Storie di mondi paralleli

di dreamkath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La chiave d'argento ***
Capitolo 2: *** Il sogno ***
Capitolo 3: *** La palestra ***



Capitolo 1
*** La chiave d'argento ***


Il primo profumo che si sentiva, subito dopo aver varcato la soglia di casa Dono, era quello di fiori. Erano freschi e ben disposti in modo di ottenere un odore gradevole e non troppo intenso. A tutti piaceva quel profumo, in particolare a Lidia, la figlia di mezzo della famiglia Dono, dato che le infondeva sicurezza e le ricordava di appartenere a quel luogo. Il desiderio di trovarsi al sicuro nella propria casa era in contrasto con la vitalità di Gaia, la sorella maggiore, che alla ruotine preferiva scoprire cose nuove e visitare luoghi che non aveva mai visto. Le due sorelle andavano d'accordo e si volevano bene, ma, pur avendo amici comuni, i loro interessi e le loro reazioni a determinati eventi erano differenti. Lidia aiutava la madre a fare la spesa, a fare le pulizie e nel suo tempo libero, quando non usciva con gli amici, giocava al computer o in giardino con Nino, il loro cane bassotto. Gaia, invece, usciva spesso, talvolta si cacciava nei guai, e, per scappare dalla noia quotidiana, si lasciava trasportare dai suoi pensieri fantasticando su guerrieri immaginari, scalatori intrepidi e astronauti temerari. Quasi ogni sera Gaia raccontava le storie che la sua mente aveva plasmato a Lidia che rimaneva sempre affascinata dai suoi racconti, ma allo stesso tempo impaurita. Oltre allo sconfinato affetto tra le sorelle, ad unirle erano queste fantasie, nonostante i caratteri differenti.
Sara,la terza e ultima sorella, che andava ancora alle medie mentre le altre due erano alle superiori, era studiosa, un po' viziata e cinica. Non ascoltava più le storielle della maggiore da quando aveva otto anni e, motivo di lite con Gaia, ha sempre desiderato crescere sempre più in fretta.

La mattina dell'undici settembre era l'inizio di un nuovo anno scolastico per le tre sorelle e come al solito anche il vicino poteva sentire il trambusto che ogni mattina si ripeteva uguale a se stesso o quasi.

Sara, come al solito, era davanti all'armadio che chiamava disperatamente la madre perché non aveva ancora stirato la sua maglietta preferita. Lidia ignorava la confusione e, dato che era già pronta, aveva sistemato la valigia del computer della madre nella loro auto, una volvo xc60. E infine Gaia non perdeva occasione di rinfacciare alla sorella di essere viziata.

Tutto questo finì in meno di mezz'ora e in una decina di minuti arrivarono tutte e tre le sorelle a destinazione. Sara frequentava la seconda media che era l'edificio accanto al liceo linguistico di Gaia che ormai era all'ultimo anno e al liceo scientifico di Lidia.

All'entrata comune dei due licei una ragazza allegra e sorridente dai capelli castani insieme a un ragazzo dai capelli neri e occhi verdi aspettavano l'arrivo delle due sorelle.

“Ciao, come avete passato le vacanze?” chiese il ragazzo.

“Bene, siamo andati al mare.” Disse Lidia che fu interrotta dalla sorella per rimproverare il povero ragazzo.

“Abbiamo spedito le cartoline sia a te che a Giulia,ma tu non hai risposto! Potevi farti sentire, screanzato.”

“Scusa, lo sai che sono andato sempre in quell'isola dimenticata da tutti dove non prendono i cellulari.”

“Mi vuoi anche dire che non hai avuto il coraggio di dire ai tuoi che volevi restare qui per le vacanze? Sei proprio un caso perso...”

“Tu non sai quanto è spaventosa mia madre appena si critica il suo paese natale. Quindi sono da compatire... sai cosa vuol dire essere tagliato fuori da tutto e da tutti? L'estate più orrenda è stata la mia.”

“Questo succede perché sei un codardo.” Disse sospirando Giulia. “La prossima estate vi trascino tutti nella mia villa a mare e ci penso io a convincere i tuoi.”

“Grazie Giulia, sei la mia salvezza..”

“Stik” Fu il commento di Gaia.

“Dai Gaia, non essere dura con lui. In fondo non è un codardo... è solo sua madre a fargli questo effetto. È stato lui a toglierti dai guai un po' di volte.”

“E va bene per questa volta ti perdono.”

“Cos'è questo tono di superiorità?” Disse quasi ridendo il ragazzo.

“Roberto, io ti uccido!” disse mentre stava suonando la campanella che annunciava l'inizio delle lezioni.

“Come sua maestà ordina,ma la campana divina mi chiama.” Roberto scappò a tutta velocità verso la sua classe mentre Lidia e Giulia ridevano come matte e Gaia per rincorrerlo inciampò su un ragazzo per poi rassegnata andare anche lei in classe senza nemmeno chiedere scusa.

Lidia e Giulia che frequentavano la stessa classe occuparono due posti in seconda fila vicino alla finestra. I loro compagni erano sempre gli stessi dell'anno precedente e così anche l'aula che presto si era riempita. Sebbene Lidia fosse sicura che non mancasse nessuno dei suoi compagni di classe c'era ancora un banco vuoto in ultima fila che fu occupato da un nuovo studente dopo che la sua apparizione in classe aveva suscitato commenti civettuoli che lui aveva prontamente ignorato. Era alto e magro, aveva capelli castani così come i suoi occhi e sul suo viso non c'era alcuna ombra di un sorriso. Ma quello che colpiva prima di tutto non era il suo aspetto fisico, ma il suo abbigliamento. Indossava un paio di jeans stretti e un po' strappati con una catena che pendeva da un fianco, una maglietta con il nome di un famoso gruppo musicale e sull'orecchio sinistro portava un orecchino.

Di certo non era uno stile che si vedeva in una classe di un liceo, ma le ragazze non disprezzarono la sua immagine.

“È cool. Non trovi, Lidia?”

“ È serio, sembra quasi schivo...sembra quasi triste.”

“Ma, no...vorrà solo stare un po' da solo e poi è nuovo non ha nessuno con cui parlare.”

“Sarà...”

Il primo giorno di lezioni passò in fretta perché i professori chiesero delle vacanze, esposero il programma dell'anno che doveva iniziare e per far integrare il nuovo ragazzo lo costrinsero a parlare un po' di sé anche se lui in effetti non disse molto. Si chiamava Luca Torre, gli piaceva nuotare e giocare a tennis e alla domanda sul motivo del suo trasferimento rispose che erano motivi familiari con un tono che non ammetteva altre domande al riguardo. In meno di un ora tutti i compagni di classe avevano capito che era inavvicinabile a meno che lui non lo volesse.

Lidia non trovava nulla di strano in quel ragazzo né di così affascinate come aveva sentito dire da alcune compagne di classe. Pensava solamente che fosse un anima solitaria come un lupo dal pelo grigio che vive solitario in una fitta e buia foresta. Questa era ciò che secondo Lidia era la mente del ragazzo: fredda, fitta e oscura nella quale si ci può perdere perché non si riesce a capire il filo conduttore che lega i suoi pensieri. E tutto quest'ignoto un po' la spaventava e perciò non fremeva per saperne di più.

Giulia e Lidia uscirono dalla classe e si lasciarono dietro due ochette che stavano tentando di parlare con Luca, ma che furono respinte con perdita.

“Hai visto?” Disse Giulia a Lidia mentre uscivano dalla scuola per incontrarsi con Gaia, Roberto e forse anche con Paolo che era il migliore amico di Roberto.

“Che?”

“Daniela e Paola sono state appena respinte da Luca...”

“Chiunque sano di mente non socializza con loro... mi domando come sono arrivate in terza.”

“E dai, non fare così, in fondo la curiosità colpisce tutti...Devo chiedere a Roberto cosa ne pensa.”

“Lui è l'opposto di Luca!”

“Già...e Gaia?”

“Ma...” Fece una pausa,e indicando con l'indice i tre che dovevano incontrare disse: “Eccoli,andiamo. E non pensare più a quello nuovo.”

La prese per il braccio destro e la trascinò dai loro amici. Sembravano fusi nonostante fosse il primo giorno di scuola.

“Sembrate sconvolti.” Affermò Lidia

“Abbiamo solo iniziato oggi ad ascoltare le lezioni dei prof dato che siamo in quinta.” Disse Paolo che fu interrotto da Gaia per esprimere lo stesso pensiero dei futuri maturandi.

“E non è tutto! Ci hanno fatto una testa quanto un melone perché abbiamo gli esami quest'anno...che noia!”

“Che ne dite di venire a casa nostra per distrarci per due orette e poi siete liberi di studiare o di mandare tutto a quel bel paese?” Propose piena di felicità Gaia.

“Tanto la mamma non rientrerà prima di stasera dal lavoro e Sara si chiuderà nella sua stanza... il massimo che ci potrà dire è che sprechiamo il nostro tempo e e che siamo dei bambini....quindi direi che si può fare.” Confermò con entusiasmo la sorella.

Così gli amici accettarono di buon grado e tutti quanti entrarono in casa Dono e assaporarono il profumo delicato di fiori che si sentiva nell'ingresso.

“Siamo a casa con dei nostri amici.” Gridò Lidia all'unisono con la sorella per avvisare del loro rientro alla più piccola che rispose con due parole: “niente casino”.

Roberto rise e con un inchino copiato da un film del settecento disse:

“Come la principessa desidera...”

“Noooo, dovevi dire sua eccellenza.” Commentò Paolo

“Siete i soliti” disse Giulia. “Vuole solo la sua tranquillità”

Roberto e Paolo alzarono gli occhi al cielo e Gaia tossi teatralmente. L'unica che non commentò fu Lidia che li invitò nello studio al secondo piano.

C'era una libreria piena di libri e enciclopedie, una scrivania con un computer e una radio, e un divano sotto una finestra chiusa. I ragazzi invitati dalle due sorelle si sedettero sul divano mentre Gaia e Lidia su due sedie.

“E tu, Giulia, dove hai passato le vacanze?” Chiese Lidia

“Come ogni anno sono stata nella mia villa al mare e ho conosciuto in spiaggia alcuni ragazzi simpatici. Se volete la prossima estate ve li presento.”

“E di ragazze?” Chiese Roberto.

“Si, tranquillo...anche se non trovi la fidanzata non casca il mondo.”

“Per lui è di vitale importanza dato che non l'ha mai avuta.”

“Non è vero...c'è stata Luisa.”

“Quella che ti ha mollato dopo due settimane.” Disse Gaia.

“E Laura che ti ha lasciato dopo due giorni.” Concluse Giulia. “Credo che possa essere un record mondiale.”

“Non ci posso fare niente se mi innamoro sempre della persona sbagliata.”

“Compa', è meglio solo che male accompagnato soprattutto da certe lingue biforcute.” Disse Paolo guardando Gaia. “Fatti, nomi e persone sono puramente casuali. Ehm come Gaia, Giulia.”

“Credo di non aver sentito bene.” Cercò di ritrattare Gaia.

“Usa amplifon. La prova è gratuita dato che sei una spilorcia.” Disse Roberto andando in supporto a Paolo.

“Ti stavo proponendo di ritrattare la tua versione... e poi non sono spilorcia.” Lidia nel frattempo rideva come una matta e Giulia picchiava Paolo con un cuscino.

“Lidia potresti far qualcosa invece di ridere. Sta insultando la tua sorellona. Il signorino che non sa come comportarsi con una ragazza. Manca di tatto e delicatezza.”

“Senti da che pulpito viene la predica. La ragazza che non fa alcuna fatica per cacciarsi nei guai e che rischia di essere coinvolta in risse.” Replicò sorridendo Roberto.

“Se questo” Disse Paolo indicando Giulia che lo stava malmenando con un cuscino. “significa essere delicate è tutto dire.”

Gaia come risposta lanciò i due cuscini rimanenti in faccia a Roberto che ne rilanciò uno a Gaia e l'altro a Lidia dicendo:

“La smetti di ridere?”

Lidia non riusciva a smettere: era letteralmente piegata in due dalle risate. Roberto, dato che Lidia era leggera e piccola di statura, riuscì a sollevarla e la mise sulla sua spalla a testa in giù. La ragazza, non molto contenta della situazione dato che soffriva di vertigini, protestava e dava dei piccoli pugni sulla schiena del ragazzo. Giulia guardò insieme a Gaia la scena ridendo mentre Paolo approfittava della distrazione di Giulia per fornirsi anche lui di un cuscino e per iniziare la vera lotta. Ormai il chiasso poteva sentirlo anche il vicino che, come al solito, quando avrebbe avuto l'occasione, avrebbe rinfacciato alla famiglia Dono i rumori continui che doveva sopportare, ma nessuno ci faceva caso. Ormai l'allegria si era sparsa in tutta la stanza e non esistevano più il tempo e lo spazio perché per loro ciò che importava veramente era sentirsi parte di un gruppo che condivideva emozioni, passioni e vita.

A causa della confusione nessuno dei ragazzi si accorse del rumore della porta d'ingresso che si apriva e inaspettatamente si accorsero che qualcuno li aveva fotografati mentre erano impegnati nella lotta con i cuscini. Era un uomo di quarant'anni, anche se dimostrava di averne almeno cinque anni in meno, con capelli della stessa sfumatura castana di Lidia.

Tutti si erano fermati e guardavano il nuovo arrivato e Gaia insieme alla sorella di mezzo dissero:

“Papà!”

Lidia lasciò cadere il cuscino a terra e andò ad abbracciarlo mentre Gaia disse:

“Sei in anticipo di un giorno. Non dovevi fare delle fotografie per un documentario?”

“È stata spostata la programmazione. Non sei contenta di vedermi? Questa foto è da poster.”

Gaia alla domanda retorica del padre gonfiò le guance e non rispose, ma chiese di vedere la foto che aveva scattato.

“Si, eccola.” Disse porgendole la macchina fotografica. “Lidia non mi presenti i tuoi amici?”

“Lei è Giulia, dovresti ricordarla... l'hai vista lo scorso capodanno. Lui è Roberto e l'altro è Paolo.”

“Bene vi lascio soli. Dov'è Sara?”

“In camera sua.” Disse Lidia mentre Gaia borbottava qualcosa come: “come sempre”.

I ragazzi una volta soli proposero di uscire per fare una passeggiata al parco che non era molto distante da casa Dono. Lidia inizialmente oppose resistenza, ma fu convinta da Gaia che le suggerì di portare anche il cane con loro.

“Papà, noi usciamo rientreremo tra un'oretta.”

Disse Lidia prima di chiudere la porta d'ingresso alle sue spalle.

La casa era rimasta silenziosa e il signor Dono stava bussando alla camera della figlia minore per chiedere il permesso di entrare. Sara riconoscendo la sua voce spalancò la porta e saltò al collo del padre. La ragazza adorava suo padre e quando c'era lui il suo viso si illuminava in un sorriso. Era come se la scura e cinica Sara si trasformasse. Questo avveniva perché era solo lui che riusciva a capirla e lei per essere all'altezza delle sue aspettative si stava dando da fare così tanto nello studio. Sara riusciva a parlare del suo desiderio di diventare un astronoma e dei suoi sogni in generale solo con suo padre e questo era un problema. Suo padre stava spesso via per lavoro e la madre la vedeva solo la sera tardi e per pochi minuti la mattina perciò per voler ricevere un po' di attenzione si lamentava spesso e si comportava da viziata.

“Papà, guardiamo insieme il planetario?”

“Sì.” Il padre e Sara si sedettero sul tappeto e lui gli spiegò quello che sapeva e, come era solito, la ragazza si addormentò sulla spalla del padre.

Il fotografo prese la sua macchina fotografica e le scattò una foto prima di adagiarla sul letto per poi uscire dalla stanza chiudendo la porta. Ormai Lidia e Gaia erano  tornate. La sorella maggiore era andata di malavoglia a studiare mentre l'altra era entrata nella sua camera e stava fissando una piccola scatola. Lidia non ricordava che cosa ci fosse dentro e l'aprì. Era una piccola chiave d'argento che, se non ricordava male, le aveva comprato insieme a Gaia due anni fa perché ricordava la chiave porta fortuna di una protagonista di una delle storie della maggiore. La prese in mano e con questa si addormentò sprofondando in un bizzarro sogno del quale l'indomani non avrebbe avuto alcun ricordo.

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Capitolo 2
*** Il sogno ***


Lidia fluttuava senza alcun peso tra le poche stelle che illuminavano un paesaggio a lei del tutto estraneo. Montagne ombrose e cupe torreggiavano, in un contrasto quasi irreale, sulla grande città che si distendeva disarticolata e caotica in un intreccio di suoni, luci e ombre. Lidia sapeva che era un sogno, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la fastidiosa sensazione che il paesaggio sotto di lei acquisisse sempre più consistenza man mano che si avvicinava ad osservare le vie della città. I dettagli diventavano sempre più nitidi: non percepiva solo quelli visivi, ma anche i suoni e gli odori. L’unico senso che non sembrava connesso era il tatto. Pur essendo a contatto con il ruvido asfalto non sentiva l’attrito sui suoi piedi nudi, né tanto meno il peso del suo stesso corpo. Era libera, ma anche sperduta in una città che non conosceva. La paura si insinuò vigliaccamente nel suo corpo paralizzato, e per un attimo ritornò ad essere la bambina di cinque anni che si era persa al mercato. Per calmarsi aveva bisogno di distrarsi. Si guardò attorno e, non appena vide una panchina, vi si sedette in silenzio guardando i passanti sfilare sul marciapiede. Osservare le persone in uno qualsiasi dei momenti quotidiani era un hobby che non aveva mai saputo rimuovere, nonostante le numerose volte in cui la madre le ricordava che fissare a lungo gli estranei era un gesto rude.

Trovava sempre nelle loro pose qualcosa che valeva la pena disegnare, qualcosa che legava sia le sue emozioni che quegli estranei al suo album da disegno. Anche in quello strano sogno trovò il suo soggetto e inconsciamente prese a seguirlo, dapprima solo con lo sguardo, poi, in un secondo momento, affiancandolo. Lo aveva scorto quasi subito, e, tra tutta quella folla, sapeva che lui sarebbe stato il soggetto di quell’osservazione. Si sentiva una calamita attratta dalla sua figura schiva, ma non per questo meno notabile tra le altre. Perciò allungò il collo per poter scrutare a fondo ogni dettaglio del suo aspetto e per ritrarre insieme ad esso anche quello dell’animo. Una forza più grande di lei la fece dissolvere e mescolarsi all’essere del ragazzo. Adesso non era Lidia Dono, ma era lui. Ogni sua emozione le apparteneva, ogni suo gesto lo comprendeva, ma la sua presenza era solo passiva non interferiva con la volontà del ragazzo in alcun modo.

Camminava lentamente tra sorrisi, chiacchiere, passi frettolosi e silenzi. I suoi occhi cupi e scuri avrebbero potuto trovare un’anima affine nelle acque del torbido lago, che lento scivolava dalla profondità oscura dell’orizzonte fino alla costa, sulla quale colori e suoni si mescolavano in un tipico scenario notturno ed estivo. Tuttavia, il ragazzo non rivolse mai lo sguardo verso il lago. L’unico oggetto della sua distratta, se non del tutto assente, attenzione era il suolo del ponte che stava attraversando. Manteneva le spalle curve per permettere alle mani di restare nelle tasche dei jeans scuri. Il cappuccio della felpa copriva i capelli disordinati e le cuffie, con le quali stava assordando la mente pur di non pensare e di scacciar via la rabbia, la solitudine e il senso di colpa che lo avevano tormentato negli ultimi giorni con particolare insistenza. Avevano messo radici salde e penetranti, martellavano, picchiavano la coscienza, facendo ora accelerare il passo, ora muovere il braccio in un gesto di stizza.

Pochi passanti fecero caso al ragazzo, ancora meno si chiesero cosa gli passasse per la testa, ma nessuno si fermò a chiederglielo.

Perché quel dolore? Perché quella rabbia continuava a scuotergli l’anima come se il dio della guerra fosse sceso a patti con Nettuno? Perché la rabbia veniva mitigata dal senso di colpa, ma non smorzava il dolore? E perché la solitudine lo faceva sentire così indifeso, così arrabbiato e così vuoto? Non c’erano né una risposta, né un vera causa. Sapeva solo che gli prudevano le mani, che le sue corde vocali erano in fiamme, perché volevano urlare contro il mondo e le persone che non gli avevano insegato a comunicare, a rendere più facile quel gioco fragile di parole.

L’unico momento di pace era durante un rissa. La rabbia scacciava il resto. Non c’era più posto per la ragione. Mentre combatteva, sentiva solo il respiro affannato, le ossa che si rompevano sotto le sue nocchie e un punta di insoddisfazione. Non aveva mai avuto difficoltà nel buttarsi nella mischia e darle di santa ragione a chiunque avesse avuto il fegato di irritarlo. Un occhiata storta, dei commenti poco apprezzabili ed era fatta: lo scontro iniziava. Neanche la rissa di quella sera si era lasciata supplicare per essere fomentata. Quel gruppetto sgangherato di soli tre coetanei, appena uscito da un bar, lo aveva preso di mira non appena lo vide camminare lentamente sul marciapiede difronte.

“Ehi, amico! Come mai quell’aria truce?” Chiese con tono derisorio il ragazzo che sembrava il leader, mentre gli sfilava le cuffie. In pochi secondi si vide circondato e, sorridendo a quell’opportunità di sfogare la sua rabbia, sferrò un pugno al ragazzo che gli aveva rivolto la parola. Il setto nasale del ragazzo si spezzò sotto il colpo e il dolore lo costrinse a piegarsi in due, mentre le lacrime gli sfocavano la vista. Una volta a terra, infierì su di lui con un calcio sulla mandibola che lo fece sdraiare supino. Uno degli amici del ragazzo dolorante cercò di reagire e di sorprenderlo alle spalle, ma ormai quell’uragano di rabbia seppellita dentro di lui era stata liberata dal guinzaglio e non poteva più essere fermata. Alla fine non rimase altro che sudore, sangue e quell’odiosa insoddisfazione. Il ragazzo si rimise le cuffie alle orecchie e riprese a camminare sempre con la stessa andatura e sempre senza alzare lo sguardo, neanche quando aveva cominciato a piovere. A quel punto Lidia riprese possesso della sua identità e per la prima volta realizzò che lui gli ricordava il nuovo arrivato, Luca. Era un animale ferito, chiuso in una gabbia con nessuna consapevolezza di come uscirne. Una lacrima solcò le guance di Lidia e, al posto del ragazzo, per la prima volta in quella sera, guardò il cielo: era nero e carico di nuvole.

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Capitolo 3
*** La palestra ***


La palestra

Era passata solo una settimana dal primo giorno di scuola, ma già circolavano nuove voci, una più assurda dell'altra, su Luca, il nuovo compagno di classe di Giulia e Lidia. C'era chi scommetteva che la sua precedente scuola lo aveva espulso per il suo comportamento violento contro i compagni di classe, chi giurava che facesse parte di un gruppo di motociclisti di corse clandestine, chi ancora diceva di averlo visto coinvolto in una rissa, e, infine, c'era chi aveva azzardato l'ipotesi che avesse combattuto per amore. Tutto questo trambusto era sorto perché Luca si era presentato in classe con un livido sulla mascella, qualche abrasione su entrambe le braccia, e un piccolo ematoma violaceo sulla clavicola molto simile ad un succhiotto. Quando i più temerari avevano tentato di chiedergli cosa fosse successo, lui li aveva fulminati con lo sguardo e li aveva liquidati con un breve e coinciso "fatevi i cazzi vostri". Inutile a dire che le sue parole riuscirono a far sì che nessuno gli ronzasse a torno, con l'effetto collaterale di alimentare i pettegolezzi e l'antipatia di chi aveva ricevuto la suddetta risposta. Luca, però, non se ne curava affatto. Si estraniava dalle chiacchiere con l'aiuto di un paio di auricolari e scribacchiava qualche appunto confuso su un agendina di carta riciclata.

Lidia guardò fuori dalla finestra dopo che la campanella aveva segnalato l'inizio della ricreazione. Il cielo era nuvoloso e sembrava che dovesse piovere da un momento all'alto, quasi come se il tempo volesse riflettere ciò che il cielo aveva nel cuore, come se la volta celeste attraverso le nuvole esprimesse la propria tristezza e la propria ostilità. A questo pensiero Lidia girò lo sguardo verso Luca e, involontariamente, rimase per qualche minuto a fissarlo. C'era qualcosa in quel ragazzo che richiamava il cielo in quel momento. Forse era il suo atteggiamento freddo e quegli occhi che non infondevano calore. Forse era la sua assente voglia di comunicare. Forse entrambe le cose. La verità era che Lidia non lo sapeva. I suoi gesti, le ragioni dietro le sue azioni erano zone sconosciute. L’unica certezza era la curiosità e il timore, sentimenti opposti che pervadevano la sua mente di dissidi e di domande confuse.

Il ragazzo, sentendosi osservato, girò lo sguardo verso di lei e per qualche secondo i loro occhi si incrociarono. Per un attimo gli occhi di Luca cambiarono come se volessero capire quello che passava per la mente di Lidia, senza però riuscirci.

Giulia sorrise e fece capire all'amica che lui la stava fissando. La ragazza, vergognandosi, diventò rossa e distolse lo sguardo.

“Il principe del mistero ha colpito ancora, vero?”

Lidia non rispose alla domanda perché sapeva dal suo tono che la stava punzecchiando e che dandole una risposta non avrebbe fatto altro che gettare benzina sul fuoco.

Giulia, notando l'atteggiamento dell'amica, non smise di ridere per tutto l'intervallo mentre Lidia diventava ogni minuto più rossa.

Le ore rimanenti passarono da una lezione all'altra non senza bisbigli e mormorii che riguardavano l'argomento della settimana.

Lidia guardò perplessa Giulia che alzò le spalle e disse:

“Che esagerati. Potrebbe essere successo qualunque incidente...ma devo ammettere che lui sa proprio come attirare l'attenzione.”

“Io credo solamente che voglia essere lasciato in pace.”

“Questo non lo metto in dubbio...”

“Andiamo a fare un giro al parco oggi pomeriggio dato che è sabato.” La interruppe Lidia nel tentativo di reindirizzare l’argomento.

“Con questo tempo? E poi non me la fai. Vuoi parlare d’altro in modo che io non ti rinfacci i minuti che hai perso ad osservarlo.”

“Non è vero!”

Giulia la guardò e, cercando di rimanere seria, alzò le sopracciglia come a dirle “Ah sì?”, senza, però, riuscire a mantenere a lungo quella parvenza di superiorità. Dopo pochi secondi la sua espressione era diventata talmente ridicola che, mentre le sue labbra si incurvarono in un sorriso nonostante i suoi sforzi per reprimerlo, Lidia ruppe il silenzio con una sonora risata e una pacca sulla schiena della sua amica.

“Ah, ci rinuncio! Questa volta hai vinto. Per oggi cercherò di non rinfacciarti nulla”

“Ecco, brava”

“Però quel rossore…”

“La vuoi smettere? Guarda, c’è Roberto che sta uscendo dall’aula.”

Lidia trascinò Giulia con sé per salutarlo, sperando di aver messo una pietra sopra l’argomento.

“Finite le lezioni, Tappette?” disse Roberto aprendo così un nuovo conflitto armato.

“Bene, Gigante. Se la metti così che ne dici di una sfida a basket?” rispose Giulia dimenticandosi di aggiornarlo sul comportamento di Lidia.

Come risposta chiamò Gaia e Paolo che erano ancora in classe e, dopo avergli spiegato la situazione, si accordarono sull’orario e sul luogo.

“Campetto dello sport, quattro e mezza. Due contro due. Paolo fa da arbitro.”

“Non fare il boss, Roberto. Quello è il mio compito.”

“Non prima delle quattro e mezza” Replicò ridendo e scambiandosi il cinque con Gaia.

Paolo a suo malgrado rise.

Quell’atmosfera di pace, ironia e autoironia era stato da sempre il loro solido equilibrio che negli anni della loro adolescenza avevano reso sempre più saldo. Ogni tanto scoppiava qualche litigio, ma non duravano mai a lungo. Si sostenevano a vicenda e molto spesso trovavano dei modi per cacciarsi nei guai per poi tirarsene fuori con qualche lacrima che alla fine si trasformava in sorriso.

Le sfide erano un loro modo di confrontarsi e divertirsi in armonia. Ma presto quell’equilibrio sarebbe stato incrinato per la serie di eventi che sarebbero andati ad intrecciarsi inesorabilmente con le loro vite. Un primo passo verso di essi era stato l’arrivo del nuovo studente. Un secondo, ciò che accadde nel pomeriggio.

Il campetto dello sport era una struttura di medie dimensioni e piuttosto vecchia. Dopo l’inaugurazione della nuova struttura, era stato abbandonato a se stesso, senza alcuna manutenzione né interna né esterna. L’erba ormai cresceva selvaggia dove il cemento era crepato e pezzi di intonaco dondolavano dalla struttura per poi cadere e sbriciolarsi sull’asfalto. Il comune non si era nemmeno preoccupato di chiudere a chiave la porta, solo il piccolo cancello d’ingresso era stato serrato con un lucchetto.

“Dai, Roby ce la puoi fare.” Disse Lidia che aveva già scavalcato il cancello.

“No che non ce la fa” Replicò Paolo con una risatina sommessa, guardando l’amico seduto sopra il cancello. “Ha paura delle altezze.”

“Tutto ciò è semplicemente ridicolo.” Disse Gaia rincarando la dose. “Sei un vigliacco. Scendi da lì proprio come ci sei salito”.

“Dai, Gaia” –disse Giulia- “non fare così, ha solo bisogno di una spintarella”

Prima che Roberto potesse comprendere ciò che voleva fare Giulia, la ragazza lo aveva già raggiunto sul cancello e gli aveva dato una pacca sulla spalla che lo fece scivolare e restare appeso a penzoloni aggrappato alle sbarre con una sola mano.

“Bene, adesso molla la presa. La terra sotto ai tuoi piedi è molto più vicina di ciò che pensi.”

Roberto si lasciò andare, non perché avesse vinto la paura, ma semplicemente perché la mano aveva perso la presa sulle sbarre. Una volta a terra guardò con aria risentita Giulia e disse:

“Te la farò pagare sul campo di basket. Piccola peste! Non aspettarti nessuno sconto.”

“Questo lo vedremo.” Replicarono in coro Giulia e Lidia.

Paolo diede una mano a Roberto a rialzarsi da terra e seguì le ragazze che li avevano preceduti all’interno del campetto.

Lo scenario all’interno, se possibile, era ancora più pietoso dell’esterno: le linee del campo erano quasi del tutto cancellate, i canestri erano arrugginiti e senza rete e la maggior parte delle sedie che componevano gli spalti erano state rimosse da vandali. Per fortuna il pavimento del campo non presentava crepe, altrimenti sarebbe stato molto facile cadere durante la partita.

I due schieramenti si posizionarono sul campo: Gaia e Roberto da un lato, Lidia e Giulia dall’altro. A bordo campo, invece, Paolo si preparava a usare il pollice e l’indice come sostituti del fischietto di gara.

“Pronti, partenza, via!” - urlò Paolo- “La gara ha inizio, signori. Oggi siamo qui per assister a una partita fenomenale. Tappetti contro Tappette. La gente urla negli spalti. È un vero e proprio delirio. Delle esclamazioni di gioia, sostegno e qualche insulto random volano da entrambe le parti. Ah ecco che Giulia perde il possesso di palla grazie a un favoloso intervento di Roberto che viene acclamato come una star. E poi inaspettatamente le ragazze iniziano anche a osannare l’arbitro”

Il suo discorso vanaglorioso venne interrotto da Gaia che urlò un “ma per favore!” mentre metteva a segno un punto a favore per la sua squadra.

“Fai la cronaca della partita” concordò Roberto mentre ghignava e gongolava nella direzione di Giulia.

“Non è ancora finita. Anzi è appena iniziata” Replicò Giulia a denti stretti.

“Il campo si sta infervorando già da adesso. Auspico che non si inizi a fare il gioco sporco. Ed ecco che Lidia tocca per la prima volta palla, con un favoloso dribbling sorpassa gli avversari e tira… ma purtroppo non va a segno. Il disappunto del pubblico si fa sentire, ma un coro di non ‘arrendetevi e forza’ esplode scacciando a calci i criticoni. Il rimbalzo preso da Gaia non ha portato alcun vantaggio perché la palla è stata rubata da Giulia che finalmente pareggia i conti.”

Un figura confusa si appiccicò alla finestra e piano piano prese forma. Poteva essere tranquillamente scambiata per l’ombra proiettata da un albero, tranne per il fatto che l’unica vegetazione al di fuori del campo erano le sterpaglie. Lidia fu l’unica a notarla e in essa vi vide un ragazzo non molto più grande di lei che le faceva segno di seguirlo.

“…Giulia va di nuovo all’attacco e mette Roberto sulla difensiva. La marca in modo così serrato che è costretta a passare la palla a Lidia e… ahi, ahi che botta!”

Tutti quanti accorsero dalla ragazza per accertarsi che stesse bene. Di certo un palla d basket in pieno viso non era stata una sensazione piacevole.

“Stare più attenta, no eh? Che cosa stavi guardando?” le disse Gaia tra il preoccupato e il furioso.

“Ho visto qualcuno dalla finestra.” Si umettò le labbra secche “Un ombra… o qualcosa del genere”.

Tutti seguirono lo sguardo di Lidia e indugiarono per qualche secondo sull’erba incolta e sulla grondaia arrugginita appena visibili dalle finestre sporche della palestra.

“Non sembra esserci nessuno.”

Delle voci abbastanza vicine per essere udite, ma sufficientemente lontane da non essere capite, presagivano l’avvicinarsi di due o più persone all’entrata nord della struttura.

“È ora di tagliare la corda”

“Per una volta sono d’accordo con te”

"Non è la prima volta".

"Ma stai zitto"

Giulia e Lidia fecero segno ai due di tacere, mentre Paolo controllava se dall’uscita più vicina potevano squagliarsela, prima di essere beccati in reato di violazione di domicilio. Badando a tener occhi e orecchie ben aperti, si lasciano alle spalle il cigolio di una delle porte della palestra e, senza correre, si affrettarono a scavalcare il cancello per mettere quanta più strada possibile tra loro e chiunque fosse entrato nel campo da basket.

“Fermi” disse Lidia ansimante “siete troppo veloci e poi siamo…” “lontani”. Si portò una mano al petto e una al muretto che segnava il nome della via. “No…Oh, no!”

E proprio mentre Lidia si tastava il collo e capiva cosa si era lasciata dietro, la mano di un ragazzo raccolse la catenina dal ciondolo a forma di chiave che, dopo la caduta, era scivolata sul pavimento della palestra.

“Ragazzacci, lasciano bottiglie e sporcizia dappertutto”

“Muoviamoci” disse la seconda voce maschile, mentre si metteva in tasca l’oggetto che aveva appena raccolto “Non siamo qui per questo” si passò una mano tra i capelli “Prima chiudiamo il portale e meglio sarà per tutti”.

“Odio questo lavoro”

Ignorando le lamentele del collega, il giovane si fece avanti e, portando una mano davanti al volto come per mostrare gli anelli che aveva sulle dita, disse:

“Revelio”

Una luce, che nessun umano avrebbe potuto guardare senza restarne accecato, avvolse l’intera palestra per mostrare ai guardiani il confine che era stato violato. Dal suo colore violetto, appresero due notizie. Quella buona era che nessun umano aveva accidentalmente varcato il portale, quella cattiva era che uno spirito aveva avuto accesso al mondo terrestre.

“Afferra lo spirito, Edoardo. È ancora nelle vicinanze”.

“Lo so meglio di te.”

Chiuse gli occhi e nella sua mente iniziò a definirsi, con pennellate bianche e nere sempre più precise, la stessa palestra che ad occhi aperti avrebbe visto a colori: spalti divelti, canestri senza rete, le soffice volute del portale e una macchia bianca dalle sembianze confuse presero forma nel suo personalissimo mondo parallelo. Era lui. Lo aveva trovato. Una scarica di euforia mista a compiacimento personale trasformarono la curva delle labbra indignate per il degrado della palestra in un ghigno soddisfatto e strafottente.

“Sei mio!”. Alzò i palmi delle mani contro il fantasma e lo colpì con un onda d’urto tale da farlo indietreggiare fino ad inciampare sull’ingresso del portale.

“È ora di sigillare quel bastardo”.

Clauditis te

Con uno chiocco delle dita la nuvola viola si dissolse e la palestra tornò ad essere più desolata di prima.

“Stai attento a come parli. C’è andata bene solo perché era uno spirito malinconico. Se ci fossimo trovati di fronte ad uno spirito iroso, o peggio, ad un Viandante, le cose non sarebbero andate così bene”.

“Luca, smettila di farmi la paternale…” “ehi, aspetta.”

Il viso sudato del ragazzo si contorse in una smorfia e, senza girarsi, fece un cenno stanco al suo compagno.

“Lascia perdere, torniamo a casa”.

Angolo dell'autrice:

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vi abbia incuriosito. Se avete qualche commento o qualche appunto da fare, lasciate una recenzione o tuttalpiù contattatemi sul mio profilo di efp. Se invece non volete (per un motivo o per un altro), vi ringrazio ugualmente per aver letto fino a qui. Alla prossima.

D.

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