brezza che si infilava nella mastodontica galleria in cui camminava. Poche centinaia di metri, da percorrere su di un cemento leggermente accidentato, e si sarebbe ritrovata all'aria aperta, circondata dalla vegetazione scheletrica della tundra autunnale.
Che immensa forza, però, trasparivano quegli arbusti rachitici. Il terreno, duro, sembrava essere sterile – eppure no, v'era qualcosa, v'era di che a sufficienza da lasciar vivere quelle piante, insistenti ed ostinate.
La tundra non era affatto sterile, si ripeteva lei – e lo ben sapeva: d'estate, poi, per quei due mesi in cui la tundra viveva, era magia pura.
Sorrise leggermente nel riscoprirsi a rinnovare tal pensiero, mentre copriva gli ultimi metri che la separavano dall'esterno. La giubba che portava, lunga e squadrata, era fatta apposta per uscire all'aperto: Tessera, la città, se ne stava sotto. La gente preferiva non uscire, normalmente.
Questo faceva sì che, in quel che lei riteneva un paradosso, fosse assai più semplice organizzare gli incontri alla luce del sole.
C'era qualcosa di sbagliato, in questa dinamica. Di solito era il contrario. Era sempre stato il contrario.
Tranne che a Tessera, evidentemente.
“Tu pensi troppo.”
Sussultò, colta di sorpresa – tanto da rischiare di perdere la presa sulla sacca che portava con sé –, voltando con uno scatto il capo verso la figura che l'aveva affiancata nel suo incedere. Inspirò profondamente, cercando di calmarsi, dopo averlo riconosciuto.
“La cosa ti dà fastidio?” rispose all'uomo, con un certo astio – un po' forzato.
“Fai interferenza.” si limitò a rispondere quello, il quale, dal passo più lungo, la superò come se nulla fosse.
La ragazza si morse le labbra, infastidita dall'aver concesso così facilmente l'ultima parola all'altro. Ne osservò la schiena per qualche istante, finché non venne, finalmente, investita dalla luce del sole. Si fermò, socchiudendo gli occhi e respirando l'aria gelida dell'esterno.
“Muoviti.” parve ordinarle l'altro, la voce profonda e greve, senza nemmeno degnarsi di voltarsi.
Lei schiuse le palpebre, roteando gli occhi e riprendendo a camminare.
Due anni che lo conosceva, ed ancora lo percepiva come un estraneo più che inquietante: anzitutto perché quello si ostinava a rimanere il più freddo possibile, ed in secondo luogo per quella sua dannata caratteristica, quel suo passo inumanamente felpato ed impossibile da percepire – almeno, per lei. Lo considerava quasi un fantasma, un essere che compariva e scompariva dal nulla e le cui interazioni si limitavano al minimo indispensabile – salvo, come in questo caso, dilettarsi in qualche frecciatina gratuita.
Sospirò, riprendendo a camminare, costringendosi a non accelerare il passo per raggiungerlo.
“Hai sentito quelli dell'Unione?” fece, con un tono sufficientemente alto da farsi sentire, ma non abbastanza da far intendere di voler essere sentita. In pratica, costrinse l'altro a tendere le orecchie.
“No.” rispose quello, con un tempo di reazione sufficientemente lungo da farle capire che la tattica era riuscita.
“Dicono che ne hanno trovato uno nuovo, ma non sono riusciti a prenderlo. ”
“Sono degli idioti.” l'uomo aveva, in minima parte, decelerato. La ragazza riuscì a raggiungerlo: missione compiuta.
Non che lui lo avrebbe mai ammesso. Ma, in fondo, le informazioni gli interessavano, anche se doveva sorbirsi la ragazza come tramite.
“Sta al centro di riabilitazione.”
“Quelli dell'Unione sono dei coglioni. Sarà il quarto, questo mese. Non ne hanno tirato su nemmeno uno, in pratica, quest'anno. – se vanno avanti così, possiamo anche sospendere la collaborazione.”
“Ma bisogna considerare che...”
Quello grugnì, sbuffando. “Lascia perdere.” tagliò.
E il discorso si chiuse, senza un chiaro motivo.
Probabilmente David si era stufato di parlare, nient'altro.
La ragazza sospirò, continuando a pensare mentre camminava di fianco all'altro.
“E' noto che il servizio di 'Consulenza e Sostegno per i Caduti' dell'Unione è molto migliore di quello dell'Alleanza, le statistiche degli ultimi tre anni – ”
Lascia Perdere è troppo complicato da capire, per te?”
“No, ma, David –”
L'uomo grugnì, nuovamente, sopra al suo nome.
La ragazza lo scrutò perplessa, notando il fastidio al riguardo.
“Non eravamo d'accordo di chiamarci con il nostro vero nome?” domandò, lei per prima incapace di capire se la domanda era reale o retorica.
“Lascia Perdere.”
Quella si fermò, definitivamente inacidita: “Possibile che non si riesca a fare un discorso coerente con te?!”
David, dapprima, non rispose, continuando ad avanzare.
L'altra rimase immobile, osservandolo allontanarsi.
“Muoviti.” fece poi l'uomo.
Fu lei, questa volta, ad emettere una specie di grugno.
“Io non...”
“Servizio di Consulenza e Sostegno...” lo sentì mormorare, scettico. “Sono solo accalappiacani.”
“Ma le –“
“Muoviti!” rincarò.
E il discorso, se tal si potesse definire, terminò.



***




Sib fece per uscire dalla stanza, quando Serge lo richiamò:
“Dove stai andando?”
“A fare rapporto – almeno abbiamo un nome.”
Io devo fare rapporto prima di te.”
Tu devi fare il tuo lavoro, prima di fare rapporto.”
Bayir, ormai, aveva capito che c'era una dinamica consolidata nel rapporto tra i due. Una specie di paventato antagonismo – forzato da Serge ed ogni tanto palleggiato da Sib – il quale, se di sicuro divertiva il primo, non si poteva escludere fosse solo una seccatura per il secondo.
Bayir – ormai il ragazzo l'aveva capito – era uno a cui piaceva pensare: al momento, pensava al motivo per cui si era venuta a creare una relazione del genere.
Poi, di colpo, si rese conto che non stava prestando attenzione alle cose importanti. O almeno quelle che sapeva essere importanti: come, ad esempio, capire dove fosse di preciso e cosa stesse succedendo. Non aveva ancora capito dove si trovava, a dirla tutta: di certo c'erano solo i medici (ma non Serge), la psicologia ed il rugby. Quei due potevano essere dei rapitori, ora che ci ragionava sopra: una stanza apparentemente d'ospedale non aveva stretta necessità di esserlo.
L'idea che forse era nei guai gli soggiunse relativamente tardi.
Per l'ennesima volta, sapeva che doveva essere preoccupato. Ma non si preoccupò. E sapeva che il suo non preoccuparsi era sbagliato.
“Allora, prima che tu faccia rapporto, io faccio il mio lavoro, com'è giusto che sia, e io faccio rapporto, com'è giusto che sia.”
“E così io faccio la figura del ritardatario perché tu hai perso tempo a fare non so quali assurde ricerche, o cose del genere – No. Grazie.” Sib espirò, scuotendo il capo sotto la massa di capelli castani. “Perdonaci, Bayir.”
“Sapete” fece il ragazzo “mi domando come mai battibecchiate così tanto.”
I due lo scrutarono, atterriti dalla sua sincera curiosità – no, non ingenua, ma sincera: li osservava con gli occhi di chi scruta interessato l'agire di due macachi.
“Domanda interessante.” fece Serge, dopo un isto di silenzio. “Forse il nostro psicologo di fiducia qui presente potrebbe aiutarci. Allora, Sib?”
Sib sfiatò: “Possiamo smettere di divagare?”
“Da cosa stiamo divagando, di preciso?” chiese Bayir, con un accenno di sorriso in faccia.
“Dallo spiegarti come funziona il tutto. ”
Serge annuì, storcendo le labbra: Bayir lo scrutò perplesso, facendo poi spallucce. “Sto ascoltando.”
“Sib è un ottimo narratore.” proruppe Serge “Sarà divertente ascoltarlo. Io vado.”
Dove?” ringhiò Sib, inacidito, gli occhi sgranati per lo stress che evidentemente si doveva provare nell'essere colleghi di Serge.
L'altro non rispose, ma mosse un paio di passi verso l'uscita. Quando gli fu accanto, posò una mano sulla spalla di Sib: quello sentì tutto il suo peso premergli sul muscolo –Bayir stesso notò l'innaturalità del movimento: l'uomo si stava appoggiando a Sib per compiere il passo successivo.
“A prendere il bastone, tanto per cominciare.”
Il passo successivo, che lo divideva dalla porta, lo compì barcollando.
“Serge...”
Quello lo ignorò, girando la maniglia e infilandosi nella stretta apertura che si era creato – la gamba destra rigida. Bayir lo osservò, le palpebre quasi chiuse per la concentrazione, cercando di estrapolare qualcosa di sensato da quanto stava avvenendo.
Ma, no, aveva bisogno della favola: Sib aveva un volto fra l'iracondo ed il preoccupato – la seconda una sfumatura nuova, nella sua espressione, specie se si considerava chi era la causa di tal preoccupazione.
“Vado a fare il medico.” concluse Serge, fra il secco e l'esultante, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Bayir, che continuava la politica della silente osservazione, attese.
Dopo qualche istante Sib fece un lungo sospiro, talmente prolisso da sgonfiare del tutto i suoi probabilmente enormi polmoni. Le spalle gli si incurvarono a poco a poco, assieme al capo, che andava chinandosi.
Rimase in quella posizione, involuto, per qualche altro momento.
“Va bene...” fece, poi, parlando a sé stesso: inspirò, riacquistando in un sol respiro tutta la sua altezza e possenza, voltandosi verso Bayir. “Scusaci. Non è semplice nemmeno per noi – immagino avrai le idee parecchio confuse.”
Bayir si strinse nelle spalle, sedendo sul letto a gambe incrociate: “Più semplicemente direi che non ne ho.”

Erano stati chiamati Stelle Cadenti.
Un nome su cui Sib aveva qualcosa da ridire, sebbene il commento al riguardo fu fatto a voce molto bassa, parlando praticamente fa sé e sé.
La teoria, al momento, sosteneva che fossero stati infettati da un virus – ignote le modalità del contagio – che scombinava le loro menti procurandogli un'amnesia, per quanto se ne sapeva, irreversibile: in compenso forniva loro un set di ricordi nuovo di zecca, tendenzialmente sconclusionato ed inverosimile. Come gli aveva detto Serge, era normale trovarli in stato confusionale o svenuti, per strada, sistematicamente nudi. Come piovuti dal cielo, figli di un altro mondo, convinti di vivere in una realtà diversa – ma non troppo – dalla loro.
Un problema che per Bayir non sussisteva, dato che di realtà alternative a cui fare riferimento non ne aveva affatto. Tutte le stelle cadenti, o i caduti, erano stati qualcuno, qualcosa – spesso pure abbastanza importante, da che ne dicevano.
Bayir ascoltava, mentre nel sottofondo della sua mente continuava a ronzare uno scetticismo inascoltato: era vero? Non era vero? Poteva fidarsi? Il ragazzo zittiva – anzi, ignorava – la pseudocoscienza, assorbendo come una spugna.
Perché, si chiedeva ogni tanto, dovrei credere a Sib? Perché gli sto credendo?
Dovrei essere diffidente, andava, lentamente, ripetendosi.
Dovrei essere molto diffidente.
Ma, nonostante questi pensieri, avido di informazioni, ascoltava.
E credeva.
Cos'altro poteva fare, in fondo? Qualche certezza, fosse anche quella di non essere nessuno in un mondo di ignoti, doveva averla. Doveva assorbirla. Voleva una base.
Ascoltava.
Riservandosi la possibilità di rinnegare tutto, un giorno – ma no, non ora.

“Ora come ora ti ritrovi al Servizio di Consulenza e Sostegno per i caduti dell'Unione.” la voce di Sib era profonda e confortevole. Parlava con un tono sì serio, ma anche sconsideratamente dolce. Lo si guardava in volto, se ne scrutava la massa muscolare, e tutto lasciava intendere un enorme contraddizione. Una contraddizione confortante, in fondo: sembrava che quel molosso fosse lì, paterno, pronto a proteggerti. Non era male, come idea.
“Ah, già.” fece poi l'uomo, come se avesse dimenticato un punto fondamentale “Il mondo – che, per la cronaca, è circa sferico – ma a ben pensarci anche su questo in pochi hanno avuto da ridire – dicevo, il mondo, ora come ora, è diviso in due grandi paesi: l'Unione, il nostro e l'Alleanza. Negli ultimi decenni le cose vanno relativamente bene, a parte qualche screzio. Non sono due imperi in guerra, tanto per intendersi. Non ora.”
“Quelli dell'Alleanza come sono?” domandò il ragazzo, inclinando il capo, le mani poggiate sulle caviglie.
“Come noi. Più o meno. Devi avere pazienza, ci sono alcune cose fondamentali che devi sapere – e che si è constatato la maggior parte dei caduti non sa – e sono parecchie. Resterai al centro di riabilitazione – cioè, qui – per un po'.”
“Quanto po'?”
Sib si strinse nelle spalle. “Dipende da come reagisci. Alcuni escono in due settimane, altri in sei mesi.”
Il ragazzo parve sospirare, nascondendo una vaga rassegnazione.
“Domande?”
Bayir levò un sopracciglio, scrutando Sib: “Troppe.”
L'uomo inclinò il capo, meditabondo. “Ho ancora una ventina di minuti per te – poi devo andare. Prova.”
“Andare a fare cosa?”
“Non intendevo questo genere di domande.
“Ah. Scusa – non volevo impicciarmi.”
Sib si trattenne dal ridacchiare per l'ingenuità di Bayir: il ragazzo lo vide compiere un paio di sussulti, risate smorzate che si erano trasformate in un paio di profondi singhiozzi ed un sorriso sul volto.
“Ci sono tanti Caduti?”
“Abbastanza.”
“Quanti, nel centro?”
“Credo che avrai cinque o sei compagni 'di studi' . ”
“Non mi paiono tanti – a meno che … quanti abitanti ci sono nel mondo?”
“Una decina di miliardi.”
Bayir sapeva decisamente fare i conti – quando si rese conto di tale abilità, se ne compiaque tanto da lasciarsi scappare un gaudente sorriso.
“Considerato il tempo medio di permanenza e anche ammettendo che la gente 'cada' da un centinaio di anni, a occhio è comunque impossibile raggiungere anche solo l'un per mille della popolazione – non mi paiono tanti.”
Sib sorrise, vedendolo, entusiasticamente, prodigarsi in tentativi di statistica.
“Hai ragione, ma è abbastanza da poter creare un problema.”
Il ragazzo storse le labbra, dovendo riconoscere che l'altro aveva ragione.
Rimase in silenzio, mentre le domande gli si affollavano in mente: chi era Sib, anzi tutto? E chi era Serge? Serge lo incuriosiva di più, considerata la pantomima a cui aveva assistito.
Quello che proprio non gli interessava era chi era lui, Bayir. Quello non lo scalfiva.
Meglio così, si disse.
Ma una domanda più insistente delle altre sgomitò nella sua testa: “Ma noi non siamo veramente Caduti, direi. No? Voglio dire... la gente normale è come noi?”
“Oh, sì, certo –” Sib rispose frettolosamente, temendo il seguito.
Bayir tacque ancora un istante, e poi continuò:
“Quindi, se l'idea è che siamo affetti da amnesia, prima dovevamo essere qualcun altro – sbaglio?”
Sib sospirò. “Così pare.”
“Quindi immagino che famiglia, o amici, o conoscenti – qualcuno... noi abbiamo qualcuno, no?”
L'ultimo sospiro di Sib fece intendere quanto poderosa fosse la capienza dei suoi polmoni.
“Ecco – questo è un punto leggermente delicato.” fece poi, con il tono di chi sta camminando sulle uova. Cercava disperatamente le parole per riuscire a dare una risposta che non fosse esattamente una risposta piena – troppo lungo da spiegare, uno dei problemi principali era educarli a gestire quel particolare aspetto della loro esistenza – ma che fosse abbastanza soddisfacente da non fargli scatenare la tipica valanga di domande che affligge il Caduto in tal situazione.
“Abbi pazienza, Bayir... ti verrà spiegato.” non era una risposta molto confacente, si rese conto, man mano che andava pronunciando le parole che la componevano.
“Quindi non c'è nessuno.” concluse il ragazzo. “Com'è possibile? E' legato al virus? La gente muore? Magari tu e Serge siete vaccinati?”
Sib si alzò, rendendosi conto di non essere in grado di sostenere oltre la conversazione.
“Non è quello il punto... diciamo che – mh – diciamo che non è semplice riconoscere un Caduto.” sbuffò. “Ti prego, fai tesoro di questa piccola informazione ed abbi pazienza.”
Bayir scrutò l'uomo, resosi conto di quanto l'aveva messo in difficoltà.
E poi c'era sempre la vocina, in fondo: chissà, si ripeteva.
Chissà se è vero.
La porta si aprì – uno spiraglio da cui comparì prima un bastone, e poi la testa di Serge.
“Scusate se interrompo –” proruppe, in un tono ben lungi dall'esser di scuse “ – siete arrivati alla parte dei Caduti, sì?”
Sib assottigliò le palpebre tanto da non aver quasi più luce ad incontrar le sue pupille.
“No, gli ho esposto un trattato di fisica che spiega in modo ragionevole e incontrovertibile perché il cielo è blu durante il giorno.”
“Ah. Ah. Divertente.” Serge voltò lo sguardo verso Bayir, fissandolo. “Devo solo dire una cosa a Bayir, che dico sempre a tutti.”
“... prego.” rassegnato era un eufemismo, per Sib.
“Ricorda: a cadere ci si fa solo che male culo.”
La porta si chiuse.
Bayir decise che non valeva la pena di essere confuso già ora, altrimenti avrebbe passato la sua vita in stato confusionale. Registrò, e lasciò correre.
Sib sospirò.




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[NDA]

Buonsalve. Spero che quanti non hanno letto lo spoiler (spero che non leggiate lo spoiler =P) abbiano inquadrato qualche piggì. Vabbé, dai, uno è facile. Ad ogni modo, come promesso, la storia di ognuno verrà fuori comunque a seguire.

Enjoy.

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