Anamnesi di Kimmy_90 (/viewuser.php?uid=37)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Una Storia. ***
Capitolo 2: *** 2. Stelle Cadenti ***
Capitolo 1 *** 1. Una Storia. ***
[WARNING]
Questa
storia è, di fatto, un enorme
*Crossover*.
I personaggi presenti, in larga parte, sono altrui,
salvo pochi originali. Citarli tutti all'inizio costituirebbe
Spoiler, quindi ho preso le mie misure per evitare questo fastidioso
inconveniente ed anche dare a Cesare quel che è di Cesare. I.e.,
vedi sotto.
Per
quanto riguarda i personaggi, nello specifico, “prestati”, posso
garantirvi che sono quasi tutti abbastanza “mainstream” da essere
noti a chiunque legga. Sicchè, se siete interessati a questa storia,
in ogni caso non dovreste aver problemi.
Per ulteriori note,
vi mando alle NdA in fondo al capitolo.
Enjoy.
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DISCLAIMER
Questa
è una fan fiction: molti dei personaggi coinvolti non mi
appartengono, ma sono proprietà dei rispettivi autori; per una lista
dettagliata (verrà via via aggiornata), cliccate qui.
Ne
approfitto per ringraziare ogni singolo
autore/sceneggiatore/regista/scrittore/fumettista o affine per aver
scritto la sua opera ed i rispettivi editori/affini per averla
portata al grande pubblico.
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Anamnesi
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Schiuse gli occhi in un singulto, strabuzzandoli, l'aria ch'entrava
nei suoi polmoni lacerante e dilaniante per l'impeto con cui
inspirò.
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Da quel movimento, così repentino, la sua gola emise un fischio
rantolato, roco, un rumore che gli fece vibrare il collo – sino a
poi tossire. Fu così che si accorse di poter sentire.
-
Della luce che investiva le sue pupille capiva poco o niente: c'era
un qualcosa, vivido, forte e potente, che gli feriva gli occhi per
l'intensità con cui lo colpiva – così si accorse che poteva
anche provare dolore.
-
La sua mente, immobile, pareva muta ed arrendevole di fronte alla
moltitudine di informazioni che riceveva, senza comprendere né da
dove, né come tradurle.
-
Poi la luce sparì. Fu un attimo, come di connessione persa, in cui
il flusso di dati che gli investivano il cervello si arrestò: ma
fece presto a riaprire le palpebre, dopo averle sbattute di
riflesso. Accadde ancora, ed ancora, senza che lui potesse
comprendere cosa, come.
-
A stento andava definendo un quando, riconoscendo uno scorrimento,
un flusso che separava eventi, definendo gli eventi stessi. Il
concetto del “di nuovo” si insinuò nella sua testa,
facendogli lentamente apprezzare l'esistenza del prima e del dopo.
Luce, buio, luce, buio, luce, buio. Ma all'inizio – c'era dunque
un inizio – era stata solo luce. Solo poi il buio.
-
Prima e poi: scoprì il tempo.
-
Ma prima ancora?
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Non lo sapeva.
-
Lentamente venne il freddo. Si accorse di provarlo piano piano, un
rumore di fondo intento ad aumentare, senza tregua, diventando
sempre più fastidioso: gli si infilava dentro, in quel qualcosa,
quel qualcosa che lui aveva e che gli faceva sentire l'aria, la
temperatura, quel qualcosa che iniziò a tremare, che non sapeva
dove iniziava, dove finiva, e l'unica cosa che pareva sapergli dire
era “soffro”.
-
Ebbe dunque un movimento, uno spasmo involontario, che gli fece
grattare il gomito sul cemento: in quel momento fu un tripudio di
scoperte illuminanti: c'era dell'altro, che si estendeva oltre,
c'era, forse per davvero, un corpo, e c'era qualcosa che non era
corpo, e c'era qualcosa che controllava e non controllava, qualcosa
che provava dolore e che non le provava. C'era divisione, c'era lui
e c'era altro, e lui era: di colpo, dal susseguirsi di
logiche, scoprì di esistere, e questo lo fece stare male.
-
Non c'era solo il freddo, non c'era il dolore della luce, non solo
il dolore dell'io che si scontra con l'altro: c'era di più.
-
Forse era anche di peggio.
-
Brancolando nel buio, nella nebbia di una mente confusa, scorse le
idee, e le pensò. Pensare faceva male, scoprì, e questo si unì
alla schiera delle cose spiacevoli.
-
I suoi occhi ancora non interpretavano la luce che lo accecava, non
avrebbero potuto, di norma, interpretare qualcosa che non
conoscevano.
-
Eppure, dopo aver sbattuto un'infinità di volte le palpebre, scorse
le immagini.
-
Le immagini lo affascinarono: complesse, apparentemente prive di
significato – il significato, questo apparve nella sua
mente: le cose tendevano ad avere un significato.
-
Sentì qualcos'altro muoversi.
-
Poi smise.
-
I concetti iniziarono a cadergli addosso come pioggia, e la luce,
lei per prima, era quella che continuava a far piovere, con le sue
immagini, con le sue distinzioni, forme e colori, vicino e lontano –
i suoi occhi ricordarono, finalmente, ricordarono come si faceva a
vedere.
-
E lui, che aveva capito che era lui, non un altro, ma lui, e
che era una cosa, e che le cose avevano un significato, e che le
cose avevano le idee – o almeno alcune, quelle come lui –, ebbe
un'idea – no, anzi, ebbe dell'altro: egli volle.
-
Volle non chiudere le palpebre, per poter continuare a vedere le
immagini.
-
E, con suo immenso stupore, ci riuscì.
-
Lo stupore gli piacque, la volontà ancor di più.
-
Provò allora a fare il contrario, e chiuse gli occhi, forzatamente.
Gli riuscì talmente bene che li strizzò sino a farsi del male: di
colpo, terrorizzato, smise, riaprendoli. Il dolore non svanì
immediatamente, ci mise un po'.
-
Scoprì la paura.
-
E scoprì di potersi fare del male da solo: bastava volerlo.
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Non seppe come, né, in seguito, perché: ma la reazione a tutto ciò
fu di nuovo quel movimento, di non sapeva cosa, involontario in
parte, ma non del tutto.
-
Si rese conto che lo faceva stare bene.
-
Allora lo fece ancora.
-
E nonostante gli facesse male, strizzò nuovamente gli occhi. E si
ricordò del gomito. E allora venne una cosa incredibile: realizzò
di potersi muovere.
-
Rotolò su un fianco – scoprì così di avere un fianco – e le
immagini cambiarono.
-
Divennero nuove, e nuovamente strepitose, da guardare ed osservare a
oltranza.
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Si rese conto di quanti miliardi di immagini esistevano al mondo.
Ebbe il concetto del mondo.
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C'erano lui e il mondo.
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E il mondo era infinito.
-
E lui era infinito.
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La sua mente, spossata, collassò.
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Capitolo 1: Una storia.
“Tutti, qui, hanno una storia.”
-
-
Quando riaprì nuovamente gli occhi, la cosa avvenne in modo
decisamente differente.
-
Dopo un primo accecamento dovuto all'organo intorpidito, riuscì a
distinguere un soffitto bianco ed una serie di lampade appese ad
esso. Respirava lentamente, spossato, mentre faceva scorrere lo
sguardo su quella che aveva tutta l'aria di essere una camera
d'ospedale.
-
Era talmente stanco che non fece troppa attenzione ad un'infinità
di dettagli circa la sua mente ed i suoi ricordi: lapidò, rapido,
quanto aveva vissuto prima – quanto prima? Non lo sapeva – e,
per il momento, decise anche di non crucciarsi di sapere di essere
in un ospedale, né di indagare sulla fonte da cui proveniva tale
conoscenza: chi mai, in fondo, risvegliandosi in un letto d'ospedale
si porrebbe una domanda del genere?
-
I concetti nella nostra testa sono le poche sicurezze su cui
possiamo costruire la nostra inutile vita, pensò lui, farò bene a
tenermeli stretti.
-
Eppure, continuò a pensare, queste non sono cose su cui dovrei
elucubrare, nemmeno di riflesso. A meno che, continuò, io non sia
ubriaco.
-
Levò le sopracciglia, illuminato, nell'unico gesto che le poche
forze rimastegli in corpo parevano volergli concedere. Anzi, tanto
bastò a spossarlo.
-
Richiuse lentamente le palpebre, respirando lento, assaporando la
morbidezza delle lenzuola in cui dormiva.
-
No, si disse. Non posso essere ubriaco.
-
Sto troppo bene, in questo istante.
-
E si riaddormentò.
-
-
“Mi hanno detto che ti sei svegliato.”
-
La voce gli si insinuò nelle orecchie, fastidiosa, costringendolo
ad un primo risveglio: solo l'udito e parte della mente si
destarono, in realtà – il resto del corpo, e, soprattutto, del
cervello, continuavano a dormire.
-
“Svegliati.”
-
Il rumore di sottofondo si tramutò in un ordine, scocciato e ben
scandito, che gli fece riaprire definitivamente gli occhi.
-
La figura di un uomo gli incombeva addosso: due occhi azzurri lo
fissavano fra l'apatico e l'interessato – curiosa combinazione –,
sotto una fronte lontanamente corrugata e sovrastata da corti
capelli brizzolati. Il volto trapezoidale aveva un'idea di barbume
scuro, come muschio adagiato su di una collina irregolare.
-
“Bravo.” continuò l'uomo, senza mutare tono.
-
Lo vide, con la coda dell'occhio, sedersi sbuffando, le gambe forse
accavallate, ben spalmato sulla sedia.
-
Lui cercò di mettersi a sedere, ma la cosa pareva ancora al di
fuori della sua portata.
-
“Lascia stare, non ne sei ancora capace. Questione di qualche
ora.” tagliò rapido quello. “Allora.” fece poi, quasi
allegro, o forse meglio sullo schernitore andante “Sentiamo la tua
storia.”
-
“La mia storia?”
-
L'uomo storse le labbra, senza nemmeno guardare l'altro negli occhi:
si allungò, come per stiracchiarsi, sbadigliando in modo
platealmente falso.
-
“Va bene” continuò dunque, annoiato. Poggiò il gomito sul
ginocchio, ed il mento sulla rispettiva mano: tutto flesso in
avanti, tornò al contatto visivo con l'altro.
-
“Io sono un medico. Sai cos'è un medico?”
-
Quello flesse le sopracciglia, perplesso.
-
“Certo che so cos'è un medico.” rispose, offeso.
-
“Tutti lo sanno” ribatté l'altro, seccato. “Ora, sai perché
hai bisogno di un medico?” continuò, quasi retorico.
-
Lui provò a pensarci su, e se ne uscì con la più banale delle
risposte: “Immagino di stare male.”
-
“Sei sagace, ragazzo.” fece il medico, più che sarcastico.
-
E non aggiunse altro.
-
Rimasero a guardarsi per qualche istante, muti.
-
Alla fine il medico sbuffò, alzandosi in piedi e prendendo a
camminare per la stanza.
-
“Di solito, a quest'ora, se ne escono tutti con la loro storia. Se
non lo fai da te, mi tocca chiedertelo esplicitamente:” tornò a
cercare gli occhi del ragazzo, l'espressione da professore intento
ad interrogare uno scolaro la cui preparazione si prospetta alquanto
insufficente. “Qual'è la tua storia?”
-
“La mia storia?”
-
“Sì, la tua storia.” rimarcò, spazientito.
-
Il ragazzo non rispose, ma parve pensarci sopra. A lungo. Alla fine
si strinse nelle spalle, arricciando le labbra.
-
“A dire il vero credo di avere un'amnesia.” rispose, placido. “A
ben pensarci, non ricordo nemmeno il mio nome.” La cosa non lo
sconvolgeva affatto: eppure sapeva, decisamente sapeva di dover
essere preoccupato in merito.
-
Il medico gli si avvicinò di qualche passo, insistendo: “No,
questo è normale.” fece, roteando gli occhi “La tua storia di
qua è andata, intendo – i tuoi veri ricordi sono persi,
rinuncia –, ma la storia rimane.” Attese, invano,
continuando a fissare il ragazzo. “Muoviti.” Insistette,
autoritario.
-
Ma il ragazzo rimase in silenzio, senza un singolo gesto, senza
mutare espressione: era il volto dell'ignoranza, che, ingenua, tenta
di capire un discorso fondato su basi che non possiede.
-
“Perché dovrei muovermi?” chiese infine.
-
“Me la vuoi raccontare o no?” ribatté il medico, seccato,
adirato in più dal dover costringere l'altro a far qualcosa di cui,
in fondo, a lui interessava ben poco. Ascoltare le storie degli
infetti – una rottura di scatole inenarrabile. Ci mancava solo che
dovesse pregarli per farsela raccontare: sfiorava l'apice del
ridicolo.
-
”Perché fra un po' inizierà a farsi sfocata, non avrai più le
idee chiare in merito – il che complicherà particolarmente il
lavoro mio, già di per sé noioso, e degli altri.”
-
“Gli altri chi?”
-
“Gli altri. Non ti interessa chi.”
-
“Ma..”
-
Il ragazzo si arrestò, vedendo il medico serrare le labbra, quasi
fosse intento a trattenere un urlo: l'uomo guardò il soffitto, poi
guardò il pavimento, ed infine tacque, congiungendo le mani davanti
al bacino e rimanendo immobile, in piedi, in attesa.
-
Il tempo trascorse. Silenzio.
-
Il ragazzo non pareva intenzionato a dir niente.
-
Il ragazzo, molto semplicemente, non aveva niente da dire: sperò,
per qualche minuto, che il medico si decidesse a dire qualcosa, a
spiegargli qualcosa, a magari ricominciare il discorso da un punto
più coerente. Forse, nella sua amnesia, si era perso qualche
dettaglio che l'altro dava per scontato.
-
“Mi scusi, ma io non capisco.” fece infine, iniziando a sentirsi
colpevole di tal ignoranza.
-
Lo sguardo del medico, allora, si fece vigile. Tornò, sbuffando, ad
accasciarsi sulla sedia accanto al letto, per poi rimanere a fissare
l'altro, meditabondo.
-
Fu, nuovamente, silenzio: ma questa volta al ragazzo parve non fosse
un silenzio da poter rompere, ma una pausa, coerente, nello spartito
del medico.
-
“Ti hanno trovato tre giorni fa.” iniziò, difatti, a narrare.
“Nudo come mamma t'ha fatto, disteso sul cemento ed amorevolmente
incosciente. No, non eri ubriaco. No, non eri fatto. E no, non eri
il primo che trovavano in queste condizioni: ce ne sono parecchi. Un
giorno li trovano, sistematicamente ignudi, intenti a camminare per
strade che palesemente non conoscono, o, come te, dormienti felici e
beati. Li portano qui, e, da anni, sempre la solita tiritera: non
ricordano chi sono, hanno solo vaghe idee sul come funzioni la loro
civiltà, presentano una mente poderosamente confusa – ma tutti,
tutti, hanno una storia. Sono convinti di essere qualcun
altro, che faceva qualche altra cosa, in qualche altro mondo
decisamente diverso dal nostro, ma per altri aspetti molto simile:
alcune storie sono più improbabili di altre, ma nessuna è
veramente troppo strana – voglio dire, non ho ancora
incontrato persone, chessò, nelle cui storie le leggi fondamentali
della fisica sono completamente ribaltate. Ci sono quelli convinti
di poter fare magie o idiozie simili, ma nessuno ha ancora avuto da
pontificare sull'attrazione gravitazionale. Quindi, sono storie.
Sono ovviamente fondate su basi coerenti con questo mondo – e
tutti, come ti dicevo, tutti hanno una storia.” Altra pausa nello
spartito: gli occhi azzurri, contornati da piccole rughe, rimanevano
incollati sul ragazzo, in attesa di una qualche reazione.
-
“Qual'è la tua storia?” ridomandò, infine.
-
Silenzio.
-
Il silenzio assistette ad un lento mutare: nel silenzio, il medico
passò da vigile a scocciato, da scocciato a interessato, da
interessato a incuriosito, da incuriosito ad entusiasta: uno due,
tre minuti, ed il suo volto, infine, si illuminò gaudente, gli
occhi fissi sul ragazzo.
-
Ma fu solo un istante, l'illuminazione sparì, ne rimase l'ombra
sull'espressione ora lontanamente divertita e concentrata.
-
“Tu non hai veramente una storia.”
-
“Non so di cosa stia parlando, signore...”
-
“Non era una domanda, stupido.” lo lapidò, alzandosi. “Torna
a dormire. E prega che non ti venga in mente nessuna storia, nel
mentre, o ti potrei ammazzare.”
-
Il medico uscì rapido, passo lungo, dalla sua stanza.
-
Il ragazzo rimase solo.
-
-
-
Non aveva un nome, un passato, un ricordo. Sapeva benissimo di avere
un'amnesia, e soprattutto sapeva che tutte le amnesie facevano sì
che si sapessero un sacco di cose, ma non si ricordasse nulla o
nessuno.
-
Ed ora, da quel che aveva capito, non aveva nemmeno una storia.
-
La cosa della storia, però, non la sapeva.
-
Sia per l'una che per l'altra cosa, sapeva per certo di dover essere
preoccupato. Era solo, in un mondo che non conosceva, con un medico
che concionava di un ipotetico qua, il che implicava anche un
ipotetico là: avrebbe dovuto sentirsi spaurito e
terrorizzato – anzi, forse avrebbe addirittura dovuto avere un
attacco di panico.
-
Forse avrebbe dovuto iniziare a dare di matto, urlando e chiedendo
aiuto, supplicando e piangendo finché non fosse passato qualcuno ad
immobilizzarlo e sparargli una dose palesemente eccessiva di morfina
nella flebo.
-
Ma lui non si sentiva affatto così. Provava una gran tranquillità,
e trovava il letto estremamente comodo. L'unica cosa che lo turbava
era il sonno: ma, per risolvere, sarebbe bastato dormire.
-
E quindi si riaddormentò.
-
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- [Nda]
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Qualche rapido appunto, senza dilungarmi troppo
-
Crossover: come già detto, è legittimo domandarsi, “con chi”?
Risposta: TUTTI. No, davvero, troppo complicato farsi un elenco.
Sebbene, in realtà, esista il problema dell'
-
Attribuzione: n alcuni casi scrivere chi è chi (non è detto che il
pg sia palese), ovvero scrivere in fondo al capitolo “tiziocaio
appartiene a gigiopirulo”, potrebbe essere uno spoiler epocale...
farò un file a lato che linkerò, in fondo alla pagina, con le
specificazioni di appartenenza, ed ognuno scelga se leggerlo o meno.
-
Circa la notorierà dei personaggi coinvolti: ribadisco che non
dovreste avere problemi e penso che li conosciate quasi tutti. Ad
ogni modo, se avete fra i 14 e i 28 anni, possedete un
televisore/usufruite di servizi online, siete moderatamente
mainstream, siete stati al cinema negli ultimi 10 anni, avete mai
visto un tg, possedete una vaga conoscenza della cultura italiana ed
americana, specialmente del popolo urbano, se avete avuto
un'infanzia relativamente felice, se avete letto almeno venti libri
in tutta la vostra vita... insomma, se siete un normale
frequentatore di efp o, con una possibilità d'errore parecchio
grande, se siete un “quasinormale” italiano/svizzero, garantisco
che conoscerete più che bene almeno il 60% dei personaggi, del 20%,
come minimo, ne avrete sentito parlare, ed il restante 10%,
tendenzialmente, non è importante. Ma la cosa carina è che, almeno
per i personaggi centrali, sarò costretta a parlare abbastanza
della loro “storia”, nei termini necessari per far proseguire la
trama, quindi alla fin fine – a parte il giochino dell “indovina
chi ho usato per fare la parte da due righe del vigile urbano” –
non dovrebbero esistere reali problemi di comprensione.
-
Durata/lunghezza/promesse di portarla a conclusione: boh. La sto
scrivendo per diletto, perchè non scrivo da troppo tempo, perchè è
una storia il cui scheletro avevo pronto da anni e che mi è venuta
voglia di scrivere. Spero, al solito, di concluderla, ma non posso
neanche lontanamente garantire. Né, tanto meno, ho idea di qualti
capitoli potranno uscirne né quanto tempo possa prendere. Di base,
è Long. Conoscendomi, è Very Long. Il che, per voi, “xè mal”,
dato che per una very long story abbisogno di ulissici tempi.
Avvisati.
-
-
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Capitolo 2 *** 2. Stelle Cadenti ***
DISCLAIMER
Questa
è una fan
fiction:
molti dei personaggi coinvolti non mi appartengono, ma sono proprietà
dei rispettivi autori; per una lista dettagliata (verrà via via
aggiornata): [SPOLER,
ATTENZIONE, SCONSIGLIATO LEGGERE]
LISTA PERSONAGGI ALTRUI /ATTRIBUZIONI
Capitolo 2: Stelle Cadenti.
“Inutile epiteto per far sembrare una cosa di
fatto terrificante come fosse, invece, quasi epica. No.
Epica un cazzo.” “A cadere ci si fa solo male al
culo.”
-
-
“Buondì.”
-
Buondì, rispose mentalmente lui. Ma non aprì gli occhi.
-
Continuava a pensare che, in fondo, dormire fosse la cosa migliore
da fare. Forse era l'unica che sapeva fare – di sicuro gli
riusciva particolarmente bene. Un lontano pensiero gli suggeriva che
questa era una strategia sbagliata, considerato che l'ultima volta
si era dimostrata più che fallibile.
-
Ma c'era qualcosa di diverso, qualcosa che lasciava aperto lo
spiraglio delle possibilità – ovvero il poter continuare a
dormire.
-
Dicono che chi dorme molto, se non malato fisicamente, è depresso.
-
Lui non si sentiva depresso, o almeno nulla gli faceva pensare di
esserlo. Forse lo era, dato che non ricordava nulla – magari non
ricordava di essere depresso –, e, per certi versi, si rendeva
conto di sapere molto poco, il che avrebbe effettivamente potuto
deprimerlo.
-
La storia della depressione, però, la sapeva. Un punto in più
per... …. per lui.
-
“Io non penso che tu possa dormire per sempre, ed anzi, da che ne
so dovresti essere già ben che sveglio. Sono passati a controllarti
meno di cinque minuti fa.”
-
“In cinque minuti ci si può riaddormentare.” rispose il
ragazzo, tradendosi più che consciamente.
-
“Buondì, dunque.”
-
“Buondì.”
-
Ma rimase con gli occhi chiusi. Forse, si disse, era un modo per
nascondersi dalla realtà in cui si era ritrovato.
-
Forse ne sapeva, prima, di queste cose: per questo continuava ad
elucubrare in merito. Magari aveva qualcosa a che fare con la
psicologia. O con la filosofia. O con entrambe.
-
O con nessuna, realizzò – aprì gli occhi, turbato da quel suo
ultimo pensiero: e se ciò che credeva di sapere, invece, non
esisteva? Se erano parole prive di significato, frutto della sua
mente? Era quella la sua storia? No, una storia era un
susseguirsi di eventi, di cose, di fatti. Queste erano solo piccole
luci nel suo universo, bagliori di conoscenza. Reale o fittizia?
-
“Esiste la psicologia?” domandò, di colpo, in un sol
fiato: solo poi levò gli occhi sulla persona lì presente,
scoprendo che non era affatto il medico con cui aveva discusso...
prima. Non sapeva quantificare quanto prima, ma poco importava.
-
“Certo, è – diciamo – lo studio della mente umana.” rispose
quello, con un sorriso accondiscendente.
-
Il ragazzo osservò il suo nuovo interlocutore, notando che aveva
poco o niente a che vedere con il medico: era grosso, anzitutto, e
abbondante di muscoli; leggermente alto, ma non troppo – il medico
pareva allampanato, in confronto – : ma, alla fine, il tratto
distintivo non poteva che non essere la lunga barba castana
contornata da altrettanto lunghi capelli, sconsideratamente folti e
voluminosi. La sua voce era bassa e confortante.
-
“Ed esiste il rugby?” domandò poi il ragazzo, dopo
averlo osservato per qualche istante.
-
L'uomo abbozzò una risata, roboante, che si quietò rapida in un
sorriso largo sui denti banchi e dritti.
-
“Sì, certo. Non sei il primo a darmi del giocatore di rugby. E'
bello sapere che tutti si ricordano del rugby – ma no, non gioco a
rugby.”
-
Preso in contropiede, il ragazzo lo osservò muto per qualche altro
istante.
-
“Forse dovresti pensare di iniziare.” concluse.
-
“Sì, forse dovrei.” annuì l'altro, sedendosi. “Allora, io mi
chiamo Sib. Tu?”
-
“Boh.”
-
“Seriamente?” fece quello, perplesso.
-
Evidentemente era un'opzione possibile, per quanto ai limiti, vista
l'espressione di Sib. Il ragazzo corresse rapidamente il tiro,
spiegando:
-
“Nel senso che non me lo ricordo.”
-
“Intendo quello della tua storia.”
-
“Uh.” mormorò, aggrottando le sopracciglia. “A quanto pare
non ho una storia.”
-
“A quanto pare?”
-
“Ne avevo parlato prima – non so quanto prima – con il
medico.”
-
“Quale medico?”
-
Il ragazzo tacque un istante, riconoscendo nel tono una vaga
sorpresa. Non stava chiedendo 'chi?', ma piuttosto 'come/perchè
diamine tu hai parlato con un medico?' .
-
Non serviva essere particolarmente lucidi per realizzarlo.
-
E a dire il vero, ora come ora, il ragazzo si sentiva decisamente
poco lucido: i dubbi si susseguivano. Forse non esisteva
medico? Se lo era immaginato?
-
Fantastico, quindi era anche fuori di testa, oltre che depresso.
Oppure le due cose andavano di pari passo.
-
Sib, vedendolo disorientato, giunse in suo soccorso: “Alto, volto
irregolare, fronte ampia, burbero, ti ha chiesto della tua storia?”
-
“Sì.” rispose il ragazzo, in un sospiro di sollievo.
-
“Ah. Quel medico. Non ti preoccupare, dunque. Andiamo
avanti.”
-
“Cos'ha che non va?” domandò invece l'altro, preoccupato.
-
“Niente di particolare, puoi stare tranquillo. Semplicemente non
è un medico.”
-
“Perché” – irruppe una voce, roca, dalla porta – “ti
ostini a sabotare i miei metodi di comunicazione con i novellini?”
-
Il ragazzo, sollevando il busto, vide la figura del
medico-non-medico avvicinarsi a lui, comparso dal nulla.
-
“Quindi tu non sei un medico.” fece il giovane, lentamente,
quasi volesse convincersi della cosa.
-
“Non ufficialmente. Diciamo che aiuto.”
-
“Piantala con questa storia, Serge.” lo ammonì Sib, roteando
gli occhi. “Poi si capisce perché i nuovi sono disorientati. Eri
appostato? Origliavi?”
-
Serge rimase lì, in piedi, scrutando i due, senza dar risposta.
-
“Sì, ovviamente.” si rispose da solo Sib.
-
Silenzio, ancora.
-
“Serge, per favore” – un 'per favore' non molto educato
– “puoi andartene così posso fare il mio lavoro?”
-
“Nessuno vieta che io stia qui” ribatté l'altro. “Così
possiamo lavorare in due – sinergia, Sib. Vedrai che
efficacia.”
-
“Certo, sinergia, infatti non ti sei nemmeno degnato di
darmi il rapporto sulla storia del ragazzo.”
-
“Il ragazzo non ha una storia.” tagliò corto Serge.
-
“A maggior ragione...” rincarò Sib, i denti stretti in
quello che quasi pareva un ringhio.
-
“Stavo facendo ricerche in merito, per la cronaca. Il mio
lavoro. Bastava che aspettassi il rapporto, felix.”
-
Nella vignetta, il ragazzo si era messo maldestramente a sedere,
ascoltando interessato lo scambio di battute fra i due. Pro: pareva
esserci un'organizzazione, dietro a tutto questo marasma in cui si
trovava. Contro: Serge non era un medico.
-
“Andiamo avanti, allora.” riprese Sib, con l'aria di chi più
che un rospo ha ingoiato una vacca, per giunta gravida. “Facciamo
questa cosa della sinergia.” Marcò l'ultima parla con
palese disappunto incredulo, e si voltò verso il ragazzo. Cercò,
dunque, di riprendere con metodo quanto iniziato prima: “Sei senza
nome, il che è normale. Di solito estrapoliamo un nuovo nome da
quello della tua storia, almeno per iniziare ad avere un riferimento
– ma se quanto riferito qui da Serge è vero, sei senza storia, il
che ci complica la faccenda.”
-
“Tutto questo caos per un nome?” domandò il ragazzo, perplesso.
“E' solo un nome.”
-
“E' importante.” rispose Sib, calmo e quasi paterno “Se inizi
dal nome hai un punto per costruire chi sei. Se è, diciamo, 'uguale
ma diverso' al nome che avevi nella tua storia, ti aiuta a
dissociarti da essa in modo meno traumatico.”
-
“Tanto, poi, nessuno si dissocia dalla sua storia” interruppe
Serge. “Pippe mentali che non servono a niente.”
-
“Grazie, Serge, il tuo contributo è molto sinergico.”
-
Il ragazzo espirò, confuso, ma determinato a risolvere quanto prima
la questione. Non voleva farsi bloccare da un semplice nome. Voleva
andare avanti, aveva bisogno di saperne di più: e tutto lasciava
intendere che ci sarebbe voluto tempo, un sacco di tempo, che non
voleva perdere così scioccamente.
-
“Posso chiamarmi Bianco e la finiamo là?”
-
“Bianco?” domandò perplesso Sib. Serge, divertito, annuiva.
-
“Boh. La stanza è bianca, è la prima cosa che mi è venuta in
mente. Magari posso chiamarmi Rugby, se Bianco non ti piace. A me
non interessa.”
-
“Pragmatico, il ragazzo” commentò Serge.
-
“Senti” fece Sib, sospirando pazientemente “non puoi avere un
nome così casuale. Voglio dire, alla lunga bisogna anche
considerare le implicazioni sociali...”
-
“Sib, lascialo chiamarsi Rugby. E' fico.”
-
Sib sfiatò, esausto a causa della compagnia di Serge: portò lo
sguardo sul ragazzo, guardandolo dritto negli occhi:
-
“Vuoi veramente chiamarti Rugby? Ne sei certo?”
-
Il ragazzo non rispose.
-
Adesso iniziava ad avere dei dubbi.
-
“Va bene” ammise infine il giovane “forse è un po' troppo
frettolosa, come scelta. Tirata a caso. Ma non ho una storia, quindi
non ho bisogno di slegarmi da qualcosa che non ho, no? Non è poi
così importante, da quel punto di vista. Forse lo è da, quello che
hai detto tuo, il punto di vista sociale. A dire il vero non so
quali siano nomi 'socialmente accettabili'. Aiutatemi voi.”
-
Serge e Sib si guardarono, improvvisamente carichi di una
responsabilità più gravosa del solito.
-
Di norma, l'iter che affrontavano con i nuovi era leggermente
diverso: si iniziava convincendoli che no, la loro storia non
era vera – compito semplificato dal fatto che lentamente i ricordi
in merito si facevano sempre più vaghi. Entro qualche ora si era
riusciti a spiegargli in che condizione si trovavano, e che
avrebbero dovuto iniziare un percorso di reinserimento nella società
piuttosto prolisso. Nella ricerca del nome erano sempre
collaborativi e tranquilli – non che il ragazzo si stesse
dimostrando poco collaborativo, anzi, ma per allora Serge avrebbe
già dovuto dargli una rapida infarinata riguardo la loro infezione,
il loro passato ed il loro futuro.
-
Qui, il disgraziato, continuava a brancolare nel buio: a conti fatti
c'era da stupirsi che si fidasse di loro due.
-
Alcuni tentavano di scappare, all'inizio – più volte Sib le aveva
prese (più raramente rese) da qualcuno intento a cercare
un'ipotetica libertà. Libertà che non esisteva, a meno di tentare
un suicidio. Da quel mondo non si scappava. Dalla realtà non
si scappava.
-
Ma no, il ragazzo, nonostante fosse ancora all'oscuro della
questione principale, era più che collaborativo.
-
Sin troppo collaborativo.
-
Forse era proprio perché non aveva una storia.
-
“Sai...” ammise infine Sib “In genere ci limitiamo ad
anagrammare il nome della storia finché non ne esce qualcosa che
agli altri suona orecchiabile e civile.”
-
“... ok.” fece il ragazzo, senza tradire alcuna delusione in
merito: voleva davvero solo chiudere la faccenda quanto prima –
era più che evidente.
-
“Quindi...” cercò si riprendere Sib, mentre pensava ad una
strategia alternativa.
-
“Anagramma Rugby e Bianco, allora. Tanto fa... le lettere sono
solo lettere, alla fine.”
-
Sib fece per sospirare profondamente, ma Serge lo interruppe prima
ancora che potesse finire d'inspirare: “Bair.”
-
“Bair?” fece il ragazzo
-
“O, se vuoi complicarti la vita, Bayir.”
-
“Bayir.” ripetè quello, marcando la 'y' aggiunta. “Bayir.
Sì. Ok.”
-
“Va bene?”
-
“Bene. Benissimo.”
-
“Bayir...” sembrò masticare Sib. “Ok...”
-
“Fatto?” domandò Bayir.
-
“Fatto.” fece Sib, annuendo perplesso, come fosse deluso dalla
semplicità in cui si era risolta la cosa. “Adesso hai un nome.”
Ma, in fondo, era solamente un problema in meno.
-
-
***
L'aria fredda dell'esterno giungeva a lei in una bava di vento, una
vaghissima brezza che si infilava nella mastodontica galleria in cui
camminava. Poche centinaia di metri, da percorrere su di un cemento
leggermente accidentato, e si sarebbe ritrovata all'aria aperta,
circondata dalla vegetazione scheletrica della tundra autunnale. Che
immensa forza, però, trasparivano quegli arbusti rachitici. Il
terreno, duro, sembrava essere sterile – eppure no, v'era
qualcosa, v'era di che a sufficienza da lasciar vivere quelle
piante, insistenti ed ostinate. La tundra non era affatto
sterile, si ripeteva lei – e lo ben sapeva: d'estate, poi, per
quei due mesi in cui la tundra viveva, era magia pura. Sorrise
leggermente nel riscoprirsi a rinnovare tal pensiero, mentre copriva
gli ultimi metri che la separavano dall'esterno. La giubba che
portava, lunga e squadrata, era fatta apposta per uscire all'aperto:
Tessera, la città, se ne stava sotto. La gente preferiva non
uscire, normalmente. Questo faceva sì che, in quel che lei
riteneva un paradosso, fosse assai più semplice organizzare gli
incontri alla luce del sole. C'era qualcosa di sbagliato, in
questa dinamica. Di solito era il contrario. Era sempre stato
il contrario. Tranne che a Tessera, evidentemente. “Tu pensi
troppo.” Sussultò, colta di sorpresa – tanto da rischiare di
perdere la presa sulla sacca che portava con sé –, voltando con
uno scatto il capo verso la figura che l'aveva affiancata nel suo
incedere. Inspirò profondamente, cercando di calmarsi, dopo averlo
riconosciuto. “La cosa ti dà fastidio?” rispose all'uomo,
con un certo astio – un po' forzato. “Fai interferenza.” si
limitò a rispondere quello, il quale, dal passo più lungo, la
superò come se nulla fosse. La ragazza si morse le labbra,
infastidita dall'aver concesso così facilmente l'ultima parola
all'altro. Ne osservò la schiena per qualche istante, finché non
venne, finalmente, investita dalla luce del sole. Si fermò,
socchiudendo gli occhi e respirando l'aria gelida
dell'esterno. “Muoviti.” parve ordinarle l'altro, la voce
profonda e greve, senza nemmeno degnarsi di voltarsi. Lei schiuse
le palpebre, roteando gli occhi e riprendendo a camminare. Due
anni che lo conosceva, ed ancora lo percepiva come un estraneo più
che inquietante: anzitutto perché quello si ostinava a rimanere il
più freddo possibile, ed in secondo luogo per quella sua dannata
caratteristica, quel suo passo inumanamente felpato ed impossibile
da percepire – almeno, per lei. Lo considerava quasi un fantasma,
un essere che compariva e scompariva dal nulla e le cui interazioni
si limitavano al minimo indispensabile – salvo, come in questo
caso, dilettarsi in qualche frecciatina gratuita. Sospirò,
riprendendo a camminare, costringendosi a non accelerare il passo
per raggiungerlo. “Hai sentito quelli dell'Unione?” fece, con
un tono sufficientemente alto da farsi sentire, ma non abbastanza da
far intendere di voler essere sentita. In pratica, costrinse l'altro
a tendere le orecchie. “No.” rispose quello, con un tempo di
reazione sufficientemente lungo da farle capire che la tattica era
riuscita. “Dicono che ne hanno trovato uno nuovo, ma non sono
riusciti a prenderlo. ” “Sono degli idioti.” l'uomo aveva,
in minima parte, decelerato. La ragazza riuscì a raggiungerlo:
missione compiuta. Non che lui lo avrebbe mai ammesso. Ma, in
fondo, le informazioni gli interessavano, anche se doveva sorbirsi
la ragazza come tramite. “Sta al centro di
riabilitazione.” “Quelli dell'Unione sono dei coglioni. Sarà
il quarto, questo mese. Non ne hanno tirato su nemmeno uno, in
pratica, quest'anno. – se vanno avanti così, possiamo anche
sospendere la collaborazione.” “Ma bisogna considerare
che...” Quello grugnì, sbuffando. “Lascia perdere.”
tagliò. E il discorso si chiuse, senza un chiaro
motivo. Probabilmente David si era stufato di parlare,
nient'altro. La ragazza sospirò, continuando a pensare mentre
camminava di fianco all'altro. “E' noto che il servizio di
'Consulenza e Sostegno per i Caduti' dell'Unione è molto migliore
di quello dell'Alleanza, le statistiche degli ultimi tre anni –
” “Lascia Perdere è troppo complicato da capire, per
te?” “No, ma, David –” L'uomo grugnì, nuovamente,
sopra al suo nome. La ragazza lo scrutò perplessa, notando il
fastidio al riguardo. “Non eravamo d'accordo di chiamarci con
il nostro vero nome?” domandò, lei per prima incapace di capire
se la domanda era reale o retorica. “Lascia Perdere.” Quella
si fermò, definitivamente inacidita: “Possibile che non si riesca
a fare un discorso coerente con te?!” David, dapprima, non
rispose, continuando ad avanzare. L'altra rimase immobile,
osservandolo allontanarsi. “Muoviti.” fece poi l'uomo. Fu
lei, questa volta, ad emettere una specie di grugno. “Io
non...” “Servizio di Consulenza e Sostegno...” lo sentì
mormorare, scettico. “Sono solo accalappiacani.” “Ma le
–“ “Muoviti!” rincarò. E il discorso, se tal si
potesse definire, terminò.
***
Sib fece per uscire dalla stanza, quando Serge lo
richiamò: “Dove stai andando?” “A fare rapporto –
almeno abbiamo un nome.” “Io devo fare rapporto prima
di te.” “Tu devi fare il tuo lavoro, prima di
fare rapporto.” Bayir, ormai, aveva capito che c'era una
dinamica consolidata nel rapporto tra i due. Una specie di paventato
antagonismo – forzato da Serge ed ogni tanto palleggiato da Sib –
il quale, se di sicuro divertiva il primo, non si poteva escludere
fosse solo una seccatura per il secondo. Bayir – ormai il
ragazzo l'aveva capito – era uno a cui piaceva pensare: al
momento, pensava al motivo per cui si era venuta a creare una
relazione del genere. Poi, di colpo, si rese conto che non stava
prestando attenzione alle cose importanti. O almeno quelle che
sapeva essere importanti: come, ad esempio, capire dove fosse di
preciso e cosa stesse succedendo. Non aveva ancora capito dove si
trovava, a dirla tutta: di certo c'erano solo i medici (ma non
Serge), la psicologia ed il rugby. Quei due potevano essere dei
rapitori, ora che ci ragionava sopra: una stanza apparentemente
d'ospedale non aveva stretta necessità di esserlo. L'idea che
forse era nei guai gli soggiunse relativamente tardi. Per
l'ennesima volta, sapeva che doveva essere preoccupato. Ma non si
preoccupò. E sapeva che il suo non preoccuparsi era
sbagliato. “Allora, prima che tu faccia rapporto, io
faccio il mio lavoro, com'è giusto che sia, e io faccio
rapporto, com'è giusto che sia.” “E così io faccio la
figura del ritardatario perché tu hai perso tempo a fare non
so quali assurde ricerche, o cose del genere – No. Grazie.”
Sib espirò, scuotendo il capo sotto la massa di capelli castani.
“Perdonaci, Bayir.” “Sapete” fece il ragazzo “mi
domando come mai battibecchiate così tanto.” I due lo
scrutarono, atterriti dalla sua sincera curiosità – no, non
ingenua, ma sincera: li osservava con gli occhi di chi scruta
interessato l'agire di due macachi. “Domanda interessante.”
fece Serge, dopo un isto di silenzio. “Forse il nostro psicologo
di fiducia qui presente potrebbe aiutarci. Allora, Sib?” Sib
sfiatò: “Possiamo smettere di divagare?” “Da cosa
stiamo divagando, di preciso?” chiese Bayir, con un accenno di
sorriso in faccia. “Dallo spiegarti come funziona il tutto.
” Serge annuì, storcendo le labbra: Bayir lo scrutò
perplesso, facendo poi spallucce. “Sto ascoltando.” “Sib è
un ottimo narratore.” proruppe Serge “Sarà divertente
ascoltarlo. Io vado.” “Dove?” ringhiò Sib,
inacidito, gli occhi sgranati per lo stress che evidentemente si
doveva provare nell'essere colleghi di Serge. L'altro non
rispose, ma mosse un paio di passi verso l'uscita. Quando gli fu
accanto, posò una mano sulla spalla di Sib: quello sentì tutto il
suo peso premergli sul muscolo –Bayir stesso notò l'innaturalità
del movimento: l'uomo si stava appoggiando a Sib per compiere il
passo successivo. “A prendere il bastone, tanto per
cominciare.” Il passo successivo, che lo divideva dalla porta,
lo compì barcollando. “Serge...” Quello lo ignorò,
girando la maniglia e infilandosi nella stretta apertura che si era
creato – la gamba destra rigida. Bayir lo osservò, le palpebre
quasi chiuse per la concentrazione, cercando di estrapolare qualcosa
di sensato da quanto stava avvenendo. Ma, no, aveva bisogno della
favola: Sib aveva un volto fra l'iracondo ed il preoccupato – la
seconda una sfumatura nuova, nella sua espressione, specie se si
considerava chi era la causa di tal preoccupazione. “Vado a
fare il medico.” concluse Serge, fra il secco e l'esultante, prima
di chiudersi la porta alle spalle. Bayir, che continuava la
politica della silente osservazione, attese. Dopo qualche istante
Sib fece un lungo sospiro, talmente prolisso da sgonfiare del tutto
i suoi probabilmente enormi polmoni. Le spalle gli si incurvarono a
poco a poco, assieme al capo, che andava chinandosi. Rimase in
quella posizione, involuto, per qualche altro momento. “Va
bene...” fece, poi, parlando a sé stesso: inspirò, riacquistando
in un sol respiro tutta la sua altezza e possenza, voltandosi verso
Bayir. “Scusaci. Non è semplice nemmeno per noi – immagino
avrai le idee parecchio confuse.” Bayir si strinse nelle
spalle, sedendo sul letto a gambe incrociate: “Più semplicemente
direi che non ne ho.”
Erano stati chiamati Stelle
Cadenti. Un nome su cui Sib aveva qualcosa da ridire, sebbene
il commento al riguardo fu fatto a voce molto bassa, parlando
praticamente fa sé e sé. La teoria, al momento, sosteneva che
fossero stati infettati da un virus – ignote le modalità del
contagio – che scombinava le loro menti procurandogli un'amnesia,
per quanto se ne sapeva, irreversibile: in compenso forniva loro un
set di ricordi nuovo di zecca, tendenzialmente sconclusionato ed
inverosimile. Come gli aveva detto Serge, era normale trovarli in
stato confusionale o svenuti, per strada, sistematicamente nudi.
Come piovuti dal cielo, figli di un altro mondo, convinti di vivere
in una realtà diversa – ma non troppo – dalla loro. Un
problema che per Bayir non sussisteva, dato che di realtà
alternative a cui fare riferimento non ne aveva affatto. Tutte le
stelle cadenti, o i caduti, erano stati qualcuno, qualcosa –
spesso pure abbastanza importante, da che ne dicevano. Bayir
ascoltava, mentre nel sottofondo della sua mente continuava a
ronzare uno scetticismo inascoltato: era vero? Non era vero? Poteva
fidarsi? Il ragazzo zittiva – anzi, ignorava – la
pseudocoscienza, assorbendo come una spugna. Perché, si chiedeva
ogni tanto, dovrei credere a Sib? Perché gli sto credendo? Dovrei
essere diffidente, andava, lentamente, ripetendosi. Dovrei essere
molto diffidente. Ma, nonostante questi pensieri, avido di
informazioni, ascoltava. E credeva. Cos'altro poteva fare, in
fondo? Qualche certezza, fosse anche quella di non essere nessuno in
un mondo di ignoti, doveva averla. Doveva assorbirla. Voleva una
base. Ascoltava. Riservandosi la possibilità di rinnegare
tutto, un giorno – ma no, non ora.
“Ora come ora ti
ritrovi al Servizio di Consulenza e Sostegno per i caduti
dell'Unione.” la voce di Sib era profonda e confortevole. Parlava
con un tono sì serio, ma anche sconsideratamente dolce. Lo si
guardava in volto, se ne scrutava la massa muscolare, e tutto
lasciava intendere un enorme contraddizione. Una contraddizione
confortante, in fondo: sembrava che quel molosso fosse lì, paterno,
pronto a proteggerti. Non era male, come idea. “Ah, già.”
fece poi l'uomo, come se avesse dimenticato un punto fondamentale
“Il mondo – che, per la cronaca, è circa sferico – ma a ben
pensarci anche su questo in pochi hanno avuto da ridire – dicevo,
il mondo, ora come ora, è diviso in due grandi paesi: l'Unione, il
nostro e l'Alleanza. Negli ultimi decenni le cose vanno
relativamente bene, a parte qualche screzio. Non sono due imperi in
guerra, tanto per intendersi. Non ora.” “Quelli dell'Alleanza
come sono?” domandò il ragazzo, inclinando il capo, le mani
poggiate sulle caviglie. “Come noi. Più o meno. Devi avere
pazienza, ci sono alcune cose fondamentali che devi sapere – e che
si è constatato la maggior parte dei caduti non sa – e sono
parecchie. Resterai al centro di riabilitazione – cioè, qui –
per un po'.” “Quanto po'?” Sib si strinse nelle spalle.
“Dipende da come reagisci. Alcuni escono in due settimane, altri
in sei mesi.” Il ragazzo parve sospirare, nascondendo una vaga
rassegnazione. “Domande?” Bayir levò un sopracciglio,
scrutando Sib: “Troppe.” L'uomo inclinò il capo,
meditabondo. “Ho ancora una ventina di minuti per te – poi devo
andare. Prova.” “Andare a fare cosa?” “Non intendevo
questo genere di domande.” “Ah. Scusa – non volevo
impicciarmi.” Sib si trattenne dal ridacchiare per l'ingenuità
di Bayir: il ragazzo lo vide compiere un paio di sussulti, risate
smorzate che si erano trasformate in un paio di profondi singhiozzi
ed un sorriso sul volto. “Ci sono tanti
Caduti?” “Abbastanza.” “Quanti, nel centro?” “Credo
che avrai cinque o sei compagni 'di studi' . ” “Non mi paiono
tanti – a meno che … quanti abitanti ci sono nel
mondo?” “Una decina di miliardi.” Bayir sapeva
decisamente fare i conti – quando si rese conto di tale abilità,
se ne compiaque tanto da lasciarsi scappare un gaudente
sorriso. “Considerato il tempo medio di permanenza e anche
ammettendo che la gente 'cada' da un centinaio di anni, a occhio è
comunque impossibile raggiungere anche solo l'un per mille della
popolazione – non mi paiono tanti.” Sib sorrise, vedendolo,
entusiasticamente, prodigarsi in tentativi di statistica. “Hai
ragione, ma è abbastanza da poter creare un problema.” Il
ragazzo storse le labbra, dovendo riconoscere che l'altro aveva
ragione. Rimase in silenzio, mentre le domande gli si affollavano
in mente: chi era Sib, anzi tutto? E chi era Serge? Serge lo
incuriosiva di più, considerata la pantomima a cui aveva
assistito. Quello che proprio non gli interessava era chi era
lui, Bayir. Quello non lo scalfiva. Meglio così, si
disse. Ma una domanda più insistente delle altre sgomitò nella
sua testa: “Ma noi non siamo veramente Caduti, direi. No?
Voglio dire... la gente normale è come noi?” “Oh, sì, certo
–” Sib rispose frettolosamente, temendo il seguito. Bayir
tacque ancora un istante, e poi continuò: “Quindi, se l'idea è
che siamo affetti da amnesia, prima dovevamo essere qualcun
altro – sbaglio?” Sib sospirò. “Così pare.” “Quindi
immagino che famiglia, o amici, o conoscenti – qualcuno... noi
abbiamo qualcuno, no?” L'ultimo sospiro di Sib fece
intendere quanto poderosa fosse la capienza dei suoi polmoni. “Ecco
– questo è un punto leggermente delicato.” fece poi, con il
tono di chi sta camminando sulle uova. Cercava disperatamente le
parole per riuscire a dare una risposta che non fosse esattamente
una risposta piena – troppo lungo da spiegare, uno dei problemi
principali era educarli a gestire quel particolare aspetto
della loro esistenza – ma che fosse abbastanza soddisfacente da
non fargli scatenare la tipica valanga di domande che affligge il
Caduto in tal situazione. “Abbi pazienza, Bayir... ti verrà
spiegato.” non era una risposta molto confacente, si rese conto,
man mano che andava pronunciando le parole che la
componevano. “Quindi non c'è nessuno.” concluse il ragazzo.
“Com'è possibile? E' legato al virus? La gente muore? Magari tu e
Serge siete vaccinati?” Sib si alzò, rendendosi conto di non
essere in grado di sostenere oltre la conversazione. “Non è
quello il punto... diciamo che – mh – diciamo che non è
semplice riconoscere un Caduto.” sbuffò. “Ti prego, fai tesoro
di questa piccola informazione ed abbi pazienza.” Bayir scrutò
l'uomo, resosi conto di quanto l'aveva messo in difficoltà. E
poi c'era sempre la vocina, in fondo: chissà, si ripeteva. Chissà
se è vero. La porta si aprì – uno spiraglio da cui comparì
prima un bastone, e poi la testa di Serge. “Scusate se
interrompo –” proruppe, in un tono ben lungi dall'esser
di scuse “ – siete arrivati alla parte dei Caduti, sì?” Sib
assottigliò le palpebre tanto da non aver quasi più luce ad
incontrar le sue pupille. “No, gli ho esposto un trattato di
fisica che spiega in modo ragionevole e incontrovertibile perché il
cielo è blu durante il giorno.” “Ah. Ah. Divertente.”
Serge voltò lo sguardo verso Bayir, fissandolo. “Devo solo dire
una cosa a Bayir, che dico sempre a tutti.” “... prego.”
rassegnato era un eufemismo, per Sib. “Ricorda: a cadere ci si
fa solo che male culo.” La porta si chiuse. Bayir decise
che non valeva la pena di essere confuso già ora, altrimenti
avrebbe passato la sua vita in stato confusionale. Registrò, e
lasciò correre. Sib sospirò.
_________________________________________________
[NDA]
Buonsalve. Spero che quanti non hanno letto lo spoiler (spero che
non leggiate lo spoiler =P) abbiano inquadrato qualche piggì.
Vabbé, dai, uno è facile. Ad ogni modo, come promesso, la storia
di ognuno verrà fuori comunque a seguire.
Enjoy.
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