Grimm - No more happily ever after

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** The Fairytale Department ***
Capitolo 3: *** Beyond the Closed Door ***
Capitolo 4: *** I Don't Believe in Fairytales! ***
Capitolo 5: *** Bloody Snow-White ***
Capitolo 6: *** Who is Afraid of the Big Bad Wolf? ***
Capitolo 7: *** The Prophecy ***
Capitolo 8: *** Hidden in the Darkness ***
Capitolo 9: *** Dreams Never Come True ***
Capitolo 10: *** The Prisoner ***
Capitolo 11: *** Sins of the Father ***
Capitolo 12: *** Until the End of the Last Hope ***
Capitolo 13: *** The Boogieman, part I ***
Capitolo 14: *** The Boogieman, part II ***
Capitolo 15: *** Hooked ***
Capitolo 16: *** Straw ***
Capitolo 17: *** A Poisoned Soul ***
Capitolo 18: *** Ghostly, Deadly Beautiful, part I ***
Capitolo 19: *** Ghostly, Deadly Beautiful, part II ***
Capitolo 20: *** AVVISO! ***
Capitolo 21: *** Ghostly, Deadly Beautiful, part III ***
Capitolo 22: *** Maleficent ***
Capitolo 23: *** Red Hair Under the Sea, part I ***
Capitolo 24: *** Red Hair Under the Sea, part II ***
Capitolo 25: *** The Black Swan ***
Capitolo 26: *** The Black Swan - Odile's Plan ***
Capitolo 27: *** The Black Swan - The Ball ***
Capitolo 28: *** Broken ***
Capitolo 29: *** Witch Hunt ***
Capitolo 30: *** Witch Hunt - The Black Cat ***
Capitolo 31: *** Human ***
Capitolo 32: *** Winter's Tale ***
Capitolo 33: *** A Gingerbread House Deep in the Forest, part 1 ***
Capitolo 34: *** No More Mr. Nice Guy! ***
Capitolo 35: *** Kill the King ***
Capitolo 36: *** The Deal is Struck ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Prologo

 

Cappuccetto Rosso incespicò in una grossa pietra, cadendo in avanti sul terreno bagnato. La ragazzina cercò disperatamente di rialzarsi, con il volto rigato di lacrime. Gemette, portandosi una mano al volto. Tre profonde e lunghe cicatrici le marchiavano il volto imbrattato di sangue fresco. Il labbro era squarciato a metà dalla traccia di un grosso artiglio.

Cappuccetto Rosso udì un ululato in lontananza, seguito da un ruggito che le fece accapponare la pelle. Si rialzò in fretta, cercando di rimettersi a correre ma riuscendo solo a zoppicare e incespicare sull’erba umida e sporca. Udì dei passi non umani seguirla velocemente, e cominciò a correre più forte, con disperazione. La mantella rossa era chiazzata di fango e sangue, il vestito stracciato da un grosso morso, i capelli scompigliati e anch’essi imbrattati di sangue.

La ragazzina incespicò di nuovo, cadendo miseramente al suolo. Iniziò a singhiozzare, mentre i passi alle sue spalle si facevano sempre più vicini, fino a fermarsi. Udì un altro ringhio.

Cappuccetto Rosso ansimò, voltando lentamente il capo alle sue spalle.

Ebbe appena il tempo di urlare, prima che delle zanne aguzze si avventassero su di lei.

 

Angolo Autrice: Ciao a tutti! Questo è un esperimento che ho in mente da tanto tempo, e che ho deciso di mettere in pratica solo adesso, sperando di non combinare un mezzo disastro…

Per chi ha letto la mia ff Il mostro e la fanciulla, sa che ho la brutta abitudine di stravolgere malamente le favole e, come avrete capito dal titolo di questa storia (che, vi avverto, è solo abbozzata nella mia mente e non so bene dove mi porterà…), qui le cose le stravolgerò parecchio, quindi, se siete amanti del canon, non leggete!

Beh, che dire? So che come prologo non è granché, ma mi piacerebbe sapere la vostra opinione, mi darebbe coraggio.

Grazie per aver letto, ciao!

Dora93

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Capitolo 2
*** The Fairytale Department ***


 

The Fairytale Department

 

New York, ore 8:30 a. m.

 

Richard Hadleigh aveva sempre detestato il suo ufficio. Sin dalla mattina impestava un nauseabondo puzzo di sigaro e di caffè, senza contare che il Dipartimento Favole era proprio a due passi dalla mensa, sicché anche l’odore di cavoli bolliti e detersivo per i piatti voleva la sua parte. I muri erano scrostati e dal soffitto ci pioveva dentro, senza contare che la signora addetta alle pulizie, non appena giungeva in prossimità di quella zona, veniva colta da un improvviso attacco di panico e fuggiva sempre prima di venire contaminata dalla sporcizia che regnava sul pavimento.

Non occorreva essere Nostradamus per indovinare che, in tutta la centrale di polizia, il Dipartimento Favole era considerato come la ruota bucata del carro.

Hadleigh si chiedeva spesso a cosa fossero serviti un diploma e cinque anni di accademia, se il suo destino era stato quello di ammuffire per quasi vent’anni su una sedia con l’unico compito di…ricostruire la casa ai tre porcellini!

Il capitano si tolse di dosso il pesante cappotto invernale, specchiandosi nel vetro della finestra rigato da gocce di pioggia. Aveva quarant’anni, i suoi capelli castano scuro erano striati qua e là da fili grigi, ma questo era anche disposto a sopportarlo. Quello che non riusciva a spiegarsi era come mai il suo viso fosse sempre come ricoperto da un velo grigio, perché quelle lievi rughe intorno agli occhi fossero un segno evidente di quella stanchezza che si portava dietro giorno dopo giorno…

La verità era che, a quarant’anni, si sentiva un completo fallito. Quando era diventato poliziotto, ed aveva cominciato a lavorare alla centrale, fresco di accademia, neanche conosceva l’esistenza del Dipartimento Favole. Erano stati i suoi superiori a spiegarglielo, quando l’avevano collocato lì. Si trattava di una sezione molto particolare, gli aveva spiegato l’allora cinquantenne capitano Fraser. Al suo sguardo incredulo, il suo mentore aveva risposto spiegandogli che tutte quelle fiabe, sì, quelle stesse fiabe che i nostri genitori ci raccontavano da piccoli, e che lui stesso leggeva alle sue figlie prima di andare a letto, erano vere.

Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, i tre porcellini…erano tutti personaggi reali, proprio come lo era lui. Ma non vivevano lì, nel loro mondo. Era una terra completamente separata da quella umana, era un regno dove tutto doveva, rigorosamente, procedere secondo determinate regole, e l’ago della bilancia non poteva mai pendere da una parte opposta a quella stabilita.

Ed era per questo che loro del Dipartimento Favole erano così importanti, aveva concluso Fraser con un sorriso bonario, dandogli una pacca sulla spalla. Il loro compito era proprio mantenere l’ordine nel mondo delle favole e, indirettamente, anche in quello reale.

Superato il primo momento di stupore, Hadleigh aveva anche scoperto che era piacevole, lavorare in quel reparto. O almeno, lo era stato, finché anche lui era stato giovane, finché la vita non aveva cominciato a sferrargli dei colpi troppo duri perché potesse ritrovare la propria spensieratezza.

Si era presto reso conto che il suo lavoro non era come quello degli altri poliziotti; i suoi colleghi, loro sì, si prodigavano per mantenere l’ordine nella società, per portare giustizia lì dove non c’era. Mentre lui – lui e l’altro suo collega, Jones, un ciccione di trent’anni buono solo a bere e ad ingozzarsi di ciambelle – se ne stava a marcire in uno squallido ufficio di New York per uno stipendio da fame, trascorrendo giornate tutte uguali che prendevano una breve piega colorita nella pausa caffè o nelle futili chiacchierate con altri colleghi. Era ben raro che gli accadesse di trovarsi a risolvere qualche caso: la bilancia pendeva sempre dalla parte giusta. Che ci si poteva aspettare, da un mondo in cui i personaggi delle favole regnavano sovrani? Non c’erano reali problemi, solo piccoli ed inutili guai che, comunque, alla fine davano a tutti il loro solito, melenso lieto fine.

Ma la sua situazione lavorativa non era la cosa che lo preoccupava di più. Sapeva di essere un fallito, ormai era tardi per rimediare, non si aspettava più niente dalla vita e conduceva le sue giornate con l’unico obiettivo di arrivare alla pensione con il minor numero di incidenti possibili. Il vero problema erano le sue figlie.

Si vergognava di quello che era diventato, per loro, perché tutt’e due dovevano sopportare un padre del genere, sempre assente e di cui non sapevano praticamente nulla. Il Dipartimento Favole era un reparto segreto della polizia – un po’ come una C. I. A. dei sette nani! –, fatto che lo obbligava a mentire persino alle due persone che amava di più al mondo. Se qualcuno glielo domandava, loro rispondevano che il padre era un poliziotto, ma non avevano idea se si occupasse di multe piuttosto che di omicidi. Non che loro si fossero mai prese la briga di approfondire la questione; tutti e tre passavano l’intera giornata fuori casa, chi in un posto chi in un altro, e si vedevano a malapena la mattina a colazione e la sera all’ora di cena. Le due ragazze non parlavano molto con lui, né Hadleigh sapeva mai bene che cosa dire a quelle due giovani donne che, un tempo, erano state le sue bambine.

Non era sempre stato così; quand’erano piccole, stavano sempre con lui, si divertivano un mondo a giocare con il padre e ad ascoltare le favole che lui raccontava loro la sera prima di addormentarsi.

Ora, però, le cose erano cambiate.

Complice anche quello che la loro madre aveva fatto, prima di sparire, entrambe avevano smesso di credere alle favole e al lieto fine. Non erano più delle bambine piccole, si disse il capitano, con una morsa di tristezza nel cuore. Ora Anya aveva diciotto anni, ed Elizabeth sedici. Era passato il tempo delle favole.

- Ehi, che muso lungo!- biascicò il suo collega, Jones, con un sorrisone sul volto grasso.

Hadleigh sollevò un angolo della bocca, abbozzando un sorriso tirato.

- Che c’è? Sei uno di quelli che la pioggia li butta giù di morale manco gli fosse morto il gatto?- incalzò Jones.

- Sono un po’ meteoropatico, lo ammetto…- mormorò il capitano, sperando che questo bastasse a zittire il suo collega. Speranza vana.

- Pensa che anche mia madre è così…Scemenze, a mio parere, se le cose vanno male, non è certo per il tempo…

- Già - buttò lì Hadleigh, tanto per dire qualcosa.

Jones non rispose, tirando fuori da un cassetto della scrivania un mazzo di carte.

- Partitella?- chiese, ammiccando.

- No, grazie, scusa ma non sono molto in vena…

- Pfff! Tu e la tua meteoropatia…

Hadleigh non rispose; stava per sprofondare di nuovo nei suoi pensieri, quando la porta dell’ufficio si spalancò di colpo. Il capitano si alzò istintivamente in piedi; poco dopo, il procuratore Crawford, un uomo alto e allampanato sulla sessantina, ma che dimostrava almeno ottant’anni, tanto era magro e pallido e i suoi capelli erano bianchi, fece il suo ingresso nell’ufficio.

- Procuratore - fece Hadleigh, in segno di saluto.

- Buongiorno, capitano…- gracchiò Crawford, sedendosi di fronte alla scrivania di Hadleigh, il quale lo imitò due secondi dopo.- Sono venuto per parlarle di una faccenda…

- Di che si tratta?- domandò Hadleigh, un po’ sorpreso. Possibile che nel Regno delle Favole fosse accaduto qualcosa di così grave da scomodare addirittura il procuratore?

- C’è stato un omicidio. Due persone.

Per Jones, la notizia arrivò come una doccia fredda; Hadleigh non si scompose.

- Signor procuratore, anche nel Regno delle Favole avvengono queste cose…- disse il capitano, pacato.- Basti pensare ad Hansel e Gretel, sono dei bambini eppure hanno spinto una strega nel fuoco, e…

- Non si tratta di un cattivo, capitano.

Le parole secche del procuratore ebbero il potere di zittire Hadleigh. Come, non si trattava di un cattivo? Era normale che un malvagio morisse, anche di morte violenta, ma che fosse un buono…

- Di…di chi si tratta?- domandò, sentendosi la gola secca.

- Cappuccetto Rosso e sua nonna.

Il tono calmo del procuratore lo spaventava; ora che sapeva che i personaggi delle favole erano reali, Hadleigh sentì che il cuore gli era balzato in gola. Una bambina era stata assassinata…! Gli tornò alla mente il tempo di quando raccontava la storia di Cappuccetto Rosso alle sue figlie, provando ad immaginare come sarebbe stato se gli avesse letto questa macabra versione alternativa…

- Si sa chi le ha uccise?- gracchiò.

- No, ma abbiamo un possibile sospetto…

- E di chi si tratta?

- Le spiegherò tutto a tempo debito, capitano, ma prima è meglio che lei veda il corpo. Venga stasera sul retro della centrale, siamo d’accordo?

- Sì…- balbettò il capitano.- Sì, certo…mi dia solo il tempo di avvisare le mie figlie…

 

***

 

New York, ore 17:00 p. m.

 

Anya gettò un’occhiata ad una delle ampie vetrate del Once Upon a Time Café, osservando le gocce d’acqua che s’infrangevano sul vetro. Era da una settimana che pioveva incessantemente, e benché la pioggia le piacesse, cominciava a sentire la mancanza del sole estivo. Erano soltanto ad ottobre, in fondo!

Sospirò, versando un altro po’ di caffè nel bicchiere di plastica e posandolo sul vassoio accanto all’insalata e alla bistecca al sangue. Si fece strada agilmente fra le sue colleghe, tenendo il vassoio in equilibrio sulle mani, fino a che non fu giunta al tavolo numero 7. Il cliente, un uomo sui cinquant’anni con un doppio mento da fare invidia ad un suino all’ingrasso, le lanciò un’occhiata voluttuosa, ma lei finse di non accorgersene, sistemandosi una ciocca ribelle dei capelli neri e mossi che era sfuggita dallo chignon, continuando a scribacchiare il conto sul taccuino.

- Hai fatto colpo, vedo…- ghignò Doris, un’altra cameriera, passandole accanto.

- Quando vorrò essere incoronata regina dei suini saprò con chi convolare a nozze…- ridacchiò Anya, riprendendo a lavorare. Aveva iniziato a fare la cameriera al Once Upon a Time Café da quando si era diplomata, nei giorni liberi dalle lezioni del college; l’orario era buono, cominciava alla mattina alle nove e terminava la sera alle cinque. Anzi, si disse gettando un’occhiata all’orologio, avrebbe dovuto già terminare da un pezzo. Bowen, il suo capo, continuava a saltellare da un tavolo all’altro gridando ordini a destra e a manca, che si sbrigasse, doveva andare a prendere sua sorella.

- Ehi, Anya!- fece una voce alle sue spalle, così all’improvviso da farla sobbalzare per lo spavento. I piatti sul vassoio tintinnarono barcollando pericolosamente, e la ragazza dovette fare del suo meglio per tenerli in equilibrio, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Bowen.

Voltò il capo. A parlare era stato un ragazzo sui venticinque anni, alto e muscoloso, con i capelli biondo cenere e la pelle abbronzata.

- Ciao, Gaston…- fece Anya, con un sorriso forzato. Gaston era un cliente fisso del locale; Anya, Doris e Juliet, l’altra cameriera, se l’erano visto comparire un bel giorno e da allora non se n’erano più liberate. Ben presto, avevano scoperto il perché di quell’assidua frequenza.

- Che fai di bello?- chiese il ragazzo con un sorriso a trentadue denti, appoggiandosi al bancone.

- Sto lavorando…- rispose Anya con ovvietà, sperando di toglierselo di torno.

Speranza vana.

- Ah…e che fai dopo?

La ragazza fece spallucce, posando il vassoio e iniziando a preparare un altro caffè.

- Intendo dopo il lavoro…- tornò all’attacco Gaston.

- Niente di particolare…

- Ah! Quindi stasera sei libera?

Ecco che ci riprova!

- Non ho detto questo - lo liquidò, riprendendo in mano il vassoio e avviandosi verso il tavolo 10. Contro ogni previsione, il ragazzo la seguì a ruota, e Anya notò con la coda dell’occhio che lo sguardo omicida di Bowen si era fatto molto più insistente. Maledizione, uno di questi giorni l’avrebbe fatta licenziare!

- Pensavo volessi venire in discoteca con me…Sai, ci sono anche i miei amici, e…

- Stasera proprio non posso, Gaston, scusami…- fece la ragazza, sbrigativa, servendo i piatti al tavolo.

- Allora domani?

- No, neanche domani, mi spiace.

- Sabato?

- Sono occupata, scusa. Bowen, il mio turno è finito, posso andare?- gridò, rivolta al suo capo. Questi non era affatto un tipo magnanimo, ma pur di far cessare quel teatrino che il ragazzo aveva messo su avrebbe anche spedito Anya fuori dal locale a calci, quindi non se lo fece chiedere due volte.

- Ma…ma…- balbettò Gaston, mentre Anya si liberava del grembiule e arraffava il cappotto e la borsa.

- Ci vediamo domani, ragazze!- gridò, uscendo in strada sotto la pioggia battente.

Gaston rimase un attimo interdetto, quindi le andò dietro.

Anya, già bagnata fradicia, non sapeva se stesse correndo così veloce per evitare di inzupparsi ulteriormente o per fuggire dal ragazzo. Santo cielo, ma cosa doveva fare per scollarselo di dosso una volta per tutte?!

Attraversò la strada a passo svelto, calpestando l’asfalto bagnato e colmo di pozzanghere con gli stivaletti troppo leggeri, e il ragazzo alle calcagna.

- Ehi, senti, ti posso parlare un momento?- urlò Gaston, cercando di sovrastare i rumori della pioggia e della metropoli.

- Mi spiace, ho fretta!- gridò Anya in risposta, raggiungendo il suo vecchio pick-up verde scuro ed entrandovi dentro con tale furia da ritrovarsi quasi distesa sul sedile. Chiuse la portiera, iniziando ad armeggiare con le chiavi, ma il motore quel giorno sembrava in vena di fare i capricci. Anya girò più e più volte le chiavi, ma il motore emetteva solo dei rumori striduli che morivano immediatamente sul nascere. Era un vecchio pick-up, il suo, l’aveva comprato a sedici anni per trecento dollari, usato e mezzo scassato, e già allora ci metteva venti minuti solo per accendersi. Un bel guaio, specialmente se avevi uno stalker alle calcagna!

- Ehi…- soffiò Gaston, appoggiandosi al finestrino.- Senti, se la sera non puoi, ci possiamo vedere dopo il lavoro. Che dici, ti offro una birra?

- Davvero, Gaston, scusami, ma proprio non posso. Devo andare a prendere mia sorella…

Girò nuovamente la chiave nella serratura; con sua immensa felicità, la macchina si decise a partire.

- Ma…

- Ci vediamo, Gaston!

Senza attendere risposta, Anya spinse la frizione e premette il piede sull’acceleratore, immettendosi nel traffico. Sbirciando lo specchietto retrovisore, scorse il ragazzo in piedi sotto la pioggia che guardava la macchina allontanarsi con l’aria di un cucciolo abbandonato.

La ragazza sospirò, abbandonandosi contro lo schienale.

Avrebbe anche evitato di trattarlo così, ma non c’era altro modo. Gli aveva più volte detto gentilmente che no, non era né sposata, né fidanzata, né tantomeno lesbica, ma semplicemente non interessata. Ma Gaston doveva avere un porcellino d’India in prognosi riservata al posto del cervello, se si ostinava a non capire. Beh, peggio per lui.

Lei aveva già abbastanza preoccupazioni, per potersi permettere di pensare anche ai guai di quella specie di scimmione scappato da un circo!

 

***

 

…quattro…cinque…sei…

Elizabeth s’impose di resistere, strizzando gli occhi e trattenendo ancora di più il respiro.

…sette…otto…nove…

Presto l’avrebbero tirata fuori; Jessica Stone e le sue compari facevano sempre passare dieci secondi, prima che lei morisse soffocata.

…dieci!

Allo scadere esatto del tempo, la stretta ai capelli si fece più violenta, ed Elizabeth estrasse la testa dal lavandino colmo d’acqua. Tossì, boccheggiando in cerca di un po’ d’aria.

- Allora, quattrocchi…- Elizabeth vedeva tutto appannato, ma riconobbe chiaramente la voce di Jessica Stone.- Ne hai abbastanza? Sì? Allora ripeti con me: io sono una fica bruna.

Elizabeth tentò di inghiottire più ossigeno possibile, prima che Jessica, digrignando i denti, facesse un segno alla sua compare Ursula, la quale aumentò la stretta ai capelli della vittima e le spinse nuovamente la testa nel lavandino.

La ragazza trattenne il fiato.

Uno…due…tre…

Non fece neanche un tentativo per tirare fuori la testa, o ribellarsi. Ci aveva già provato altre volte, ma non era servito a niente.

…quattro…cinque…sei…

Ursula era un’energumena dell’ultimo anno, grande e grossa, e lei una ragazza mingherlina senza alcuna speranza. Senza contare che oltre a lei e a Jessica ce n’erano altre tre; ne sentiva le risate sguaiate attraverso la bolla ovattata creata dall’acqua.

…sette…otto…nove…

Jessica Stone, Ursula Whales, Samantha Smith, Julia Hammonds e Anne Bancroft. Tutte ragazze dell’ultimo anno con un quoziente intellettivo pari a quello di una pulce, che però avevano dalla loro parte chi un fisico possente chi un carattere talmente violento da intimidire chiunque.

…dieci!

Ursula le tirò la testa fuori dall’acqua. Elizabeth tossì, senza fiato.

- Allora, troia, vediamo se hai capito - fece Jessica Stone.- Dillo: io. sono. una. fica. bruna.

Elizabeth inspirò a fondo, fissando l’acqua nel lavandino del bagno della scuola.

- Quanti giocatori di football ti sei dovuta scopare, prima che tua madre scoprisse di avere in casa un’altra puttana?- ringhiò.

Si sarebbe aspettata che le rificcassero la testa in acqua, ma non fu così. Jessica Stone ringhiò, sostituendo in un attimo la presa di Ursula ai capelli con la sua, e rifilando nel contempo un violento calcio nello stomaco ad Elizabeth.

La ragazzina finì accasciata sul pavimento sporco del bagno, contorcendosi dal dolore. Le altre ragazze risero sguaiatamente, guardandola strisciare al suolo. Poco dopo, si allontanarono. Elizabeth vedeva tutto appannato, ma sentì chiaramente la porta del bagno chiudersi con un colpo secco.

Inspirò profondamente, iniziando a tastare le piastrelle fredde e umide alla ricerca dei proprio occhiali. Glieli avevano strappati via dal viso un attimo prima di ficcarle la testa nell’acqua, così come avevano fatto con la cartella, e ora libri, penne e appunti erano sparsi sul pavimento. Muovendosi nella nebbia, riuscì a sfiorare con le dita la montatura degli occhiali, che repentinamente afferrò e si rimise sul naso. In un attimo, la vista annebbiata sparì, ed Elizabeth si ritrovò con la visione chiara e nitida del bagno femminile deserto. Portava gli occhiali da vista fin da quando era piccola, e senza quelli era praticamente cieca.

Gettò un’occhiata a tutti i suoi libri sparsi sulle piastrelle del pavimento. Beh, perlomeno quelli sembravano non presentare danni, si disse, iniziando a raccattarli da terra. Un tempo avrebbe pianto, ma ormai si era abituata alle prepotenze di Jessica e della sua gang. Aveva anche cessato di difendersi; ci aveva provato, ovvio, ma non era mai arrivata alle mani. Quelle cinque erano grandi e grosse, e lei un topolino con gli occhiali esile e mingherlino senza alcuna speranza. Ne aveva parlato con sua sorella, e lei era andata dritta dalla preside, ma poco era servito – se si escludeva l’occhio nero che le aveva procurato il giorno seguente.

Le era anche balenato per la mente di rivolgersi a suo padre, ma aveva immediatamente scacciato quell’idea. Papà era sì e no a conoscenza del fatto che lei andasse a scuola, figurarsi se avrebbe potuto fare qualcosa per i suoi problemi sociali. Sarebbe di sicuro cascato dalle nuvole, e avrebbe liquidato la faccenda con un paio di frasi annoiate, come faceva sempre per qualunque cosa. Gli voleva bene, questo sì, era suo padre e avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui - e anche Anya, ne era certa - ma non si poteva dire che lo sentisse molto presente nella vita sua e di sua sorella.

E dire che da piccola lo considerava il suo Principe Azzurro…

Sì, Principe Azzurro mancato!

Elizabeth ormai aveva smesso di credere al Principe Azzurro, o a chi per esso; certo, in segreto, lo aspettava ancora, ma disperava di poter mai trovare qualcuno che arrivasse sul suo cavallo bianco a portarla in salvo da quella sua vita di merda.

Già, perché la sua vita era veramente una merda, non solo a scuola, ma anche in casa. E suo padre non faceva nulla per migliorare la situazione. Chi si occupava di tutto era sua sorella.

Elizabeth aveva sempre desiderato essere come Anya, in tutti i sensi. Ad un primo sguardo, loro due potevano apparire come due gocce d’acqua; avevano entrambe i capelli neri – Anya mossi e lunghi fino alla vita, e lei lisci che le ricadevano sulle spalle –, lo stesso mento, e la forma degli occhi leggermente allungata. Ma a guardarle bene erano molto diverse: Anya aveva dei lineamenti più fini e maturi, era più alta e snella di lei, e aveva gli occhi verdi. Invece lei, Elizabeth, era una spilungona alta appena un metro e sessanta, con un fisico né grasso né magro, un viso ovale da bambina e due anonimi occhi castani semi nascosti da due occhiali spessi e rotondi.

Non solo nell’aspetto fisico, ma anche nel carattere: da quando sua madre li aveva lasciati e suo padre era sprofondato in una depressione molto simile ad un letargo, era sempre stata Anya ad occuparsi della casa e di loro. Elizabeth non riusciva a capire come facesse sua sorella, dopo ore passate a sbattersi dal lavoro in quel locale per portare a casa quattro soldi, a cucinare, lavare i pavimenti, tenere a bada quell’avvoltoio del padrone di casa che pretendeva ogni mese l’affitto anticipato, senza contare le lezioni al college…

L’unica cosa che detestava, in sua sorella, era la sua tendenza a cercare di sostituirsi a sua madre…

Elizabeth si riscosse all’improvviso. E che cavolo, aveva passato mezz’ora seduta sul pavimento del cesso a pensare a sua sorella, e non le era venuto in mente che sua sorella la stava aspettando là fuori da almeno mezz’ora!

Si risollevò dal pavimento, controllando di non essersi macchiata la camicetta bianca di sangue; mentre si avviava verso sentì il piede toccare contro qualcosa. Abbassò lo sguardo: aveva dimenticato un libro. Si chinò a raccoglierlo, esaminandolo con attenzione; era un libro di fiabe, l’aveva preso in prestito quasi per caso alla biblioteca. Da quanto tempo lo aveva lì?

Fece spallucce, uscendo dalla scuola e avviandosi di corsa sotto la pioggia battente in direzione del pick-up verde scuro di sua sorella.

 

Angolo Autrice: Ok, questo capitolo è un po’ palloso, ma abbiate pazienza, dal prossimo arriva un po’ di azione…E’ solo che mi sembrava il caso di presentare un minimo i personaggi, sennò non si sarebbe capito niente di questa cosa che già di per sé è abbastanza confusionaria…J.

Ah, nel caso ve lo steste chiedendo, il personaggio di Gaston può sembrare (già a partire dal nome) molto simile al cattivo Disney, ma vi anticipo che, benché avrà un ruolo rilevante, non avrà a che fare con La Bella e la Bestia…

Siccome so che nelle descrizioni faccio schifo, nel caso quelle di Anya ed Elizabeth non dovessero essere chiare, ecco qui delle immagini che potrebbero essere – solo per darvi un’idea, chiaramente non sono proprio uguali –, rispettivamente, simili alle due ragazze.

           


 

Dunque, ringrazio LadyAndromeda per aver aggiunto questa ff alle ricordate, Imalonewolf e Raffy240 per averla aggiunta alle seguite e per aver recensito, e _Francy per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93    

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Capitolo 3
*** Beyond the Closed Door ***


 

Beyond the Closed Door

 

- Ma che fine avevi fatto?- fece Anya, non appena la sorella, bagnata fradicia, fu saltata sul pick-up ed ebbe chiuso la portiera.

- Scusa, ero…ero occupata…- rispose Elizabeth, evasiva. Non le andava di intavolare una discussione con sua sorella in merito a quel che era successo. Anya la squadrò per un attimo, quindi mise in moto e partì.

Non parlarono per buona parte del tragitto, concentrandosi l’una sulla guida, l’altra sulle gocce di pioggia cadute sul parabrezza che venivano spazzate via dai tergicristalli.

- Che è successo, ancora quelle stronze di Jessica e delle sue lecchine?- fece d’un tratto Anya, secca, senza guardarla.

- No…- pigolò Elizabeth.- No, non è successo nulla…

- Uhm…- fece la sorella.- E allora come me lo spieghi quello?

Elizabeth abbassò lo sguardo; sul suo avambraccio c’era, in bella mostra, un livido grande quanto una moneta. La ragazza si tirò istintivamente la manica della felpa verso il basso, senza guardare negli occhi la sorella. Anya sospirò, parcheggiando il pick-up di fronte allo squallido condominio dove vivano.

- Aiutami a prendere le borse…

- Le borse?

- Ho fatto un po’ di spesa…- spiegò Anya, noncurante.

Come al solito, l’ascensore era fuori uso, e Anya non si curò di trattenere una smorfia di stizza. Odiava fare le scale a piedi, soprattutto quando era stracarica di borse e pacchetti, senza contare che il loro appartamento era al quinto piano. Giunta in cima, estrasse le chiavi dalla tasca del cappotto e aprì la porta; Elizabeth rimase in disparte, senza aprire bocca. Sapeva che cosa sarebbe successo, una volta entrate.

- Andrò di nuovo a parlare con quell’incompetente della preside - dichiarò Anya, togliendosi di dosso il cappotto.

- No!- si affrettò a dire Elizabeth.- No, l’ultima volta non è servito a niente, anzi, ha solo peggiorato le cose…

- Solo perché sono stata troppo gentile, stavolta ci andrò giù a muso duro.

- Non servirebbe a niente. Sei solo mia sorella, non hai audience…

- Vediamo se non avrò audience dopo averla minacciata di andare alla polizia…

- E che intendi dire? Lo dirò al mio papà?- fece Elizabeth in falsetto, imitando la voce della sorella.

- E se anche fosse? E’ ora che s’interessi un po’ a qualcos’altro che non sia il suo lavoro, questo sarebbe un passo avanti per cominciare, no?

- Sul serio, Anya, non voglio che tu lo faccia…

- E allora impara a difenderti!- sbottò Anya.- Ce le hai le mani, no? Sferra qualche pugno a destra e a manca, vedrai che dopo un paio di volte impareranno la lezione…

- Sì, se non mi spezzano l’osso del collo prima…

Anya sospirò, accendendo il fornello incrostato di unto e iniziando a scaldare l’acqua per la pasta.

- Senti, Liz…- mormorò, senza guardarla.- Se non vuoi che io intervenga, allora va bene, non farò nulla…Ma non puoi continuare a farti mettere i piedi in testa in questo modo. Non ci sarò sempre io a pararti le spalle, e se non impari a…

- Prima o poi, le cose cambieranno - disse Elizabeth, cercando di apparire convinta.

Anya la guardò, sollevando un sopracciglio.

- Cambieranno, dici? E cosa succederà? Arriverà il Principe Azzurro a portarti via?

- Non sfottermi!- ringhiò la sorella.

- Io non ti sto sfottendo, voglio solo che ti svegli e che la pianti di vivere nel mondo delle favole, una volta per tutte!- gridò Anya.

Elizabeth non rispose; sua sorella si passò una mano fra i capelli.

- Liz…se davvero vuoi che le cose cambino, allora devi andare là fuori e cambiartele da sola…Perché in questo mondo non esistono le fate madrine.*

Anya continuò ad armeggiare con le stoviglie e le pentole per qualche minuto.

- Dai, aiutami a preparare la tavola…Tra poco papà dovrebbe arrivare…

 

***

 

New York, ore 19:30 p. m.

 

Anya posò due piatti di spaghetti sulla tavola, prima di sedersi a sua volta.

- Grazie, Anya…- mormorò Hadleigh, prendendo la forchetta.

Grazie, mamma!, pensò Elizabeth, con una punta di fastidio, mescolando svogliatamente gli spaghetti. Era tipico di sua sorella. In ogni cosa che faceva, fosse fare la spesa, preparare la cena, o mettere in ordine la casa, tendeva sempre a fingersi la mamma, specialmente se papà era presente. Era una cosa che le dava sui nervi.

- Com’è andata oggi a scuola, Liz?- le chiese suo padre.

Anya le gettò un’occhiata di sottecchi. Elizabeth fece spallucce.

- E tu, Anya? Il lavoro?

- Al solito. Niente da raccontare.

In cucina calò il silenzio, e Hadleigh sentì improvvisamente lo stomaco chiudersi. Odiava quando succedeva così, quando dopo un’intera giornata trascorsa lontano dalle sue figlie, se le ritrovava di fronte e non sapeva che cosa dire loro. Parlare con Anya ed Elizabeth diventava di giorno in giorno più difficile. Per di più, l’ora dell’appuntamento si stava avvicinando, pensò, gettando un’occhiata all’orologio.

Si schiarì la voce, allontanando da sé la cena.

- Ragazze, dovrò andare via per un paio di giorni…- esordì, senza tanti preamboli. Tanto valeva tagliare subito la testa al toro.

Entrambe le ragazze sollevarono lo sguardo dal piatto.

- Perché?- fece Elizabeth, a bocca piena.

- Questioni di lavoro. Vado via subito. Starò via due o tre giorni…quattro al massimo…- sì, sicuramente non avrebbe perso troppo tempo. Si trattava del mondo delle favole, alla fin fine.

- D’accordo…- mormorò Anya, riprendendo a mangiare.

- Credete di cavarvela? Anya, confido in te, lo sai…

- Sì, certo, papà…come sempre…

Hadleigh non seppe che altro aggiungere. Si alzò da tavola, andando a recuperare la sacca che aveva preparato.

- Allora…io vado…

- Okay…ciao…

- Ciao, papà.

Hadleigh guardò un attimo le sue figlie, quindi uscì.

Anya sospirò, alzandosi da tavola e iniziando a lavare i piatti.

- Secondo te, dove va?- bisbigliò Elizabeth.

- Non lo so, e neanche m’interessa…- borbottò la sorella.- E’ uno sbirro, avrà i suoi affari…

- Sì, ma di che si occupa di così importante?- insistette Elizabeth.- Insomma, addirittura da stare via da New York per due giorni, o quello che è…

- Cos’è tutto questo interesse, Liz?- chiese Anya, voltandosi.- Non te ne era mai fregato niente prima di…

La ragazza si bloccò, scorgendo una cosa dorata abbandonata sul tavolo.

- Merda, il distintivo!- imprecò, raccogliendolo.- Ma che cavolo di poliziotto è, uno che si dimentica il distintivo?!

- Magari non gli serviva…chi lo sa, magari papà è un agente segreto!- ridacchiò Elizabeth.

- Sì, James Bond!- ironizzò Anya, infilandosi il cappotto.- Vado a riportarglielo, magari sono ancora in tempo…

- E dove, se non sai dov’è andato?

- Beh, allora andrò alla centrale…a spiegare che mio padre, il grande poliziotto, s’è scordato il distintivo…- fece per uscire.

- Aspetta, vengo con te…- saltò su Elizabeth.

- Non serve, faccio in un attimo….

- E dai!- Elizabeth afferrò la propria giacca, quindi si mise la borsa a tracolla. C’era ancora dentro il libro di fiabe, notò, ma Anya era già a metà della scala. L’avrebbe tolto più tardi.

 

***

 

- Ma non potevamo prendere un ombrello?!- strillò Elizabeth, arrancando sotto la pioggia battente con la borsa sulla testa nel tentativo di ripararsi.

- Potevi pensarci!- gridò Anya di rimando, dieci passi di fronte a lei.

Elizabeth sbuffò, continuando a correre. Anya si scostò una ciocca di capelli bagnata dagli occhi, sollevando lo sguardo verso l’insegna luminosa che indicava la centrale di polizia di New York. La ragazza fece per avviarsi verso la porta, quando, poco lontano da loro, scorse due figure sotto un ombrello aperto, avvolte in cappotti scuri. Anya cercò di vedere meglio. Riconobbe suo padre, mentre annuiva alle parole che un uomo dai capelli grigi – il procuratore Crawford, senza dubbio – gli stava dicendo.

- Papà!- chiamò, ma Hadleigh non parve udirla. Anya cercò di raggiungerlo, seguita da Elizabeth, ma pochi secondi dopo il padre scomparve dalla loro visuale, seguendo Crawford dietro l’angolo.

- Ehi, ma dove stai andando?- gridò Elizabeth.

Anya si voltò a guardarla.

- Di qua!

Elizabeth seguì di corsa la sorella mentre svoltava a destra. Si ritrovarono in un vicolo stretto e buio, i cui lati erano costellati di immondizia dove gatti randagi bagnati fradici frugavano e miagolavano. Era un vicolo cieco, realizzò Anya. Salvo per una porta di legno mezzo tarlato sulla parete opposta.

- Ehi, ma…ma dove sono finiti?- ansimò Elizabeth.

Anya rimase per qualche istante in silenzio.

- Devono essere passati di qua, senza dubbio…- mormorò alla fine, raggiungendo la porta. Afferrò la maniglia, cercando di abbassarla, ma si rivelò più difficoltoso del previsto.

- Cavolo!- ringhiò Anya, armeggiando con il pomello d’ottone.

- Magari è chiusa a chiave…- azzardò Elizabeth, ma proprio in quel momento la porta si aprì, rivelando una stanzetta buia.

Le due ragazze si guardarono, esitanti. Infine, Anya si decise ad entrare.

Non si vedeva niente; la ragazza tastò la parete nel tentativo di trovare un interruttore, ma pareva non esserci traccia di alcuna lampadina. Anya scorse una breve scalinata che scendeva fino al pavimento, e fece cenno ad Elizabeth di seguirla. I gradini erano di legno, poco stabili, e per poco le due ragazze non furono sul punto di inciampare e cadere.

- Ma che posto è questo?- fece Elizabeth, e la sua voce rimbombò sulle pareti.- E soprattutto, dov’è papà?- aggiunse, gettando un’occhiata tutt’intorno. La stanzetta era piccola, e non c’erano né porte né finestre. Non c’era alcuna via d’uscita.

Anya si avvicinò ad una parete, tastandone i mattoni umidi e colmi di muffa, quindi vi si appoggiò, sospirando. Elizabeth le si avvicinò.

- Scusa, Liz…devo essermi sbagliata…- mormorò Anya.

- Che facciamo adesso?

- Beh, torniamo a cas…

D’un tratto, Anya sentì i mattoni contro il suo dorso smuoversi. Si tirò su di scatto, fissando il muro. I mattoni si stavano muovendo!

- Ma che cavolo…?- soffiò Elizabeth.

Anya sgranò gli occhi.

Era come se la parete si stesse…aprendo! I mattoni continuarono a muoversi, a spostarsi, ad accavallarsi l’uno sull’altro, finché nel muro non comparve un’enorme voragine luminosa.

Prima che potessero fare alcunché, le due ragazze sentirono come un risucchio, come un vento che le trascinava verso la voragine. Elizabeth gridò, sentendosi sollevare da terra.

Con un grido, le due ragazze vennero risucchiate nella voragine.

Tutto divenne confuso.

Elizabeth si sentiva stranamente leggera, come se fosse fatta di gommapiuma, e il vento la stava trasportando senza che lei potesse opporsi. Anya continuava a volgere lo sguardo intorno a sé, cercando sua sorella, mentre nella mente le si affollavano pensieri sconnessi, le parole di suo padre, le risate di Liz…

Sua madre!

D’un tratto, veloce com’era arrivato, il vento sparì. Anya cadde a terra con un tonfo.

- Ahi…- sentì gemere sua sorella poco distante. La ragazza si tirò su, tutta indolenzita.

- Liz…!- chiamò, con la gola secca.

- Sono qui…- fece la voce dolorante di sua sorella. Anya si voltò. Sua sorella si stava tirando a sedere, con gli occhiali storti sul naso e i capelli scompigliati.- Tutto bene?- le chiese. Elizabeth annuì, frastornata.

Anya cercò di tirarsi in piedi, sistemandosi il cappotto. Aveva gli abiti coperti di terra e…erba! Volse lo sguardo verso il basso: erano atterrate su dell’erba!

L’erba più verde che avesse mai visto, persino più verde di quella di Central Park…

- Ma che cavolo è successo?- fece Elizabeth, rimettendosi in piedi.- Dove siamo finite?

Anya si guardò intorno. Ad un primo sguardo, quello intorno a loro sembrava un bosco, una foresta in cui alberi dalle chiome verdissime erano così fitti da lasciare poco spazio allo sguardo. La radura dov’erano finite era ricolma di erba e fiori, e sembrava che nessun essere umano ci avesse messo piede fino a quel momento. Si sentivano uccellini cinguettare, dovunque si girassero vedevano fiori di ogni tipo, papaveri, girasoli, margherite, viole…

Era un posto meraviglioso, pensò Anya.

Meraviglioso, sì, ma pareva quasi…irreale.

- Non lo so, Liz…

 

Angolo Autrice: Eccomi qui, sono ancora io e sono viva XD! Scusate, ma ho tre long in corso e faccio quello che posso con gli aggiornamenti…

Ora, so che così di primo acchito il Regno delle Favole potrebbe sembrare la location di Heidi o Bambi, ma dal prossimo capitolo le cose cambieranno radicalmente…;).

Dunque, ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare Nymphna e Sylphs per aver aggiunto questa ff alle seguite, e Imalonewolf e Raffy240 per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 4
*** I Don't Believe in Fairytales! ***


 

La sala del trono era tanto ampia quanto cupa e oscura. Il pavimento era di marmo scuro e lucido, e le alte colonne che costeggiavano le pareti erano nere e recavano scolpite statue e immagini di scheletri con le bocche spalancate in urla mute, le cui sagome erano rese ancora più tetre dalla flebile luce delle candele accese. Le finestre che si alzavano dal pavimento fino al soffitto erano oscurate da tendaggi grigi, mentre in fondo alla sala, il trono reale sorgeva in cima ad una scalinata.

La Regina, il cui abito rosso sangue spiccava in mezzo a tutta quell’oscurità, osservò compiaciuta le due guardie in armature ed elmi neri ai suoi lati, stringendo con le unghie laccate i braccioli del trono, alle cui estremità erano scolpiti dei teschi. Il palazzo era molto cambiato da quando aveva spodestato il padre di Biancaneve. Prima era un castello luminoso e allegro, pieno di vita; ora, invece, era più consono ai suoi gusti.

La Regina gettò un’occhiata ad un uomo vestito di nero in piedi poco distante da lei; era un giovane sui trent’anni, con i capelli castani e mossi e gli occhi azzurri come il cielo invernale, e il lungo mantello scuro ne slanciava ancora di più la figura alta e muscolosa.

- Primo Ministro - disse la Regina, e la sua voce riecheggiò sulle pareti. Il giovane si voltò immediatamente nel sentirsi chiamare.

- Potete farlo entrare…- disse la Regina, con un sorriso maligno.

Il Primo Ministro non si scompose, e fece un cenno a due guardie poste alla sua sinistra. Immediatamente, quelle scomparvero dietro una porticina, per poi riapparire pochi secondi dopo, trascinando un uomo incatenato. Gli occhi gelidi del Primo Ministro squadrarono con una sola occhiata l’intera figura dell’uomo: aveva all’incirca quarant’anni, il volto ricoperto dalla barba leggera era segnato da diversi graffi ancora freschi e sanguinanti, e così anche le mani callose. Indossava una vecchia casacca marrone con le maniche bianche svasate, strappata in più punti e chiazzata di terra e sangue, e dei pantaloni più scuri e stivali di pelle. Era certamente un uomo abituato a stare all’aperto, probabilmente un contadino…o un cacciatore.

La Regina puntò i propri occhi verdi in quelli castani dell’uomo, sorridendo compiaciuta nel vederli arrossati di pianto.

- Mi congratulo con te, Cacciatore. - disse la Regina, accarezzandosi con le mani i capelli corvini lunghi fino alle reni. - Hai portato a termine egregiamente il tuo compito.

- Strega!- urlò il Cacciatore, di nuovo prossimo alle lacrime, scattando in avanti e tentando di liberarsi dalle catene trattenute strettamente dalle guardie.- Voi…voi siete una strega maledetta…!

- Suvvia, non esageriamo…- ghignò la Regina, accomodandosi meglio sul trono.- Sai bene che non è così…Non sono stata io ad uccidere Cappuccetto Rosso e sua nonna.

Gli occhi del Cacciatore si riempirono di lacrime, e piegò la testa in avanti, iniziando a singhiozzare.

- Io non volevo…- soffiò fra le lacrime.- Non volevo…non volevo ucciderle…Io le conoscevo…gli volevo bene…- digrignò i denti, tornando a guardare furiosamente la Regina.- E’ colpa vostra!- ringhiò.- E’ colpa vostra se sono morte…è colpa vostra, se sono diventato un mostro…!

La Regina ghignò nuovamente, soddisfatta; il Primo Ministro le lanciò un’occhiata, senza lasciar trasparire alcuna emozione.

- Asciuga le tue lacrime, Cacciatore - la Regina si alzò in piedi, iniziando a scendere gli scalini con un gran fruscio di gonne.- Il tuo dovere non è ancora terminato…- s’inginocchiò di fronte al Cacciatore, prendendogli il mento con una mano e costringendolo a guardarla negli occhi.- Cappuccetto Rosso e sua nonna erano solo le prime - sibilò.- Altri moriranno, molte altre saranno le vittime. Il lieto fine sparirà da questo mondo, e l’Oscurità avrà il sopravvento. E i Grimm risorgeranno!

Il Cacciatore gemette, girando lo sguardo in direzione di una delle finestre. Attraverso le tende semi accostate s’intravedeva uno spicchio di cielo scuro. Le nuvole che lo oscuravano si diradarono lentamente, scoprendo una luminosa luna piena.

 

***

 

Elizabeth si rialzò da terra, aggiustandosi gli occhiali sul naso e puntando lo sguardo in direzione di sua sorella, che continuava a guardarsi intorno a bocca aperta e con lo sguardo da pesce lesso.

- Come sarebbe a dire che non sai dove siamo?- mormorò, troppo incredula per pensare alcunché.

- Te lo giuro, Liz, non ne ho idea…

- Ma come siamo arrivate qui? Insomma, l’hai visto anche tu, no?- Elizabeth stava cominciando a chiedersi se quella non fosse soltanto un’allucinazione.- Il muro che si apriva, la luce, il vortice…e ora, questo!

- Aspetta, aspetta, fammi ragionare…- soffiò Anya.- Sono sicura che c’è una spiegazione razionale…

- Razionale?! Cavolo, Anya, siamo appena state inghiottite da un muro!- gridò Elizabeth, in preda all’esasperazione.

- Accidenti, Liz, vuoi stare zitta?!- sbottò la sorella.- Cerchiamo di ragionare: abbiamo visto entrare papà in quella stanza, giusto?

- No, tu l’hai visto entrare.

- Fa lo stesso! Quello che voglio dire è: papà dovrà pur essere qui da qualche parte, no? Sono sicura che lui saprà darci una spiegazione…Dobbiamo trovarlo.

- D’accordo. E da dove cominciamo?- fece Elizabeth, senza curarsi di nascondere un’aria scettica.

- Ehm…ecco, vediamo…

Elizabeth si guardò intorno. Era un ambiente naturale assolutamente immacolato, sembrava che nessuno ci mettesse piede da anni, eppure aveva tutta l’aria di un giardino. L’erba era curata come quella di Central Park, ma i fiori crescevano dovunque senza una regola, le margherite si mischiavano alle viole, i gigli con le campanule e così via. Per non parlare degli alberi: per quanto si sforzasse, Elizabeth non riusciva a vedere oltre i primi dieci o venti centimetri. La foresta si faceva sempre più fitta e buia man mano che si andava avanti, tanto da rendere impossibile la visuale.

Anya sembrava ancora intenta a pensare qualcosa per risolvere la situazione, ma a Elizabeth non pareva che la sorella fosse a buon punto, con le sue macchinazioni, anzi. Gettò distrattamente un’occhiata all’erba; un secondo dopo, le sue labbra erano incurvate in un sorriso.

- Ehi, Anya…

- Che c’è?

- Guarda qui…

Anya si sporse per vedere meglio. Se l’erba all’inizio le era parsa perfetta e senza alcuna traccia di passaggio umano o animale, ora qua e là si distinguevano diverse impronte di scarpe, segno inequivocabile che, non molto tempo prima, doveva essere passato qualcuno, da lì. Le impronte si dirigevano tutte verso una collinetta poco distante.

- Mi sa che siamo sulla buona strada…- mormorò Elizabeth, iniziando a seguire le tracce.

- Ehi! No, Liz, aspetta!- gridò Anya, andandole dietro di corsa.- Che fai? Non sappiamo di chi sono, per quel che ne sappiamo potrebbe anche esserci un maniaco, qui…

- Che palle! Quanto la fai lunga!

- Oh, scusa, scusami tanto se mi preoccupo per la tua incolumità!

- Hai un’idea migliore?- Elizabeth non attese risposta, e prese a salire la collinetta.

Anya sbuffò, arrancando dietro alla sorella, con il cappotto che la impacciava e i capelli che iniziavano a sfuggirle dallo chignon. Elizabeth giunse per prima in cima alla collinetta; sembrava che fossero capitate in un luogo in cui gli alberi non erano cresciuti, si disse. Oltre la collinetta c’era un’altra radura, dove, Elizabeth vide, un gruppo di persone, una decina di uomini, era riunita intorno ad un telo bianco steso sull’erba.

La ragazza sentì gli sbuffi di sua sorella raggiungerla alle spalle, e si voltò a guardare una stravolta Anya.

- Credo di aver trovato papà…

 

***

 

Hadleigh fissava il telo bianco sotto cui, lo sapeva, giaceva il corpo di Cappuccetto Rosso. Non l’aveva ancora vista, e sinceramente avrebbe anche preferito non farlo. Poco più distante, alcuni poliziotti, cappeggiati da Jones, si stavano occupando di portare al di fuori della sua casupola il cadavere della nonna. Era stato il primo che aveva visto: l’assassino doveva averla colta di sorpresa, perché quand’era stata uccisa era ancora a letto, con le coperte tirate fino al petto. Lo sterno era stato sventrato, e gli occhi sbarrati attraverso le lenti degli occhiali quasi scomparivano in quel lago di sangue che era il volto, imbrattando anche i capelli grigi, la camicia da notte e le coperte, e perfino l’uncinetto a cui la donna stava lavorando.

Hadleigh non ci aveva messo molto a capire la dinamica dell’omicidio. Chi aveva ucciso Cappuccetto Rosso e sua nonna aveva prima colto di sorpresa quest’ultima nella propria casa: la porta era sfondata. Aveva ucciso la nonna, quindi era passato alla nipote. Molto probabilmente Cappuccetto Rosso doveva essere arrivata quando la nonna era già morta. Aveva visto la porta sfondata, era entrata e aveva trovato il cadavere e l’assassino ad attenderla. Doveva aver cercato di scappare, ma l’omicida l’aveva inseguita e raggiunta, e aveva terminato il lavoro.

I problemi che restavano erano due: chi era stato e perché. Crawford sosteneva si trattasse del Lupo Cattivo, e in effetti le ferite erano animalesche, ma Hadleigh era rimasto parecchio sorpreso dal modus operandi. Benché i graffi fossero stati indubbiamente causati da artigli e i morsi da zanne aguzze, il duplice omicidio aveva un che di metodico. E questo presupponeva un intervento umano. Era come se l’assassino avesse atteso pazientemente le sue vittime, e non se ne fosse andato finché non era stato sicuro di averle uccise. E poi, restava sempre la questione del perché. Erano state uccise una ragazzina e una donna anziana, e tutto questo perché? Se anche Crawford avesse avuto ragione e fosse stato il Lupo Cattivo l’assassino, perché avrebbe dovuto farlo? Perché avrebbe dovuto infrangere l’ordine delle cose, un ordine che esisteva da sempre? Che motivo avrebbe avuto, per giustificare tanta ferocia?

- Che ne pensa, capitano?- la voce di Crawford lo riportò bruscamente alla realtà.

- Le ho già esposto la mia teoria, procuratore…- rispose Hadleigh, pacato.- A mio parere, non si tratta di semplice furia animalesca.

- Quindi, lei esclude che si tratti del Lupo Cattivo?

- Non ho detto questo. Può anche darsi che si tratti del Lupo Cattivo, è una possibilità da tenere in conto, ma non sarei troppo affrettato nel trarre delle conclusioni. Non sembra un omicidio casuale. Cappuccetto Rosso e la nonna sono state uccise per un motivo. E poi, signore, se posso permettermi…- Hadleigh si schiarì la voce. - Se anche il Lupo Cattivo avesse deciso di fare uno strappo alla regola, il Cacciatore avrebbe dovuto fermarlo, se la memoria non m’inganna. Dov’è il Cacciatore?

Crawford aprì la bocca per rispondere, ma delle esclamazioni di orrore e dei mormorii nervosi alle sue spalle glielo impedirono. Lui e il capitano si voltarono all’unisono, solo per vedere gli altri poliziotti che osservavano la barella su cui, coperto da un altro telo bianco, giaceva la nonna. Tutti stavano indietreggiando lentamente; Hadleigh notò l’espressione d’incredulità e disgusto sul volto grasso di Jones. Il telo bianco, prima chiazzato di sangue, era ora ricoperto di macchie nere. Un liquido dello stesso colore aveva cominciato a sfuggire da sotto la stoffa, imbrattando l’erba verde. In poco tempo, tutta la barella venne tinta di nero, e la sagoma prima chiaramente distinguibile della nonna scomparve sotto il telo.

Hadleigh distolse velocemente lo sguardo; quasi automaticamente, afferrò un lembo del telo sotto cui giaceva Cappuccetto Rosso e lo scostò bruscamente. In un attimo, anche il corpo dilaniato e gli occhi sbarrati e senza vita della ragazzina vennero sostituiti da liquido nero. In pochi istanti, di Cappuccetto Rosso non rimase altro che la mantella chiazzata di sangue e nero.

- Ma che diavolo è?- sibilò Crawford, mentre Hadleigh s’inginocchiava sull’erba. Il capitano intinse cautamente l’indice e il medio nel liquido nero, quindi sollevò lentamente la mano di fronte ai propri occhi.

Era inchiostro.

- Che ci fanno loro due qui?!- il capitano sobbalzò, sentendo l’urlo irritato di Crawford. Scattò in piedi, e subito i suoi occhi increduli incrociarono quelli stupefatti e scioccati delle sue figlie.

- Anya…Elizabeth…- boccheggiò, sentendosi la gola secca.- Che…che ci fate qui?

- Papà…- riuscì a mormorare Elizabeth, mentre i suoi occhi dardeggiavano dal padre alla pozza d’inchiostro ai suoi piedi. Anya non parlava, sembrava quasi in stato catatonico.

- Come avete fatto ad arrivare qui?- chiese Hadleigh.

- Noi…noi ti stavamo seguendo e…e…il muro…

- Questa volta ha veramente passato il segno, capitano!- sbraitò Crawford.- Si rende conto di che cos’ha fatto?

- Non le ho portate io qui, signore, loro…

- Che posto è questo?- sbottò Anya.

Hadleigh ed Elizabeth la guardarono.

- Che posto è questo?- ripeté Anya.

- Questo è…è…è il Regno delle Favole…- ammise Hadleigh, chinando il capo.

Le due ragazze ammutolirono per diversi secondi. Fu Elizabeth per prima a trovare il coraggio di parlare.

- Il Regno delle Favole?- ripeté, perplessa.

- Sì…vedete, ragazze, io…- iniziò Hadleigh.

- Capitano! E’ impazzito, forse?!- urlò Crawford.

Hadleigh si voltò verso di lui.

- Ormai sono qui, è giusto che sappiano!

Tornò a rivolgersi alle figlie.

- Vedete ragazze, io…io lavoro qui…

- Ma tu sei un poliziotto!- fece Anya.

- Sì, ma…ecco…io lavoro in un dipartimento molto speciale…- spiegò Hadleigh, parlando come se ogni parola fosse frutto di una grande fatica.- E’ un dipartimento che si occupa delle favole. Il mio compito è quello di mantenere l’ordine nel mondo delle fiabe e…

- Basta!- sbottò Anya.- Basta, finiscila di dire queste fesserie!

- So che può sembrare assurdo, Anya, ma ti prego…

- Basta, ho detto!- strillò la ragazza, portandosi le mani al capo. - Regno delle Favole? Mantenere l’ordine? Ma che cosa devo…

- Anya…- mormorò Elizabeth.

- Questa te la potevi anche risparmiare, papà!- ringhiò la ragazza.- Per chi ci hai preso? Per due stupide? Cosa credi, che io sia tanto scema da credere a queste puttanate?

- Non usare quel tono con me!- urlò Hadleigh.

- E tu piantala con queste stronzate!- strillò Anya di rimando, voltandogli le spalle.- Basta, io voglio tornare a casa!

- Su questo sono d’accordo - fece Crawford, cupo.- Signorine, per favore: entrate nella foresta, alla vostra destra. Dopo qualche metro troverete una parete di mattoni, toccatela e lei farà il resto.

- Bene!

Anya non aggiunse altro, e si voltò iniziando a marciare nella direzione indicata dal procuratore. Elizabeth rivolse un ultimo sguardo al padre, prima di rincorrere la sorella. Hadleigh fece per seguirle, ma Crawford lo trattenne per la giacca.

- Lei non va da nessuna parte, capitano!

- Voglio solo accompagnarle…- Hadleigh fece per liberarsi dalla presa, ma il procuratore lo trattenne, rabbioso.

- Riceverà un’ammonizione per questo, capitano - ringhiò.- Che cosa le è saltato in mente, si può sapere? Ha idea di quello che ha combinato? Non le è bastato quello che è successo l’ultima volta?

Hadleigh gli rivolse un’occhiata rabbiosa, quindi si divincolò con furia.

- Certo che m’è bastato!- urlò. - Non me lo sono mai perdonato, e lei lo sa bene! Non ho idea di come diavolo abbiano fatto le mie figlie ad arrivare qui, ma di certo non ce le ho portate io!

Hadleigh inspirò a fondo, voltandosi a guardare la foresta dove le due ragazze erano appena sparite.

- Non ripeterò il mio sbaglio. Non stavolta.

 

***

 

Elizabeth faceva una fatica d’inferno a stare dietro a sua sorella, che continuava ad avanzare a passo di marcia in mezzo alla foresta, apparentemente incurante sia delle radici e delle pietre che le ostacolavano il cammino, sia di lei. Elizabeth continuava ad incespicare in sassi appuntiti e sporgenti, in radici che fuoriuscivano dal terreno, in rovi appuntiti. Si guardò intorno: sembrava quasi che l’atmosfera fosse cambiata, rispetto a prima. Ora l’erba non era più verde e brillante, non c’erano fiori, ma solo erbacce scure e piante rampicanti, e gli alberi avevano i tronchi così nodosi da sembrare facce demoniache.

Anya continuava ad avanzare; pareva furiosa.

- Anya!- chiamò Elizabeth.- Anya, aspetta!

La ragazza non rispose, ma Elizabeth la sentì borbottare fra i denti.

- Regno delle Favole…Dipartimento speciale…idiozie, solo idiozie!

- Perché dici che sono idiozie?- gridò Elizabeth.

- Oh, andiamo, Liz, non mi dirai che credi a queste…

- Perché papà avrebbe dovuto mentire, scusa?

- Non lo so, ma di certo poteva inventarsi una balla decente! Regno delle Favole, ma fammi il piacere!

- Ma forse non ha detto una bugia!

Elizabeth non sapeva perché, ma in qualche modo si sentiva propensa a credere a suo padre. Erano successe troppe cose strane, nelle ultime ore: prima quel passaggio nel muro, poi la foresta…quello che avevano visto…

- Forse papà ha detto la verità!- gridò.- Forse questo è davvero il Regno delle Favole! Quella ragazzina, Anya…hai visto la sua mantella?

- Senti, Liz, ficcatelo bene in testa: io non credo nelle favole!- ringhiò Anya, voltandosi a guardarla per un attimo.- E ora andiamo, voglio tornare a casa…

- Ma…

Elizabeth inciampò all’improvviso in qualcosa che sporgeva dal terreno, forse una radice o una pietra; la ragazza cadde a terra in avanti, con un tonfo. Gli occhiali le scivolarono dal naso, finendo a diversi metri di distanza. Elizabeth udì un rumore che non le piacque per niente, il rumore di un vetro che si rompeva.

In un attimo, tutto intorno divenne nebbia.

Anya si fermò, voltandosi verso sua sorella. Le corse incontro, afferrandole un braccio per aiutarla a rialzarsi.

- Liz!- chiamò.- Liz, ti sei fatta male?

Elizabeth mugolò. Non vedeva niente, ma sentiva i palmi delle mani bruciare, probabilmente doveva essersi graffiata, pensò. Ma quello che le premeva di più, in quel momento, era recuperare un minimo di vista.

- Gli occhiali…- biascicò in risposta.

Anya iniziò a guardarsi intorno, alla ricerca degli occhiali della sorella, la cui montatura vide luccicare poco distante. Li raccolse: la montatura era tutta storta e ammaccata; una lente non c’era più, mentre l’altra presentava una grossa crepa.

- Oh, Dio…- gemette Anya, esaminandoli.- Liz, credo proprio che…

Elizabeth si alzò a fatica, senza ascoltare la sorella. Mise le mani avanti, nel tentativo di orientarsi nella nebbia. Cavolo, non vedeva niente!

D’un tratto, quasi senza che se ne accorgesse, la vista iniziò a farsi meno confusa, divenendo lentamente più chiara e nitida, fino a che Elizabeth non fu in grado di mettere a fuoco tutto quanto le stava intorno.

La ragazza boccheggiò; era incredibile, sua sorella aveva in mano gli occhiali rotti, eppure lei vedeva lo stesso! Vedeva tutto, gli alberi, l’erba, Anya, proprio come se avesse avuto gli occhiali…ma non li aveva.

- Liz…- mormorò Anya.- Liz, stai bene?

- Anya…- boccheggiò Elizabeth.- Anya, io ci vedo…

- Che?

- Ci vedo.

- Ma come…come…- boccheggiò la ragazza, stralunata.

- Non lo so, ma ci vedo!- ripeté Elizabeth.- Te lo giuro, vedo tutto quanto, esattamente come se avessi addosso gli occhiali!

- Ma…ma non è possibile…non è…

Anya non riusciva a capacitarsi; continuava a guardare ora la sorella ora gli occhiali, esterrefatta. Non ricordava di aver mai visto Elizabeth senza occhiali; sua sorella li portava fin da quando era piccolissima, le avevano diagnosticato una forma di astigmatismo molto simile alla cecità, senza quelli era impossibile che vedesse!

Le due sorelle si guardarono negli occhi, senza sapere cosa pensare.

- Ammettilo, Anya…- mormorò alla fine Elizabeth.- Qui sta succedendo qualcosa di strano…

La ragazza aprì la bocca per replicare, quando d’un tratto le nuvole si diradarono e la luce della luna si riverberò su di loro.

Poco distante, dal buio della foresta, spuntarono due grandi occhi gialli.

 

Angolo Autrice: Eccomi qui! Stranamente non ho nulla da dire su questo capitolo…Dunque, le due ragazze ora sanno di trovarsi in un mondo diverso dal loro, ma Anya riuscirà a vincere il suo scetticismo? E di chi sono i due occhi gialli? Cosa ha in mente la Regina? E qual è l’errore compiuto da Hadleigh in passato? Chi ha ucciso Cappuccetto Rosso e sua nonna, e perché? Che altro succederà nel mondo delle favole?

Tutto questo lo scopriremo nei capitoli che verranno :).

Ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare Daniawen per aver aggiunto questa ff alle seguite, alle preferite e per aver recensito, IwillBeThere per averla aggiunta alle seguite e per aver recensito, cola23 e Samirina per averla aggiunta alle preferite, e Raffy240, Imalonewolf e Sylphs per aver recensito.

Al prossimo capitolo, ciao :).

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Capitolo 5
*** Bloody Snow-White ***


 

Bloody Snow-White

 

- E’ già buio?- fece Anya, alzando gli occhi al cielo e dimenticando per un attimo gli occhiali della sorella e il suo improvviso recupero della vista.

- Beh, erano quasi le otto quando siamo arrivate qui…

- Dai, cerchiamo questo dannato muro e torniamocene a casa. Domattina devo andare al lavoro presto…

Senza aggiungere altro, Anya si voltò e riprese a camminare nella direzione indicata da Crawford. Elizabeth rimase un attimo immobile, quindi si affrettò a raggiungerla. Da sempre, il carattere deciso e indipendente di sua sorella aveva il potere di tranquillizzarla e di farla sentire al sicuro, e più di una volta aveva preferito affidarsi ad Anya e al suo senso pratico. Ma quella sera, Elizabeth si sentiva tutt’altro che tranquilla. Sua sorella rimaneva ancorata al suo scetticismo, ma era evidente che c’era qualcosa che non andava: prima quella voragine nel muro, poi quel luogo così irreale, senza contare quello che aveva detto suo padre. Regno delle Favole, mah…Eppure, Elizabeth aveva visto bene cos’era successo a quella ragazzina. Si era come sciolta, e di lei era rimasta solo la sua mantella. Una mantella rossa con il cappuccio.

E infine, lei ci vedeva. Erano più di dieci anni che portava quei maledetti occhiali, e la sua vista non aveva mai dato segni di miglioramento. Quello stesso pomeriggio, quando Jessica e la sua gang glieli avevano strappati dalla faccia, aveva brancolato nella nebbia per ritrovarli. E poi, quand’era arrivata…puff!, ecco che ci vedeva perfettamente.

Elizabeth alzò lo sguardo al cielo. Quando avevano lasciato New York – perché non erano più lì, su questo non c’era dubbio – pioveva a dirotto, e non ricordava di aver mai visto delle stelle nel cielo inquinato dallo smog della metropoli. Invece, ora il cielo era limpido e senza una traccia di nuvola, e colmo di stelle, in mezzo alle quali spiccava una grande e luminosa luna piena.

Continuavano ad avanzare, ma alla ragazza sembrava quasi di girare intorno. Gettò uno sguardo alla sorella: Anya le dava le spalle, ma non procedeva più con la stessa decisione di poco prima, e continuava a guardarsi intorno.

- Anya, dove siamo?- chiese Elizabeth, e la voce le uscì stranamente acuta.

- Noi…Non capisco, Crawford ci aveva detto di andare per di qua…- mormorò Anya. Fece saettare lo sguardo intorno a sé, ma non vedeva altro se non alberi che le parevano tutti uguali. Che doveva fare, ora? Liz stava aspettando che facesse qualcosa, ma lei non aveva idea di che cosa fare. Forse Crawford si era sbagliato. Forse avrebbero dovuto proseguire, ma ormai era completamente buio, e la luce della luna faticava a raggiungerle attraverso le fronde degli alberi.

Anya si voltò a guardare sua sorella.

- Forse è meglio tornare indietr…

- Guarda!- esclamò d’un tratto Elizabeth, indicando un punto alla loro sinistra. Anya seguì lo sguardo della sorella, incontrando ben presto un bagliore molto fioco in lontananza che, però, era abbastanza forte da superare quella foresta intricata.

- C’è una luce…- disse Elizabeth.- Forse c’è qualcuno, magari potremmo chiedere indicazioni…

Anya ci pensò un po’ su: erano nel bel mezzo di un bosco, da sole, al buio e senza niente per difendersi. In quelle condizioni, un aiuto avrebbe fatto comodo, ma restava comunque il fatto che incontrare un estraneo sarebbe stato ben poco sicuro. Elizabeth aveva iniziato a muovere qualche passo in direzione della luce, ma lei la bloccò afferrandola per un braccio.

- Ma che fai?- ringhiò.- Ti pare che sia così semplice? Tu vedi una luce e che fai? Le vai subito incontro?

Elizabeth sbuffò, liberandosi dalla stretta.

- E che proponi di fare? Continuare a brancolare alla cieca?

- Non stiamo…

- Andiamo, Anya, ci siamo perse, ammettilo!

- Non è un buon motivo per rivolgersi a un estraneo…- già, perché, si disse Anya, se c’era una luce allora per forza doveva esserci qualcuno. A meno che non si trattasse di un lampione.

- E allora cosa…

Elizabeth non terminò la frase, interrotta da uno strano rumore. Era come un fruscio di foglie, ma molto forte.

- Shhht…- fece, raddrizzando il capo e ponendosi in ascolto.

Anya si zittì, iniziando ad ascoltare. Il bosco mandava solo qualche rumore, il canto di qualche uccello e il suono di una lieve brezza fra le fronde degli alberi.

Elizabeth si rilassò. Aprì la bocca per parlare, ma subito il suono secco di un ramo spezzato la fece ammutolire. Le ragazze si volsero all’unisono in direzione del rumore. Elizabeth si accorse solo in quel momento di stare trattenendo il fiato. La foresta alle loro spalle pareva molto più buia e intricata di quando l’avevano attraversata. Il fruscio si ripeté, più forte di prima. Elizabeth vide le foglie di un cespuglio scuotersi. Un attimo dopo, udirono un ringhio canino.

Elizabeth si sentì salire il sangue alle tempie, e afferrò sua sorella per un braccio.

- Andiamo via…!- sibilò, cercando di tirarla verso la luce.

- Ma che cos’è?- fece Anya, troppo concentrata sul rumore per potersi divincolare dalla presa di sua sorella.

- Non lo so, ma andiamo via!- implorò Elizabeth, tirandola di nuovo. Anya indietreggiò di qualche passo. Il ringhio si ripeté, seguito da un guaito canino.

- Sembra un cane…- sussurrò Anya.

- O un lupo…- soffiò Elizabeth.

- Non ci sono lupi a New York!

Se non avesse avuto troppa paura, Elizabeth avrebbe lanciato un grido di esasperazione. Aumentò la stretta al braccio di Anya.

- Qui non siamo più a New York, non l’hai ancora capito?!

Anya fece per ribattere, ma un terzo ringhio, più vicino, glielo impedì. Elizabeth sentì che non ce l’avrebbe fatta a rimanere lì un minuto di più. Senza attendere replica, tirò il braccio di sua sorella e la costrinse a seguirla. Anya lanciò un grido di protesta, e si lasciò sfuggire di mano gli occhiali rotti di Elizabeth, che finirono sulla pietra.

- Ma che cosa fai?!- protestò Anya, mentre Elizabeth la trascinava giù per un pendio non troppo ripido, ma invaso da sassi e sterpaglie.

- Cerco di evitare che quel lupo ti faccia lo scalpo!- Elizabeth non poteva dire con certezza se si trattasse di un lupo, probabilmente aveva ragione Anya e quello era soltanto un cane randagio, ma non se la sentiva di metterci la mano sul fuoco. Era certa che non si trovassero più a New York, e non sapeva come, ma in qualche modo sentiva che, quale che fosse la cosa che si nascondeva fra i cespugli, non aveva buone intenzioni.

- Ma qui non ci sono…

Elizabeth l’ignorò, continuando a seguire la luce che aveva visto poco prima. A poco a poco, il bagliore si fece più nitido, e le ragazze videro da dove proveniva. La luce brillava oltre i vetri di una finestra, l’unica illuminata di una casetta al centro di una radura.

Anya dimenticò per un attimo sua sorella che la strattonava, concentrandosi su quella costruzione. Era la casa più strana che avesse mai visto: le pareti erano di legno non verniciato, e il tetto di paglia. Era a due piani, con almeno una decina di finestre di fronte, ma appariva così piccola.

E, quando furono vicine, vide che era veramente piccola. Tutta la casa, pur contando due piani, era alta sì e no un paio di metri, e le finestre erano grandi quanto l’oblò di una nave. La porta, anch’essa di legno, arrivava all’altezza delle loro spalle.

Elizabeth non si era ancora calmata; sua sorella prese a bussare freneticamente alla porta, continuando a lanciare occhiate alle sue spalle.

- Liz…

Un ululato squarciò l’aria.

Elizabeth afferrò la maniglia della porta e l’aprì in un solo colpo.

- Ma che cosa stai facendo?!- fece Anya esterrefatta.

Un altro ululato, più vicino.

- Entra!- strillò Elizabeth, spingendo dentro la sorella.

Anya mancò per un pelo di sbattere la fronte contro lo stipite della porta. Entrambe si dovettero chinare per entrare. Una volta dentro, Elizabeth chiuse in fretta la porta, appoggiandovisi contro con le spalle.

La ragazza chiuse gli occhi, tentando di fra riprendere al cuore un battito regolare. Quello che aveva fatto era assurdo, se ne rendeva perfettamente conto, ma non era semplice paura quella da cui si era fatta prendere. Era autentico terrore. Era la sensazione strana che si ha da bambini quando si è da soli nel proprio letto, al buio, è quel presentimento irrazionale che ti fa credere che sotto le coperte si annidi l’Uomo Nero, che una mummia stia per sbucare dall’armadio, o che un uomo mascherato si nasconda dietro la porta, che ti induce a pensare che qualcosa di orribile stia per accadere da un momento all’altro.

Era la stessa sensazione che aveva provato a quattro anni, quel giorno in cui la mamma aveva spalancato la porta della sua stanza e aveva afferrato Anya per un braccio e…

Scosse il capo con vigore, e aprì gli occhi. Non voleva pensare a quello che era successo, e in ogni caso sarebbe stato inutile. I suoi ricordi erano troppo vaghi e sfocati. E poi, avevano ben altri problemi in quel momento.

Notò con la coda dell’occhio che appeso al muro c’era un catenaccio di ferro. Lo afferrò velocemente e lo agganciò al lucchetto, sentendosi infinitamente più al sicuro. Sembrava essersi completamente dimenticata di essere in una casa sconosciuta.

Si voltò verso sua sorella: Anya sembrava più tranquilla di lei, ma continuava a guardarsi intorno. Elizabeth gettò un’occhiata all’ambiente. Era presumibilmente una cucina, ma sembrava una di quelle cucine medievali: non c’erano gas o fornelli, solo una brace di fortuna sul pavimento con un pentolone nero posto a cuocere. Elizabeth storse il naso al sentire il puzzo che proveniva da esso: qualunque cosa bollisse in pentola, doveva essere bruciata da tempo. Al centro della cucina vi erano un tavolo apparecchiato e sette sedie. Nulla di strano, apparentemente, se non fosse stato che sia il tavolo sia le sedie parevano come quei seggiolini di plastica per bambini che si vedevano nelle lavanderie o nei centri commerciali. La loro misura era notevolmente ridotta, pareva davvero che fossero stati fabbricati apposta per dei bambini.

Il suono della voce di Anya la riportò bruscamente alla realtà.

- Si può sapere che diamine ti è preso?- ringhiò sua sorella, apparentemente incurante di quanto fosse strano quel luogo.

- Hai…hai visto?- Elizabeth ignorò la domanda di Anya, indicando il tavolo e le sedie.

- Sembravi un’isterica! Ma che accidenti avevi? Ti rendi conto che non possiamo stare qui?- insistette Anya. - Non sappiamo di chi è questa casa, se ci beccano ci prendiamo una bella denuncia per violazione di domicilio…

- Hai visto quelle sedie?- incalzò Elizabeth.

Anya sospirò, gettando un’occhiata distratta alle seggiole.

- Sì, e allora?

Elizabeth si trattenne a stento dall’urlarle in faccia. Sembrava quasi che sua sorella lo facesse apposta, a far finta che fosse tutto normale. Ma non era tutto normale. La ragazza ricordò improvvisamente quello che aveva detto suo padre riguardo al mondo delle favole, quindi contò le seggiole: sette!

- Hai visto quante sono?- mormorò.- Sette. Proprio come…

- Liz, se solo provi a dirlo, parola mia che ti…

Si udì un tonfo, quindi un altro. Le due ragazze alzarono gli occhi al cielo. Proveniva dal piano di sopra.

- Che cos’era?- fece Anya, articolando le parole ad una ad una.

- Vado a vedere…

Elizabeth superò la sorella, iniziando ad avviarsi su per le scale. La paura di prima era come svanita, anzi, ora si sentiva tranquilla e quasi di buon umore. Se davvero si trovavano nel mondo delle favole – per quanto il solo pensiero le suonasse assurdo e degno di ricovero immediato –, allora quella casetta doveva essere per forza abitata da chi pensava. E se era abitata da chi pensava, cosa c’era da temere?

Nessuno avrebbe fatto loro del male, lì dentro.

Salì in fretta i gradini, sorridendo fra sé quando udì il rumore degli stivaletti di Anya seguire quello delle sue scarpe da tennis.

Si ritrovò in una stanza lunga e stretta, e dal soffitto talmente basso da costringerla a piegare le spalle per poter camminare. Era una camera da letto, nessun dubbio: contro una parete erano allineati sette letti apparentemente per bambini.

Il sorriso di Elizabeth si fece ancora più smagliante.

- Sto cominciando a preoccuparmi per la tua salute mentale, sai…?- sbuffò Anya, raggiungendola.

Il tonfo di poco prima si ripeté a breve distanza da loro. Seguì un gemito e un singhiozzo soffocato.

Anya sembrò riscuotersi, e superò a grandi passi la sorella. I singhiozzi si ripeterono. Le due ragazze avanzarono lungo la stanza, sbirciando oltre i letti tentando di capire da dove provenisse quel suono.

Giunsero in fondo alla camera, all’ultimo letto. I singhiozzi si fecero più insistenti.

Anya si sporse a guardare oltre le coperte, e per poco non cacciò un urlo.

In un angolo, raggomitolato su se stesso, se ne stava un fagotto di stracci, da cui spuntavano due piedi nudi e sporchi di terra. Il fagotto gemette di nuovo, scoprendo il volto seminascosto da una folta chioma di capelli neri su cui era sistemato un fiocco rosso un po’ storto.

Elizabeth si avvicinò di corsa alla sorella, sporgendosi a vedere: quella che le stava di fronte era una ragazza di circa quindici o sedici anni, molto somigliante ad Anya, per certi versi, ma molto più bella. I lunghi capelli neri incorniciavano un viso ovale e infantile, pallidissimo ma con le guance spruzzate di un gradevole colorito roseo, gli occhi grandi e scuri e delle labbra rosse come il sangue. La faccia era estremamente sporca, anche se la terra era rigata qua e là dalle lacrime che scendevano dagli occhi della ragazza. Era vestita completamente di stracci, mentre le mani erano imprigionate dietro la schiena e le caviglie legate.

- Biancaneve?- mormorò Elizabeth, istintivamente.

- Santo cielo, Liz!- sbottò Anya, inginocchiandosi accanto alla ragazza e iniziando ad armeggiare con le corde.- Aspetta, ora ti aiuto…- la guardò negli occhi.- Chi sei? Chi ti ha fatto questo?

- Io…io mi chiamo Biancaneve…- cinguettò la ragazza.

Anya la guardò, esterrefatta.

Biancaneve si rialzò dal pavimento, liberandosi delle corde.

- Chi è stato a farti questo?- domandò Elizabeth.

- Loro…i nanetti…- pigolò Biancaneve.- Erano così strani, negli ultimi tempi…e poi, una settimana fa…- Biancaneve singhiozzò, asciugandosi le lacrime. Anya le lanciò un’occhiata in tralice.

Elizabeth le sorrise, posandole una mano sulla spalla. Biancaneve ruotò lentamente il collo, fissando la mano.

- Cos’è successo, dicci…- la incoraggiò Elizabeth, mentre scendevano le scale.

Anya la tirò a sé.

- Ma ti sei impazzita?- sibilò.- Che ti salta in mente?

- Anya, quella è Biancaneve!- esclamò sottovoce la sorella, cercando di trattenere l’eccitazione. Non le pareva possibile: quand’era piccola aveva sempre sognato di incontrare una principessa delle favole, e ora aveva di fronte niente meno che Biancaneve!

- E io sono Cenerentola!- borbottò Anya di rimando, cercando di non far capire che stava vacillando. In cuor suo, sapeva che tutto quello che era successo non poteva avere – se ce l’aveva – una spiegazione razionale, ma la sua mente si rifiutava categoricamente di credere a quello che aveva detto suo padre. Primo, perché da anni ormai aveva imparato a cavarsela da sola senza il suo aiuto, secondo perché tutto questo era assolutamente assurdo!

Qualcosa, dentro di lei, le gridava che quello era veramente il Regno delle Favole, ma la sua parte pratica e razionale la spingeva a ignorarlo.

Certo non l’aiutava Elizabeth, che invece pareva proprio convinta che quella povera ragazza fosse veramente Biancaneve. Non che la povera ragazza in questione si dannasse troppo per dimostrare il contrario, comunque.

- Beh, non lo so con esattezza…- cinguettò Biancaneve – no, non Biancaneve, dannazione, quella sconosciuta che avevano liberato!.- Sono sempre stati così gentili, con me…Sapete, io sono fuggita dalla Regina Cattiva, e mi sono rifugiata nella foresta, e poi ho trovato questa casetta…- Biancaneve si bloccò, quindi fece un breve scatto di lato con il collo. Lo ripeté altre due o tre volte: aveva tutta l’aria di essere un tic nervoso.

Biancaneve ridacchiò.

- Con queste seggioline…e quei lettini…- ridacchiò nuovamente. Di nuovo, riecco quella specie di tic nervoso.

- Ehm…- esordì cautamente Anya.- Ascolta, c’è un telefono da qualche parte?

- Un…che?- un altro scatto. A Elizabeth parve che Biancaneve avesse una strana luce negli occhi, che prima non c’era, o non aveva notato.

- Lasciamo perdere…- sbuffò Anya. La sua ipotesi che quella ragazza potesse avere delle turbe mentali veniva avvalorata sempre di più, complice anche quell’ossessivo tic nervoso.- Senti, c’è un posto dove ti possiamo accompagnare? Hai famiglia, un amico, un ragazzo, qualcuno?- fosse dipeso da lei, avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe uscita immediatamente da lì ma, squilibrata o no, quella ragazza doveva avere dei problemi di altro tipo, se l’avevano trovata legata.

Biancaneve non sembrò badarle; senza che quel tic nervoso cessasse, iniziò a guardarsi intorno, come se stesse vedendo quella casa per la prima volta. Mosse qualche passo verso il pentolone, con una lentezza esagerata, quasi innaturale.

Anya ammutolì, lanciando un’occhiata a sua sorella. Elizabeth sembrava aver perso tutta l’euforia di poco prima, ma la ragazza non avrebbe saputo dire se questo fosse un bene o un male: sua sorella teneva lo sguardo fisso su Biancaneve, ed era un po’ impallidita. Anya guardò istintivamente fuori dalla finestra. Era notte, fuori, e la luna piena faceva in modo che le ombre degli alberi si allungassero fino ad entrare dai vetri e, miste a quelle gettate dalle braci, rendevano la piccola cucina più cupa e sinistra.

- Sapete, io cucinavo sempre per loro…- disse, esaminando i piatti e le posate posti sulla tavola.- Io cucinavo, lavavo, stiravo, pulivo…e loro erano così contenti, mi volevano bene…e io volevo bene a loro…- sorrise, ma di un sorriso strano, quasi un ghigno.- E’ così bello avere qualcuno che ti vuole bene…è come…come quando ti lavi le mani e le vedi pulite…poi sei così felice!- Biancaneve rise, quindi abbassò lo sguardo sul tavolo.

Le pupille di Elizabeth si dilatarono, alla vista di un oggetto che poco prima non aveva notato: una grossa mannaia, la cui lama scintillava alla flebile luce delle fiamme. Di nuovo, si sentì invadere da quello strano senso di terrore irrazionale, ma stavolta, forse, non era del tutto ingiustificato.

Biancaneve si fece seria, quindi afferrò la mannaia, sollevandola lentamente di fronte agli occhi.

Elizabeth sentì le unghie della mano di sua sorella conficcarsi nel proprio braccio.

- Io sono felice…sono felice quando tutto è pulito…- cinguettò Biancaneve, e quella vocina melliflua stonò terribilmente con quello che le due ragazze stavano vedendo in quel momento.- Non si può stare sporchi…mi rende tanto triste vedere lo sporco…- Biancaneve puntò i grandi occhi scuri contro le due ragazze. Mosse qualche passo verso di loro, molto lentamente. Elizabeth indietreggiò; Anya provò il fortissimo impulso di prendere sua sorella e scappare fuori da lì.

- Fammi vedere le mani…- sorrise Biancaneve, rivolta ad Anya. La ragazza la ricambiò con uno sguardo incredulo.

- Fammi. Vedere. Le. Mani!- strillò Biancaneve, con voce stridula.- Sono sporche, vero? Sono sporche, è per questo che non me le vuoi far vedere!

- Ma che stai dicendo, sei fuori di testa?- ringhiò Anya, ma l’espressione di Biancaneve si fece ancora più feroce.

- Sono sporche, hai le mani sporche!- urlò, mentre il tic nervoso continuava ossessivamente.- Ti avevo detto di lavarle! Se non ti lavi le mani, allora niente cena!

- Ma che…

- Mi dispiace tanto, cara…- squittì nuovamente.- Ma temo che sarò costretta a metterti in castigo!

Le due ragazze ebbero appena il tempo di rendersi conto di ciò che stava succedendo che Biancaneve ringhiò, e scaraventò la mannaia dritta nella loro direzione.

- Spostati!- gridò Anya, dando uno spintone a sua sorella. Elizabeth cadde di peso sul pavimento; Anya sentì un bruciore acuto a una spalla: guardò, e la vide sporca di sangue.

Biancaneve gettò il capo all’indietro e rise, di una risata malsana, folle. In una frazione di secondo, raccolse un altro coltello dal tavolo. Elizabeth si rialzò da terra appena in tempo prima che Biancaneve le fosse addosso. Rotolò di lato sul pavimento, mentre la sentiva ghignare.

Biancaneve l’afferrò per i jeans, mettendosi in ginocchio. Sollevò il coltello all’altezza del suo viso; Elizabeth alzò un braccio per difendersi, ma subito vide Anya lanciarsi alle sue spalle. La ragazza afferrò Biancaneve per i capelli con un ringhio, liberando la sorella dal peso del suo corpo, ma l’avversaria pareva avere una forza straordinaria.

Con uno spintone, Biancaneve mandò Anya a cozzare contro il tavolo, quindi le fu subito addosso. La ragazza portò le mani avanti per bloccarla, ma il peso di entrambe gravò sulla tavola fino a farla ribaltare. Le due caddero a terra con un gran tonfo accompagnato dal rumore di piatti e bicchieri che si rompevano. Biancaneve lanciò un urlo animalesco, quindi le fu subito addosso, affondando il colpo. Anya le bloccò velocemente il polso, ritrovandosi con la lama del coltello a pochi centimetri dal viso. Con un colpo di reni, la ragazza ribaltò le posizioni, mandando Biancaneve con la schiena a terra.

- Liz, aprì la porta!- strillò, cercando di disarmare l’avversaria.

Elizabeth scattò in piedi, iniziando ad armeggiare con il catenaccio.

Biancaneve tentò di ribaltare nuovamente le posizioni, ma Anya le sferrò un calcio nello sterno, accompagnato da un ringhio. L’avversaria venne spinta contro la parete della cucina, mentre la ragazza si rimetteva in piedi.

Elizabeth l’afferrò per un braccio.

- Corri!

Anya non se lo fece ripetere due volte, ma la ferita alla spalla continuava a sanguinare e a bruciare, e i postumi della caduta si facevano sentire. Elizabeth si costrinse a dimenticare per un attimo gli ululati che aveva sentito, e prese a correre in direzione della foresta. Alle sue spalle, udì la risata sguaiata e folle di Biancaneve.

- Dove siete?- gracchiò.- Venite qui, è ora del bagno!

Elizabeth afferrò più saldamente la mano di sua sorella, addentrandosi di nuovo nel bosco. Sentì i passi di Biancaneve alle loro spalle.

- Corri!- incitò, ma Anya sembrava veramente distrutta. Elizabeth la scosse:- Su, forza!

- Dove andiamo?- ansimò Anya, senza smettere di correre, incespicando negli arbusti.

- Io…io non…- Elizabeth rallentò insensatamente il passo, guardandosi intorno con aria spaesata. Era tutto buio, e gli alberi sembravano tutti uguali…

Anya si raddrizzò; sentiva i passi alle sue spalle farsi sempre più vicini, e la risata acuta di Biancaneve sempre più nitida. Si guardò freneticamente intorno, ma di tempo per pensare ne aveva poco.

I passi si avvicinavano, sempre di più.

Quasi senza pensarci, afferrò Elizabeth per la manica della felpa e la tirò verso di sé. Con una spinta, la mandò a terra, dietro un cespuglio di rovi abbastanza fitto per poter sperare di non essere viste.

Elizabeth si trovò con la faccia schiacciata contro l’erba della foresta, e sentì sulla sua schiena il peso di sua sorella.

- Che stiamo facendo?- sussurrò, quasi impercettibilmente.

- Hai un’idea migliore?- ansimò Anya.

- E se ci trova?

- Prega che non lo faccia.

I passi ora erano vicinissimi, Elizabeth sentiva il rumore ovattato dei piedi nudi sull’erba. Si portò una mano alla bocca; le sembrava che il suo respiro fosse rumorosissimo. Dalla corsa, l’andatura dei passi si fece più lenta.

- Dove siete?- stridette la voce di Biancaneve.

Elizabeth ne intravide i piedi nudi attraverso il rovo.

- Andiamo, non vi mangio mica!- rise della sua stessa battuta, di nuovo quella risata folle.

Elizabeth chiuse gli occhi per non vedere. Aveva il terrore di ritrovarsi di fronte agli occhi lo sguardo minato dalla follia di Biancaneve e il suo ghigno malefico.

Biancaneve iniziò a mugolare, quindi lanciò un’altra risata sguaiata.

Elizabeth la udì allontanarsi canticchiando una melodia in modo incomprensibile, e solo quando la sua voce e i suoi passi non furono più udibili trovò il coraggio di riprendere a respirare. Sentì sua sorella sollevarsi e liberarla dal suo peso.

- Pazza squilibrata…!- borbottò Anya, mettendosi a sedere. Lo chignon si era completamente sfatto, e ora i capelli neri le ricadevano sugli occhi.

Elizabeth si rialzò da terra, ripensando a quello che aveva detto suo padre.

Se davvero quello era il Regno delle Favole, allora doveva esserci qualcosa che non andava.

 

***

 

La Regina teneva lo sguardo fisso sullo specchio di fronte a sé. Il riflesso mostrato non era il suo, bensì quello di due ragazze vestite in modo molto strano, accovacciate sull’erba dietro un cespuglio di rovi. Ne studiò attentamente i volti, l’uno serio e maturo, l’altro ovale e infantile, e i suoi occhi verdi si ridussero a due fessure.

Si sporse in avanti sul trono, avvicinando il viso allo specchio. Il riflesso mostrava che la luna piena era ancora alta in cielo.

- Trovale!- sibilò, e i suoi occhi scintillarono.- Prendile. Uccidile.

Dallo specchio le rispose un ululato sommesso.

La Regina sorrise, vedendo spuntare poco più in là due occhi gialli.

 

***

 

- Ma dove siamo finite?- borbottò Anya, rivolta a se stessa.

Elizabeth fu sul punto di risponderle che erano nel Regno delle Favole, ma subito scacciò quell’idea. Più che il Regno delle Favole, quello sembrava il Regno degli Incubi.

Ansimò nel tentativo di riprendere fiato e di normalizzare nuovamente il battito cardiaco, ma la borsa che portava a tracolla le pesava più di un macigno. Se ne liberò con uno sbuffo, gettandola di lato.

Il libro di favole che vi era contenuto fuoriuscì, finendo abbandonato sull’erba.

- Quello cos’è?- domandò Anya, vedendolo.

Elizabeth gli gettò un’occhiata, quindi fece per risponderle, ma si bloccò.

Dalle pagine stava colando uno strano liquido nero.

 

Angolo Autrice: So che molti di voi staranno storcendo il naso all’idea di una Biancaneve pazza e assassina, ma questo era il modo migliore per renderla diversa da come lo è nella favola o nel film Disney (a proposito, la citazione sulle mani e la pulizia viene da lì), e per far capire che nel Regno delle Favole le cose non stanno andando esattamente come dovrebbero…

Anyway, nel prossimo capitolo avremo l’entrata in scena di alcuni personaggi che nel seguito della vicenda avranno un ruolo fondamentale. Spero avrete la pazienza di seguirmi. Come sempre, consigli e critiche sono ben accetti.

Ringrazio Ignis Ferroque per aver aggiunto questa ff alle seguite, little_drawing per averla aggiunta alle seguite e per aver recensito, LadyAndromeda per averla aggiunta alle ricordate e Nymphna, Daniawen, Imalonewolf e Sylphs per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 6
*** Who is Afraid of the Big Bad Wolf? ***


 

Who is Afraid of the Big Bad Wolf?

 

Elizabeth allungò cautamente una mano in direzione del libro, sollevandolo da terra attenta a non imbrattarsi i jeans con quella strana cosa nera.

- Che cos’è?- ripeté Anya, lanciando un’occhiata al liquido con una smorfia.

- Un libro di favole - rispose Elizabeth.- L’ho preso alla biblioteca qualche giorno fa…

- Fin qui ci ero arrivata, intendevo: che cos’è quella roba?- la ragazza indicò la sostanza liquida.

Elizabeth vi intinse un dito.

- Sembra inchiostro…- mormorò.- Deve essersi sciolto quando l’ho bagnato, prima, sotto la pioggia…

- E da quando in qua un libro stampato perde inchiostro per un po’ d’acqua?

- Io non…

Elizabeth s’interruppe, guardando la copertina. Era di pelle marrone, molto spessa, su cui era incisa una scritta dorata.

Grimm, lesse mentalmente Elizabeth.

L’inchiostro non la smetteva di colare dalle pagine. Anya strappò il libro di mano a sua sorella, aprendolo con decisione. Elizabeth si sporse per vedere meglio: sua sorella aveva aperto sulla prima pagina di una favola. Era Cappuccetto Rosso. Elizabeth spostò lo sguardo dal titolo al foglio. L’inchiostro aveva smesso di colare, e le parole della favola erano quasi cancellate. Non si capiva nulla di quanto vi era scritto, l’inchiostro era sbavato e illeggibile. Elizabeth socchiuse gli occhi, tentando di decifrare le scritte. Man mano che scorreva velocemente le righe, si rese conto che qua e là mancavano dei termini. In particolare, qualcuno sembrava aver cancellato intenzionalmente le parole nonna e Cappuccetto Rosso. Non erano sbavate come il resto del testo. Erano proprio sparite.

Elizabeth lanciò un’occhiata di sottecchi a sua sorella. Anya teneva le sopracciglia aggottate, probabilmente anche lei aveva capito che qualcosa non andava. Elizabeth voltò velocemente una pagina, quindi un’altra, avvicinandosi alla fine della storia. Cercò di decifrare le parole, ma sembrava quasi che, a mano a mano che ci si avvicinava il finale, il testo si facesse sempre più illeggibile. L’inchiostro era così sbavato da rendere impossibile leggere alcunché. Ancora, le parole nonna e Cappuccetto Rosso erano state cancellate.

Elizabeth giunse all’ultima pagina. Sul retro vi era una figura, un’illustrazione ad acquerello, ma stranamente quella non sembrava essere stata danneggiata. L’immagine mostrava una camera da letto, presumibilmente in casa della nonna, così a soqquadro da dare l’impressione che vi fosse appena passato un tornado. Al centro, seminascosto, vi era inginocchiato un uomo, con abiti marroni e lisi, stivali da lavoro, e un’accetta legata alla cintura di cuoio. Reggeva in mano una mantella rossa, e la guardava con occhi cerchiati, ma di uno strano e inquietante colore giallo.

Elizabeth tornò a guardare il testo scritto: il finale della storia era illeggibile. L’unica parola il cui inchiostro non era stato sbavato era comunque deformata: le lettere erano un poco ondeggiate e tremolanti. Elizabeth lesse. La parola era Cacciatore.

- Andiamo via da qui, prima che quella pazza ritorni…- bisbigliò Anya, già dimentica dell’inchiostro colato. Elizabeth sollevò lo sguardo su sua sorella, chiudendo il libro.

- Anya, sta succedendo qualcosa…- mormorò.- Se questo è davvero il Regno delle Favole, allora c’è qualcosa che non va…

- E lo credo che c’è qualcosa che non va, una pazza ha appena cercato di ammazzarci!- Anya si sollevò in piedi.- Non possiamo lasciarla a piede libero…troviamo quel dannato muro e parliamone con papà…

- Papà?

- Va arrestata, Liz, e lo sai anche tu.

- Ma porca vacca, Anya, quella era Biancaneve!- imprecò Elizabeth, sentendosi salire il sangue alla testa. Questa ostinazione di sua sorella nel non voler vedere come stavano le cose le dava sui nervi.- Biancaneve, hai capito? Biancaneve, e ha cercato di farci fuori! E guarda questo coso!- le sventolò il libro di favole davanti.- L’inchiostro non è colato per l’acqua! C’è qualcosa che non va, Anya, c’è qualcosa che non…

- Sì, hai proprio ragione: hai qualche rotella fuori posto!- ringhiò Anya. - Quella non era Biancaneve, Liz, quella era una pazza!

- Ma il libro…

- Non me ne frega niente se quel coso cola inchiostro, va bene? E abbassa la voce, quella squilibrata potrebbe…

- Squilibrata? Suppongo parliate di Biancaneve - gracchiò una voce alle loro spalle.

Anya si voltò di scatto, allungando istintivamente un braccio per proteggere sua sorella, ma si rese presto conto – anche se non sapeva se sentirsi sollevata o no, dati gli ultimi eventi – che non si trattava di Biancaneve.

Elizabeth guardò lo sconosciuto di fronte a loro, alzandosi lentamente in piedi e riponendo il libro di favole nella borsa. Chi aveva parlato era un uomo, abbastanza alto e magro, vestito completamente di nero, fatta eccezione per l’interno del mantello, foderato di rosso. Era ancora giovane, ma i lineamenti del suo viso erano troppo affilati per poter essere bello. Il mento era appuntito, il naso dritto e gli zigomi spigolosi accentuavano ancora di più i suoi occhi neri. Aveva i capelli castani raccolti in una coda dietro la nuca, e un sorriso che pareva lo stesso di una volpe che ha appena individuato il pollaio.

- Ehm…salve…- mormorò Anya, scostandosi una ciocca di capelli. Elizabeth non ci avrebbe giurato, ma sospettava che sua sorella si sentisse parecchio intimidita da quell’uomo, e non poteva darle tutti i torti. Lo sconosciuto, forse per i suoi abiti scuri, o per i suoi lineamenti affilati, le trasmetteva uno strano senso di disagio, misto anche a un certo timore. E dopo quello che era successo con Biancaneve, era meglio tenere le antenne radar bene in funzione.

- Senta, noi…- continuò Anya.- Noi…siamo state aggredite…c’è una donna che…

- Sì, non mi stupisce - fece l’individuo, noncurante.- Povera Biancaneve…da quando il Principe Azzurro l’ha…beh, non si è comportato esattamente da gentiluomo, di fronte al suo bel corpicino addormentato…- ghignò.- Poveretta, da allora è andata fuori di testa…

- Fuori di testa?- ironizzò Elizabeth.

Anya si trattenne dal lanciare un urlo di esasperazione.

- Senta - disse, fermamente.- Noi dobbiamo tornare a casa…Sa dirci se per caso c’è una parete qui intorno che…

Lo sconosciuto schioccò le dita. Anya ed Elizabeth sgranarono gli occhi.

Dio, era sparito!

- Casa? Parete?- fece una voce alle loro spalle.

Entrambe si voltarono di scatto: lo sconosciuto era ricomparso, e se ne stava con le spalle appoggiate a un tronco di quercia. Anya non sapeva se mettersi a gridare o no; l’unica cosa che riusciva a fare era boccheggiare come uno scorfano ritardato.

- Non ci sono pareti, nella Foresta Incantata - disse lo sconosciuto.- Non so chi ve l’abbia detto, ma è la più grossa delle menzogne. Avete mai provato a immaginare un muro di mattoni che spunta dall’erba come le radici di un albero? Vi pare possibile? No, non credo proprio.

- Io so che è vero!- insistette Anya. Era sicura al cento per cento che quella faccia da furetto le stesse prendendo in giro. Non poteva essere altrimenti. Il procuratore Crawford era stato chiaro, perché avrebbe dovuto mentire? Era nel suo interesse, le era parso di capire, che loro se ne andassero fuori dai piedi.

- Se ne sei convinta, cara…- concesse lo sconosciuto con voce melliflua, ma con un ghigno che dimostrava tutta la sua sicurezza e il suo scherno. Schioccò un’altra volta le dita, e scomparve.

Elizabeth si voltò all’unisono con sua sorella; sgranò gli occhi. Ora lo sconosciuto se ne stava allegramente appollaiato su un salice piangente, la schiena poggiata al tronco e le gambe distese lungo uno spesso ramo. A Elizabeth ricordava molto Jareth, il Re dei Goblin dell’ultimo film che aveva visto insieme ad Anya e a suo padre, un fantasy intitolato Labyrinth, in cui una ragazza doveva affrontare una serie di prove assurde per salvare il fratellino rapito dal suddetto Re. In quel momento, si sentì esattamente come la Sarah del film.

- Come hai fatto ad arrivare fin lassù?- domandò, superando una stralunata Anya. Si chiese se quel numero da circo fosse bastato per convincere finalmente quella testona di sua sorella.

- Magia, mia cara - ghignò lo sconosciuto.- Mai sentito parlarne?

- Solo nei libri…- ammise la ragazza, ma subito se ne pentì. Si stava facendo prendere un po’ troppo dalle circostanze, si disse. Era vero che era nel Regno delle Favole, ma questo non significava che poteva abbassare la guardia. Quello che era successo con Biancaneve ne era una prova più che sufficiente, tanto più che questo sconosciuto che le stava di fronte non aveva certo l’aria innocente della bella principessa. Il suo volto era innocente quanto poteva esserlo il muso di una lince.

L’individuo ghignò, quindi saltò giù dal ramo, atterrando sull’erba con un balzo molto aggraziato. Si avvicinò alle due ragazze.

- Intendi dire, libri come quello, raggio di sole?- indicò la borsa di Elizabeth. Anya prese istintivamente sua sorella per un braccio, tirandola indietro. Lo sconosciuto sorrise, scoprendo due file di denti bianchissimi, e tese loro una mano aperta.

- Suvvia, non c’è bisogno di allarmarsi tanto - disse.- Voglio solo dare un’occhiata al tuo libro, nulla di più.

Elizabeth aprì la bocca per rispondere, ma sua sorella le marciò davanti, arrivando a pochi centimetri dallo sconosciuto.

- Senti un po’, fenomeno da baraccone - ringhiò Anya. - Non m’incanti con i tuoi giochi di prestigio! Chi ti conosce, eh? Cosa credi di fare? Noi vogliamo solo delle informazioni, e se non ce le vuoi dare, allora puoi anche andartene!

Lo sconosciuto non si scompose, ma arretrò di un passo.

- Ma che maleducato!- esclamò.- Hai proprio ragione, tesoro. Dunque, mi presento - detto questo, si esibì in un inchino a dir poco plateale, facendo ondeggiare il mantello.- Il mio nome è Tremotino, lieto di fare la vostra conoscenza - alzò lo sguardo su di loro.- Quanto alle informazioni…- sorrise.- Sì, posso darvi delle informazioni.

- Bene, sentiamo - Anya si piantò le mani sui fianchi.

Tremotino…, pensò Elizabeth. Dove aveva già sentito quel nome? In una favola, certo, non poteva essere diversamente. Ma non riusciva a ricordare che favola. Doveva averla letta di sfuggita da qualche parte, Elizabeth ricordava solo vagamente che c’entravano una bella fanciulla e un bambino.

E che Tremotino non era esattamente l’eroe.

- Facciamo un accordo - disse Tremotino.- Io vi darò le informazioni a patto di poter vedere il vostro libro. Che ne dite?

Anya ci pensò su. Elizabeth avrebbe voluto gridarle di non accettare, ma la voce le si era come mozzata in gola.

- Andiamo…- la incitò Tremotino.- Mi sembra ragionevole, non trovi, carina?

- E va bene - concesse Anya. - Daglielo, Liz.

Elizabeth estrasse il libro dalla borsa, e lo porse all’uomo. Tremotino glielo strappò di mano con una velocità sorprendente, quindi iniziò a sfogliarlo. Fece scorrere velocemente tutte le pagine nel giro di pochi secondi, quasi senza guardarle. Infine, lo richiuse e lo restituì a Elizabeth.

- Come immaginavo - commentò.- Era prevedibile, dopo quello che è successo alla povera piccola Cappuccetto Rosso e alla vecchietta…

- Allora?- incalzò Anya, senza badargli.- Le informazioni?

- Oh, sì, giusto! Dunque, vediamo…- Tremotino si accarezzò il mento, pensando a cosa dire.- Bene, ecco qui: come avrete già intuito, madamigelle, le cose nel Regno delle Favole non stanno andando come dovrebbero. Non so se questo sia un bene o un male per il sottoscritto, ma si vedranno gli sviluppi, immagino. Che altro? Beh, c’è una profezia, qualcuno che vuole che quei due simpaticoni dei Grimm tornino a sconvolgerci la vita e l’Oscurità dietro l’angolo. Il tutto, naturalmente, orchestrato da lei.

- Lei, chi?- mormorò Elizabeth, stralunata, più interessata alle farneticazioni di Tremotino che a capire come tornare a casa.

- Brutto bastardo!- sbottò Anya, infuriata.- Mi stai prendendo in giro?! Sarebbero queste le informazioni?!

Tremotino alzò le mani come per difendersi.

- Tu non hai specificato che genere di informazioni volevi, tesoro. Fossi in te, mi accontenterei di quello che vi ho detto e lo terrei a mente. Non si sa mai, nella vita qualunque cosa potrebbe tornare utile…

- Stammi a sentire, stronzo! Dicci come tornare a casa, o io ti…

Un ululato squarciò l’aria. Anya ammutolì. Elizabeth sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene. Era lo stesso ululato che aveva udito appena prima di entrare nella casa di Biancaneve. L’ululato si ripeté, cupo e agghiacciante, e più vicino di prima.

- Vorrei tanto, raggio di sole…- ghignò Tremotino.- Ma purtroppo, non avete più nulla che m’interessi. Senza contare che non vorrei privare della vostra compagnia il nuovo arrivato. Spero vi piacciano i cani…- sorrise beffardo, arretrando di qualche passo.- E’ stato un piacere conoscervi, bellezze. Arrivederci…o almeno, lo spero per voi!

Detto questo, schioccò nuovamente le dita, sparendo nel nulla.

L’ululato tornò a farsi sentire, vicinissimo.

Elizabeth voltò il capo, afferrando il polso di sua sorella. Anya indietreggiò, e fu sul punto d’incespicare. Un rumore di foglie secche e rami calpestati seguì l’ululato, accompagnato da un ringhio sommesso. Un fruscio fece sollevare in volo alcuni uccelli.

- Anya, andiamo via…- implorò Elizabeth sottovoce, ma sia lei che la sorella erano paralizzate. La ragazza sentiva le gambe pesantissime, come se gliele avessero inchiodate al terreno.

Qualcosa nel buio ringhiò di nuovo. Le foglie di un cespuglio vibrarono. Infine, dall’oscurità spuntarono due grandi occhi gialli.

Elizabeth fece per gridare, ma l’urlo le morì sulle labbra. Le due ragazze indietreggiarono di qualche passo, vedendo spuntare la bestia dal buio.

Si trattava di un lupo, ma non era un lupo normale. Era piuttosto un ibrido, una via di mezzo fra lupo e uomo. Le zampe, la testa, il muso e le orecchie erano lupeschi, e l’intero corpo era ricoperto di un folto pelo nero, ma gli arti della bestia erano visibilmente formati di muscolatura umana, le mani erano sì pelose e mancanti di un dito, ma con degli artigli affilati, era privo di coda, ed era alto almeno due metri.

La bestia ruggì, puntando gli occhi gialli sulle due ragazze. Si piegò sulle zampe posteriori, in posizione d’attacco.

- Sta’ giù!- strillò Anya, mentre il Lupo si avventava su di loro con un balzo. La ragazza spinse Elizabeth di lato, gettandosi a terra prima che l’animale le fosse addosso. Il Lupo mancò il bersaglio, atterrando sulle quattro zampe a pochi metri dalle due ragazze. Le guardò scoprendo le zanne, ed emise un altro ruggito.

Elizabeth mugolò, sollevandosi su un gomito. Cercò sua sorella con lo sguardo: Anya era accasciata sull’erba a pochi metri da lei, lo sguardo puntato in quello selvaggio del Lupo.

La bestia si piegò nuovamente sulle zampe posteriori. Annusò l’aria, quindi ringhiò, puntando gli occhi gialli in direzione di Elizabeth. Spiccò il balzo, scoprendo le zanne con un ruggito. Elizabeth gridò, rotolando di lato un attimo prima che il Lupo si avventasse su di lei. Questi si sollevò, assumendo una posizione quasi eretta, come un uomo, e alzò una zampa, pronto a colpirla.

Anya scattò in piedi, afferrando una pietra posata sull’erba. Senza pensarci troppo, la scagliò in direzione del Lupo, colpendolo su una scapola. L’animale ringhiò, voltandosi a guardarla.

Aveva cambiato il suo obiettivo.

- Vai, scappa!- strillò, rivolta a sua sorella.

Il Lupo le si avventò contro. Anya si scansò appena in tempo, prendendo a correre in direzione opposta a quella della sorella; la bestia le fu subito alle calcagna.

Anya si addentrò nel folto della foresta, correndo a perdifiato, ma si rese ben presto conto che non era abbastanza. Il terreno era pieno di radici, arbusti e pietre affilate che la intralciavano, senza contare che quell’animale, qualunque cosa fosse, era più veloce di lei. Lo sentiva avvicinarsi sempre di più alle sue spalle. E poi, dannazione, stava correndo alla cieca! Era buio, non vedeva pressoché niente, non sapeva dove stava andando, non sapeva se avrebbe trovato un riparo o un posto in cui nascondersi.

E il Lupo le era sempre più vicino.

Anya incespicò, cadendo in avanti. Finì distesa sull’erba, ma non si era fatta nulla. Cercò di rialzarsi, ma si accorse che qualcosa le stava bloccando le caviglie. Volse il capo alle sue spalle, e vide che delle radici le si erano aggrovigliate intorno ai polpacci. Dimenò le gambe per liberarsi, ma non servì a nulla: le radici non si spezzarono, anzi, le parve quasi che si stessero fortificando. Sembrava che fossero dotate di vita propria. Anya vide con orrore che altre radici stavano inspiegabilmente sbucando dal terreno, e le si stavano aggrovigliando intorno alle gambe, bloccandole anche le cosce. La ragazza si sollevò con i gomiti, quindi tirò in avanti le gambe con quanta forza aveva. Le radici si ritrassero, liberandola, ma subito altre sbucarono dal terreno, attorcigliandosi intorno al suo braccio. Anya scattò in piedi, liberandosi anche da quella stretta, ma presto si rese conto che il terreno non era l’unica cosa di cui preoccuparsi. Nello stesso istante in cui sentì un ululato farsi sempre più vicino, si accorse che i rami degli alberi, sopra la sua testa, avevano iniziato a muoversi. Non era un movimento dovuto al vento, erano quasi delle…braccia! Braccia che tentavano di afferrarla! Un albero si piegò in avanti verso di lei; Anya indietreggiò, cercando di evitare i colpi e le prese dei rami.

Un ringhio sommesso si fece strada fra gli arbusti; quindi, riecco quei due occhi gialli.

Anya lanciò un grido, mentre il Lupo le si avventava contro. La ragazza indietreggiò velocemente, incespicando in una pietra alle sue spalle.

In un attimo, si ritrovò bagnata fradicia.

Era caduta nell’acqua, ma non era una pozzanghera o un laghetto. Era uno stagno, la cui acqua fangosa insozzava le canne e le ninfee. Anya boccheggiò, completamente ricoperta di fango.

Il Lupo avanzò, pronto ad attaccare. Anya indietreggiò, toccando con la schiena il tronco di un albero. Era un tronco cavo, abbastanza grande da poterci entrare. La ragazza non ci rifletté troppo, infilandosi dentro la cavità un attimo prima che il Lupo le fosse addosso.

La bestia ringhiò, iniziando a colpire a morsi e a zampate la corteccia dell’albero. Anya gridò, stringendosi le ginocchia al petto nel tentativo di ripararsi. Si rese conto solo in quel momento dell’errore che aveva commesso: quello non era un nascondiglio, era una trappola per topi!

Il Lupo ruggì, allungando una zampa artigliata verso di lei, graffiandole un polpaccio. Le divelse la stoffa dei jeans, lasciandole sulla gamba tre tagli lunghi e profondi, che iniziarono a sanguinare. Il Lupo ringhiò, pronto al secondo attacco. Anya gridò, volgendo il capo in attesa di una zampata che non arrivò mai.

Il Lupo ringhiò, voltandosi di scatto.

Elizabeth brandì il pezzo di legno con cui l’aveva colpito per difendersi, ma sapeva che era solo un appiglio fasullo. Non c’era modo che lei, da sola, potesse far fronte a un bestione grande e grosso come quello. Era come con Jessica e le sue scagnozze. Ma da questo scontro non sarebbe uscita solo con qualche livido.

Indietreggiò, puntando il pezzo di legno contro il Lupo. La bestia ringhiò, e colpì l’arma con una zampata, mandandola in mille pezzi. Elizabeth cadde nel fango, inerme. Il Lupo sollevò nuovamente la zampa artigliata. La ragazza chiuse gli occhi, alzando un braccio come ultima difesa.

D’un tratto, udì il Lupo guaire. Elizabeth fece per aprire gli occhi, ma non ci riuscì. Intorno a lei c’era una luce abbagliante, fortissima, che le impediva perfino di vedere.

Il Lupo guaì di nuovo, quindi indietreggiò. Si voltò, correndo via.

Lentamente, la luce cessò.

Elizabeth si stropicciò gli occhi, cercando di scacciare le macchie violacee dalla vista.

Volse il capo, scorgendo una figura poco distante da lei.

Si trattava di una donna, vestita con un lungo abito azzurro, e i capelli biondi sciolti sulle spalle. Era molto giovane, e bella, il suo viso era molto dolce. A Elizabeth ricordava molto quello di sua madre. Il viso di sua madre com’era prima che iniziasse a venir rigato di lacrime, prima che s’indurisse, prima dell’ultimo giorno. Il giorno più brutto.

- Ti senti bene?- domandò la donna, e la sua voce era dolce e gentile almeno quanto il suo viso.

Elizabeth annuì, cercando di rimettersi in piedi.

- Grazie…- mormorò. Se fosse stata un’altra situazione – o se lei fosse stata Anya – avrebbe iniziato a tampinare quella donna di domande, su cos’era successo e perché, chi era lei, come aveva fatto a mettere in fuga quella bestia, ma ormai si stava in un certo senso abituando a quelle stranezze. Era nel Regno delle Favole, tanto valeva farsene una ragione e accettare le cose per come stavano. Era normale che succedessero delle cose strane, rispetto a New York.

Si voltò a guardare nella direzione in cui il Lupo era fuggito.

- Non temere…- disse la donna.- Non siete più in pericolo, ormai. La luna piena sta passando - e indicò il cielo. L’alba si stava facendo strada fra le nuvole.

Elizabeth udì un mugolio. Vide Anya strisciare al di fuori del tronco cavo, barcollando, con la gamba sanguinante. La ragazza cadde nel fango, ansimando.

La donna le si avvicinò, chinandosi su di lei.

- Sei ferita?

Anya boccheggiò, ma non rispose. La donna esaminò brevemente la sua gamba, quindi estrasse dalle pieghe dell’abito un bastoncino bianco e sottile. Mormorò qualcosa a mezza voce, avvicinandolo alle ferite di Anya. Dalla bacchetta si sprigionò un bagliore molto simile a quello di poco prima, ma meno intenso.

Quando cessò, Anya sgranò gli occhi alla vista della sua gamba sana oltre la stoffa divelta.

- Chi…chi è lei?- trovò il coraggio di chiedere Elizabeth.

- Io sono la Fata Turchina - rispose la donna.- Venite: non è prudente rimanere nella Foresta Incantata. Non più.

Anya sembrava lobotomizzata. Elizabeth si sollevò a fatica, raggiungendola e afferrandola da sotto le ascelle per tirarla su. Dopo tutto quello che era successo, forse non avrebbero dovuto fidarsi di quella donna, ma diceva di essere la Fata Turchina e, se non altro, le aveva salvate da quel mostro.

Anya guardò sua sorella, mentre s’incamminavano in silenzio al seguito della Fata Turchina.

- Sei convinta, adesso?- bisbigliò Elizabeth, accennando alla sua gamba.

Anya distolse lo sguardo, puntandolo fisso di fronte a sé.

E’ assurdo. E’ assurdo!

 

***

 

La Regina percorreva velocemente il lungo e stretto corridoio, facendo strusciare l’orlo dell’abito nero sul pavimento di marmo delle prigioni sotterranee, incurante delle suppliche e delle urla di dolore dei prigionieri. Il Primo Ministro la seguiva in silenzio, senza guardare ciò che gli stava intorno, ben consapevole di dove si stessero dirigendo.

La Regina si arrestò di fronte a una cella, la quale presentava sbarre più numerose e più spesse delle altre, e diversi lucchetti. Da essa, provenivano schiocchi di frusta e urla di dolore lancinanti.

Il volto della Regina venne attraversato da una malcelata smorfia di stizza, e si allontanò dalla cella. Il Primo Ministro si soffermò a guardare le sbarre, quindi l’aprì.

Si fermò sulla soglia. Sollevò in fretta una mano aperta, impassibile, frenando la guardia prima che potesse affondare l’ennesimo colpo di frusta. I soldati si misero sull’attenti; il Primo Ministro fece loro un breve cenno, ed essi si affrettarono a uscire, lasciandolo solo con il prigioniero.

Il Cacciatore ansimò, sollevandosi sulle ginocchia. Alla parete erano infisse delle lunghe catene, quattro delle quali erano legate intorno ai suoi polsi e alle sue caviglie, e una intorno al collo. Era madido di sudore a causa della trasformazione appena avvenuta, e la casacca era squarciata sulla schiena a causa delle frustate ricevute.

Era quello che spettava a chi come lui non portava a termine il suo compito.

- Che cosa vuoi?!- ringhiò il Cacciatore.- Che cosa vuoi?

L’espressione del Primo Ministro rimase impassibile; si avvicinò al Cacciatore, inginocchiandosi di fronte a lui in modo che i loro volti fossero alla stessa altezza.

- Che cosa vuoi?- ripeté il Cacciatore.- Perché sei qui? Che cosa vuoi da me?

Il Primo Ministro sorrise, un sorriso carico di superiorità, scherno e disprezzo.

- Volevo solo vedere come ti eri ridotto - sussurrò.- Peggio di un animale.

- Bastardo!- ululò il Cacciatore.- Eri…eri mio amico! Eri mio amico, maledetto!

- E’ vero. Ricordo bene le giornate passate con te. Io e te, tutti i giorni, nella foresta, estate e inverno, a spaccare legna e ad ammazzare animali per sopravvivere, soffrendo la fame e il freddo, senza mai neanche un briciolo di gratitudine, una ricompensa per i nostri sforzi. Quanto tempo è passato? Dodici anni?- la voce del Primo Ministro faceva quasi paura, tanto era calda e profonda ma nel contempo calma e priva di qualunque traccia di emozione.

- Bastardo!- ripeté il Cacciatore.- Ti sei venduto! Ti sei venduto a quella strega! Preferisco mille volte essere incatenato che diventare come te! Sei il cane da guardia della Regina, sei uno sporco traditore!

- Tu credi?- il Primo Ministro si aprì in un ghigno beffardo.- Io non sono più schiavo di quanto lo sia tu. La tua schiavitù è questa. Lupo e assassino nel plenilunio, uomo e prigioniero in ogni momento. Hai già ucciso due persone che amavi, e non trascorrerà molto tempo prima che tu lo faccia di nuovo. Sei diventato una bestia, un assassino.

Il Cacciatore boccheggiò, incapace di dire alcunché. Il Primo Ministro si rialzò da terra, uscendo dalla cella. Quando la porta di ferro sbatté, il Cacciatore scoppiò il lacrime, accasciandosi al suolo.

 

***

 

- Desideravate parlarmi, Vostra Maestà?- domandò il Primo Ministro, richiudendo alle sue spalle la porta della camera da letto della Regina. Tutt’intorno era di colore nero, fatta eccezione per le coperte e le tende del grande letto a baldacchino e per l’avorio della cornice dello specchio in cui, in quel momento, la Regina stava osservando la propria immagine riflessa.

- Sì, è così - la Regina guardò negli occhi il Primo Ministro attraverso il riflesso.- Primo Ministro, sapreste dirmi qual è lo svantaggio di utilizzare un lupo mannaro per i propri piani?

- Che esso è solo attivo nei giorni di luna piena, Vostra Maestà. Per tutto il resto del tempo, è un peso inutile.

- Esattamente.

La Regina si voltò, avanzando verso di lui.

- Ho dato ordine di punire il Cacciatore con cinquanta frustate. Avrebbe meritato la morte, per aver fallito, ma mi sono resa conto che, nonostante tutto, la sua vita mi è ancora utile. In fondo, ha ucciso Cappuccetto Rosso e la nonna, e il prossimo plenilunio sarà di nuovo un feroce assassino. Tuttavia, come avete giustamente osservato, per tutto questo tempo egli sarà un peso inutile. E io ho bisogno di un intervento immediato - la Regina sorrise, lisciandosi i capelli. Gli occhi azzurri del Primo Ministro ebbero un guizzo, non appena capì che cosa ella volesse da lui. La Regina iniziò a passeggiare per la stanza.- Già una volta mi sono affidata ai suoi servigi, Primo Ministro, e non ne sono rimasta delusa. Confido che non lo sarò nemmeno questa volta. La situazione è parecchio scottante, il Dipartimento Favole è entrato in azione dopo l’omicidio della nonna e di sua nipote, ma ho già preso le mie precauzioni, ho buoni motivi per credere che la mia spia non fallirà. Quello che mi preoccupa sono le due ragazze. Temo…temo che la profezia sia vera…- la Regina esitò.- Ma ciò non significa che si debba avverare. Voi sapete cosa sto cercando, Primo Ministro, e anche a questo ho già provveduto. L’importante è che loro non arrivino prima di me. E’ questo il vostro compito. Siete un abile combattente e conoscete alla perfezione la Foresta Incantata. Non dovrebbe esservi difficile trovarle. Le voglio morte, Primo Ministro - la Regina tornò a guardarlo.- Non so chi delle due sia quella di cui parla la profezia, ma non posso permettermi di rischiare. Trovatele e uccidetele, Primo Ministro. Voglio i loro cuori su un piatto d’argento. Sono certa che non fallirete.

Il Primo Ministro sorrise. Si trattava di scovare e ammazzare due ragazze sole e indifese. Non sarebbe stato troppo difficile. E la ricompensa, lo sapeva, sarebbe stata altissima.

La caccia era cominciata.

 

Angolo Autrice: Questo capitolo è fatto apposta per confondere le idee a Sylphs XD. Allora, dearie, chi dei tre? XD. Scherzo, dai ;).

Dunque, il Lupo era il Cacciatore…non si capiva? *piange*. E abbiamo tre nuovi personaggi: Tremotino (sono una fan di Once Upon a Time, non poteva mancare), la Fata Turchina e il (non poi tanto nuovo) Primo Ministro, del quale si sa qualcosa in più…In più, salta fuori una profezia e una spia nel Dipartimento Favole? Come se la caveranno Anya e Liz? Il Primo Ministro riuscirà a trovarle? E nel frattempo, che succede a New York?

Spero di avervi incuriosito, come sempre, rate & comment :).

M’è presa la fissa delle immagini, quindi, ecco come potrebbe essere un’eventuale Regina Cattiva:


  

 

Ringrazio Hylia93, NevilleLuna, ninfa_marina94 per aver aggiunto questa ff alle seguite, Poseidone358 per averla aggiunta alle seguite, alle preferite e per la sua recensione, e LadyAndromeda, little_drawing, Imalonewolf, Nymphna e Sylphs per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 7
*** The Prophecy ***


 

The Prophecy

 

New York, ore 21:30 p. m.

 

La voce appena metallizzata della giornalista le giungeva dal salotto dall’altra parte del corridoio buio.

- …la polizia non ha lasciato dichiarazioni. Sarah Hammonds, nove anni, è scomparsa ieri sera da casa sua. La madre, una segretaria in uno studio legale, è entrata nella stanza della piccola per controllare se stesse dormendo. La cameretta era in ordine, la finestra chiusa e non c’erano segni di effrazione o di colluttazione. La stessa signora Hammonds ha detto di aver messo a letto la figlia alle nove e di non aver più sentito alcun rumore. La scomparsa della piccola Sarah ha molto in comune con quella avvenuta sabato scorso in un quartiere poco distante da quello abitato dalla famiglia Hammonds, dove Joey Mitchell, sette anni, è scomparso dalla sua cameretta apparentemente senza che alcuno si sia introdotto in casa. Il procuratore Crawford ha assicurato che…

Katie tirò un sospiro di sollievo quando sentì la madre spegnere il televisore. La bambina si raggomitolò ancora di più sotto le coperte. Non le piaceva il telegiornale: si sentivano sempre un sacco di notizie brutte.

Katie sussultò nell’udire un rumore, ma presto si rese conto che era soltanto suo fratello che si rigirava fra le lenzuola. La bambina tirò la testa fuori dalle coperte, sporgendosi dal letto.

- Toby!- chiamò sottovoce. Il fratellino mugolò. - Toby!- ripeté Katie, più forte. Il bambino si voltò a guardarla, assonnato.

- Che c’è?

- Hai sentito cosa hanno detto alla televisione?- sussurrò Katie.

- No…

- E’ scomparsa una bambina - nel dirlo, Katie sentì un brivido correrle lungo la schiena.- L’hanno portata via dalla sua cameretta…

- E allora?- bofonchiò Toby, scocciato.

Katie non disse nulla, tornando a rintanarsi sotto le coperte.

- Toby?- bisbigliò dopo qualche istante.

Il bambino sbuffò.

- Secondo te…chi è stato?- chiese Katie, nervosa.

Toby si sollevò a sedere, con un sorrisetto sulle labbra.

- Ma il mostro sotto al letto, no?

Katie sussultò.

- Non fare lo scemo!

- Io non faccio lo scemo. E’ la verità. Sotto il letto di ogni bambino c’è un mostro che ogni notte esce fuori e vede se sei bello grasso, e quando è ora, ti prende e ti porta via per mangiarti. E gli piacciono soprattutto le bambine noiose e rompiscatole di nome Katie…

- Smettila!- ringhiò Katie, ma il suo cuore aveva preso a palpitare più velocemente.

Toby ridacchiò.

- E dai, stavo solo scherzando!

- Non sei divertente!

- E tu sei una fifona - Toby sbadigliò, rimboccandosi le coperte.- Beh, buona notte…

- ‘Notte…- pigolò Katie.

Dopo qualche minuto, la bambina sentì che suo fratello si era addormentato.

Katie rimase immobile a fissare il soffitto, gli occhi spalancati nel buio. Non riusciva a prendere sonno. La cameretta era completamente al buio, e a lei non piaceva il buio. La bambina si girò su un fianco, e lo sguardo vagò verso il fondo della stanza. Sulla cassapanca contro il muro erano sistemati i modellini di plastica di Toby. Raffiguravano tutti dei mostri: Dracula, Frankenstein, la Mummia, l’Uomo Lupo…

Lo sguardo di Katie cadde sul modellino dell’Uomo Nero: era un mostro completamente nero, con gli artigli al posto delle unghie, gli occhi rossi e la bocca spalancata in un ghigno. Katie si rintanò sotto le coperte. Non le piaceva, le faceva paura. Sembrava quasi che la stesse…fissando.

Katie strizzò gli occhi, ma quando li riaprì lo sguardo rosso sangue dell’Uomo Nero era ancora lì a fissarla. La bambina si sollevò a sedere, cauta. Fece per poggiare i piedi a terra, ma subito le venne in mente la storia del mostro sotto al letto, e li ritrasse. Si morse il labbro inferiore, tornando a guardare l’Uomo Nero. Prese un bel respiro, quindi spiccò un balzo, atterrando in piedi al centro della stanza. Così, pensò, il mostro sotto al letto non avrebbe potuto afferrarla per le caviglie e tirarla sotto.

Corse velocemente verso la cassapanca, afferrò l’Uomo Nero e lo chiuse in un cassetto, tirando un sospiro di sollievo.

Sentì un mugolio alle sue spalle. Si voltò di scatto: le lenzuola del letto di suo fratello si sollevavano e si abbassavano come se fossero state un fantasma. Katie deglutì, avvicinandosi lentamente al letto.

- Toby?- chiamò, ma non ottenne risposta.

Il mugolio si ripeté, e Toby scalciò di nuovo contro le lenzuola. O almeno, sperava che fosse Toby a scalciare. Non riusciva a vedere la testa di suo fratello.

- Toby?- chiamò di nuovo.

Katie continuò ad avvicinarsi, lentamente.

Le lenzuola si sollevarono e si riabbassarono ancora una volta. Non si mossero più.

Il cuore di Katie iniziò a battere sempre più velocemente.

- Toby?

La bambina arrivò sino al bordo del letto, nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la testa di suo fratello, ma Toby era invisibile, si distingueva solo la sua sagoma rannicchiata sotto le lenzuola.

- Toby?

Katie deglutì, allungando un braccio. La mano le tremava. Afferrò il lenzuolo con le dita, inspirando profondamente. Lo tirò via.

Katie sgranò gli occhi, indietreggiando di un passo.

Suo fratello non c’era. Toby era sparito!

C’era solo il materasso vuoto.

Katie iniziò a inspirare affannosamente, con il cuore che pareva volerle saltare via dal petto. Avrebbe voluto urlare, chiamare suo fratello, avvisare mamma e papà, ma tutto quello che riusciva a fare era fissare il materasso su cui un attimo prima era disteso Toby.

Udì un fruscio, lieve, poi sempre più intenso.

Il buio. L’Uomo Nero. Il mostro sotto al letto.

Katie abbassò lo sguardo sui suoi piedi, vicinissimi al letto di Toby.

All’improvviso, un paio di mani artigliate, nere e nodose spuntarono da sotto il letto, afferrandole le caviglie. Katie gridò, cadendo a terra. Tentò di liberarsi, ma quelle mani avevano una forza straordinaria.

Non erano mani…erano…rami!

Katie gridò di nuovo, mentre veniva trascinata sotto al letto, verso l’oscurità.

 

***

 

Elizabeth scoccò un’occhiata a sua sorella: Anya sembrava la vittima superstite di Michael Myers o di Freddy Krueger. Se ne stava seduta immobile su una seggiola, i capelli neri che le ricadevano disordinatamente sugli occhi, pallida e tremante, e lo sguardo assente.

Sì, decisamente peggio di Venerdì 13. Era la prima volta che vedeva sua sorella in quello stato, assolutamente senza più padronanza di sé e sconvolta, anche se non poteva darle tutti i torti. Sebbene non potesse vedersi in faccia, lei non doveva essere conciata tanto meglio. Quel…coso che le aveva inseguite e quasi sbranate era stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Ora, Elizabeth era totalmente certa di due cose:

primo: non erano più a New York, bensì nel mondo delle favole;

secondo: se erano nel mondo delle favole, allora c’era qualcosa che non andava.

Si sentiva infinitamente stupida, come una di quelle ragazzine vuote e ingenue che si vedevano nei telefilm di fantasia, tutte entusiaste di essere capitate in un’altra dimensione e si buttavano subito nell’avventura. Non aveva considerato con serietà la situazione, cazzo, erano nel Regno delle Favole, non a Disneyland, e per quanto fico potesse sembrare, era comunque assurdo. Anya non aveva tutti i torti, in fondo. Erano quasi state accoltellate da Biancaneve e sbranate da un lupo umanoide.

E infine, erano state salvate per il rotto della cuffia da nientemeno che la Fata Turchina.

Elizabeth sollevò lo sguardo sulla donna. Non aveva detto una parola da quando erano arrivate in quella casa. Non sembrava nemmeno la dimora di una fata: era una semplice capanna in legno con il tetto di paglia, con un tavolo e qualche seggiola. Nulla di più.

Ma la magia c’era, altra componente che aveva convinto lei – e soprattutto sua sorella – che la Grande Mela era ormai lontana – chissà quanto e chissà dove. Quand’erano arrivate, erano bagnate, ferite e coperte di fango, ma la Fata Turchina le aveva rimesse in sesto con un colpo di bacchetta, proprio come nel film Cenerentola della Disney.

E così, ora erano lì, nel Regno delle Favole, in casa di una fata e consapevoli di essere finite in mezzo a qualcosa di pericoloso.

Troppo anche per sua sorella.

Elizabeth le scoccò una seconda occhiata. Anya sembrava essersi ripresa, o quantomeno ci stava provando. La ragazza si passò una mano fra i capelli, inspirando a fondo.

- Noi…la ringraziamo molto, signora…- esordì Anya.

- Sono la Fata Turchina…- la corresse gentilmente la fata.

- Sì, certo…Fata Turchina…- mormorò la ragazza. Cavoli, ancora non riusciva a capacitarsi.- Noi…noi la ringraziamo molto, ma…ecco, ora vorremmo tornare a casa…

- Lo immagino, care. Ma prima che decidiate di farlo, ci sono cose che dovreste sapere…

- Noi abbiamo già deciso!

- Fata Turchina - s’intromise Elizabeth, ignorando l’occhiataccia di Anya. - Noi…ecco…C’è qualcosa che non va, qui, vero?- si morse il labbro inferiore.- Insomma, noi veniamo da un’altra parte…il nostro è un mondo dove…

- So com’è il vostro mondo, e cos’è questo per esso - l’interruppe la Fata Turchina.- E credo di sapere che cosa intendi, cara…

Elizabeth si sentì un tantino sollevata.

- Voglio dire…Biancaneve non è sempre stata una pazza assassina, vero?- mormorò la ragazza.- E quella bestia che abbiamo incontrato…era un lupo, ma…non era un lupo normale…Che sta succedendo?

- Non c’interessa!- sibilò Anya, innervosita.

La Fata Turchina sospirò, iniziando a passeggiare lentamente per la stanza.

- Purtroppo hai ragione, cara…- mormorò, con aria grave.- Da tempo, le cose in questo mondo stanno andando male…le prime a pagarne il prezzo sono state Cappuccetto Rosso e sua nonna…

Elizabeth scoccò a sua sorella un’occhiata della serie te l’avevo detto!.

- Abbiamo visto i corpi…cioè, non i corpi…- balbettò quindi.- Cappuccetto Rosso si è…come dire…è diventata inchiostro!- estrasse il libro di favole dalla borsa.- E questo! Questo è…

- Cambiato - concluse per lei la Fata Turchina.

Elizabeth si zittì. Si sentiva un’idiota. Le pareva inutile continuare a parlare, la Fata Turchina sapeva molto più di quanto ne sapessero loro, era evidente. Anya si scostò una ciocca di capelli dagli occhi.

- Siamo arrivate qui seguendo nostro padre - spiegò la maggiore, l’autocontrollo parzialmente ritrovato.- Immagino conosca l’esistenza del Dipartimento Favole…

- Certamente. Gli uomini del Dipartimento si prodigano da secoli per mantenere l’ordine nel nostro mondo.

- Bene, perché noi non sapevamo nemmeno che esistesse…- borbottò la ragazza.- Siamo le figlie del capitano Hadleigh - disse poi ad alta voce.- Richard Hadleigh. Lei lo conosce?

Nell’udire quel nome, la Fata Turchina parve rabbuiarsi. Chinò il capo, torcendosi nervosamente le mani.

- Sì. Sì, conosco Richard Hadleigh - sospirò alla fine.- Il suo nome è noto a chiunque, qui.

Le due ragazze rimasero interdette. Anya aprì la bocca per chiedere spiegazioni, ma la Fata Turchina non gliene diede il tempo.

- So che vorreste tornare a casa, mie care - disse.- E lo comprendo, ma…prima che prendiate la vostra decisione, c’è qualcosa che ritengo dobbiate sapere - si accomodò sulla seggiola, guardando Elizabeth negli occhi. Le prese le mani. - Hai ragione. Le cose qui non sono più come un tempo, e Biancaneve e il lupo sono solo l’inizio di qualcosa di ancora più terribile. Vedete, ragazze, voi siete molto più coinvolte di quanto pensiate. Dovete sapere che esiste un’antica profezia…

- Una profezia?- fece Elizabeth.- Sì, ce ne hanno parlato.

La Fata Turchina parve sorpresa.

- Chi?- chiese.- Chi ve ne ha parlato?

- Tremotino - rispose la ragazza.

La Fata Turchina boccheggiò, gli occhi sgranati. Parve essere molto turbata dalla notizia; chinò il capo, quindi tornò a guardare nervosamente le due.

- Tremotino…- gracchiò.- E cosa vi ha detto di preciso?

- Nulla di chiaro!- si affrettò a dire Anya. - Ce l’ha solamente accennato, fregandoci come due sceme. Gli avevamo chiesto delle informazioni, e lui…

- Ci sono molti pericoli, qui - l’interruppe la Fata Turchina, agitata.- Lui è uno di questi. Sarà il primo a guadagnarci da questa storia. Ricordate, ragazze: qualunque cosa succeda, non fidatevi di Tremotino.

Le due ragazze annuirono, sconcertate. La Fata Turchina sembrò calmarsi.

- Comunque, ha ragione. C’è una profezia - ripeté.- Da secoli si parla del ritorno di un’epoca buia, in cui ogni barlume di speranza e felicità sarebbe stato cancellato. In cui il lieto fine sarebbe scomparso. Ora, dati gli ultimi avvenimenti, temo che quest’epoca sia giunta. Ma c’è ancora una speranza - si alzò in piedi.- Chi sta facendo tutto questo, non potrà portare a termine il suo obiettivo senza un preciso oggetto: la Pietra del Male?

- La Pietra del Male?- ripeté Elizabeth, quasi in trance. La Fata Turchina annuì.

- E’ un oggetto molto potente. Finora, si credeva esistesse solo nella leggenda. Chi ne entrerà in possesso, avrà il controllo su tutto il Regno delle Favole. E se cadesse nelle mani sbagliate, non oso pensare a cosa…- s’interruppe, turbata.- La profezia, però, parla di una Salvatrice - proseguì.- Un essere femminile non appartenente a questo mondo, che sarà in grado di impedire il ritorno dell’Oscurità. E dei Grimm…- la Fata Turchina sospirò.- Ma non è semplice. La Pietra del Male è stata ben nascosta, non sarà facile trovarla. Solo cinque oggetti potranno rivelarne l’ubicazione.

- Che oggetti?- Elizabeth pendeva dalle labbra della fata, sembrava quasi dimentica di tutto, del guaio in cui si trovavano, del fatto che non avevano la minima idea di come fare per tornare a casa…Anya s’impose di mantenere un minimo di lucidità. L’intera vicenda l’aveva sconquassata, e le parole di quella fata non facevano altro che confonderla. Doveva rimanere obiettiva.

- Credo che sia meglio che ascoltiate.

La Fata Turchina pose le proprie mani in grembo, guardando le due ragazze negli occhi; quindi, con voce grave, parlò.

- Vicina è l’ora, lenta l’agonia,

dei fratelli creatori il malvagio ritorno s’avvicina.

Vicina è l’ora, della Luna di Sangue il momento è giunto,

tredici volte la purezza verrà corrotta,

tredici volte l’innocenza violata,

tredici volte la speranza infranta.

Lenta sorge la Luna, l’Oscurità s’appresta,

del lieto fine l’ombra volerà via.

I peccati dei padri saranno purificati,

del traditore la progenie a salvezza giungerà.

La Salvatrice, guerriera senz’armatura, Regina senza corona,

colei che la Pietra della discordia porta nella sinistra,

e la Spada della Verità impugna nella propria destra.

A libertà giungerà, i cinque tesori ella conquisterà.

Solo un sogno infranto guarirà la ferita,

solo la bellezza nella morte riporterà la vita…

La Fata Turchina s’interruppe bruscamente. Le due ragazze si scambiarono una rapida occhiata, frastornate.

- Sembra…sembra un indovinello…- mormorò Elizabeth.- Se ho capito bene, il sogno infranto e la bellezza nella morte sono due dei cinque oggetti, vero?

- Suppongo di sì. Purtroppo, la profezia non è completa - sospirò la fata. - Nessuno sa quali siano gli altri tre oggetti…

- Non che i primi due siano molto chiari…- borbottò Anya.- Che accidenti vogliono dire sogno infranto e bellezza nella morte?

- Come faremo a sapere quali sono gli altri tre?- domandò Elizabeth.

- Ma che cavolo stai dicendo?!- sbottò Anya. - Noi non andremo alla ricerca di nien…

- Questo - disse la Fata Turchina, sorridendo alla minore. Indicò il libro.- Questo è la chiave. A tempo debito, tutto vi sarà rivelato.

- E…lei è sicura che si riferisca proprio a una di noi?

- Non c’è altra spiegazione. Nessuno del vostro mondo, a parte gli uomini del Dipartimento, aveva mai messo piede qui prima d’ora, e voi siete giunte proprio nell’ora più buia.

- Ma chi è la ragazza della profezia?- insistette la ragazza.- Parla di una sola Salvatrice. Chi è? Noi siamo in due…Una di noi è la Salvatrice, e l’altra…

- …l’altra è la povera sfigata che s’è trovata in mezzo senza sapere perché - concluse Anya a mezza voce.

- Questo non sono in grado di dirvelo. Dovrete scoprirlo da voi.

- E il resto? Cosa vogliono dire il sogno e la bellezza? E la Luna di Sangue? E…

La Fata Turchina scosse il capo.

- Mi dispiace, ma non posso dirvi altro. Non mi è concesso. Ma devo porvi una domanda: dovrete affrontare la sfida insieme, dal momento che non sapete chi di voi due è la Salvatrice; vi sentite pronte per questo?

Elizabeth tentennò; non le era mai piaciuto dover prendere delle decisioni senza poterci riflettere con calma. Temeva sempre di fare la scelta sbagliata. Guardò sua sorella: Anya sospirò, alzandosi dalla sedia.

- Ci dispiace, ma…noi dobbiamo tornare a casa - disse, con risolutezza. Intercettò lo sguardo di sua sorella, e bloccò la sua obiezione sul nascere.- Non sappiamo niente di questa storia, Liz. Non dovremmo nemmeno essere qui. Ammesso che questa cosa della profezia sia vera…andremmo completamente alla cieca. Non siamo delle eroine, Elizabeth, siamo due persone normali. E questa non è una favola, per quanto paradossale possa essere. Non avremmo alcuna speranza. Noi non apparteniamo a questo mondo - tornò a rivolgersi alla fata. - Noi viviamo a New York, nella…realtà. Ed è lì che dobbiamo tornare.

- Capisco…- sospirò la fata. - Comprendo le vostre ragioni, care. Non posso fare nulla per fermarvi. Quando uscirete da qui, non dovrete fare altro che raggiungere il Fiume dell’Oblio, poco distante. Vi basterà specchiarvi nelle sue acque, e tornerete subito a casa.

- Grazie.

 

***

 

Il Primo Ministro scivolò velocemente dietro al tronco di una quercia, attento a non toccare accidentalmente il legno. I passaggi magici erano ovunque, nella Foresta Incantata, e doveva stare attento a non farli scattare. Estrasse una freccia dalla faretra, impugnando saldamente l’arco.

Inspirò a fondo l’odore di muschio e di erba umida, di legno e di aria pura. Ricordò i tempi in cui quella Foresta era la sua casa, i tempi in cui vi trascorreva le giornate in compagnia del suo amico Cacciatore, ma scacciò subito quel ricordo. Aveva detto addio a quella vita, e non voleva più riaverla indietro. Ora non era più il bosco, il suo padrone. Era la Regina.

Sollevò il bavero del mantello fino a coprirsi la bocca e il naso, e i freddi occhi azzurri ebbero uno scintillio.

Si sporse leggermente per poter vedere oltre l’albero.

Ai piedi della collinetta su cui sorgeva la quercia, non molto lontano da lui, due ragazze stavano uscendo dalla casa della Fata Turchina.

 

***

 

Elizabeth sentiva le gambe pesanti, e faticava a tenere il passo sostenuto di sua sorella. Si sentiva strana, frastornata, come se non avesse più il controllo di sé e delle proprie azioni. E forse, era vero.

Continuava a pensare alla Fata Turchina. Alla profezia.

Era assurdo, ma si disse che avrebbe dovuto imparare a conviverci, con l’assurdità. C’erano un sacco di cose che non avevano senso: la Luna di Sangue, le tredici speranze, le tredici innocenze e purezze infrante, e poi, che cavolo significavano il sogno infranto e la bellezza nella morte? E che c’entravano i Grimm? E soprattutto, chi era la Salvatrice?

Quell’ultima domanda non le dava pace. Il pensiero che una di loro due potesse essere la Salvatrice, che forse lei era la ragazza di cui parlava la profezia, la torturava. Se così era, allora non poteva tirarsi indietro. Personaggi delle favole o no, ne aveva la responsabilità. Ma la profezia non diceva nulla di chiaro. Si parlava solo di progenie di un traditore.

Traditore.

La Fata Turchina aveva detto di conoscere suo padre. E se loro erano la progenie del traditore, allora voleva dire che…

- Anya!- chiamò. La sorella si voltò, scocciata.

- Cosa c’è?

- Hai sentito cos’ha detto la fata?

- A quale dei tanti deliri ti riferisci?

- Piantala di essere così acida! Ricordi la profezia? Dice che la Salvatrice è la figlia di un traditore - s’interruppe, pensosa.- Perché papà dovrebbe essere un traditore? Cos’ha fatto?

Anya sospirò, passandosi una mano fra i capelli.

- Senti, Liz, ora tu questa storia della profezia te la devi dimenticare. Noi torneremo a casa, punto.

- Ma abbiamo delle responsabilità. Cioè, una di noi le ha, ma…

- Liz, basta. Noi torneremo a casa, punto e stop. E’ che abbiamo delle responsabilità, non qui. Domani io devo andare al lavoro, tu hai scuola, e…

Elizabeth si sentì salire il sangue alla testa.

- Smettila di comportarti così!- strillò.

- Così, come?

- Come la mamma!- ringhiò la ragazza.- Tu non sei lei, hai capito? Non sei lei, smettila di comportarti come se lo fossi!

Anya ringhiò, andandole incontro a passo di carica. Le arrivò a due centimetri dal naso.

- E ringrazia la tua buona sorte che non sono lei!- sibilò.- Perché se lo fossi, tu a quest’ora saresti morta!

Elizabeth non rispose, la rabbia improvvisamente scomparsa lasciò il posto al vuoto. Le tornarono in mente alcune immagini sfocate, ma terribili. La mamma che spalancava la porta della loro camera, che afferrava sua sorella per un braccio e la trascinava via, e poi una corda, una corda gialla intorno ai polsi, la carne che le bruciava, e poi acqua. Acqua calda, bollente, profonda. Un pianto. Le urla di sua sorella. I passi di corsa di suo padre. E quelli di sua madre, che si allontanavano…

Boccheggiò, cercando di riprendersi. Superò sua sorella, scendendo il pendio, ma si arrestò appena dopo, accanto a una grande quercia. Inspirò profondamente, ritrovando un briciolo di calma. Era sempre così. Ricordi sfocati, ma mai nulla di chiaro. Avrebbe voluto ricordare, ma da una parte era contenta che così non fosse. Sarebbe stato terribile.

- Liz!- i passi di corsa di sua sorella la raggiunsero alle spalle. Anya le posò una mano sulla spalla, costringendola a voltarsi.- Liz, scusami, io…non volevo…- sembrava davvero dispiaciuta. Chi non lo sarebbe stato?.- Non volevo, mi spiace…

- Non è niente…- mormorò la ragazza.- Davvero, non fa niente. E’ che…io non mi ricordo niente di quel giorno…il giorno in cui la mamma è scomparsa…

- E meno male che non ti ricordi!- borbottò Anya, rabbuiandosi.

Come sempre, il discorso cadde. A nessuna delle due andava di parlarne, e forse era meglio così. Perché, pensò Elizabeth, se lei non ricordava – erano passati dodici anni, e all’epoca lei ne aveva solo quattro –, Anya invece ricordava benissimo.

 

***

 

Il Primo Ministro tese l’arco, puntando la freccia. Gli occhi si ridussero a due fessure. Piegò il gomito, prendendo la mira. La punta della freccia era diretta a una delle due, quella che pareva essere la maggiore. Solo una frazione di secondo, e il primo obiettivo sarebbe stato abbattuto. Poi sarebbe toccato all’altra.

 

***

 

- Anya, penso dovremmo rifletterci - disse Elizabeth.- Qui c’è in gioco qualcosa di serio…

- E’ il Regno delle Favole, Liz, come può essere serio?

- Per favore, cerca di mettere da parte il tuo cinismo per cinque minuti e ascoltami!- sbottò la ragazza.- Non è normale, tutto questo. Hai mai letto la storia in cui Biancaneve fa fuori i sette nani? No, non penso. Credo dovremmo dare ascolto alla Fata Turchina…alla profezia…

- Liz, tu tornerai a casa con me, non si discute!

Elizabeth lanciò un grido di esasperazione, e le diede uno spintone.

Un attimo dopo, una freccia andò a conficcarsi nel tronco della quercia.

Il Primo Ministro imprecò rabbiosamente.

- Ma che cos’è?!- fece appena in tempo a dire Anya.

Immediatamente, nel tronco della pianta si aprì una voragine, da cui iniziò a scaturire un’abbagliante luce verde. Esattamente come quando erano arrivate in quel mondo, le due ragazze avvertirono un risucchio.

Elizabeth scivolò a terra sull’erba. Il risucchiò la tirò verso la voragine. La ragazza gridò; Anya si gettò verso di lei, afferrandola per una mano.

- Tieniti!- strillò, mentre sentiva che il risucchio aveva afferrato anche lei.

Anya strisciò sull’erba, conficcando le unghie nel terriccio, i capelli che svolazzavano intorno agli occhi. Vide che Elizabeth era già scivolata nella voragine fino alla vita. Anya ringhiò, cercando di sfuggire al vortice, ma la mano di sua sorella era sempre più sudata, le scivolava.

- Ma che cosa diavolo è?- gridò Elizabeth.

- Zitta e pensa a tenerti!

- Oddio, Anya…!

La mano le scivolava sempre di più, ormai Anya teneva sua sorella solo per le dita. Il risucchio si fece più forte, e in un violento scatto la mano di Elizabeth scappò dalla sua.

Anya vide sua sorella scomparire nella voragine con un grido. Infine, la quercia tornò a essere una quercia.

- Elizabeth!- gridò Anya, avventandosi contro l’albero. Ma prima che potesse toccarlo, si sentì afferrare per la radice dei capelli e tirare indietro. Finì con la schiena sull’erba, la presa non si era allentata. Anya avvertì qualcosa di liscio e freddo premerle contro la gola. Abbassò lo sguardo, scorgendo la lama di un coltello. Un attimo dopo, i suoi occhi ne incontrarono altri due, azzurri e freddi come il ghiaccio.

 

Angolo Autrice: Per la serie a volte ritornano!...eccomi qui! So che sono in clamoroso ritardo, ma cercate di capirmi, ho 5 long in corso, più impegni vari e ispirazione altalenante. Per il testo della profezia…io con queste cose sono un disastro, ma mi sono impegnata tanto, per favore, non tiratemi i pomodori!

Detto questo, le due ragazze sono state separate: dov’è finita Liz? E come se la caverà Anya alle prese con il Primo Ministro? Chi è la ragazza della profezia? Come faranno a completarla? E ancora, che fine hanno fatto quei bambini e cos’ha combinato Hadleigh?

Per scoprirlo, non vi resta che sopportarmi, mi spiace XD.

Detto questo, ringrazio tutti coloro che sono ancora qui (mi sembra il minimo, dopo quest’attesa a cui vi ho sottoposti), che hanno aggiunto la ff alle seguite, alle preferite e alle ricordate, e Poseidone358, Nymphna, LadyAndromeda, little_drawing e Sylphs per aver recensito :).

Ciao a tutti, al prossimo capitolo (se vorrete)!

Dora93

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Capitolo 8
*** Hidden in the Darkness ***


Hidden in the Darkness

 
L’impatto con l’acqua gelida fu scioccante. Elizabeth si dimenò sott’acqua, gli occhi spalancati, inconsapevole di ciò che le era capitato. La ragazza spalancò la bocca in un grido, ingoiando l’acqua fredda, mentre le alghe sul fondo le si aggrovigliavano intorno alle caviglie. Elizabeth vide le bollicine fuoriuscire dalla sua bocca, iniziando a raccapezzarsi. Mosse con furia braccia e gambe, seguendo la flebile luce al di sopra della sua testa.
L’aria le colpì in pieno il viso e le penetrò furiosamente nei polmoni non appena raggiunse la superficie. Elizabeth si dimenò, il viso bagnato e i capelli zuppi appiccicati al cranio. Si guardò intorno freneticamente, lottando contro i flutti, finché non scorse, poco distante, la riva del fiume in cui era finita. Senza attendere oltre, Elizabeth inspirò tutta l’aria di cui era capace, nuotando con disperazione verso la terraferma. Il suo cervello ora non ragionava quasi più, si limitava a formulare pensieri brevi e diretti, un obiettivo alla volta, acqua, terra, forza!, nuota
Elizabeth cacciò un braccio fuori dall’acqua, aggrappandosi con le unghie a un ciuffo di erba bagnata. Con uno sforzo tirò il resto del suo corpo contro la riva, fino ad abbandonarci sopra pesantemente il busto. Tossì, sputando un fiotto d’acqua, e risalendo con le ginocchia e le gambe, fino a essere completamente fuori dal fiume. Elizabeth ansimò, mentre gli ultimi colpi di tosse si estinguevano. Lentamente, i capelli castani che le ricadevano sugli occhi, sollevò lo sguardo di fronte a sé.
Di fronte a lei si estendeva una landa desolata, cupa e buia. Il cielo era tinto di uno strano colore rosso e arancione, ma non era né l’alba né il tramonto. Dei nuvoloni di denso fumo nero formavano una calotta al di sopra di quello che Elizabeth riconobbe come un piccolo villaggio.
 

***

 
Tremotino aveva sempre detestato i goblin. Il loro solo aspetto lo disgustava. I goblin erano poco più bassi dei nani, storpi e deformi, dalla pelle grigia e verdastra, nasi lunghi come becchi e orecchie cascanti e afflosciate, mani e dita ossute e artigli affilati. Si muovevano ingobbiti, quasi strisciando, e la loro voce era un sibilo irritante e carico di servilismo almeno quanto la loro personalità. Tremotino li aveva sempre definiti dei rigurgiti della natura, esseri a cui non sarebbe nemmeno dovuto essere concesso il privilegio di venire al mondo. Creature infide, sì, ma maledettamente utili.
La loro utilità era l’unico motivo per cui Tremotino aveva accettato di circondarsene. I goblin erano creature della notte, spesso vivevano in caverne e si nascondevano nelle buche. La luce faceva loro male. Avevano una straordinaria dimestichezza con l’oscurità, e nella notte i loro occhietti piccoli e acquosi diventavano lucenti e argentati tanto che anche le pupille scomparivano. Erano l’ideale per i compiti in cui l’utilizzo della magia sarebbe stato un vero spreco, come riferire messaggi e fare la guardia alle prigioni del maniero.
Tremotino spesso si era domandato se non sarebbe stato meglio sterminarli tutti e incantare delle statue di pietra affinché svolgessero i loro compiti, ma perché sprecare così tanta preziosa magia nera? I goblin erano esseri con cui non si doveva scherzare, sempre pronti a tradirti non appena voltavi loro le spalle, creature spregevoli e disgustose, ma era anche vero che la sua magia era più potente di qualsiasi loro giochetto. Gli sarebbe bastato schioccare le dita per ridurli tutti quanti in cenere. Più di una volta ne aveva torturato a morte uno perché fosse da esempio a chi avesse voluto ribellarsi, ma in fondo tenere i goblin al proprio servizio era un vantaggio, per lui. Lavoravano bene e poteva facilmente gestirli. E poi, in chi avrebbe potuto trovare un alleato migliore se non in coloro che avevano il suo stesso obiettivo?
- Mio signore!- sibilò una voce. Tremotino si voltò, infastidito, incrociando la figura sgraziata di Grendel, quello che da tempo ormai era divenuto il suo servo personale. Grendel era forse il più viscido di tutti i goblin, ma anche il più intelligente. Capiva sempre ciò che voleva da lui e non tardava mai nel riferirgli i messaggi. Ma era anche tremendamente infido, e andava trattato con il pugno di ferro.
- Che cosa vuoi?- domandò Tremotino, con aria di sufficienza.
- I popoli del Nord, padrone!- sibilò Grendel.- I popoli del Nord…hanno attaccato di nuovo, mio signore…un villaggio a poche miglia dal fiume…
Tremotino sorrise, superando Grendel e uscendo dalla propria stanza, addentrandosi nel lungo e buio corridoio su cui si aprivano altrettante stanze oscure. Il goblin lo seguì velocemente.
- Sono indisciplinati!- sputò Grendel.- Bestie! Animali!
- Non dare della bestia a chi lo è meno di te, schifoso, inutile rettile!- ringhiò Tremotino, ma subito riprese a sogghignare.- Quanto agli orchi del Nord…Che facciano pure! Quei bestioni si credono intelligenti e indipendenti, ma non tarderanno a sottomettersi come tutti gli altri popoli. E’ solo questione di tempo. Per ora, lascia che si divertano! D’altronde, non durerà ancora per molto…
- Ne siete sicuro, padrone?- sogghignò Grendel.- Credete davvero che si sottometteranno a voi? E se lei fosse più convincente?
- La sua magia è potente, ma non quanto la mia. Lei può convincerli…- Tremotino sogghignò, sollevano una mano al proprio volto. Un’aura di magia nera circondava le sue dita affusolate.- Io posso ucciderli…torturarli…niente è peggio della tortura. Tu questo lo sai bene, non è vero, Grendel?
- Sì. Sì, mio signore - il goblin abbassò il capo, ringhiando sommessamente.- Ma anche lei è molto potente. Ha un nuovo lupo al suo servizio, lo sapevate?
- Certo che lo sapevo, idiota! Ma non è un problema. Ha semplicemente rimpiazzato quello vecchio.
- Sta diventando più potente…- soffiò Grendel.- Credete che abbia scoperto della ribellione?
- Ma naturalmente l’ha scoperto. Posso dire di tutto su di lei, ma non che sia stupida. Quei patetici rivoltosi sono talmente male organizzati che perfino un troll saprebbe coglierli in fallo. Cappuccetto Rosso e sua nonna sono state solo le prime, presto toccherà anche agli altri…
- Perché non lo fate voi, padrone?- il goblin iniziò a saltellare sul posto, esagitato.- Fatelo! Vi basterebbe solo schioccare le dita, e…
Tremotino non lo lasciò finire; si voltò di scatto, i suoi occhi brillavano di furia. Allungò un braccio di fronte a sé, e immediatamente Grendel venne scaraventato a diversi metri da lui, cozzando contro la parete.
- Sei un idiota!- ringhiò Tremotino.- Cosa pensi che succederebbe, se lo facessi?! Hai dimenticato tutto ciò a cui stiamo lavorando da dodici anni?! Vuoi mandare tutto in fumo?!
Grendel non rispose, rialzandosi a fatica, mugolando. Tremotino riacquistò repentinamente la calma, a quella vista, e tornò a sogghignare. Si esaminò le unghie con aria noncurante.
- Se e quando ci sarà bisogno di intervenire, allora lo farò. Ma per ora, quel manipolo di sbandati mi serve intatto. Se non altro, saranno un’ulteriore distrazione per la nostra amica…
- E la Salvatrice?- ringhiò Grendel, sopprimendo la rabbia.
Tremotino rimase un attimo pensoso, quindi fece un sorriso sghembo.
- Per ora non sarà un problema. Abbiamo due ragazze, e nessuna Salvatrice e, considerate le scarse facoltà mentali delle nostre due eroine e il loro sbandamento, credo che i Grimm faranno in tempo a resuscitare e a morire due volte, prima che capiscano chi è. E poi, non dimenticare di chi sono figlie…- a quel pensiero, le labbra di Tremotino s’incurvarono in una smorfia.
Il goblin non rispose, e continuò a seguirlo, in silenzio, ringhiando sommessamente. Aveva avuto padroni peggiori, prima di Tremotino, ma gli altri si limitavano solo a tenerlo a digiuno e a frustarlo quando lo scoprivano a rubare. Il mago oscuro, invece, era crudele con lui. Lo frustava e lo torturava quando ne aveva voglia, solo per il gusto di farlo, o per dare esempio agli altri goblin.
Si fingeva docile e devoto con lui, ma in fondo al suo cuore di tenebra lo odiava. Lo odiava. Lo odiava, e aveva giurato sulle dannate teste dei Grimm che presto o tardi Tremotino l’avrebbe pagata.
Il mago avanzò lungo il corridoio, senza curarsi del suo servo, fino a raggiungere una delle tante terrazze del suo maniero. Sogghignò, uscendo dall’ombra.
Venne accolto da un grande clamore.
In basso, di fronte a lui, si stagliava un esercito immenso. Orchi, goblin, folletti, arpie, streghe, creature alate dalle fauci dentate, arpie e altri esseri dell’oscurità lo salutavano urlando e acclamando.
Era il loro nuovo signore.
Tremotino sogghignò, andando incontro alla sua armata.
 
***
 
Anya ansimò, mentre la lama fredda del coltello le premeva contro la carne della gola. Avrebbe voluto urlare, ma era come paralizzata, riusciva solo a pensare a quel vortice che aveva inghiottito sua sorella, alla lama puntata alla sua giugulare e a quegli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio.
Schiuse le labbra, ma da esse uscì solo un flebile gracchiare.
Il Primo Ministro ringhiò, ritirando repentinamente la lama e riponendola nel fodero che teneva legato alla cintura intorno ai fianchi. Afferrò nuovamente Anya per i capelli, tirandola in piedi.
- Cos’è successo?!- urlò, scuotendola con furia.- Cos’è stato?! Dov’è finita?!
Anya boccheggiò, ancora frastornata. Con un ringhio, il Primo Ministro la spinse in avanti, mandandola nuovamente a terra.
- In piedi!- le ordinò subito, afferrandole nuovamente il braccio. Anya barcollò, ma si voltò a guardarlo con furia.
- E tu chi cazzo sei?!- strillò, urlando la prima cosa che le veniva in mente.
- Zitta!- il Primo Ministro l’afferrò per la gola, fin quasi a strangolarla.- Dov’è l’altra? Dov’è?
Anya boccheggiò, sentendo che il fiato le si era mozzato in gola. Il Primo Ministro ringhiò nuovamente, lasciandola andare. La ragazza prese a tossire furiosamente, crollando in ginocchio sull’erba. Il Primo Ministro la lasciò perdere, dirigendosi furiosamente verso il tronco d’albero attraverso cui era scomparsa Elizabeth. Batté con forza un pugno sulla corteccia, imprecando a mezza voce quando non vide accadere nulla. Il portale doveva essersi chiuso, forse definitivamente.
Anya si rialzò alle sue spalle, barcollando.
- Cos’è successo?- chiese, ritrovando un po’ di coraggio.- Cos’era quel vortice? Dov’è mia sorella?
Il Primo Ministro si voltò a guardarla, rabbioso.
- Non lo so dov’è tua sorella, sgualdrina!- sibilò, afferrandola per il bavero della maglietta.- Non lo so, ma sarà bene per la tua salute che non sia morta, hai capito?!
Anya si divincolò, arretrando di un passo.
- Si può sapere chi accidenti sei?- sputò fuori, rabbiosa.- Chi sei, un altro ridicolo personaggio di questo dannato mondo?
- Chi sono non è affar tuo!- il Primo Ministro le si avvicinò, trascinandola per un braccio. La guardò dritto negli occhi.- Ora tu verrai con me, che ti piaccia o no!
- Devo trovare mia sorella!- gridò Anya; stava succedendo tutto così in fretta da non darle il tempo di ragionare. Ancora doveva capire chi fosse quello sconosciuto e cosa volesse da lei, ma in quel momento sua sorella occupava gran parte delle sue riflessioni: non riusciva a credere a ciò che era successo. Elizabeth era stata risucchiata da un albero. Anya ricordava vagamente il tocco della sua mano stretta nella propria un attimo prima che scivolasse via.
Era assurdo, ciò che era successo non era reale…ma quella non era la realtà. Quello era il Regno delle Favole, e niente funzionava a rigor di logica, della sua logica. Avrebbe dovuto adattarsi, se voleva trovare sua sorella.
Dovunque fosse, sperava solo che Elizabeth stesse bene.
Ma ora, doveva preoccuparsi di quello sconosciuto, quell’uomo che le aveva puntato un coltello alla gola. E che non sembrava avere delle buone intenzioni.
- Tu non andrai da nessuna parte finché non te lo dirò io!- fece il Primo Ministro, cercando di afferrarle nuovamente il braccio, ma Anya si ritrasse.
- Sta’ lontano da me!- strillò.
Il Primo Ministro scattò in avanti, afferrandola per i capelli e strappandole un gemito. Avvicinò il proprio volto a quello della ragazza.
- Ora apri bene le orecchie - sibilò.- Sappi che non me ne importa niente di quello che vuoi o non vuoi. Per colpa della tua adorata sorellina, ora tu dovrai venire con me, che ti piaccia o no.
Prima che Anya potesse replicare, il Primo Ministro la spinse in avanti. La ragazza barcollò, incespicando nell’erba.
- Cammina!- urlò l’uomo, dandole un’altra spinta.
Anya chinò il capo, iniziando ad avanzare a passo sostenuto. Cosa volesse quel tizio da lei, non lo sapeva, ma di certo non doveva essere nulla di buono. E aveva il sospetto che stesse puntando anche a sua sorella. Ripensò alle parole della Fata Turchina: stando a quanto aveva detto, parecchi in quel luogo erano a conoscenza della profezia e di questa fantomatica Salvatrice. E non tutti erano entusiasti della cosa, pensò, ricordando gli incidenti del Lupo e di Biancaneve. Quel tizio, sicuramente, non doveva essere fra i suoi fan…
Anya gemette, lasciandosi cadere in ginocchio sull’erba.
- Che cosa c’è adesso?- il Primo Ministro le si avvicinò, furioso.- Avanti, non ho tempo da perdere!
- Sono inciampata…- mormorò la ragazza, tenendo il capo chino, ma facendo saettare gli occhi tutt’intorno.- Non…non riesco a rialzarmi…- aggiunse, più forte, scorgendo un grosso ramo abbandonato a pochi passi da lei.
- Beh, vedi di riuscirci, altrimenti ti giuro che non sarai più in grado di camminare per mesi…
- V-va bene…- soffiò Anya, allungando un braccio in direzione del ramo. - Dammi solo un attimo…
La ragazza scattò in avanti, afferrando il ramo. Si girò su un fianco, e colpì il Primo Ministro su una spalla. Aveva mirato al viso e l’agitazione l’aveva tradita, ma se non altro il colpo fu abbastanza forte da buttarlo per terra.
Mentre l’uomo cadeva al suo fianco, Anya si rialzò incespicando, e iniziò a correre, addentrandosi nel folto della Foresta Incantata.
 

***

 
Elizabeth avanzava lentamente, stringendosi nelle spalle per combattere il freddo che l’acqua gelida e il vento le facevano provare. Si guardò intorno: più che il Regno delle Favole, quello sembrava un incubo.
Aveva ragione, quello era veramente un piccolo villaggio, o almeno, forse un tempo lo era stato. Ora era soltanto una landa desolata. Le case, le strade e i giardini recavano il segno evidente e recente di un saccheggio. La maggior parte delle abitazioni era bruciata, con i vetri rotti attraverso cui si poteva scorgere il soqquadro che regnava all’interno. Elizabeth incespicò, ma riuscì a rimanere in equilibrio, e continuò ad avanzare, senza smettere di far saettare lo sguardo tutt’intorno. Le pareva quasi di essere in un film horror, e che quel villaggio fosse identico a Silent Hill.
Si chiese dove fosse finita, e che fine avesse fatto Anya. Il suo primo pensiero era ritrovarla, ma prima doveva capire dove diamine fosse lei. Elizabeth sobbalzò udendo il rumore di imposte che sbattevano alle sue spalle.
- C’è nessuno?- domandò ad alta voce, ricevendo in risposta solo il proprio eco.
Elizabeth guardò il cielo: le tinte rosse e arancioni si estendevano a perdita d’occhio. La ragazza riprese a guardarsi intorno, senza vedere nessuno.
Non si accorse che qualcuno, in quel momento, la stava osservando.
 

***

 
Anya saltò un tronco d’albero caduto, correndo a perdifiato fra gli alberi e i massi. Sentiva i passi dello sconosciuto alle sue spalle, e accelerò la propria corsa. Chiunque fosse, sentiva che quell’uomo era pericoloso, e qualunque cosa volesse, lei non era disposta a dargliela.
Anya superò velocemente un salice piangente, quindi girò intorno a un masso. Avvertì il terreno divenire improvvisamente molle e cedevole sotto i suoi piedi, e abbassò lo sguardo. Era finita in mezzo a un’ampia pozza di fango. Anya udì i passi alle sue spalle avvicinarsi velocemente, e fece per riprendere a correre, ma non appena mosse due passi si vide sprofondare ancora di più nel fango. La melma ora le arrivava alle ginocchia. La ragazza fece per muoversi, ma a ogni minimo gesto sprofondava sempre di più, e il fango emetteva uno strano suono, quasi un risucchio o un rigurgito.
Anya vide con orrore di essere immersa nella fanghiglia fino alla vita.
Si guardò freneticamente intorno, alla ricerca di un mezzo che l’aiutasse a uscire da lì. Lo sguardo le cadde su un ramo sporgente al di sopra della fossa, all’apparenza flessibile, ma anche resistente. Anya allungò le braccia, aggrappandovisi con entrambe le mani. La ragazza strinse i denti, cercando di tirarsi fuori da quella melma.
Tenendo ben saldo il ramo, Anya riuscì a uscire dal fango fino alle ginocchia, quindi abbandonò il busto contro una parte di terra solida, estraendo le gambe. Quando fu libera, la ragazza si rialzò e tentò di riprendere a correre, ma udì un fischio acuto in lontananza. Poco dopo, avvertì un dolore lancinante all’altezza delle gambe.
Anya cadde a terra, scivolando brevemente lungo un pendio non troppo alto e ritrovandosi distesa nel bel mezzo di una radura. La ragazza strinse i denti dal dolore, il volto contratto; guardò le proprie gambe: le sue caviglie erano legate insieme da una frusta.
Anya serrò gli occhi, riaprendoli solo quando udì dei passi, stavolta calmi e misurati, avvicinarsi a lei. Non ci fu bisogno di domandarsi chi fosse. Sentì una forte pressione all’altezza del petto. Guardò: lo sconosciuto stava premendo uno stivale all’altezza del suo addome.
Anya ansimò, cercando di riprendere fiato. Forse avrebbe dovuto essere disperata, ma in quel momento provava solo rabbia. Rabbia per non essere riuscita a scappare, per essersi fatta prendere, e per tutto ciò che immaginava le sarebbe successo di lì a seguito.
L’uomo si chinò, liberandole le caviglie e ritirando la frusta, quindi la costrinse a rimettersi in piedi. Anya si ritrovò di fronte a lui, pochi centimetri di distanza li separavano. Lo sconosciuto era più alto di lei di almeno una spanna. La ragazza puntò i propri occhi in quelli azzurri dell’uomo: in fondo al cuore, provava una certa paura, ma mai gliel’avrebbe lasciato intendere.
Lo sconosciuto sostenne il suo sguardo, inclinando lievemente il capo di lato.
- Toglimi una curiosità: cosa speravi di fare?- la beffeggiò; Anya non rispose, né distolse lo sguardo. Le labbra dello sconosciuto s’inclinarono in una smorfia infastidita, quindi, prima che la ragazza potesse rendersene conto o potesse reagire, le assestò un sonoro schiaffo su una guancia, tale da farle piegare la testa di lato.
Anya boccheggiò, iniziando ad avvertire bruciore alla parte carnosa della guancia e alle labbra, mentre lo schiaffo le rimbombava nell’orecchio. Nessuno le aveva mai dato un ceffone così forte, fu la prima cosa che pensò. Anzi, nessuno l’aveva mai fatto, dato che suo padre non aveva mai alzato un dito né su di lei né su Liz. Non aveva mai ricevuto uno schiaffo così forte in vita sua, tranne…
 
- Anya, cosa stai facendo?
- Niente, mamma…
- Cosa stai leggendo? Fammi vedere!
Sua madre le strappa il libro di favole di mano. Lei ha troppa paura per ribellarsi. La mamma è cambiata, non è più la stessa. Anche papà e Liz se ne sono accorti. E le fa paura.
Sua madre fa una smorfia rabbiosa, quindi scaraventa il libro dall’altra parte della stanza.
- Sei una stupida! Perché leggi queste stronzate, si può sapere?!
- Io…
- Quante volte ti ho detto che sono solo stupidaggini?! Lo sai che non voglio vedere robaccia del genere in casa mia!
- Scusa, mamma…
Uno schiaffo, forte, le rimbomba nell’orecchio e le fa bruciare la guancia e le labbra. Piange, e sa che questo le costerà un altro ceffone, ma non riesce a trattenersi. Subito arriva la voce di suo padre, e non è più allegra e scherzosa come una volta.
- Cos’hai fatto? Perché le hai dato uno schiaffo, si può sapere?!
- Perché se lo meritava! E’ una spiegazione sufficiente, per te?
Papà grida, la mamma strilla. Odia quando fanno così.
- Non stava facendo niente di male!
- Lo decido io se stava facendo qualcosa di male o no! Non t’immischiare!
- Stava solo leggendo, perché le hai dato uno schiaffo?
- Sono sua madre, so come educarla!
- Sei un’isterica!
- E’ colpa tua! E’ tutta colpa tua!
 
Anya si riscosse non appena sentì lo sconosciuto afferrarle i polsi. La ragazza gemette al contatto ruvido con le corde che graffiavano la carne.
Il Primo Ministro sogghignò, stringendo con forza le corde.
- La prossima volta che provi a scappare ti spezzo il collo, sono stato chiaro?
- Ma che cosa vuoi da me?!- strillò Anya, rabbiosa.
Il Primo Ministro fece per replicare, ma lo sguardo gli cadde alle spalle della ragazza. Si trovavano in una radura solitaria, e intorno non si udiva alcun rumore, né il canto di un uccello o il fruscio delle foglie. Oltre gli alberi, si vede solo l’oscurità.
Il Primo Ministro tende l’orecchio, per la prima volta ringraziando che qualcosa di ciò che era una volta sia rimasto ancora in lui. Udì un fruscio, quindi un gemito lontano, ma non si trattava del vento.
L’uomo continuò a fissare l’oscurità intorno a loro. Avvertì una sensazione strana nel suo cuore, una sensazione che conosceva bene. Era paura; paura folle e inspiegabile, che ti faceva gelare il sangue nelle vene, aumentare il battito del tuo cuore, e sapere che qualcosa di orribile stava per capitarti da un momento all’altro.
No. No, non era possibile. La Regina non poteva aver davvero liberato…
Il Primo Ministro tenne lo sguardo puntato contro il buio oltre gli alberi. Un altro fruscio gli diede la certezza assoluta che qualcosa si stesse muovendo nell’oscurità, avvicinandosi a loro sempre di più.
- Andiamo via!- sibilò, prendendo Anya per un braccio e trascinandola con sé.
Fiaccò la resistenza della ragazza con uno spintone più forte, e la trascinò via, lontano da quella cosa. Non era mai scappato in battaglia, né fuggito di fronte a un nemico o a una difficoltà, ma in quel momento non si sentiva un codardo. Il Primo Ministro sapeva quali erano i suoi limiti e chi poteva combattere e chi no. E quella cosa che si annidava nel buio era pressoché invincibile.
Non riusciva a credere che la Regina l’avesse fatto davvero. Si domandò se si fosse resa conto di ciò che stava facendo e, soprattutto, se fosse in grado di controllarlo. L’Uomo Nero era non solo una delle più grandi paure dei bambini, ma anche uno degli esseri più temuti dell’intero Regno delle Favole, forse più dei goblin, delle streghe e dello stesso Tremotino.
Lui e quella ragazza erano scampati alle sue grinfie per un pelo, ma d’ora in avanti doveva tenere gli occhi aperti, specialmente di notte, e sperare che la Regina fosse sufficientemente abile nel gestirlo. Se fosse sfuggito al loro controllo, allora le cose non avrebbero tardato a degenerare.
L’Uomo Nero era una delle più orribili creature di questo mondo. Stava in agguato nell’oscurità, attendeva e infine attaccava. Se riusciva a portarti via con sé, allora c’erano poche speranze di riuscire a tornare indietro.
 
***
 
Tremotino sogghignò. La profezia si stava completando.
 
Vicina è l’ora, lenta l’agonia,
dei fratelli creatori il malvagio ritorno s’avvicina.
Vicina è l’ora, della Luna di Sangue il momento è giunto,
tredici volte la purezza verrà corrotta,
tredici volte l’innocenza violata,
tredici volte la speranza infranta.
Lenta sorge la Luna, l’Oscurità s’appresta,
del lieto fine l’ombra volerà via.
I peccati dei padri saranno purificati,
del traditore la progenie a salvezza giungerà.
La Salvatrice, guerriera senz’armatura, Regina senza corona,
colei che la Pietra della discordia porta nella sinistra,
e la Spada della Verità impugna nella propria destra.
A libertà giungerà, i cinque tesori ella conquisterà.
Solo un sogno infranto guarirà la ferita,
solo la bellezza nella morte riporterà la vita.
 
Tremotino lesse per intero la prima parte della profezia, aggiungendovi quindi una delle parti mancanti.
 
Denso di bugie è il cammino, di inganni è costellata la via,
solo il riflesso della verità le mostrerà la scia…
 
Il mago oscuro sogghignò nuovamente, osservando soddisfatto l’oggetto che teneva in mano. Ora, poteva dire di avere un discreto vantaggio su di lei.
Aveva in suo possesso una delle cinque chiavi che davano accesso alla Pietra del Male. Gliene restavano solo quattro…
 
Angolo Autrice: Ehm…come sempre, vi porgo le mie scuse per il mio ritardo, sperando che vogliate perdonarmi, ma per le feste di Natale il mio computer ha pensato bene di prendersi un virus, e quindi, mentre era in quarantena, avevo solo poche storie su cui lavorare, e questa non era fra quelle…
Dunque, in questo capitolo non è che succeda granché, ma nel prossimo avremo diverse novità. E, sempre dal prossimo, entrerà in scena un personaggio che nel corso della storia avrà un ruolo notevole. Vi do un piccolo indizio: il titolo del prossimo capitolo sarà Dreams Never Come True…vi dice niente?
Allora, abbiamo Anya prigioniera del Primo Ministro (di cui, alla fine di questo capitolo, c’è un piccolo accenno alla sua vera identità nel Regno delle Favole…di chi si tratta?), Elizabeth capitata in un villaggio disabitato, una ribellione, Tremotino che organizza un esercito e più notizie sulla madre scomparsa delle due ragazze, la quale, come si è visto, non era esattamente un angelo e che, come molti di voi hanno già capito, c’entrerà parecchio nella storia…
Quanto a Tremotino, mi pare che sia chiaro che lui ne sa un pezzo in più di tutti gli altri, ma come si è visto, anche lui ha qualche nemico…che combinerà Grendel?
Nel prossimo capitolo avremo un altro piccolo scorcio su New York e la vita reale…e, a questo proposito, vi ricordate di Gaston? ;).
Spero di avervi incuriosito, e che avrete ancora voglia di seguirmi. Ringrazio chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite, e Electric Doll, little_drawing, kiaky89, Nymphna, Poseidone358, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito.
Ciao!
Dora93

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Capitolo 9
*** Dreams Never Come True ***


Dreams Never Come True

 
Elizabeth si arrestò improvvisamente, indietreggiando di qualche passo. La borsa in cui teneva conservato il libro di favole fortunatamente non le era sgusciata via dal collo durante l’impatto con l’acqua, ma ora era completamente zuppa, e il suo peso notevolmente aumentato. La tracolla le graffiava la pelle della clavicola. Elizabeth fu sul punto di togliersela di dosso e abbandonarla sulla terra bruciata, ma non aveva scordato le parole della Fata Turchina: Salvatrice o non Salvatrice, mondo delle favole in rivolta o no, lei e sua sorella – chissà dov’era Anya, a proposito… – erano nei guai fino al collo, e insieme a quella profezia, il libro di favole era l’unica via per uscire da quel pasticcio. Non poteva liberarsene così su due piedi.
Si afferrò le spalle con le mani nel tentativo di riscaldarsi; indietreggiò di un passo ancora, guardandosi intorno con aria spaurita. Tutto era un cumulo di macerie: i mattoni delle case erano bruciati e anneriti, le porte e le finestre scardinate lasciavano aprire all’interno delle voragini scure. La sola vista le faceva correre un brivido lungo la schiena. Le pareva quasi di essere divenuta la protagonista di uno di quei film horror di serie B, in cui la bella ragazza viene scannata dal mostro sanguinario.
Elizabeth non vedeva nessuno intorno a lei, anche se non avrebbe saputo dire se questo fosse un bene o un male. Ciò che era successo con Biancaneve e quel lupo umanoide avrebbe dovuto metterla in guardia nei confronti di qualunque cosa si muovesse, ma la ragazza s’impose di ragionare con buon senso. Era vero che Biancaneve era stata ben diversa da quanto chiunque si sarebbe potuto aspettare, ma era anche vero che qualcuno di normale ancora c’era – bastava pensare alla Fata Turchina e a quanto era stata gentile con lei e Anya. Semplicemente, doveva tenere le antenne ben dritte e non lasciarsi infinocchiare come aveva fatto con Biancaneve.
In quelle condizioni, incontrare qualcuno non le avrebbe fatto male, avrebbe potuto chiedere aiuto. Il fatto che quel villaggio fosse disabitato era una sfortuna; tuttavia, Elizabeth preferiva di gran lunga che non ci fosse nessuno, piuttosto che invece ci fosse una qualche presenza e si mantenesse celata. Si guardò lentamente intorno, indagando ogni angolo.
Si sentiva osservata.
Se veramente c’era qualcuno, allora non doveva avere delle buone intenzioni. In mezzo a tutte quelle rovine, solo un disperato o un malintenzionato avrebbe potuto nascondersi. E lei non poteva sapere chi si sarebbe ritrovata di fronte.
La peggiore cosa dell’essere soli è scoprire di non esserlo.
Elizabeth sentì che le sue mani avevano preso a tremarle. Non sapeva dov’era, non sapeva dove andare, non sapeva che fine avesse fatto Anya, era sola, inerme, indifesa.
Indietreggiò nuovamente. La sensazione di essere osservata non era sparita.
Un fruscio, forte, udibile. La colse così all’improvviso che quasi non riuscì a trattenere un grido. Elizabeth si voltò repentinamente, ma non abbastanza per riuscire a vedere l’ombra scura che aveva appena attraversato la strada alle sue spalle, scomparendo in una via laterale.
La sensazione di non essere sola aumentò vertiginosamente.
Elizabeth indietreggiò più in fretta che poteva, sentendosi improvvisamente inerme e indifesa. Come se qualcosa di tremendo stesse per accadere da un momento all’altro.
Sbatté inavvertitamente la schiena contro qualcosa di solido, presumibilmente di legno, riuscì a pensare. Il fruscio si ripeté. Elizabeth voltò il capo nella sua direzione, sgranando gli occhi inorridita non appena scorse un’altra ombra poco distante da lei.
Prima che potesse formulare alcun pensiero, o farsi prendere dal panico, sentì il sostegno alle sue spalle scomparire, e perse l’equilibrio. Elizabeth cercò di urlare, ma una mano giunse a tapparle la bocca prima che il grido ne fuoriuscisse. La ragazza vide la porta contro cui si era appoggiata chiudersi di fronte ai suoi occhi; si ritrovò distesa a terra, la mano di uno sconosciuto premuta sulla bocca. Tutt’intorno era immerso nell’oscurità, fatta eccezione per un barlume di luce che filtrava da una finestrella dai vetri rotti appena al di sopra della sua testa. Elizabeth sentì che la mano sulla sua bocca era scivolata via; sollevò lo sguardo, incrociando un volto semi illuminato nella penombra, mentre gli occhi dello sconosciuto incrociavano i suoi.
Chi l’aveva trascinata in quella casa si portò l’indice all’altezza delle labbra, facendole segno di tacere.
Elizabeth vide che si trattava di una ragazza. Una ragazza all’incirca della sua stessa età, con i capelli biondi e un bel viso, per quel che riusciva a vedere. La lasciò andare, accucciandosi al di sotto della finestra; Elizabeth si tirò su dal pavimento, tentando di rialzarsi, ma la sconosciuta la trattenne per un braccio, facendole segno di non muoversi. La trascinò verso di sé, in modo che si mettesse seduta al suo fianco. Elizabeth riudì quel fruscio di poco prima, seguito da un rumore di passi molto simile al rimbombo di un tuono. Era certa che si trattassero di passi, ma a mano a mano che questi si facevano più vicini le pareva quasi che la terra tremasse come se fosse in corso un terremoto.
Non erano passi umani.
Elizabeth fece appena in tempo a formulare quel pensiero che una lunga ombra scura si stagliò al di sopra delle loro teste, gettando buio completo nella stanza. Un verso a metà fra un ringhio sommesso e un grugnito giunse dall’esterno.
Elizabeth si sentì afferrare un polso; fece per urlare dalla sorpresa, ma soffocò il grido quando la ragazza accanto a lei si portò nuovamente l’indice all’altezza delle labbra. Chiuse gli occhi, cercando di non respirare così affannosamente e di far calmare le pulsazioni furiose del suo cuore, mentre Dio santo! quella cosa che stava là fuori aveva iniziato ad annusare l’aria, come un segugio da caccia.
Il ringhio sommesso si ripeté, quindi l’ombra iniziò a ritirarsi, finché la luce tornò a filtrare nella stanza. Il rimbombo di passi si ripeté, divenendo sempre più lontano fino a scomparire.
Solo in quel momento, Elizabeth trovò il coraggio di guardare la sconosciuta accanto a sé.
Il gioco di luci e ombre non l’aveva ingannata, e la ragazza aveva veramente i capelli biondi, lunghi, anche se seminascosti da un vecchio foulard allacciato dietro la nuca. Aveva un bel viso, giovane, a forma di cuore, ma stranamente stanco, gli occhi azzurri cerchiati come se fossero notti intere che non dormiva. Elizabeth vide che era molto magra, quasi anoressica. Indossava una camicetta bianca più larga di almeno una taglia, e una gonna marrone scuro dall’orlo sbrindellato.
- Siamo state fortunate…- soffiò la ragazza, sollevandosi appena sulle ginocchia e sbirciando fuori dalla finestra.- Gli orchi hanno un olfatto molto fino…
 

***

 
New York, ore 19:50 p. m.
 
Gaston passò velocemente di fronte a una fotografia che ritraeva due bambini sorridenti, notando appena che era l’ultima arrivata in mezzo ad altre due, ma non si curò troppo del fatto che fra gli annunci delle persone scomparse fosse andato ad aggiungersi, fra il sorriso di Joey Mitchell e il broncio di Sarah Hammonds, anche il volto dei due fratellini Katie e Toby MacPherson, sei e otto anni, come recitava la scritta. Si limitò a fissare il marciapiede digrignando i denti, gettando il mazzo di fiori appassiti a causa del troppo rigirarseli fra le mani in un cassonetto della spazzatura poco distante.
Anya Hadleigh lo stava facendo incazzare, e parecchio. Chi si credeva di essere, quella puttanella?
Gli aveva dato buca centinaia di volte in maniera che definire poco educata nel suo vocabolario sarebbe stato un cortese eufemismo, ma era comunque passato sopra alla sua arroganza perché, a conti fatti, la ragazza aveva un fondoschiena e un paio di tette che lui fino a quel momento aveva visto solo nei suoi sogni.
E poi, a dirla tutta, Anya Hadleigh gli era sempre piaciuta. Pure se era una stronza.
Non le era bastato piantarlo in mezzo alla strada sotto la pioggia come l’ultima volta, no. Adesso aveva anche pensato bene di non farsi più vedere. Era andato al Once Upon a Time Café e quando non l’aveva trovata, Juliet e Doris gli avevano spiegato che era quasi due giorni che non si faceva vedere, senza alcun preavviso. Bowen era imbestialito; se non stava attenta, rischiava di farsi licenziare.
Gaston, allora, con quel mazzo di fiori in mano come un imbecille, aveva suonato al campanello del suo appartamento ma nessuno gli aveva risposto; aveva fatto un ultimo disperato tentativo alla centrale di polizia dove lavorava il padre di Anya, ma l’usciere lo aveva liquidato a male parole.
E ora lui era lì, come un povero scemo, che girovagava nei pressi della centrale bagnato fradicio a causa di quel tempaccio di merda che da giorni non la smetteva di impestare su Manhattan.
Gaston si sollevò il colletto della giacca di pelle, i capelli biondi bagnati e appiccicati al cranio, svoltando l’angolo sul retro della centrale di polizia e infilandosi in un vicolo buio nella speranza – più illusione, a dire il vero – di trovare un riparo dalla pioggia, fosse stato anche un fottuto tetto spiovente; rimase di stucco quando si ritrovò di fronte a una porta.
Non avrebbe mai pensato che qualcuno potesse abitare in un posto così squallido, o erigerci un negozio. Anche se, osservò, quella non aveva l’aria di essere nessuna delle due. Era semplicemente una porta in un muro non verniciato, senza neppure l’ombra di una finestra. Gaston fece spallucce, avvicinandosi. Probabilmente era nient’altro più che un magazzino, ma forse per qualche minuto sarebbe potuto essere un ottimo riparo. Doveva solo sperare di non incappare in qualche barbone inferocito…
Gaston non ci stette a pensare molto, e aprì la porta.
 

***

 
Elizabeth trovò il coraggio di sollevare il fondoschiena dal pavimento solo quando la sconosciuta che le aveva salvato la pelle si fu prima rialzata, spiando un’ultima volta fuori dalla finestra per assicurarsi che non ci fosse più nessuno. La ragazza la vide scheggiare immediatamente alla porta e afferrare una grossa trave abbandonata sul pavimento, per poi fissarla con decisione aggiungendola al catenaccio arrugginito avvolto intorno alla maniglia. Dopo aver fatto ciò, parve più tranquilla.
Elizabeth sbuffò, rialzandosi a fatica.
- E togliti dalla finestra!- bisbigliò la sconosciuta, strattonandola rabbiosamente lontano dai vetri.- Vuoi farci ammazzare tutt’e due?
Elizabeth si liberò dalla presa, sentendo la clavicola dolorante a causa dello strattone. La sconosciuta sospirò, scuotendo il capo.
- Ringrazia la tua buona sorte che sei tutta bagnata…- mormorò.- Se così non fosse stato, quell’orco ci avrebbe certo fiutate…
- Quello era un…orco?- fece Elizabeth, un po’ frastornata.
La sconosciuta annuì.
- Credevo se ne fossero andati tutti, ma a quanto pare mi sbagliavo…- la sconosciuta sbirciò brevemente la finestra.- Immagino si tratti di qualcuno che è rimasto indietro, oppure di un disperso…gli orchi non sono un gruppo molto coeso…
Elizabeth boccheggiò, alla ricerca di una risposta adatta, ma non la trovò. L’unica infarinatura in fatto di orchi era Shrek, oppure quel coso verde grande e grosso di Harry Potter e la pietra filosofale…no, un momento, quello era un troll…
Ma che accidenti stava farneticando?!
Si riscosse, tentando di darsi un contegno; quello che era appena successo, dalla separazione da Anya fino a quel momento, l’aveva scossa parecchio, senza contare che il trovarsi in un mondo di cui neanche ventiquattr’ore prima sospettava l’esistenza non aiutava di certo, e ora il fatto che avesse appena scampato l’attacco di un orco e fosse in un villaggio distrutto, in compagnia di…
- Ehi, mi stai ascoltando?
Elizabeth si riprese del tutto, incrociando lo sguardo spazientito della sconosciuta. La bionda incrociò le braccia al petto.
- Scusami, ero…ero soprappensiero…- pigolò Elizabeth, nel tentativo di salvarsi la faccia.
- Ho detto che è meglio sbarrare le imposte, almeno per un paio di ore…- ripeté l’altra, avviandosi verso la finestra e accostando le persiane. Elizabeth si trovò per un attimo disorientata nell’oscurità, ma sbatté le palpebre non appena la ragazza accese una candela posta su un tavolinetto poco distante.
- Stai bene?- s’informò la bionda, guardandola brevemente; Elizabeth annuì, sulla difensiva. Le pareva quasi di avere una sorta di déjà-vu, in quella situazione…in particolare, rivedeva se stessa e sua sorella inseguite da una Biancaneve armata di mannaia. Scrutò attentamente la sconosciuta, alla ricerca di un qualche indizio, magari un tic nervoso, che ne rivelasse qualche anomalia, ma non ne trovò. La bionda pareva ancora agitata dal pericolo appena scampato, un po’ in subbuglio, ma comunque lucida e senza traccia di particolari stranezze.
A parte, naturalmente, l’essere un personaggio delle favole.
- Sai, non credevo che fosse rimasto ancora qualcun altro, qui…- mormorò la sconosciuta.- Dopo che gli orchi del Nord hanno attaccato, tutti sono fuggiti o sono morti…- la guardò.- Non ti ho mai vista da queste parti…chi è tuo padre? Oh, che sciocca!- la ragazza parve ricordarsi improvvisamente di qualcosa, e afferrò un mantello abbandonato malamente su una seggiola poco più in là. - Tieni, asciugati!- disse, lanciandolo a Elizabeth; lei lo afferrò al volo, avvolgendoselo cautamente intorno alle spalle e iniziando ad asciugarsi un poco i capelli, senza staccare gli occhi dalla bionda.
- Perché sei tutta bagnata?- chiese la sconosciuta; si morse il labbro inferiore.- E, non per essere indiscreta, ma…perché sei vestita da uomo?- aggiunse, lanciando un’occhiata agli abiti di Elizabeth e soffermandosi in particolare sui suoi jeans fradici.
Elizabeth non rispose, continuando a tamponarsi le punte dei capelli per prendere tempo. La bionda sospirò, sedendosi al tavolo.
- Cos’è successo qui?- chiese Elizabeth dopo qualche istante.
- Gli orchi - rispose semplicemente la bionda.- Hanno attaccato circa un mese fa…Ci erano giunte notizie sul fatto che avessero già compiuto razzie nei villaggi circostanti, ma…beh, non so, il sindaco pareva essere convinto del fatto che a noi non sarebbe toccata la stessa sorte. E invece…- la ragazza allargò le braccia indicando l’ambiente.
Elizabeth abbassò lo sguardo, pensierosa. Non ricordava nessuna favola in cui vi era una rivolta degli orchi…
Male. Molto male.
Fece vagare lo sguardo per tutta la stanza; pareva abbastanza ampia, anzi, forse grande quasi quanto il salotto del suo appartamento e la camera sua e di Anya messi insieme. Era quasi completamente avvolta nell’oscurità, ma la ragazza riusciva comunque a distinguere un tavolo, qualche seggiola spaiata, un grande camino in pietra con un pentolone annerito posto su delle braci spente. Ad occhio e croce, doveva trattarsi di una cucina.
La sconosciuta sospirò nuovamente, scostando una sedia accanto a sé.
- Prego, siediti…- soffiò, facendole un cenno. Elizabeth si morse il labbro inferiore, avanzando un passo incerto, diffidente.
­- Io ora dovrei andare…- mormorò, in tono di scuse; era vero, in fondo, non solo uno stratagemma per andarsene da lì. Lo sguardo folle di Biancaneve le aveva insegnato qualcosa, dopotutto. E poi, doveva trovare Anya.
La bionda scosse il capo.
- Mi spiace, ma non credo sia sicuro…- disse.- Cosa c’è, non ti fidi?- inarcò un sopracciglio, notando l’espressione diffidente di Elizabeth. La ragazza non rispose, presa in contropiede; l’altra scosse il capo.
- Credimi, con tutto quello che è successo in questi ultimi tempi, qui dentro è il posto più sicuro in cui saresti potuta capitare…Comunque, se vuoi andartene, fa’ pure. Non sarò io a fermarti.
Elizabeth rimase un attimo pensosa, quindi annuì, e si sedette; in fondo, pensò, qualunque cosa fosse là fuori un attimo prima, orco o no, non aveva l’aria di essere particolarmente amichevole, e quella ragazza l’aveva salvata, dopotutto. La bionda non aveva niente che riconducesse all’espressione folle di Biancaneve, o allo sguardo furbo e malvagio di Tremotino, e lei si era ripromessa di non farsi prendere più da eccessivo entusiasmo e non ricascare nella trappola della capanna dei sette nani.
Sperò solo che il suo buon senso non si rivoltasse contro di lei.
- E’ meglio non uscire per almeno un paio d’ore - proseguì la sconosciuta, seria, ravvivando la fiammella della candela.- Gli orchi non sono poi così stupidi come li si crede…è incredibile come siano riusciti ad affinare la loro arte. Prima si limitavano ad attaccare direttamente, sai, assalti alle abitazioni, scontri frontali…ora invece, sembra che abbiano imparato a tendere degli agguati - la bionda fece una smorfia.- E’ meglio stare attenti.
- Già, questo l’ho capito…- soffiò Elizabeth, ancora un po’ frastornata.- Un paio d’ore, hai detto? E poi?
- Poi, non lo so…diamo un’occhiata a com’è la situazione, e decidiamo il da farsi.
- Io devo andarmene da qui al più presto - dichiarò Elizabeth.- Devo trovare mia sorella.
La sconosciuta la guardò per un lungo istante, quindi le prese inaspettatamente la mano.
- Ascoltami - mormorò.- Lungi da me voler essere indelicata o darti una brutta notizia, ma credo che, visto come stanno le cose, sia il caso di avvertirti. Se hai perso di vista tua sorella in mezzo alla folla di tre giorni fa, allora…beh, ecco…credo che dovresti considerare la possibilità che potresti non rivederla mai più.
Elizabeth ridusse le labbra a una fessura e ritrasse di scatto la mano, innervosita.
- Mia sorella non è morta!- dichiarò.
- Non sto dicendo che sia morta…Se fosse stata uccisa, allora forse le sarebbe andata bene. Non hai idea di quante donne sono state rapite per essere, beh…di conforto ai soldati, oppure fatte schiave dagli orchi…
Elizabeth scosse il capo.
- No, so per certo che non è così. Ho perso mia sorella…beh…credo siano dieci minuti fa…- spiegò, un po’ imbarazzata a causa dello sguardo incredulo e stralunato della bionda.- Credo di essere incappata in un qualche passaggio segreto, o non so che…Insomma, lei è rimasta indietro, suppongo, e io sono arrivata qui. Non so come…
- Certo, è perfettamente chiaro - sussurrò la sconosciuta, seria. Elizabeth la guardò, sorpresa: dopo una storia del genere, si sarebbe aspettata come minimo un briciolo di ironia da parte sua. E invece, a quanto pareva, ciò che aveva raccontato aveva un senso, almeno per quella ragazza.
Uno spiffero d’aria entrò nella stanza da chissà dove, ed Elizabeth, ancora fradicia, rabbrividì.
- Ti darei dei vestiti asciutti, se potessi - disse la bionda, notando che aveva freddo.- Ma, beh…i miei sono un cumulo di stracci, e non mi fido a darti quelli della mia matrigna o delle mie sorellastre. Non ho ancora avuto il tempo di bruciarli tutti, e ho paura che siano infetti…
- Infetti?- fece eco Elizabeth.
- Di colera.
La ragazza sgranò gli occhi, arretrando istintivamente. La bionda alzò le mani come per calmarla.
- Tranquilla, va tutto bene. Io non sono malata. Se così fosse, sarei già morta da un pezzo…
- Hai detto colera?- fece Elizabeth.
La bionda annuì.
- Si sono ammalate all’improvviso, anche se credo che fosse destino…Sai, loro non hanno mai avuto una costituzione molto forte, erano poco abituate al lavoro duro e agli stenti, e qui il cibo e la legna mancano da settimane, così come l’acqua pulita. Era inevitabile che in queste condizioni si ammalassero. La mia matrigna, che la sua anima riposi in pace, è morta nella notte la settimana scorsa; non ce ne siamo neppure accorte, poveretta…Mentre le mie sorellastre se ne sono andate due giorni fa. Ho dovuto seppellirle tutt’e tre nell’orto dietro casa, sotto il ciliegio; mi dispiace che abbiano dovuto avere una sepoltura così misera, ma proprio non potevo fare altrimenti. E’ per questo che sono ancora qui - la bionda si strinse nelle spalle.- Molti se ne sono andati dopo aver perso i propri averi durante le razzie dei soldati, e poi, quando gli orchi hanno attaccato, tutti sono fuggiti. Ma io ho dovuto rimanere. Madame Tremaine era già morta, ma Anastasia e Genoveffa erano malate e non riuscivano neppure ad alzarsi dal letto…E’ per questo che sono rimasta. Non potevo abbandonarle.
Elizabeth scosse il capo, frastornata, cercando di scacciare la parola colera e tutto ciò che essa significava lontano dalla sua mente e nel contempo di ricollegare i fili del discorso della bionda.
Aveva parlato di una matrigna…di due sorellastre di nome Anastasia e Genoveffa…
Sta’ a vedere che…
- Come ti chiami?- sorrise la bionda.
- Elizabeth Hadleigh. Ma puoi chiamarmi Liz - boccheggiò.- E tu?
La ragazza abbassò lo sguardo, un poco vergognosa.
- Puoi chiamarmi Cenerentola, se vuoi.
 

***

 
Doveva ammettere di aver sottovalutato quella ragazza, ma ora poteva affermare senza alcuna ombra di dubbio di essere riuscito a fiaccare ogni sua resistenza. E ci era riuscito tutto sommato abbastanza in fretta. Erano bastati quattro o cinque spintoni e un paio di calci dati con forza, per farla stare buona.
Forse aveva capito che con lui non era il caso di scherzare. O semplicemente, era più debole di quanto volesse dare a vedere.
Il Primo Ministro distolse per un attimo lo sguardo dal coniglio selvatico che stava arrostendo sopra quel fuoco di fortuna, un surrogato di una cena, e puntò gli occhi azzurri sulla ragazza. Anya era accovacciata a diversi metri da lui, raggomitolata su se stessa contro il tronco di una quercia, i polsi e le caviglie legate. Il Primo Ministro pensò che dovesse avere ancora le gambe doloranti dalla frustata che le aveva dato per fermare la sua fuga.
Beh, peggio per lei. Se l’era cercata.
Il Primo Ministro la guardò meglio. Non era niente di speciale, in fondo. Si era fatto puttanelle ben più degne di nota di lei. Se fosse stato meno esperto, avrebbe detto che quella ragazza somigliasse alla Regina Cattiva, oppure a Biancaneve, ma a un occhio attento non sfuggiva che quella sgualdrina da quattro soldi non avrebbe potuto lucidare le scarpe né all’una né all’altra.
Sì, certo, tutte e tre avevano una chioma di capelli corvini lunghi e splendidi, ma la somiglianza si esauriva lì. Biancaneve era considerata la più bella del reame, e non per niente; e poi, il suo volto era quello roseo e pieno di una quindicenne, i suoi movimenti aggraziati e sprigionava bellezza e vitalità da tutta la sua persona – questo, almeno, prima che il Principe Azzurro le avesse dato una ripassata e lei fosse impazzita, chiaramente.
Mentre la Regina, beh, anche lei era bella, anche se non al livello di Biancaneve. La bellezza della sovrana era più matura, più intrigante e tentatrice di quella acerba e ingenua della più bella del reame; forse non era alla sua altezza, ma il corpo formoso e il suo carisma la rendevano una degna competente.
Quella ragazzina, invece, era troppo magra e troppo pallida, con i lineamenti troppo seri, duri e spigolosi, per poter competere con loro. Non era né bella né brutta; non si sarebbe preso nemmeno la briga di portarsela a letto, tanto era insignificante.
Ecco, proprio così. Quella era la parola che cercava. Il modo migliore per definire quella ragazza era insignificante.
Non era bella, e tantomeno aveva l’aria dell’eroina. Il Primo Ministro non avrebbe scommesso un soldo sul fatto che fosse lei la famigerata Salvatrice.
Già, la Salvatrice…quello era il suo problema principale, in quel momento. Aveva catturato una delle due possibili candidate come gli era stato ordinato, ma si era lasciato scappare l’altra. Per un pelo, dannazione! Se quella maledetta non si fosse scansata proprio quando la sua freccia…
Il Primo Ministro si passò una mano inguantata sulla fronte, togliendo il coniglio selvatico dal fuoco e addentandone un grosso boccone. Aveva portato a termine il lavoro solo a metà; avrebbe anche potuto strappare il cuore alla sua prigioniera, ma non avrebbe potuto consegnarlo alla Regina se prima non avesse avuto anche l’altro. Si era lasciato scappare un bersaglio fondamentale, una pedina decisiva nella scacchiera; se non avesse rimediato, non l’avrebbe passata liscia.
Doveva trovare l’altra ragazza, e alla svelta. Quanto all’altra…
Maledizione, che doveva fare con lei?
La soluzione più veloce e pratica sarebbe stata quella di ammazzarla lì, seduta stante; non era un problema, l’aveva già fatto altre volte, e si sarebbe risparmiato un peso inutile da trascinarsi dietro. Ma forse non era la misura più adatta da adottare.
In fondo, aveva a che fare con una potenziale Salvatrice, nonché una patetica ragazzina del tutto intenzionata a ritrovare anche l’altra, scommetteva. Se non altro, avrebbe potuto tornargli utile nella ricerca. Sì, c’erano degli effetti collaterali, questo era vero…Ad esempio, il fatto che fosse un peso morto e la possibilità che gli indizi che conducevano alla Pietra del Male spuntassero fuori, durante il loro cammino. L’aveva vista uscire dalla casa della Fata Turchina, certamente doveva conoscere la profezia.
Ma questo poteva essere un altro vantaggio, a pensarci bene. Se avesse consegnato alla Regina le due ragazze e nel frattempo fosse riuscito a recuperare anche qualche traccia per la Pietra…
Oh sì; certamente la ricompensa sarebbe stata alta.
Il Primo Ministro udì un fruscio; senza smettere di masticare la carne, si voltò nuovamente verso Anya, la quale ora stava tentando di abbracciarsi le ginocchia nonostante i polsi legati. L’uomo sorrise con aria canzonatoria.
- Hai fame?- chiese, guardandola dall’alto in basso; Anya non rispose, ma non distolse lo sguardo rabbioso da lui.
- Sai, è davvero delizioso…- proseguì il Primo Ministro, noncurante, accennando al coniglio.- Davvero, è veramente buono…
Anya si strinse ancora di più le gambe al petto, senza smettere di fissarlo. Al Primo Ministro non piaceva il suo sguardo; c’era paura, sì, ma era mista a una sorta di furia.
- Sai, è normale avere fame, dopo tutte queste ore di cammino - ghignò, estraendo il pugnale dalla cintura.- Sul serio, non c’è nulla di cui vergognarsi. Capisco che tu sia affamata. Se ne vuoi un po’, non hai che da chiedere.
La ragazza non rispose, né distolse lo sguardo. Sembrava quasi che volesse ucciderlo.
- Davvero, non ne vuoi?- chiese il Primo Ministro, brandendo il coltello.- Credimi, non devi vergognarti…- posò il coniglio arrosto sull’erba. - Ho capito, sei timida…Vedrò di provvedere io stesso…
Anya sussultò quando il Primo Ministro sollevò il pugnale, calandolo un attimo dopo sul coniglio. La ragazza sentì il crack dell’osso quando l’uomo mozzò la testa dell’animale.
Il Primo Ministro rise, afferrando la testa del coniglio e lanciandola in direzione di Anya. La ragazza vide gli occhi morti della bestia avvicinarsi a lei mentre il capo mozzato rotolava nella terra.
- Prego, ingozzati pure!- rise l’uomo, addentando un altro pezzo di carne; Anya lanciò un gemito rabbioso, allontanando la testa del coniglio con un calcio.
- Sei un bastardo!- ringhiò, fissando l’uomo in cagnesco.
Il Primo Ministro ricambiò lo sguardo, improvvisamente tornato serio. Non era stato l’insulto a colpirlo; aveva sentito anche di peggio, nella sua vita. Quello che non tollerava era quello sguardo; gli occhi verdi della ragazza lo scrutavano con tanto rancore e tanto odio che lui non poteva sopportare. Era troppo; chi lo guardava implorava pietà oppure lo temeva. Erano finiti i tempi in cui la gente mostrava disprezzo nei suoi confronti.
Per quanto male avesse fatto, era da più di dodici anni che nessuno lo guardava così. Con lo stesso sguardo di chi non ti voleva accanto a sé, di chi ti avrebbe voluto vedere morto, di chi non sopportava neppure la tua esistenza…
 
- Tieni gli occhi aperti! Mi senti? Andiamo, avanti!
- Dannazione, portatemi delle bende!
- Lasciatelo crepare!
- Ehi, amico? Forza, guardami! Guardami, sono qui!
- Bisogna fermare il sangue!
- Non merita di vivere!
- Zitta, strega!
- Vi prego! Morirà dissanguato se non facciamo qualcosa!
- Forza, non mollare! Te la caverai, amico mio…Mi hai sentito? Te la caverai!
- Come potete volerlo salvare?!
- Non può vivere!
- Merita di morire!
 
Il Primo Ministro digrignò i denti, gettando nella terra il pezzo di carne e alzandosi di scatto. Raggiunse Anya con furiosa rapidità, strappandole un gemito di dolore quando l’afferrò alla radice dei capelli.
- Credi di farmi paura con un insulto?- sibilò, scrollandola con violenza.
Anya lanciò un grido, sgranando gli occhi. Di nuovo, il verde tornò a incontrare l’azzurro.
Il Primo Ministro sussultò, rendendosi improvvisamente conto di ciò che stava succedendo. Non c’era più quella furia negli occhi di Anya, anzi, ora era solo paura, ma lo stava fissando negli occhi.
- Che hai da guardare?- ululò.
Sentì le mani completamente sudate; non era successo niente, si disse. Era solo il tramonto, la notte non era ancora calata. Quella sgualdrinella non poteva aver visto nulla. Non era successo niente.
Lasciò la presa, allontanandosi da Anya. Si sedette a diversi metri da lei, dandole appena le spalle.
Non era successo niente, si ripeté. E poi, se anche ciò di cui aveva avuto paura fosse accaduto, che importanza aveva? Quella ragazza era solo la sua preda, niente di più. Se anche avesse visto…
Non avrebbe dovuto importargli se avesse visto o no. In fondo, non era nulla, non più.
Ma non voleva comunque. Non voleva che una stupida ragazza vedesse i residui di ciò che era stato. Non voleva e basta.
La notte stava calando; il Primo Ministro s’impose di riacquistare la calma e l’autocontrollo. Se avesse avuto paura, allora sarebbe divenuto lui stesso una preda. Doveva restare vigile: aveva due problemi a cui far fronte, quella notte.
Uno era quella ragazza; non poteva dormire, non finché lei era lì. Avrebbe potuto scappare.
L’altro, era l’Uomo Nero.
Ancora non riusciva a credere che la Regina l’avesse liberato per davvero; avrebbe certamente potuto trovare un’altra soluzione per raggiungere i suoi fini, quella era solo una volgare esibizione di potere!
Ma ormai, l’Uomo Nero era libero, e a lui non restava altro da fare se non sperare che la sovrana fosse in grado di tenerlo sottocontrollo. E restare vigile.
L’Uomo Nero ubbidiva solo a chi lo comandava; per tutti gli altri, non avrebbe avuto pietà.
Strinse l’impugnatura del pugnale, pronto alla veglia. Si voltò appena per non dover incrociare lo sguardo della sua prigioniera.
Non voleva che lo guardasse negli occhi.
 

***

 
- Cioè…tu saresti una specie di chiromante?
- Non esattamente…- sospirò Elizabeth, al colmo dell’esasperazione. Avrebbe dovuto pensarci due volte, prima di raccontare la storia di Cenerentola a Cenerentola stessa!
- Ma conosci il mio futuro!- protestò Cenerentola.- Sai chi sono, sai della mia famiglia…Sei una strega?
- No!- Elizabeth estrasse il libro di favole dalla borsa, posandolo pesantemente sul tavolo.- Ho letto la tua storia…ecco, aspetta…
Quasi come per magia, il libro si aprì di colpo, esattamente sulla favola che Elizabeth stava cercando. Le due ragazze si sporsero per poter vedere; Elizabeth sospirò. Proprio come aveva previsto, l’inchiostro era sbavato e illeggibile. C’era da aspettarselo, con villaggio di Cenerentola attaccato dagli orchi e matrigna e sorellastre morte per il colera!
- Io non riesco a leggere niente…- Cenerentola fece una smorfia.- Mi stai forse prendendo in giro?
- No! Senti, le cose stanno così…- Elizabeth si sporse verso di lei.- Io vengo da un mondo in cui tu esisti in forma…beh, diciamo letteraria. Fatto sta che sei la protagonista di una favola, a un certo punto arriva una fata madrina e tu vai a ballare con un principe, poi perdi una scarpetta e…
- Questo lo so!- Cenerentola incrociò le braccia al petto.- Non m’inganni, signorina. Questa storia è stata sulla bocca di tutti per settimane. Sono diventata il pettegolezzo del villaggio.
Elizabeth la guardò, stralunata.
- Cioè…tu hai già incontrato la fata?
- Se ti riferisci alla Fata Turchina, sì - rispose Cenerentola; improvvisamente, il suo sguardo si fece carico di amarezza.- Sai, credevo davvero che avrebbe potuto aiutarmi…Volevo tanto andare a quel ballo, e lei mi ha dato un bel vestito, delle scarpette di cristallo…Ma poi, beh, tutto è finito a mezzanotte.
- E sei ancora qui?- fece Elizabeth, incredula.- Non hai sposato il principe?
- Il Principe Azzurro, dici?- Cenerentola parve sorpresa.- Certo che no. Abbiamo solo ballato per una sera, ma niente di più. Perché un principe avrebbe dovuto sposare una sguattera?
- Ma…ma…ma non hai perso la scarpetta?
- La scarpetta?
Elizabeth annuì; si rese improvvisamente conto di quanto fosse difficile quella situazione. Cenerentola non era al livello di Biancaneve, ringraziando la buona sorte, ma si trovava comunque a che fare con una realtà completamente stravolta rispetto a quella che conosceva.
Avrebbe dovuto stare molto attenta a ciò che diceva o faceva.
- Oh, sì!- Cenerentola sorrise, alzandosi dalla seggiola; Elizabeth la vide rovistare su una mensola poco distante, quindi la ragazza ritornò da lei, reggendo in mano una scarpetta completamente trasparente, elaborata, e molto piccola.
- Stranamente, questa non è svanita insieme all’incantesimo…- sorrise Cenerentola, tornando a sedersi.- E’ tutto quello che mi rimane, da quella notte. Sai, ho sperato tanto che qualcuno scoprisse chi ero, che ritrovasse l’altra scarpetta…chissà dove sarà, ora…probabilmente in qualche bordello…
- Quindi…- Elizabeth si umettò le labbra.- Mi stai dicendo che il Principe Azzurro non è mai venuto a cercarti?
- No, non l’ho più rivisto da quella sera.
Elizabeth abbassò lo sguardo, e non rispose. Non riusciva a capire se Cenerentola fosse dispiaciuta per il suo non-lieto fine, anche se non conosceva la sua vera storia. Ma probabilmente, se si era innamorata del Principe Azzurro e lui l’aveva abbandonata in quella topaia, doveva starci male.
- Posso tenerla un attimo?- chiese, sperando di farle piacere.- Prometto che non la romperò…
- Non preoccuparti, credo che questo cristallo sia magico…Se non si è rotta dopo una fuga disperata…- ridacchiò Cenerentola, porgendole la scarpetta.
Elizabeth la prese con attenzione fra le mani; non fece in tempo a sentirne la superficie fresca e liscia a contatto con le dita, che improvvisamente il libro di favole si spalancò, e le pagine iniziarono a scorrere come mosse dal vento. Elizabeth e Cenerentola sgranarono gli occhi quando l’intera scarpetta s’illuminò, brillando fino a nasconderne la forma.
Elizabeth puntò lo sguardo sul libro: era aperto su una pagina bianca. Lentamente, iniziarono a formarsi alcuni segni neri.
 
Vicina è l’ora, lenta l’agonia,
dei fratelli creatori il malvagio ritorno s’avvicina.
Vicina è l’ora, della Luna di Sangue il momento è giunto,
tredici volte la purezza verrà corrotta,
tredici volte l’innocenza violata,
tredici volte la speranza infranta.
Lenta sorge la Luna, l’Oscurità s’appresta,
del lieto fine l’ombra volerà via.
I peccati dei padri saranno purificati,
del traditore la progenie a salvezza giungerà.
La Salvatrice, guerriera senz’armatura, Regina senza corona,
colei che la Pietra della discordia porta nella sinistra,
e la Spada della Verità impugna nella propria destra.
A libertà giungerà, i cinque tesori ella conquisterà.
Solo un sogno infranto guarirà la ferita,
solo la bellezza nella morte riporterà la vita.
Denso di bugie è il cammino, di inganni è costellata la via,
solo il riflesso della verità le mostrerà la scia…
 
- La profezia!- esclamò Elizabeth.- La profezia è cambiata…
- Ma che stai dicen…
Così come si era formata, la scritta svanì. Al suo posto apparve una circonferenza al cui interno vi era inscritto un triangolo che, a sua volta, conteneva un altro cerchio.
La scarpetta di cristallo svanì fra le mani di Elizabeth; un attimo dopo, sulla circonferenza più grande era spuntata una piccola pietra preziosa, color azzurro pallido.
La scritta della profezia riapparve. Le parole sogno infranto erano state cancellate.
Elizabeth comprese immediatamente tutto.
- Ma cos’è successo?- fece Cenerentola, frastornata.
- La…la tua scarpetta…- boccheggiò la ragazza.- La tua scarpetta era il sogno infranto…
- Che cosa?
Un violento colpo squarciò l’aria, seguito immediatamente da un altro. Le due ragazza sobbalzarono, mentre un terzo colpo si fece sentire. Pareva quasi il rimbombo di un cannone.
Elizabeth tese l’orecchio; in lontananza, si udiva il suono di una marcia, dieci, cento, mille passi che si muovevano in contemporanea.
- Oh, no!- esclamò Cenerentola, scattando in piedi. Corse alla porta, assicurandosi che il catenaccio fosse ben saldo, quindi fece lo stesso con le imposte delle finestre. I passi si avvicinavano.
Elizabeth si alzò, andandole incontro.
- Che sta succedendo?
Cenerentola si voltò; il suo volto era una maschera di terrore.
- I soldati…- soffiò.- Stanno arrivando…
 
Angolo Autrice: Questo capitolo forse è un po’ lunghetto, lo so, ma se l’avessi diviso non avrebbe avuto alcun senso. Anyway, spero vi sia piaciuto :).
Dunque, Elizabeth ha trovato il primo oggetto, il secondo, come ricorderete, è in mano a Tremotino, ne mancano solo tre all’appello…quattro, se contiamo che uno dovrà essere sgraffignato al nostro mago oscuro, il quale non è esattamente il tipo che getta la spugna tanto facilmente…
So che in non happy ending di Cenerentola è molto più soft rispetto ad altri come Biancaneve, ma non sarà così per tutti…ho già in mente un piano diabolico per la Bella Addormentata, a proposito…XD.
Gaston ha trovato il passaggio segreto per il Regno delle Favole e, per la serie un nome, una garanzia, penso sia inutile precisare che farà un bel po’ di danni…
Passiamo ora all’identità del Primo Ministro. Nelle possibili risposte abbiamo:
Il Principe Azzurro;
Robin Hood;
Il Cacciatore;
Il Lupo Cattivo;
…si accettano scommesse XD. Grazie per la partecipazione, ragazzi, comunque la sua identità non sarà rivelata se non fra un po’ di tempo, quindi potete proporre altre soluzioni, se volete :).
Nel prossimo capitolo, vedremo come se la caveranno Elizabeth e Cenerentola, cosa farà il Primo Ministro con Anya e la messa in atto del suo piano, inoltre daremo un’occhiata a come se la cavano Tremotino, Gaston, il padre delle ragazze (vi ricordate della spia nel Dipartimento?) e il nostro Cacciatore, che è ancora prigioniero della Regina…ma non per molto…
Ringrazio chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite e ValeryJackson, Aoinee, LadyAndromeda, kiaky89, cleme_b, Nymphna e Sylphs per aver recensito :).
Ciao a tutti, al prossimo capitolo!
Dora93

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Capitolo 10
*** The Prisoner ***


The Prisoner

 
Le prigioni erano collocate nei sotterranei del castello, ed era raro che un barlume di luce filtrasse attraverso i mattoni umidi e squadrati.
Ma a Lady Marian la luce faceva male, ormai. La sua cella aveva una sola finestra incastonata di sbarre, troppo alta per poter essere raggiunta e troppo piccola perché il sole potesse filtrare in modo completo e continuo; e tre anni di prigionia erano stati sufficienti affinché Lady Marian si ritraesse nell’ombra come un topolino spaventato, abbracciandosi le ginocchia e affondando il volto nell’incavo creato dal suo grembo perché la luce non le facesse bruciare gli occhi ogni qualvolta un raggio impertinente osava violare l’oscurità della cella.
La Regina Cattiva aveva dato ordine ai suoi soldati di rinchiuderla là dentro tre anni prima, e da allora la porta era sempre rimasta sigillata tranne che per tre volte al giorno quando, a orari regolari, un goblin si affacciava sulla soglia con il suo naso aquilino e le sbatteva malamente di fronte la ciotola con il suo pasto.
Quando quel giorno, appena un’ora dopo che quella sbobba informe che chiamavano cena le era stata servita, la porta si riaprì inaspettatamente, Lady Marian sussultò, cercando di alzare istintivamente i pugni in segno di difesa, facendo sfregare il metallo delle catene contro la pietra del pavimento e scontrandosi con la resistenza delle manette intorno ai suoi polsi. Emise un gemito di dolore e sul suo volto si dipinse una smorfia quando sentì i polsi bruciarle. Il ferro delle catene le aveva martoriato la carne per anni, e ora la pelle era graffiata e sanguinante.
Lady Marian si ritrasse istintivamente quando la porta si aprì lasciando entrare più luce di quanto i suoi occhi abituati all’oscurità potessero sopportare; si protesse il viso con una mano.
- Oh, povera piccola! C’è troppa luce?- cinguettò amabilmente la Regina Cattiva, entrando con decisione nella cella. Lady Marian sbatté più e più volte le palpebre prima di riuscire a mettere a fuoco le figure di fronte a sé: la Regina era esattamente come la ricordava. Non era cambiata di neanche un dettaglio in quei tre anni. I capelli neri e lisci le ricadevano elegantemente in ciocche folte e setose fino alle reni, il volto maturo ma affascinante non era solcato da neppure una ruga, ma la pelle era liscia e colorita, mentre gli occhi verdi conservavano ancora quel brillio in cui vi erano misti crudeltà e intelligenza perversa, quello stesso brillio che le aveva scorto innumerevoli volte prima che lei scoprisse del suo tradimento e la facesse rinchiudere.
La Regina era abbigliata con un lungo vestito color rosso sangue, dalla gonna e le maniche svasate, la scollatura abbondante con il bordo decorato da una sottile striscia di pizzo bianco. Indossava una corona elaborata, d’oro, con incastonato un rubino al centro. Tutta la sua figura risplendente contrastava con l’ambiente cupo circostante, e perfino con le divise e gli elmi neri dei tre soldati che fungevano da scorta. La Regina voltò il capo, ordinando a due di loro di andarsene, mentre il terzo rimase sull’attenti alle spalle della sovrana, a guardia della porta.
Lady Marian strinse rabbiosamente i pugni, rispondendo con uno sguardo carico d’odio al sorriso cordialmente e crudelmente freddo della sovrana. La Regina mosse qualche altro passo verso di lei.
- Ho pensato di farti una visita, mia cara. E’ passato tanto tempo da quando ci siamo incontrate, non è vero?- ridacchiò.- Devo dire, però, che ti trovo parecchio sciupata…non assomigli più molto a una lady…- la Regina scoccò un’occhiata piena di disprezzo alla donna. Lady Marian era molto giovane, molto più di quanto dimostrasse. Aveva appena compiuto vent’anni, ma il suo volto provato da tutto quel tempo trascorso dietro le sbarre la rendeva più simile a una trentenne; indossava ancora l’abito che aveva addosso quando era stata arrestata, ma la stoffa color viola scuro era sporca e strappata ai bordi della gonna e delle maniche. Le unghie delle mani sottili erano sporche e mangiucchiate, i capelli una volta morbidi e ricci erano una massa castana arruffata, mentre gli occhi tradivano tutta la stanchezza e la rassegnazione di chi non aveva più nulla in cui sperare.
Lady Marian si sentiva sconfitta, si sentiva sconfitta da tre anni, quando un uomo che credeva suo amico aveva tradito lei e i loro compagni, lasciando che venisse arrestata e agevolando la scalata al potere della nuova Regina Cattiva.
E dire che molte storie volevano la matrigna di Biancaneve una donna sadica e crudele, tanto che, ricordava di aver udito dire quand’era piccola, quando questa era morta a Nottingham la gente aveva festeggiato per tre giorni e tre notti. Credevano tutti di essersi liberati di una tiranna – non sapevano che il peggio sarebbe ancora dovuto venire.
Forse, sarebbe stato meglio che la precedente sovrana, pur nella sua malvagità, non fosse mai morta. La sua sostituta si era rivelata essere mille volte peggio di lei.
Lady Marian si sentiva sconfitta, questo era vero; ma per nulla al mondo l’avrebbe dato a vedere alla Regina.
Sostenne il suo sguardo con fierezza, come le avevano sempre insegnato a fare anche nelle situazioni peggiori, e strinse più forte i pugni.
- Perché siete qui?- sibilò.- Cosa volete ancora, che non vi siete già presa?
- E’ forse proibito fare visita a una vecchia amica?
- Voi non siete mia amica. Voi siete solo una strega!- ringhiò Lady Marian.- Fareste bene ad andarvene di qui alla svelta, prima che vi dimostri quanto poco mi si addice il titolo di lady!
- Quanta foga…- commentò la Regina Cattiva, noncurante.- Temo di doverti deludere, mia cara…Se non l’hai notato, non sono io, qui dentro, ad essere inginocchiata su un pagliericcio umido e con delle catene ai polsi - sogghignò.- Avresti dovuto pensarci, prima di tradirmi…
Lady Marian digrignò i denti, cercando di liberarsi dalle catene, ma subito il dolore lancinante ai polsi la fece demordere.
- A dire il vero, c’è un motivo per cui sono qui - proseguì la Regina Cattiva; prese a camminare intorno alla stanza, girando lentamente intorno a Lady Marian.- Forse c’è qualcosa che ti farà piacere conoscere…
- Non voglio sapere niente da voi, di qualunque cosa si tratti!
- Davvero?- fece la Regina.- Neppure se riguarda la Salvatrice?
Lady Marian sentì il cuore perdere un battito.
La Salvatrice.
Non era possibile…per quanto tempo l’avevano aspettata? Dodici anni? Di più?
Le attraversò la mente il fugace pensiero che la Regina Cattiva le stesse mentendo, chissà con quale subdolo fine, ma subito si rispose che non era possibile. La sovrana non avrebbe mai potuto scherzare su una cosa simile. Se c’era qualcuno che temeva la Salvatrice più di chiunque altro, quel qualcuno era la Regina.
Lady Marian conosceva la profezia che riguardava la Salvatrice. Era destino che ella giungesse per ristabilire l’ordine nel loro mondo, ma…ma non diceva nulla su quando, con esattezza. Doveva ammettere di non aver neppure pensato a lei quando, cinque anni prima, aveva tradito la Regina e preso parte al complotto contro di lei. Per due anni, fino al giorno del suo arresto, aveva continuato la sua missione senza che il pensiero della Salvatrice sfiorasse mai la sua mente.
Era stata cieca; non si era resa conto, allora, che tutto stava lentamente ma inesorabilmente precipitando. Credeva ancora che le forze unite di tutti loro avrebbero potuto mettere fine anche a questa nuova tirannia, ma…dannazione, se la Salvatrice era arrivata, alla fine, allora voleva dire che l’Oscurità era vicina. Molto vicina.
Forse, pensò con un brivido, aveva già mietuto delle vittime.
E i Grimm stavano per tornare.
La Regina sogghignò, compiaciuta nel vedere l’espressione sconvolta di Lady Marian.
- Sapevo che questa notizia ti avrebbe stuzzicato, amica mia…- disse, con voce melliflua.
Gli occhi scuri di Lady Marian ebbero un luccichio e, per la prima volta dopo tanto tempo, il suo volto si aprì in un sorriso trionfante.
- Avete poco da ridere, Vostra Maestà - disse, guardando negli occhi la sovrana e senza curarsi di nascondere lo scherno nel pronunciare quel vostra maestà.- Sapete cosa significa questo? Avete perso!- sorrise.- La Salvatrice vi fermerà. Non riuscirete a riportare indietro i Grimm.
La Regina rimase a guardarla per un lungo istante, quindi gettò il capo all’indietro, scoppiando in una sonora risata.
- Povera, piccola, sciocca Marian!- esclamò, portandosi proprio di fronte a lei.- Io non sarei così sicura di ciò che dici, specialmente se avessi visto che razza di sciocche sono le due potenziali candidate…
Lady Marian non fece in tempo a mettere a fuoco il significato di quelle parole che la Regina Cattiva le prese il mento con una mano, chinandosi verso di lei e costringendola a guardarla negli occhi.
- …e se sapessi che il Primo Ministro si sta già occupando di loro.
Lady Marian si sentì improvvisamente come se stesse cadendo in un buco nero, cadendo senza fine. Senza mai fermarsi. Senza speranza di sopravvivere.
Si divincolò dalla presa della Regina, guardandola con odio.
- Se non ricordo male, tu sei stata una dei tanti a perderci, quando lui ha deciso di stare dalla parte giusta. Dalla mia parte.
- Maledetti!- gridò Lady Marian.- Siate maledetti, tutti e due! Traditore!- ansimò.- Merita di bruciare tra le fiamme dell’inferno! E’ colpa sua! Ha infranto il giuramento, ci ha traditi!- Lady Marian era fuori di sé.- Maledetto…se solo osa…
- Ho paura che tutto questo affannarti non ti servirà a nulla, mia cara Marian…- fece la Regina Cattiva con un sorriso amabile.- Tu conosci forse meglio di me l’abilità del Primo Ministro…sarà solo questione di tempo prima che mi consegni il cuore delle due ragazze. Dopodiché, trovare la Pietra del Male sarà solo una pura formalità, e presto i Grimm risorgeranno. E tu, mia cara, sai perfettamente quale sarà la tua sorte…- la Regina le diede le spalle, dirigendosi verso l’uscita della cella. Voltò il capo quel tanto che bastava per poter guardare negli occhi la prigioniera; le rivolse un altro sorriso mellifluo.- Il tuo destino è stato scritto ben dodici anni fa…sei la prima, Marian.
La Regina fece un cenno alla guardia, la quale la seguì al di fuori della cella, prima di chiudere la porta a chiave. Lady Marian scorse un’ultima volta il volto della sovrana oltre la finestrella provvista di inferriate, prima che questo scomparisse.
Nella cella tornò il buio.
Lady Marian ansimò affannosamente, cercando di metabolizzare ciò che aveva appena sentito.
La Salvatrice…il Primo Ministro…sei la prima
D’un tratto, un rumore stridulo alle sue spalle la fece sobbalzare. Lady Marian si voltò, sgranando gli occhi. Sulla parete, appena sotto la finestra, erano state incise delle parole nella pietra.
 

Senza cuore è la Regina,

solo il Vero Amore salverà la prima bambina.

 
Dalla scritta iniziò a colare inchiostro nero.
 

***

 
Elizabeth sentì che il sangue le si era gelato nelle vene; Cenerentola si assicurò ancora una volta che il catenaccio alla porta fosse ben saldo, quindi si voltò a guardarla: era affannata, spaventata, tutta la sicurezza che aveva visto in lei pareva essere scomparsa. La bionda le corse incontro.
- Che fai ancora qui?!- sbottò.- Hai sentito cosa ho detto? Stanno arrivando i soldati!
- I…i soldati?- boccheggiò Elizabeth, sentendo i passi avvicinarsi. Cenerentola annuì.
- I soldati della Regina. Quelli sono anche peggio degli orchi - bisbigliò, prima di tornare a rivolgere la sua attenzione altrove. Elizabeth la vide aprire un cassetto di una credenza, estraendone due lunghi coltelli, di quelli che si usavano per tagliare la carne. Cenerentola gliene porse uno.
- Prendilo!- la incitò, vedendo l’espressione perplessa della ragazza.- Avanti! Che aspetti? Potrebbe servirti!
Elizabeth annuì, prendendo il coltello con le mani che tremavano. Cenerentola le fece segno di tacere, quindi si mise in ascolto. I passi erano sempre più vicini; ora le due ragazze riuscivano a sentire anche delle voci, forti e chiare, alcune che parlavano animatamente, altre che impartivano ordini secchi e perentori senza venire ascoltate, altre che invece erano semplicemente delle risate sgangherate. Oltre la finestrella dalle imposte accostate iniziarono a sfilare delle ombre scure. Elizabeth si accorse che Cenerentola stava trattenendo il fiato.
Un attimo dopo, la porta venne scossa da dei violenti colpi.
- Aprite!- tuonò una voce. - C’è nessuno? Aprite, in nome della Regina!
- Dannazione!- imprecò Cenerentola sottovoce, quasi impercettibilmente; afferrò Elizabeth per un braccio, trascinandola dalla parte opposta della cucina. La ragazza fece appena in tempo a vedere la bionda aprire una porta che prima non aveva visto, prima di spingercela dentro. Cenerentola la seguì in una frazione di secondo, accostando la porta in modo che le nascondesse entrambe, ma nel contempo lasciando aperto uno spiraglio in modo da poter vedere ciò che stava succedendo nella cucina.
- Aprite, ho detto!
Elizabeth rivolse uno sguardo interrogativo a Cenerentola. La bionda le fece cenno di avvicinarsi.
- Pensi che entreranno?- sussurrò Elizabeth; non aveva ancora capito il perché di tanto allarme, ma aveva compreso che i soldati non dovevano essere dei tipi con cui scherzare.
Quasi a darle una risposta, si udì un tonfo sordo, quindi il rumore di passi che entravano nella cucina; avevano sfondato la porta, realizzò Elizabeth. Si sollevò sulle punte per vedere meglio oltre la spalla di Cenerentola: dalla porta socchiusa riusciva a scorgere due figure alte e slanciate, vestite completamente di nero, con mantello ed elmo, ma a giudicare dalle voci dovevano esserci ben più di due persone.
- Che stanno facendo qui?- bisbigliò impercettibilmente.
- Quello che stanno facendo da un mese a questa parte: razzia - sussurrò Cenerentola di rimando.- Erano già venuti quando Anastasia e Genoveffa erano ancora vive, ma quando si sono accorti che avevano il colera sono fuggiti più veloci del vento. E’ da prima dell’attacco degli orchi che saccheggiano le case e rapiscono le donne. Non puoi nemmeno immaginare cosa hanno fatto alla figlia del lattaio…- Cenerentola scosse la testa.- Vengono, rubano e se ne vanno, per poi tornare dopo qualche giorno. Ormai qui non c’è quasi più nulla, presto rivolgeranno l’attenzione a un altro villaggio…
Uno degli uomini si era seduto al tavolo della cucina, posando gli stivalacci infangati sul ripiano, mentre un altro vi aveva posto sopra una damigiana. Dalla stanza proveniva il rumore di risate sguaiate e oggetti spostati, e di tanto in tanto di qualche vetro che si rompeva. Elizabeth si sporse ancora di più oltre la spalla di Cenerentola: a occhio e croce, gli intrusi dovevano essere cinque. Strinse il manico del coltello fra le dita quando vide la bionda fare lo stesso.
Uno dei soldati batté violentemente una mano sul ripiano del tavolo, facendolo tremare, ridendo a una battuta di un compagno. Si trattava di un uomo sulla quarantina, con i capelli biondi tagliati molto corti e il naso dritto e aquilino.
- Quello è il capitano Navarre…- soffiò Cenerentola.- E’ uno dei più fedeli alla Regina, secondo solo al suo Primo Ministro. E’ forse il più cattivo di tutti; l’ho già visto all’opera, e non ha pietà per nessuno, nemmeno per i bambini. E’ peggio di una belva selvatica.
I soldati stavano continuando a ingozzarsi; Elizabeth sentì che il battito cardiaco si era un poco regolarizzato, ma aveva ancora paura. Cenerentola stava in guardia, non perdeva un singolo movimento di quanto si stava svolgendo nella stanza adiacente; Elizabeth si chiese quando sarebbero uscite da lì.
Si guardò intorno: quello aveva tutta l’aria di essere uno sgabuzzino. C’era polvere dappertutto: ragnatele spuntavano agli angoli del soffitto e in un angolo erano ammassate scope, secchi e stracci.
Elizabeth indietreggiò di un passo, mentre all’interno della cucina la baraonda continuava. Aveva paura, ma il pensiero di sua sorella non l’aveva abbandonata. Erano trascorse solo poche ore dalla loro separazione, ma erano state sufficienti affinché potesse analizzare con calma la situazione. Ricordava di essere stata risucchiata da un vortice…ma aveva completamente dimenticato il particolare della freccia.
Qualcuno aveva scagliato una freccia, ed era stata questa ad aprire quella specie di passaggio segreto, o qualunque cosa esso fosse. Questo voleva dire che non erano solo; e, con ogni probabilità, chi aveva scoccato quella freccia nella loro direzione non doveva avere delle buone intenzioni.
Sperò che, chiunque fosse l’arciere, non avesse trovato Anya.
I soldati continuavano la loro opera di sciacallaggio; Cenerentola si voltò per l’ennesima volta, facendole di nuovo segno di tacere. Elizabeth annuì, un po’ irritata; mosse un passo indietro.
Inavvertitamente, urtò una scopa con un gomito.
A quel punto, l’effetto domino fu inarrestabile. La scopa cadde, colpendo uno spazzolone, che a sua volta urtò contro i secchi allineati in fila. Il tutto cadde con un gran fracasso.
Cenerentola ed Elizabeth trattennero il fiato.
Nella stanza adiacente piombò il silenzio.
- Cos’è stato?!- proruppe una voce.
Cenerentola rivolse a Elizabeth uno sguardo a metà fra l’accusatore e il disperato.
Dei passi affrettati raggiunsero lo sgabuzzino in pochi secondi; Elizabeth sentì il respiro mozzarsi in gola quando la luce invase il ripostiglio e sulla soglia si stagliò la sagoma alta e scura di un soldato.
La ragazza non fece in tempo a formulare alcun pensiero, che vide Cenerentola scattare in avanti. La bionda affondò un colpo nel petto del soldato, trafiggendogli lo stomaco con la lama del coltello. L’uomo emise un grugnito di dolore, premendosi una mano all’altezza dell’addome e indietreggiando con passo barcollante.
Cenerentola lo colpì nuovamente, squarciando la carne di una coscia. Il soldato cadde in ginocchio di fronte a lei. Elizabeth vide il sangue sgorgare dalle ferite; velocemente, il liquido rosso vivo divenne nero come la pece. Come inchiostro.
- Corri, scappa!- gridò Cenerentola; Elizabeth si guardò intorno, ma subito comprese che, se anche avessero voluto fuggire, tutte le vie erano bloccate. In un attimo, gli altri quatto uomini furono loro addosso.
- Prendetele!- urlò quello che Cenerentola le aveva indicato come il capitano Navarre. Elizabeth si sentì afferrare per entrambe le braccia, quindi i due soldati la spinsero in avanti, scaraventandola a terra.
Cenerentola venne spinta in ginocchio da un altro soldato; il coltello le sfuggì di mano, sgusciando sul pavimento lontano da lei. La bionda emise un gemito di frustrazione.
- E queste chi sono?!
- Sopravvissute. Si nascondevano, le sgualdrine.
- Che ne facciamo di loro, capitano?
Il capitano Navarre sogghignò, iniziando a girare intorno ai corpi distesi delle ragazze. Elizabeth sollevò un poco il capo da terra, qualche ciocca di capelli che le ricadeva sugli occhi. Scorse Cenerentola distesa accanto a lei; il foulard le era scivolato via dal capo, e i capelli biondi le ricadevano disordinatamente sul volto e la schiena, nascondendone l’espressione.
Elizabeth sentì i passi secchi del capitano rimbombarle nelle orecchie come tamburi.
- Devo ammettere di essere indeciso. In fondo, sono due bei bocconcini. A voi la scelta, signori: preferite prima violentarle e poi ammazzarle, oppure il contrario?
Gli altri tre soldati che non erano stati feriti iniziarono a ridere sgangheratamente; Elizabeth volse disperatamente lo sguardo intorno. Poco distante da lei, facilmente raggiungibile, c’era il coltello sfuggito di mano a Cenerentola. I suoi occhi ebbero un luccichio.
Elizabeth cercò lo sguardo della bionda; Cenerentola annuì impercettibilmente.
Un secondo dopo, la bionda scattò in posizione prona; prima che i soldati potessero precederla, sferrò un calcio a una gamba di un soldato. L’uomo cadde a terra con un tonfo; prima che i compagni potessero reagire con sufficiente prontezza, Elizabeth si lanciò sul coltello, afferrandolo quanto più saldamente poté.
- Ehi, ferme!- gridò Navarre. Elizabeth riuscì a portarsi in ginocchio, ma subito uno dei soldati le afferrò i polsi, tirandola in piedi e cercando di strapparle il coltello di mano. La ragazza tentò di divincolarsi, agitando le braccia.
Stringendo saldamente l’impugnatura, affondò la lama nella spalla del soldato. L’uomo lasciò la presa con un grugnito di dolore; di nuovo, il rosso divenne nero.
Elizabeth indietreggiò, le mani che tremavano.
Hoaccoltellatounuomohoaccoltellatounuomohoaccoltellatounuomo.
- Corri!- strillò Cenerentola; Navarre ringhiò, cercando di acciuffare la bionda.
Cenerentola scattò all’indietro, aggrappandosi ai bordi del tavolo. Elizabeth corse in suo aiuto.
- Che stai facendo?! Scappa, ho detto!
Navarre e un altro soldato corsero loro incontro. Cenerentola afferrò saldamente la tavola, rovesciandogliela addosso con l’aiuto di Elizabeth. Il capitano venne colpito in pieno, cadendo a terra; il tavolo gli finì addosso, bloccandogli una gamba.
Cenerentola afferrò Elizabeth per un braccio, trascinandola fuori. La ragazza si accorse che zoppicava, e abbassò lo sguardo sulle sue gambe: all’altezza del polpaccio destro c’era un lungo taglio, da cui sgorgava una striscia di sangue rosso che si mischiava alla sostanza nera.
Elizabeth e Cenerentola udirono le urla del capitano Navarre alle loro spalle, subito seguite dai passi di corsa dei soldati. La ragazza spronò la bionda a continuare a correre; Cenerentola la guidò verso i confini del villaggio. Elizabeth riusciva a scorgere una foresta di fronte a loro, ma era comunque distante.
E i soldati erano alle loro calcagna.
 

***

 
Il Lupo non usciva solo alla luce della luna piena. Da quando era stato maledetto, il plenilunio non era l’unico momento in cui diveniva un mostro.
Tutto ciò che era, sentiva e vedeva era mostruoso.
Ma ora, la sua bestialità poteva forse tornare utile.
Il Cacciatore chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi. Il buio stava calando, il sole stava lentamente scomparendo all’orizzonte, lasciando il posto alla notte.
Questo non poteva vederlo, poiché non c’erano finestre nella sua cella. Ma lo sentiva.
Il Cacciatore ora avvertiva l’alba e il tramonto pur senza vederli, sapeva che fuori stava piovendo anche se lo scroscio dell’acqua non giungeva fino ai sotterranei del castello, sentiva i bisbigli dei servitori nella torre più alta, le scorribande dei topi nei muri, ogni sussurro, ogni flebile respiro, ogni singolo passo delle guardie della Regina.
Ora di fronte alla sua cella c’era un solo soldato. La Regina Cattiva credeva forse che le catene e la maledizione sarebbero bastati a fermarlo, ma non aveva calcolato che essere un mostro non voleva dire solo trasformarsi in assassino a ogni plenilunio e avere tutti e cinque i sensi più affinati.
Essere un Uomo Lupo voleva dire anche forza bruta. Voleva dire velocità. Voleva dire che con un solo pugno sarebbe stato in grado di sfondare una porta.
Questo il Cacciatore ci aveva impiegato un po’ di tempo per capirlo, ma ora che era consapevole delle sue nuove capacità, era ben deciso a sfruttarle. Era rimasto sveglio l’intera nottata, aiutato anche dal dolore che le piaghe delle frustate gli causavano, programmando la fuga. Aveva cercato di prevedere anche il minimo inconveniente: non poteva fallire, non stavolta.
La Regina lo aveva trasformato in un mostro grazie all’aiuto dell’uomo che per anni aveva creduto un amico, e che ora si era venduto al Male. Si era approfittata di lui già due volte: chissà con quale malefico incantesimo, aveva fatto in modo che egli rispondesse solo e soltanto a lei durante le notti di luna piena, e aveva già liberato la bestia ben due volte.
Durante il suo primo plenilunio, aveva ucciso due persone a cui voleva bene.
Il Cacciatore si sentì salire le lacrime agli occhi al ricordo di Cappuccetto Rosso e della nonna. L’anziana donna era sempre stata gentile con lui, e aveva tenuto in braccio la bambina tante volte quando era neonata. Ormai, loro due erano quasi come una famiglia, per lui.
Voleva loro bene, e le aveva uccise. Per colpa della Regina. Per colpa di quel traditore.
Il Cacciatore inspirò a fondo, costringendosi a riprendere lucidità; non poteva permettersi distrazioni, non in quel momento. Non c’era in gioco solo la sua libertà, ora.
Il momento era giunto. I Grimm stavano per risorgere. E la Salvatrice era arrivata.
Benché possedesse solo pochi e sfocati ricordi di quando era un lupo, il Cacciatore riusciva a rammentare con chiarezza le due giovani contro cui la Regina Cattiva l’aveva scatenato, fortunatamente senza riuscire nell’intento di ucciderle.
Una delle due era la Salvatrice, ne era certo. E lui doveva trovarle.
Ma prima, doveva liberarsi da quella prigione.
Il Cacciatore si alzò in piedi, avvicinandosi lentamente alle inferriate della porta curandosi di non far sbatacchiare le catene. Velocità e forza bruta. Ecco cosa gli occorreva in quel momento.
Aveva atteso che le altre guardie fossero lontane dalla sua postazione, prima di agire. Certo, non avrebbero impiegato molto prima di accorgersi di cosa stava succedendo, ma quando se le fosse ritrovate alle calcagna avrebbe già avuto un discreto vantaggio.
Il Cacciatore afferrò le catene infisse al muro che avvolgevano i suoi polsi, preparandosi ad agire. Doveva essere rapido e fare in modo che la guardia non urlasse.
Strinse con forza le catene. In quel momento, liberò tutta la forza lupesca e bestiale che aveva in corpo, tirando le catene. I muscoli del collo e delle braccia si contrassero, mentre le catene venivano sradicate dal muro di pietra con un gran fracasso.
Il Cacciatore scattò in avanti non appena vide la guardia voltare il capo; fece passare le braccia oltre le sbarre, afferrando il capo del soldato e premendogli una mano sulla bocca affinché non urlasse, quindi gli girò la testa con tutta la forza che possedeva.
Si udì un sonoro crack, quindi la guardia cadde a terra come un sacco vuoto.
Il Cacciatore afferrò le sbarre infisse alla finestrella della porta, quindi tirò: la porta venne scardinata con un gran fracasso; a quel punto, l’uomo si liberò dalle catene, iniziando a correre lungo lo stretto corridoio delle prigioni.
Il fracasso aveva disturbato il sonno degli altri detenuti, e ora molti di loro stavano svegliandosi; non ci sarebbe voluto molto prima che giungessero altre guardie.
Doveva andarsene da lì, e subito.
 

***

 
Gaston si guardò intorno con aria spaesata. La porta che aveva aperto non dava accesso a nulla più che a una camera buia, umida e puzzolente, certamente un ex magazzino o qualcosa di simile. Gaston provò a tastare il muro alla ricerca di qualche interruttore, ma non lo trovò.
Seguendo la flebile luce dall’esterno che illuminava una serie di gradini, prese a scendere le scale, mentre i suoi occhi si abituavano lentamente al buio. Forse era un posto freddo e umido, ma quantomeno non ci pioveva dentro. Finché l’acquazzone non fosse passato, come riparo sarebbe andato più che bene.
Gaston degnò di rapide e svogliate occhiate l’ambiente circostante, prima di appoggiarsi a una parete con aria annoiata, sbuffando.
Quasi non si accorse che il muro si era aperto e un vortice aveva iniziato a risucchiarlo.
 

***

 
Lady Marian si svegliò di soprassalto, disturbata prima da un gran fracasso quindi dalle grida dei prigionieri; si rialzò dal pagliericcio, sentendo i passi di corsa delle guardie avvicinarsi. Si avvicinò alla porta, aggrappandosi alle sbarre della finestrella per poter vedere meglio.
Sgranò gli occhi, indietreggiando di scatto quando, proprio di fronte a lei, una guardia venne abbattuta da un pugno, mentre un’altra, afferrata da un braccio possente, veniva scaraventata contro la parete opposta.
Un attimo dopo, i suoi occhi ne incontrarono un altro paio, gialli e luminosi, che divennero di un color castano chiaro un istante dopo. Fu a quel punto che Lady Marian riconobbe chi aveva di fronte.
- Cacciatore!- esclamò, sentendo che lacrime di gioia erano in agguato sull’orlo delle ciglia.
Il Cacciatore boccheggiò, sbattendo le palpebre con aria incredula.
- Lady…Lady Marian…- soffiò; la donna annuì, al colmo della felicità.
Il volto del Cacciatore si aprì in un sorriso sollevato, mentre si avvicinava alla finestra della cella e prendeva le mani della donna fra le sue.
- Siano ringraziate le forze del Bene!- soffiò, baciandone il dorso.- Vi credevamo morta…
- Lo so…- fece Lady Marian.- Ma voi cosa ci fate qui? La Regina ha imprigionato anche voi?
Il Cacciatore annuì, senza lasciarle le mani.
- Non temete…ora vi faccio uscire da qui…- il Cacciatore afferrò le sbarre della cella, tirando con tutte le sue forze; ma la porta non si scardinò come accaduto poco prima. L’uomo riprovò, ma un attimo dopo fu costretto a lasciare la presa. Era come se avesse posato le mani su delle braci ardenti.
In lontananza, altri passi si stavano avvicinando.
- E’ magica…- soffiò Lady Marian.- Non potete fare nulla.
- No! Lasciatemi riprovare, sono sicuro che…
- No, è tutto inutile. Ascoltate!- si affrettò a dire Lady Marian, afferrandogli un polso mentre i passi si avvicinavano sempre di più.- Cacciatore, la Salvatrice è arrivata!
- Lo so…e anche la Regina lo sa…
- E ha sguinzagliato lui - la voce di Lady Marian si fece carica di disprezzo.- Il Primo Ministro.
Il Cacciatore sgranò gli occhi, sconvolto. Conosceva il Primo Ministro, e la sua abilità in arti come la caccia e il combattimento. Se lui era alla ricerca della Salvatrice, allora…
- Dovete trovarla!- esclamò Lady Marian.- Dovete trovarla prima che lo faccia lui! E ora, andate! Stanno arrivando!
- No, non vi lascio qui!- disse il Cacciatore, provando di nuovo a scardinare la porta. Lady Marian scosse il capo con forza.
- Ve l’ho già detto, non potete fare nulla! La Regina non vuole che io lasci questa cella. Le servo per qualche cosa, ma non so cosa. Ha farneticato solo qualche frase sconnessa, ha detto qualcosa sull’essere la prima, ma…- scosse nuovamente il capo. I passi erano sempre più vicini.- Andate, ora! Radunate i ribelli, dite loro che c’è speranza!
Il Cacciatore annuì, pur non sapendo come avrebbe fatto a portare a termine ciò che Lady Marian gli chiedeva. Ora era un Uomo Lupo, e aveva visto in passato cosa accadeva a quelli come lui. Molto probabilmente, i suoi compagni non l’avrebbero nemmeno ascoltato.
Baciò nuovamente la mano di Lady Marian.
- Resistete. Tornerò a liberarvi, ve lo prometto.
Lasciò la mano della donna, riprendendo a correre; svoltò l’angolo, uscendo definitivamente dal corridoio delle prigioni. Si trovò di fronte a una lunga scalinata di pietra, che iniziò a salire correndo, ma riuscì a percorrere solo pochi gradini prima di ritrovarsi di fronte ad altri tre soldati. Il Cacciatore si arrestò, pronto a difendersi.
Una delle guardie sguainò la spada, pronta a colpirlo; il Cacciatore l’afferrò un attimo prima che si abbattesse su di lui, voltandola in orizzontale e spingendola contro il soldato, il quale cadde a terra travolgendo anche l’altro suo compagno. Il terzo soldato si avventò su di lui, ma l’uomo lo colpì in viso, sbattendolo contro il muro prima di rimettersi a correre.
Percorse velocemente un altro centinaio di gradini, senza avvertire fatica o stanchezza. Il Lupo era forte. Arrivò fino a un pianerottolo dove si apriva un’ampia finestra che dava sul fossato del castello.
Il Cacciatore fece per proseguire, ma svoltato l’angolo si trovò di fronte ad altri cinque soldati, accorsi per bloccargli il passaggio; l’uomo udì alle sue spalle i passi delle guardie che aveva stordito.
Il Cacciatore si guardò intorno velocemente, alla disperata ricerca di una via di fuga. Il suo sguardo si posò sulla finestra; l’uomo sfondò il vetro con un pugno, issandosi con un balzo sul davanzale.
Le guardie tentarono di bloccarlo; il Cacciatore gettò una rapida occhiata al fossato sottostante, prima di buttarsi.
L’impatto con l’acqua gelida non servì a fermarlo. Il Cacciatore nuotò fino a riemergere con il capo e parte del busto, iniziando a farsi strada verso la riva prima che gli arcieri venissero avvisati.
Si trascinò fuori dall’acqua ansimando, ma riprese subito a correre in direzione della Foresta Incantata. Evitò accuratamente i dintorni della città, smettendo di correre solo quando le fronde degli alberi furono sufficienti a nascondere la sua presenza.
Era libero.
 

***

 
- Mia Regina, il Cacciatore è fuggito.
La Regina Cattiva non fu affatto stupita delle parole del soldato, tanto che non si degnò neppure di voltarsi a guardarlo. Sapeva cos’era successo. Aveva osservato tutto quanto dal suo specchio.
- Lo so - rispose semplicemente, senza che la sua voce prendesse alcuna intonazione.
La guardia esitò, imbarazzata e a disagio, non sapendo cosa fare.
- Volete…volete che invii dei soldati a cercarlo?
- No, non è necessario. Potete andare.
Il soldato esitò ancora un attimo, quindi fece un breve inchino e uscì.
La Regina non smise di guardare il suo specchio, sogghignando.
Il Cacciatore poteva anche essere scappato…ma non sapeva ancora che la vera prigione era dentro di lui.
Poco importava che fosse fuggito dal suo castello. La libertà non avrebbe fermato il Lupo.
Che fosse libero o dietro le sbarre, il Cacciatore era pur sempre maledetto. E lei avrebbe in ogni caso conservato il proprio potere su di lui.
L’avrebbe amaramente scoperto durante la prossima luna piena.
 
Angolo Autrice: Questa volta, udite udite!, partiamo con i ringraziamenti, dunque ringrazio chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite, i lettori silenziosi e X_LucyW, 1252154, cleme_b, Ginevra Gwen White, Nymphna, kirha, kiaky98 e LadyAndromeda per aver recensito.
Dunque, so che avevo promesso per questo capitolo una caterva di roba che qui non c’è, ma ho dovuto tagliare per esigenze di spazio, dal momento che sarebbe venuto fuori un capitolo lungo oltre ogni umana sopportazione. Forse nelle note dell’autrice del capitolo scorso mi sono spiegata male e molti di voi si aspettavano la Bella Addormentata…allora, parto subito col dirvi che la Bella Addormentata in questa storia c’è, ma comparirà solo fra qualche capitolo, non molti a dire il vero ma prima ho bisogno di introdurre altre situazioni per arrivare a lei, capirete perché…senza contare che voglio vedere come si evolve la long di LadyAndromeda (a proposito, dearie, scusa se non ho ancora recensito il nuovo capitolo ma ora vado di fretta, comunque passerò quanto prima :). Allooora…andiamo per ordine.
So che Lady Marian non è esattamente un personaggio delle favole, ma come vedrete non solo il Regno delle Favole si sta mobilitando a causa dei Grimm…come avrete intuito, lei è una pedina fondamentale nella scacchiera, ma cosa ha in mente per lei la Regina Cattiva? E qual è il collegamento con il Cacciatore e il Primo Ministro?
A proposito, per questo capitolo niente Anya/Primo Ministro, ma nel prossimo ci rifaremo alla grande. Riguardo all’identità del PM, nella lista delle scommesse abbiamo:
Il Principe Azzurro;
Il Cacciatore;
Il Lupo Cattivo;
Robin Hood;
un cane da caccia.
Per ora Robin Hood è il più gettonato, ma si accettano anche altre proposte…io intanto continuo allegramente a seminare indizi qua e là, con il duplice intento di guidarvi e di confondervi le idee al tempo stesso :P. Scherzo, dai XD.
Anyway, il prossimo capitolo s’intitolerà Sins of the Father e sarà principalmente incentrato su Hadleigh e la spia nel Dipartimento Favole, e si verrà a sapere qualcosa in più riguardo alla madre delle due ragazze…inoltre, vedremo come si evolveranno i rapporti fra Anya e il Primo Ministro.
Comunicazione di servizio: so che alcune persone che seguono questa fic seguono anche la mia long Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast che non aggiorno da un po’…dunque, ci tengo a rassicurare tutti coloro che in questo momento mi stanno – e non a torto – tirando una marea di accidenti a causa della mia lumacaggine acuta dicendo che non ho alcuna intenzione di abbandonare la suddetta long proprio a pochi capitoli dalla fine…Semplicemente, in questo periodo la mia ispirazione sembra aver rivendicato dei diritti sulla propria persona e fa quel che cavolo le pare a lei…Comunque, sto scrivendo il nuovo capitolo e quindi dovrei riuscire ad aggiornare in tempi tutto sommato brevi…Chiedo quindi ai lettori di aver pazienza :). Grazie :).
Come sempre, fatemi sapere se ci sono critiche, consigli, e se questa storia vi piace e devo continuarla oppure se è il caso che mi dia all’ippica.
Ciao!
Dora93

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Capitolo 11
*** Sins of the Father ***


Sins of the Father

 
Una seggiola foderata di velluto rosso cupo volò in aria, andando a schiantarsi contro la parete opposta della stanza con un tonfo sordo e fracassandosi in mille schegge di legno.
Grendel emise un sibilo acuto, soffiando fra i piccoli denti aguzzi mentre si ritraeva istintivamente nell’ombra in cui si era rifugiato. Digrignò i denti borbottando una maledizione sottovoce, mentre faceva dardeggiare gli occhietti tutt’intorno. Le mani artigliate gli tremavano impercettibilmente, ma abbastanza da svelare tutta la sua paura.
Grendel sapeva che non sarebbe potuto fuggire dalla furia del suo padrone – aveva smesso di provarci già da dodici anni –, così come sapeva che, una volta che questi avesse esaurito gli oggetti da distruggere, sarebbe toccato a lui fare la fine di quella stessa sedia.
Tremotino fece un mezzo ruggito, stringendo rabbiosamente i pugni lungo i fianchi, prima di voltarsi di scatto e afferrare uno sgabello, facendogli fare la stessa fine della sedia.
Si trovava al centro esatto della sua camera da letto – una delle innumerevoli stanze del suo castello; a dire il vero, Grendel non avrebbe potuto dire che si trattasse della camera da letto del padrone, dal momento che raramente Tremotino si trovava al suo palazzo, e ancora più raramente si prendeva alcune ore di riposo. Quella era semplicemente una stanza che aveva scelto per dormire, nulla di più. Si sarebbe quasi potuto dire che fosse semplicemente una camera come tutte le altre…se non fosse stato per alcuni piccoli particolari che recavano la firma di Tremotino.
In quel momento, comunque, nulla o quasi era rimasto di quella stanza. Il letto a baldacchino aveva le tende rosso sangue graffiate e sbrindellate, schegge di legno avevano squarciato le lenzuola in più punti, il cuscino era sfondato; sul pavimento di marmo giacevano frammenti e cocci di oggetti ora irriconoscibili, pezzi di vetro e piume d’oca sfuggite dal guanciale. Sedie e sgabelli erano stati fracassati, i mobili distrutti o ribaltati; gli unici oggetti rimasti intatti erano un cassettone posto contro una parete e uno scrigno d’avorio intarsiato con ghirigori dorati collocato al di sopra di esso.
- Maledizione!- ringhiò, così forte che la sua voce rimbombò sulle pareti.- Come diavolo è potuto succedere?!
Grendel arretrò nuovamente quando Tremotino afferrò una delle tende del baldacchino e sradicò l’intera colonna a cui essa era attaccata, facendola crollare sul pavimento con un colpo secco. Il mago oscuro ruggì ancora, stringendo i pugni con tanta forza da conficcare le unghie nei palmi delle mani, facendoli sanguinare.
- Com’è possibile?! Come può una stupida ragazzina aver già trovato una delle chiavi?!- ansimò, senza che la rabbia accennasse a diminuire.
- Forse quelle due sono più scaltre di quanto avevate previsto…- sibilò Grendel, soffocando una risatina compiaciuta. Amava vedere il suo padrone soffrire.
Tremotino digrignò i denti, voltandosi di scatto pronto a torturare il suo servo, ma il suo sguardo incrociò prima il cassettone. Il mago oscuro stese il braccio con uno scatto, le dita affusolate della mano puntate contro il mobile; questo, in un attimo, senza che nulla o nessuno lo avesse toccato, andò in mille pezzi, scagliando schegge di legno tutt’intorno. Grendel si ritrasse portandosi le braccia sopra la testa per ripararsi, ma Tremotino non si mosse; rimase immobile anche quando uno spuntone affilato lo colpì di striscio all’altezza dello zigomo, graffiandolo e facendolo sanguinare.
Lo scrigno, pressoché intatto fatta eccezione per qualche ammaccatura, cadde a terra e si ribaltò: il coperchio si aprì, e ne fuoriuscirono almeno una decina di oggetti.
Tremotino ansimò furiosamente, la fronte imperlata di sudore: puntò lo sguardo sul contenuto dello scrigno, e immediatamente il volto sfigurato dall’ira iniziò a distendersi.
Grendel soffiò di nuovo fra i denti, reprimendo una risata, non appena scorse ciò che lo scrigno aveva appena rivelato: una bambola di pezza che aveva perso gran parte della sua imbottitura, uno strano ritratto raffigurante quattro persone, un braccialetto di mediocre fattura…
Questo era finito proprio ai piedi di Tremotino; il mago oscuro ritrasse lo stivale quando se ne accorse, quasi si fosse trovato vicino a un cerchio di fuoco. Invece, il braccialetto non emanava fiamme, non bruciava, non aveva nulla di spaventoso – nulla di spaventoso per quel mondo. Era semplicemente un braccialetto, un braccialetto fatto di tante piccole perline molto simili ai gioielli che le sirene custodivano in fondo al mare, ma neanche lontanamente preziose quanto quelli.
Tremotino arretrò: il suo volto ora era disteso, impassibile, quasi stesse osservando qualcosa senza importanza. Ma non era così, osservò Grendel. Gli occhi scuri del suo padrone si erano ridotti a due fessure.
Il braccialetto se ne stava lì, come se lo stesse guardando. Guardando con dei grandi occhi scuri, una volta magari allegri e vivaci, ma ora spenti e stanchi, troppo spenti, troppo stanchi…troppo, anche solo per poter sopportare un istante in più di quella vita.
Tremotino si chinò lentamente, ritrovandosi inginocchiato sul pavimento senza quasi accorgersene; prese il braccialetto con una mano: era talmente piccolo che gli stava interamente nel palmo. Non era fatto solo di perline: ora che era più vicino, vedeva, ricordava quattro figure in miniatura, quattro immagini ritagliate nel legno: un drago che sputava fuoco, una principessa, una fata – per le teste maledette dei Grimm, quant’era facile trovare dell’ironia in ogni cosa! – e un cavaliere in armatura splendente. Tremotino dimenticò per un attimo non solo la sua rabbia, ma anche la presenza insidiosa e sibilante di Grendel in quella stanza, e chiuse le dita a pugno sul monile, chiudendo gli occhi e portandosi la mano alle labbra.
 
- Quanto manca?
- Aspetta solo un attimo…è quasi…fatto! Ecco qui.
Solleva il braccialetto in aria affinché entrambi lo possano vedere meglio; forse non dovrebbe vantarsi, ma si sente particolarmente orgoglioso della sua opera. E’ stato bravo: gli ci è voluta quasi un’ora per costruire quel bracciale, e ora è completo.
- Ti piace?
Gli occhi scuri, allegri e vivaci, fanno appena in tempo ad annuire silenziosamente prima di tornare a indagare con curiosità ogni dettaglio di quel piccolo oggetto, così piccolo da stare nel palmo di entrambi. Glielo porge con gentilezza, mentre gli occhi scuri non smettono di indagare.
- Questi cosa sono?
Indica le figurine intagliate nel legno. Tremotino sorride paziente, pronto all’ennesima spiegazione.
- Sono un drago, una fata, una principessa e un cavaliere.
- Sembra una favola!- esclama lei di rimando.- Me la racconti?
- Lo sai che non sono bravo a raccontare favole.
- Per favore!
- No, dai, facciamo un’altra volta.
- Scommetto che il cavaliere salva la principessa e uccide il drago.
Tremotino sorride di nuovo, e stavolta non è più un sorriso paziente, ma uno di quei sorrisi malandrini che la fanno ridere e spaventare insieme.
- E se invece fosse il drago, a vincere?
 
Tremotino riaprì gli occhi, mentre scioglieva la presa delle dita intorno al monile.
Mary-Anne.
Si alzò in piedi, più lucido e più calmo. Farsi prendere dalla rabbia e dai ricordi non sarebbe servito a nulla, e nemmeno sgozzare quella feccia di Grendel – per quanto quest’ultimo si meritasse anche di peggio e torturarlo fosse sempre un toccasana per i suoi nervi. Aveva un obiettivo; aveva impiegato dodici anni per raggiungerlo, e non avrebbe mandato tutto all’aria solo per colpa di due ragazzine.
Una di quelle due sgualdrinelle aveva trovato una delle chiavi d’accesso alla Pietra del Male, questo era vero; doveva ammettere di averle sottovalutate, certo, non si sarebbe mai aspettato che fossero così sveglie, specialmente la più giovane, che a una prima occhiata gli era parsa la più debole, la più sciocca e la più incapace delle due. L’aver trovato uno degli oggetti – la scarpetta di Cenerentola, ma certo!, il sogno infranto di una povera sguattera, come aveva fatto a non pensarci?! – era un notevole punto a suo favore, ma d’altra parte anche lui ne possedeva uno, e quello scricciolo era arrivata a impossessarsene per puro caso.
Sì, forse non era il caso di inquietarsi così tanto. Lui restava pur sempre in vantaggio.
Ma quelle due andavano fermate, al più presto.
- Che intendete fare, padrone?- la voce sibilante di Grendel gli giunse alle spalle, seguita dallo strisciare servile del goblin. Tremotino non si degnò di rispondere, ma afferrò un mantello nero abbandonato lì accanto, gettandoselo sulle spalle.
- Pensate di occuparvene personalmente?
- Certo che no, bestia che non sei altro!- ringhiò Tremotino.- Non è ancora il caso che lasci trasparire le mie intenzioni, mi sono già esposto abbastanza nella Foresta Incantata…Ma conosco qualcuno che potrebbe aiutarci.
- Chi, mio signore?
- Io la definirei…una vecchia amica - Tremotino ghignò, iniziando ad avviarsi in direzione della porta. Grendel lo seguì ballonzolando.
- Ma come farà a occuparsi di tutt’e due?- berciò, il volto contorto in una smorfia che lo rendeva ancora più orribile.- Non sono più insieme, ora…
- Mi hai preso per un idiota?!- tuonò Tremotino, voltandosi e guardando Grendel come se volesse ucciderlo. Forse, pensò, avrebbe veramente dovuto farlo.- Credi che non lo sappia? Il fatto che siano state separate non è altro che un ostacolo in meno al mio piano.
Tremotino s’interruppe per un istante, quindi parve calmarsi, e si aprì in un sorriso compiaciuto.
- Della bisbetica si sta già occupando il Primo Ministro, come ho avuto modo di notare…- mormorò.- Incredibile come sia cambiato in questi dodici anni…devo dire che mi ha sorpreso che si sia schierato con lei dopo tutto quello che ha fatto per deporla dal trono. E devo anche dire che la nostra amica ci sta notevolmente aiutando senza saperlo…- il mago oscuro ghignò soddisfatto.- Quanto a quel pulcino bagnato della minore…se i soldati non si occuperanno di lei e Cenerentola, quelle due si dirigeranno sicuramente in direzione del villaggio di Salem…sai che significa, vero?- Tremotino ghignò nuovamente.
Grendel iniziò a saltellare eccitato sul posto, ridendo sguaiatamente.
Tremotino si corrucciò di nuovo.
- Cos’hai da ridere, feccia?!
Prima che potesse rendersene conto, Grendel venne investito da un fascio di luce viola, che lo fece sollevare in aria e lo scaraventò dritto contro la parete opposta; il folletto scivolò a terra con un tonfo sordo, tossendo furiosamente.
Tremotino sogghignò.
- Questo dovrebbe bastare a ricordarti qual è il tuo posto…oltre che a mettermi di buon umore - ridacchiò, prima di uscire e chiudere la porta alle sue spalle.
Grendel ansimò, puntando le mani artigliate sul pavimento e tentando di rialzarti. Il suo sguardo e il suo volto erano una maschera di odio.
Maledetto. Maledetto. Maledetto. Tu chiami me bestia, ma ancora non sai che la vera bestia sei tu. E le bestie meritano di soffrire, le bestie devono pagare per la loro bestialità. Tu sei una bestia, Tremotino, e molto presto te la farò pagare.
 

***

 
New York, ore 18 p.m.
 
- Va bene, Juliet, ti ringrazio…Sì, d’accordo…Mi raccomando, se la senti, dille che mi deve telefonare subito…Certo, ti farò sapere…Grazie.
Hadleigh riattaccò la cornetta con un sospiro che a Jones fece avvertire una stretta al cuore. Il capitano chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie nel tentativo di calmare la sua emicrania e nel contempo di ragionare.
Era da due giorni che non aveva notizie delle sue figlie – aveva previsto che ci sarebbe voluto molto di più per risolvere quel caso, e invece Crawford li aveva rispediti a casa il giorno stesso, sebbene non avessero concluso nulla; il caso di Cappuccetto Rosso era ancora irrisolto, e il capitano aveva il forte sospetto che il procuratore intendesse archiviarlo al più presto, sia che l’assassino fosse stato stanato oppure no.
Hadleigh era convinto di trovare Anya ed Elizabeth a casa ad aspettarlo. Crawford aveva dato loro delle indicazioni precise, sarebbero dovute arrivare senza intoppi. E invece, quella sera rientrando non aveva trovato nessuno.
La prima cosa che gli era venuta in mente era che fossero arrabbiate con lui. E come biasimarle? Avevano scoperto brutalmente una verità che da anni, da ben dodici anni non aveva mai rivelato a nessuno, non più, dopo ciò che era successo. Era naturale che fossero incredule, magari anche sconvolte, e sicuramente infuriate.
O perlomeno, Anya di certo lo era; gli aveva urlato contro e poi lo aveva piantato lì in mezzo a quella radura in preda a una crisi isterica, di quelle che non gliene vedeva da quando era una quindicenne ribelle. E, Hadleigh lo sapeva, la sua figlia maggiore aveva un’influenza notevole sulla sorellina più piccola. Elizabeth gli era parsa più che altro incredula e stralunata, ma non arrabbiata; anche se era probabile che, tornata a casa, avesse avuto una furiosa reazione a scoppio ritardato, oppure avesse deciso semplicemente di seguire l’esempio della sorella e fargliela pagare.
All’inizio, era stata questa la sua teoria: le sue figlie se n’erano andate di casa per dargli una lezione. Gli pareva la spiegazione più ovvia – oltre che la meno agghiacciante.
Immediatamente, però, si era dovuto ricredere. Quella sera stessa aveva iniziato a fare il giro di telefonate di tutte le conoscenze delle sue figlie – era lui ad avere torto, d’altronde; il minimo che poteva fare era farsi perdonare e soprattutto dare loro delle spiegazioni –, ma questo si era protratto per due giorni senza alcuna novità.
Hadleigh aveva chiamato Doris e Juliet, le due cameriere che lavoravano insieme ad Anya al Once Upon a Time Café; sua figlia aveva borbottato qualcosa su di loro un paio di volte, e benché lui non avesse mai approvato il lavoro che Anya si era trovata dopo il liceo – lei era una ragazza intelligente, dopotutto, avrebbe potuto aspirare a molto di più che pulire i tavoli; e poi, non vedeva più di buon occhio quel mestiere dopo l’“incidente” che era accaduto una vita prima a quella che sarebbe divenuta sua moglie, all’epoca cameriera a sua volta –, aveva compreso che lei si fidasse di loro. E poi, da quel che ne sapeva, Anya non aveva molti amici al di fuori del lavoro. Era probabile che lei e Liz si fossero rifugiate a casa di una di loro.
Ma così non era stato: né Doris né Juliet avevano saputo dargli notizie in merito, anzi, sostenevano di non aver più visto Anya dal giorno in cui aveva scoperto del Regno delle Favole; Doris aveva anche aggiunto che Bowen, il loro capo, era imbestialito e che avrebbe fatto meglio a presentarsi al lavoro, se non voleva essere cacciata via a calci.
A quel punto, Hadleigh aveva iniziato a preoccuparsi, ed era andato tutti i giorni, mattina e pomeriggio, di fronte alla scuola di Elizabeth nella speranza di vederla entrare o uscire, ma non l’aveva trovata. Con l’ennesima telefonata alla preside dell’istituto, aveva scoperto che la signorina Hadleigh era già al secondo giorno di assenza ingiustificata.
Hadleigh poteva dire tutto delle sue figlie, ma non che Anya fosse il tipo da saltare il lavoro e rischiare il posto per una banale arrabbiatura, o che Elizabeth marinasse regolarmente la scuola.
Doveva essere successo qualcosa.
- Ancora niente?
La voce di Jones ruppe il silenzio; Hadleigh scosse il capo, senza voltarsi a guardarlo. Il suo collega non disse nulla, abbassando lo sguardo.
- Forse non è il caso di allarmarsi…- provò a dire dopo qualche istante.- Erano arrabbiate, magari avevano solo bisogno di sbollire…sono due ragazze, Rick…alla loro età, io andavo a scuola un giorno sì e quattro no…
Questo spiegherebbe un bel po’ di cose, pensò il capitano, con cattiveria, ma si morse la lingua. Aveva ben altri problemi che mettersi a litigare con Jones. E poi, il suo collega stava solo cercando di aiutarlo. Sospirò, scuotendo nuovamente il capo.
- No, non è da loro. Elizabeth non ha mai saltato la scuola, e Anya sa che rischia di venire licenziata…
- Forse sono a casa di un’amica…- propose Jones.- Non esistono solo le colleghe di lavoro…Anya deve pur avere qualche amico al di fuori di quelle due…come si chiamano?
- No, Anya va al lavoro e poi torna subito a casa. Non è mai stata il tipo da discoteche o roba simile…
- Un ragazzo, magari?
- Non che io sappia.
- Ed Elizabeth? Lei ha sedici anni, va a scuola, avrà delle amiche. Tutte le ragazze della sua età hanno un’amica del cuore…Ti ha mai detto niente in proposito?
- No…- Hadleigh si morse il labbro inferiore, rifiutandosi di guardare Jones. Il suo collega stava cercando di aiutarlo, è vero, ma il suo aiuto in quel momento stava avendo lo stesso effetto di una raffica di mitra contro un’ambulanza. La verità era che Hadleigh non sapeva se Elizabeth avesse un’amica del cuore, né se Anya fosse innamorata di un ragazzo…
Si maledisse; quale padre non avrebbe saputo queste cose? E il peggio era che se ne rendeva conto solo ora, quando più ne aveva bisogno, quando quelle informazioni avrebbero potuto aiutarlo a trovare le sue figlie.
- Delle compagne di classe…o forse anche lei è invaghita di qualche ragazzino…
Ma forse neanche quelle cose sarebbero potute tornargli utili; la verità era un’altra, e il capitano lo sapeva…ed era una verità agghiacciante, terribile, di quelle che ti facevano correre un brivido lungo la colonna vertebrale e stringere il cuore in una morsa.
- Oppure…
- Jones!- sbottò Hadleigh, voltandosi a guardarlo; Jones si zittì.
Il capitano sospirò per l’ennesima volta, passandosi una mano sulla fronte.
- Jones, io credo che…- esitò; aveva paura perfino a pronunciare quelle parole.- Io…ho paura che Anya e Liz non siano mai arrivate a casa.
Jones sbatté le palpebre, stralunato, quindi scosse il capo come per riprendersi da una botta dolorosa.
- Intendi…- soffiò.- Intendi dire…credi che siano…credi che siano ancora laggiù?
Hadleigh annuì, sentendo di avere la pelle d’oca sulle braccia. Jones si alzò dalla propria scrivania, andandogli incontro.
- Non è possibile…- mormorò.
- E invece ho paura che lo sia - ribatté il capitano, appoggiandosi al bordo della propria scrivania per sostenersi. In fondo al suo cuore c’era ancora un debole barlume di speranza che Jones avesse ragione e le sue figlie fossero soltanto arrabbiate, ma questo si affievoliva ogni secondo che passava.
- Non sono mai tornate. Sono ancora in quel posto. Devo andare a riprenderle.
Jones scosse con vigore il capo, afferrando Hadleigh per una spalla.
- No! Senti, Rick, io capisco le tue ragioni, ma tu non puoi…
- Tu non capisci niente!- ringhiò il capitano, divincolandosi dalla presa.- Tu vivi ancora con tua madre! Non hai dei figli, non sai che significa, non puoi…
Jones aggrottò le sopracciglia, quindi lo afferrò per le braccia, costringendolo a guardarlo negli occhi.
- No, è vero, non ho figli e non posso capire - sibilò.- Ma posso comunque immaginare come ti senta tu in questo momento. Rick, lo so che tu mi consideri solo un grassone che non ha mai combinato niente nella vita e a trent’anni è qui ad ammuffire, ma adesso ascoltami!
Hadleigh si liberò dalla presa, arretrando di un passo.
- Senti, Rick…tu adesso hai il sangue alla testa, sei preoccupato e non ragioni - proseguì Jones.- So che sei in ansia, ma adesso devi cercare di essere lucido. Non sai se Anya ed Elizabeth sono ancora nel Regno delle Favole o no. Mancano da casa solo da due giorni, e non abbiamo ancora considerato tutte le possibilità…
- Non capisci! Io lo sento…- Hadleigh lo guardò con un misto di rabbia e disperazione.- Non sarò un granché come padre, ne sono consapevole, ma lo capisco quando c’è qualcosa che non va…sempre…
Sempre, si ripeté mentalmente. Sempre…o quasi.
 
- Jones? Ma dove diavolo sei?! Senti, non…no, ascolta…non m’interessa se l’ufficio rimane vuoto, tanto cosa vuoi che succeda?! Ho bisogno di te…Sbrigati!...No, io non…ascolta, ho bisogno che stai con le bambine per un paio d’ore…è successa una cosa…no…no…sì, lei ha…senti, giuro che domani ti spiego tutto, ma adesso vieni qui, alla svelta!
La cornetta del telefono finisce scaraventata dall’altra parte della stanza, quindi Hadleigh si volta e incrocia di nuovo gli occhi arrossati e carichi di pianto di sua moglie. Le corre incontro, afferra un altro asciugamano e glielo avvolge intorno al braccio. Subito il bianco si tinge di rosso.
- Ecco, tienilo stretto…
- Mi dispiace…
La voce di Christine è un pigolio. Richard alza lo sguardo sul suo volto, sicuro che non vedrà nulla della donna che ha sposato sette anni prima. Christine è pallida, smagrita, gli occhi sono cerchiati dalle lacrime continue.
- Mi dispiace…mi dispiace tanto…
A pochi passi da lei giace abbandonato il coltello che ha usato per tagliarsi le vene del braccio.
- Scusami, Rick…
E’ da più di un anno che va avanti così, ma da tre mesi è peggiorata. Ora sembra che le piaccia farsi del male. Prima erano tagli piccoli, sulle gambe e le braccia, ma adesso ha davvero provato a suicidarsi.
La colpa è sua, e lo sa. Non dovrebbe far finta di niente. Non dovrebbe fingere di non aver tradito il segreto, non dovrebbe fingere che vada tutto bene, fingere che Christine non sia sempre triste e apatica, e che quando non è triste e apatica piange e si fa del male, e che quando non piange e non si fa del male è arrabbiata e gli urla contro oppure si sfoga sulle bambine; non dovrebbe fingere di non vedere che Liz ha improvvisamente perso il vizio di rispondere “no” a tutto ciò che le si chiede e si affretta a ubbidire e si ritrae spaventata quando c’è la madre nei paraggi, e che Anya ha smesso di sorridere e ha preso a chiudere la porta della sua stanza quando gioca o è ora di andare a letto.
E anche adesso non dovrebbe fingere che non sia successo nulla e abbracciare sua moglie dicendole che non è successo nulla, che va tutto bene, quando nientenon va più bene da tempo, ormai.
Ma non sa che altro fare.
- Non importa, non è niente, ora aspettiamo che arrivi Jones e ti porto in ospedale…
- In ospedale?!
Lo sguardo di Christine è un abisso di paura a quell’esclamazione, e pare quasi che voglia scappare da lui come se avesse in mano una falce e una clessidra.
- Perché? Perché mi vuoi portare in ospedale?
- Per…perché lì possono medicarti…
Richard sa cosa sua moglie sta pensando, perché – e se ne vergogna, se ne vergogna profondamente – in segreto ci ha pensato anche lui. E ora si chiede se non sia davvero meglio così.
- Io non sono pazza!- Christine scoppia a piangere, e la sua espressione implorante è quanto di più straziante il suo cuore possa sopportare.- Perché credi che io sia pazza? Perché vuoi farmi rinchiudere?
- Tu non sei pazza, io non voglio assolutamente…
- Non farmi rinchiudere!- le lacrime le rigano il viso mentre il sangue imbratta l’asciugamano.- Non lo faccio più…Per favore, Rick…
Sospira; ultimamente sembra che non sappia fare altro.
- Per favore…non lo faccio più…farò la brava…farò la brava…non lo faccio più, te lo prometto…
E ancora una volta, le crede. Non è la prima volta che lei gli fa questa promessa, eppure lui ci ricasca sempre. Non vuole farla rinchiudere in un ospedale psichiatrico, e anche se volesse non potrebbe mai farlo, perché Christine è pur sempre sua moglie, ha promesso che le sarebbe stato accanto nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non li separi, e poi lui la ama, lei è la madre delle sue bambine, e nonostante tutto ancora gli piace illudersiche le cose miglioreranno, presto, molto presto.
- Mamma? Papà, che cosa succede? Cos’ha la mamma?
Si voltano entrambi.
Elizabeth è sulla soglia della cucina, i grandi occhi scuri che ha ereditato da lui puntati contro di loro.
Ha visto tutto.
 
- Se è così, allora non ci resta che pregare!- sbotta Jones.- Sai cosa succede a chi entra là dentro…ricorda cos’è successo a Fraser e alla sua famiglia…
Hadleigh si bloccò, ritornando con la mente a dodici anni prima: il capitano Fraser era stato il suo predecessore, nonché il suo mentore e colui che lo aveva introdotto in quel dipartimento e allo strambo mondo di cui si occupava.
Richard Hadleigh aveva perso entrambi i genitori quando aveva quindici anni, e Fraser era stato una sorta di figura paterna, per lui. Avevano lavorato insieme prima all’esterno e poi all’interno del Dipartimento Favole…finché un giorno, così di botto, Fraser era scomparso nel nulla. E con lui tutta la sua famiglia. Non avevano mai ritrovato i corpi.
Alla fine, era rimasto vittima di ciò che gli aveva sempre insegnato. Il Regno delle Favole era un posto meraviglioso, per certi versi, dove tutto sembrava perfetto, dove chiunque, se si comportava bene e aveva un pizzico di fortuna, aveva il suo lieto fine e viveva per sempre felice e contento.
Ma bisognava stare attenti, gli ripeteva sempre all’inizio della sua carriera, perché nascondeva molte più insidie di quanto non sembrasse.
Se non ci si muoveva con estrema cautela, tutta quella perfezione e quel tanto bramato lieto fine finivano per conquistarti…e alla fine, il Regno delle Favole ti inghiottiva.
- E’ per questo che non dobbiamo mai parlarne con nessuno - gli aveva detto un giorno.- Credimi, Richard, mi pesa non poco nascondere la verità a mia moglie e ai miei bambini, ma in fondo è per il loro bene che lo faccio…
- Lei ha figli, capitano?
Fraser aveva riso con fare bonario, ma il suo sguardo era carico di tenerezza.
- Sì, un ragazzino di tredici anni e una bambina di otto. E’ per lei che sono preoccupato. Sai, il grande sta entrando in un’età a cui non credi più alle favole, ma la piccola non parla d’altro se non di principi e principesse. Se le raccontassi la verità, molto probabilmente scapperebbe di casa…- aveva il suono di una battuta, ma Fraser era più serio che mai.- E’ per questo che dobbiamo impegnarci a mantenere il segreto. E’ dura mentire alle persone che ami, ma è per loro che lo fai. Vedi, Richard, il Regno delle Favole è insidioso. Ti fa credere che potrai avere il tuo lieto fine, e così tu ti lasci trascinare…divieni parte di quel mondo, un mondo che non ti appartiene e in cui non potrai mai essere accettato…e finisci per passare dalla parte più oscura delle fiabe. A quel punto, sai che non avrai mai un lieto fine.
Una settimana dopo, Fraser, sua moglie e i suoi figli erano scomparsi.
Le voci che giravano in merito a questo fatto erano parecchie: chi diceva che Fraser si era indebitato con il gioco d’azzardo clandestino, chi sosteneva fosse un poliziotto corrotto, che il figlio maggiore fosse un teppista e se ne fossero andati per scampargli il riformatorio, che la bambina fosse malata, che la moglie avesse un amante e volessero salvare il matrimonio…
E chi, all’interno del Dipartimento, sussurrava che le favole li avessero portati via.
- E’ proprio per questo che devo andare a cercarle!- sbottò Hadleigh, chiedendosi perché mai stesse ancora lì a discutere e non se ne fosse ancora andato.- Se davvero sono ancora in quel maledetto luogo, allora non sono al sicuro! Ricordi cos’è successo a Cappuccetto Rosso e alla nonna? C’è qualcosa che non va, Jones, c’è un assassino a piede libero…non voglio che le mie figlie…
- E non pensi a te?- insistette Jones.- Ricordi cos’ha detto Fraser a tutti e due? Dio solo sa cosa potrebbe capitarti, là dentro…Potresti impazzire…ricordati di tua moglie…
Hadleigh s’irrigidì di colpo, arretrando con furia quasi Jones lo avesse appena schiaffeggiato.
- Non permetterti di parlare di lei!- ringhiò.
- Perché? Sindrome di Stoccolma, forse? Oppure è una cosa alla Bonnie e Clyde?- lo beffeggiò Jones.
Richard scattò in avanti, afferrandolo per il bavero della camicia; Jones non si oppose, rimanendo impassibile.
- Tu non sai niente…!- sibilò il capitano.
- So quello che mi raccontasti tu dodici anni fa. Ed è abbastanza!- Jones si liberò dalla presa con furia, ma sostenne lo sguardo del collega.- E’ successo dopo che tu hai tradito il segreto, vero? Dopo che le hai mostrato il Regno delle Favole.
Hadleigh scosse il capo con forza.
- No! No, Christine stava male già prima…
- Ma l’averle detto la verità ha dato la botta decisiva, dico bene?
- Soffriva di depressione, le cose sarebbero comunque…
- Soffriva di depressione?!- ripeté Jones, guardandolo con incredulità.- Soffriva di depressione, dici? Richard, tua moglie non era depressa…era pazza!
Hadleigh non rispose; si sentiva come se l’avessero pugnalato, come se si fosse beccato una pallottola dritta nel cuore.
- Era pazza, Rick…- soffiò Jones.
- No, lei non era…
- Rick, so che è dura da ammettere, ma credimi: quando uno è depresso piange in continuazione, non mangia, è apatico, non si cura di niente e nessuno, si fa del male e magari cerca anche di suicidarsi…ma quando sei depresso non cerchi di uccidere i tuoi figli!
Il capitano ansimò; sentiva la fronte madida di sudore e il cuore che batteva furiosamente nel petto. Sentiva il suo stesso sangue rimbombargli nelle orecchie.
Jones aveva volontariamente gettato sale su ferite mai del tutto rimarginate.
Christine era scomparsa da dodici anni, ormai; così, proprio come il capitano Fraser e la sua famiglia.
Sparita nel nulla.
Scomparsa proprio lo stesso giorno in cui aveva tentato di…
Hadleigh scosse il capo, mentre ricordi e pensieri dolorosi tornavano ad affollargli la mente. Non aveva idea di dove fosse Christine, né se fosse viva o morta. Supponeva di sì, che fosse morta. Le ricerche di sua moglie erano durate settimane, ma il suo corpo non era mai stato ritrovato. Probabilmente doveva essersi suicidata, gettandosi in mare, magari.
Ma se era viva…dove si trovava in quel momento? Con un altro uomo, magari? No, impossibile. Christine non era nelle condizioni di rifarsi una vita, non in quello stato.
L’ultimo ricordo che aveva di lei erano i suoi passi che rimbombavano lungo la scala antincendio del palazzo in cui vivevano. Non l’aveva inseguita, troppo impegnato a cercare di rianimare Anya e sciogliere Elizabeth da quelle corde dopo che il cuore della maggiore aveva ripreso a battere.
Le ricerche si erano protratte per settimane, durante le quali Hadleigh si era sentito addosso gli sguardi di scherno e falsa pietà dei suoi colleghi, quando più volte si era preso il capo fra le mani nell’incapacità di spiegare alle sue figlie perché la loro madre avesse fatto quel gesto orribile, ogni volta incrociando Christine che gli sorrideva dalla fotografia distribuita a tutte le volanti.
Hadleigh in quei momenti non sapeva nemmeno se voleva o no che sua moglie venisse ritrovata. Negli anni a venire, si era domandato più volte se fosse ancora innamorato di lei.
Come si poteva amare una donna del genere, dopo ciò che aveva fatto?
- Non m’interessa - dichiarò ad alta voce. - Mia moglie non c’entra nulla, in questa storia. Sono le mie figlie, Jones, e si trovano in quel posto tremendo. Devo andare da loro, prima che le trovi qualcun altro…
Jones esitò per un istante, quindi lo guardò negli occhi.
- Va bene - concesse.- Ma se credi che ti lascerò andare da solo, ti sbagli di grosso. Io vengo con te.
- E io invece dico che nessuno di voi due andrà da nessuna parte!
Hadleigh sobbalzò, vedendo nel contempo Jones sgranare gli occhi; sentì qualcosa premere contro la sua schiena, proprio in mezzo alle scapole – qualcosa che identificò come la canna di una pistola.
- Alzi le mani, capitano! Agente Jones, un solo passo e sparo al suo collega!
Jones rimase immobile, respirando appena; Hadleigh alzò lentamente le mani, riconoscendo la voce alle sue spalle come quella del procuratore Crawford.
 

***

 
Il suono delle onde del mare si confondeva al rumore delle vele che venivano spiegate e alla corsa degli uomini incitati da un grido di lavoro. Il vento soffiava nella direzione giusta, forte e impetuoso, e la Jolly Roger navigava velocemente sullo specchio d’acqua.
Un cannocchiale avvistò la terraferma in lontananza ancor prima che la vedetta sull’albero maestro ne annunciasse la presenza.
- Capitano! Terra in vista!
Il capitano sorrise compiaciuto, riponendo il cannocchiale. Fece cenno al timoniere di scostarsi, quindi prese egli stesso il timone.
- Spiegate quelle vele! Più veloci!- gridò.
Gli uomini si affrettarono a ubbidire; il capitano fece un altro sorriso compiaciuto, mentre il suo uncino d’argento risplendeva al sole.
 
 
 
 
Angolo Autrice: Sono consapevole di tre cose, riguardo a questo capitolo:
a)      è palesemente di passaggio;
b)      avevo promesso Anya e PM, ma non ho mantenuto la mia promessa;
c)      probabilmente l’avrete trovato palloso e vi starete odiando a morte, oltre che maledicendomi;
…tutto ciò che posso dire è: PERDONO!!!!!
Spero vorrete ancora seguire questa storia e che non ve la siate presa troppo a male, ma questo capitolo andava fatto per esigenze narrative, capirete il perché. Dunque, da quanto ho capito so che la coppia Anya/Primo Ministro è parecchio gettonata e Anya sta nella top 10 dei personaggi preferiti in questa storia (e non sapete quanto questo mi lusinga!) e mi dispiace di non averli inseriti, ma il prossimo capitolo sarà quasi interamente dedicato a loro. Faccio dei piccoli spoiler riguardo al seguito, chi non vuole brutte o belle sorprese (o semplicemente chi non vuole sorprese di ogni genere) non legga!
Dunque, nel prossimo capitolo Anya e il PM inizieranno ad avvicinarsi, anche se prima che sbocci l’amore ce ne vorrà…Quanto agli altri personaggi, anche Elizabeth, Cenerentola, il Cacciatore, Jones (sì, avete capito bene) e Tremotino (sì, avete capito bene anche stavolta :P) saranno coinvolti in qualche love story…a voi indovinare i pairings XD!
Passando al capitolo: abbiamo capito che Tremotino nasconde un passato, ma chi è questa Mary-Anne? Cos’ha in mente per Elizabeth e chi è la vecchia amica di cui parla? Che intenzioni ha Grendel, il quale è palesemente inferocito? E ancora, si sa qualcosa di più riguardo al Primo Ministro, che a quanto pare non è sempre stato dalla parte della Regina, e alla moglie di Hadleigh…ma che fine ha fatto? E cos’ha fatto ad Anya e Liz? Cosa l’ha spinta a quel gesto? E dove sono finiti Fraser e la sua famiglia?
Ora si sa chi è la spia nel Dipartimento Favole (e complimenti a tutti quelli che hanno indovinato :), ma perché Crawford si è schierato dalla parte della Regina Cattiva?
E abbiamo una new entry…credo che abbiate compreso chi è ;). Che combinerà?
Per scoprirlo, non vi resta che sopportare ancora un po’ la mia petulante presenza.
Comunicazione di servizio: questa storia d’ora in avanti sarà aggiornata una volta a settimana (due se sarò impegnata). Ringrazio 1252154, NevilleLuna, cleme_b, Princess Vanilla e LadyAndromeda per aver recensito.
Ciao, un bacio,
Dora93

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Capitolo 12
*** Until the End of the Last Hope ***


Until the End of the Last Hope

 
Quando era bambino gli ripetevano sempre che non era prudente inoltrarsi nella Foresta Incantata dopo il calare del sole. Il Cacciatore ricordava bene come il suo migliore amico – almeno, una volta lo era…ora era il Primo Ministro, il traditore. Non era più l’uomo che solo fino a tre anni prima l’aveva affiancato nella ribellione contro la nuova Regina – sbuffava dicendo che erano tutte sciocchezze volte solo a spaventare i bambocci e a mandarli a letto quando veniva loro richiesto. Al massimo, diceva sempre, nella Foresta Incantata potevi trovare delle ridicole fatine.
Quanto a lui, non aveva mai saputo se avesse ragione lui oppure sua madre: sapeva solo che la Foresta Incantata, a dispetto del nome che portava, nascondeva molte più insidie di quanto non si sospettasse, evitabili se si prestava attenzione, ma anche nocive o letali, se le si prendeva alla leggera.
Era meglio non inoltrarsi nella Foresta Incantata di notte. Non era prudente. Ed era ancora meno prudente continuare una marcia nel buio, alla cieca, disarmato e in fuga come stava facendo lui in quel momento. Ma non aveva scelta: doveva allontanarsi dal castello della Regina Cattiva e dalla città di Nottingham il più in fretta possibile, se non voleva essere riacciuffato.
Non poteva fermarsi, non ora.
Dato che ora era un Uomo Lupo, non avrebbe avuto difficoltà in uno scontro corpo a corpo, ma era meglio non mettere alla prova questa certezza. E poi, forse avrebbe anche potuto cavarsela contro un avversario, o magari anche due, tre o quattro, ma che avrebbe fatto di fronte a dieci o quindici soldati?
E se non fossero stati gli uomini della Regina a raggiungerlo? Se avesse incontrato qualcuno di armato?
Era un mostro, sì, ma non immortale. Una spada avrebbe potuto trafiggerlo…senza contare che non avrebbe potuto in alcun modo combattere la magia nera.
Il Cacciatore si chiese come avrebbe fatto se, in quel momento, si fosse trovato di fronte un goblin, o magari lo stesso Tremotino, il mago oscuro più potente e temuto di quel mondo.
O forse, il Primo Ministro.
Il Cacciatore digrignò i denti, sferrando un pugno nell’aria al pensiero dell’uomo che l’aveva tradito. E non solo lui. Aveva tradito Lady Marian, aveva tradito la ribellione, aveva tradito tutto ciò in cui credevano e per cui avevano combattuto. Era per colpa sua, più sua che della Regina Cattiva se ora lui era un mostro sanguinario, un assassino, se Cappuccetto Rosso e la nonna erano morte, se Lady Marian era prigioniera in quella cella…
Già, Lady Marian. Il Cacciatore non riusciva a smettere di pensare a lei; si sentiva in colpa, non riusciva a capacitarsi di essersene andato senza di lei, senza essere riuscito a liberarla, lasciandola inerme fra le grinfie della Regina…Ma in compenso, Lady Marian era stata abbastanza lucida da spiegargli con esattezza come stavano le cose.
Ora il Cacciatore sapeva che la Salvatrice era arrivata…e che il Primo Ministro era alla sua ricerca.
E lui doveva fermarlo, prima che fosse troppo tardi; c’era in gioco qualcosa di troppo grande, e la Salvatrice, chiunque ella fosse, era l’unica che poteva mettere fine a quella follia. E lui non poteva permettere che il Primo Ministro la trovasse prima di lui.
Il Cacciatore si arrestò di fronte a un grosso albero: il tronco era spesso, ruvido, di quel tipo adatto per fabbricare utensili e difficile da spezzare con il solo aiuto di un’accetta, rifletté. In tutta la sua vita era stato sempre un cacciatore, e aveva imparato a riconoscere non solo il tipo di legno e a catalogare le varie piante, ma anche a scoprire i segreti della Foresta.
Lasciò correre lo sguardo lungo il tronco, passando al vaglio ogni inclinazione e squarcio della corteccia: la Regina non era stupida, sapeva che un albero del genere sarebbe stato difficoltoso da abbattere, e che molto probabilmente chi ci avesse provato si sarebbe subito arreso…quale posto migliore di una corteccia intoccabile per collocare un passaggio segreto?
Un tempo, quel genere di portali erano controllati dalle fate del bosco, ma ora era la Regina ad avere la supremazia su tutto – o quasi, per fortuna. Il Cacciatore aveva imparato a riconoscerli dodici anni prima, quando si era arruolato nelle file dei ribelli. Erano preziosi, molto utili soprattutto quando eri in fuga e non avevi possibilità di fronteggiare il tuo nemico. Avevano solo due piccoli inconvenienti: il primo, era che una volta utilizzati una volta, questi si chiudevano per sempre; il secondo, che non sapevi mai con certezza dove saresti potuto capitare. Potevi ritrovarti nella capanna della Fata Turchina, al sicuro, così come c’era la possibilità di finire dritti nel pentolone di un Orco.
Oppure, ora che era la Regina Cattiva a controllarli, di nuovo nelle segrete del suo castello.
Il Cacciatore inspirò a fondo, chiudendo gli occhi per poi riaprirli immediatamente, puntando lo sguardo contro il simbolo del portale: un cerchio intagliato nella corteccia.
Quel portale era ancora inutilizzato…ma lui era sicuro di volerlo attraversare?
Era probabile che la Regina avesse incantato i passaggi segreti in modo che conducessero tutti al suo castello. Era un rischio che non poteva permettersi di correre: non voleva ritrovarsi in catene un’altra volta, e aveva una missione da compiere.
Tuttavia, ora che la Salvatrice era finalmente arrivata, aveva buone speranze che la magia della Regina si fosse indebolita. E poi, il Primo Ministro era a caccia della prescelta, senza contare che lui era ancora troppo vicino al castello.
Doveva fare un tentativo.
Prese un altro profondo respiro, e premette il palmo della mano contro il cerchio.
 

***

 
- Prendetele!
Navarre e i suoi le stavano raggiungendo. Elizabeth si voltò, senza smettere di correre: c’erano solo il capitano e altri due soldati, ma loro due erano comunque sole, disarmate e, per quanto riguardava Cenerentola, ferite. La bionda riusciva a correre a fatica a causa del taglio sanguinante sulla gamba, e già iniziava a rallentare la corsa. Elizabeth sentiva i polpacci doloranti, respirava a fatica e iniziava a provare dolore alle cosce e all’altezza della milza.
Quasi non si accorse che la loro fuga si era spinta fino alle soglie del villaggio, e che ora stavano correndo in mezzo agli alberi.
Cenerentola crollò in ginocchio sull’erba, emettendo un gemito di dolore. Elizabeth arrestò la propria corsa; le attraversò la mente solo per un secondo la domanda sul perché il sangue che sgorgava dalla sua gamba fosse improvvisamente divenuto nero, quindi la raggiunse, afferrandola per un braccio.
- Alzati!- gridò, quasi implorando.
Cenerentola scosse il capo con forza, ansimando furiosamente.
- No…lasciami qui, vattene via…
Elizabeth scosse il capo, cercando di tirarla in piedi.
- Forza, alzati…
- Liz, vattene!
Elizabeth non sapeva perché se la prendesse così tanto: Cenerentola era solo un personaggio delle favole, in fondo, si sarebbe quasi potuto dire che non fosse reale, se non fosse stata proprio lì accanto a lei, e in ogni caso neppure la conosceva. Ma sentiva che non poteva abbandonarla lì.
- Eccole, le puttanelle!
Cenerentola ed Elizabeth trasalirono nell’udire la voce di uno dei soldati alle loro spalle. La brunetta si sentì afferrare per un braccio e allontanare con forza dall’amica, ancora inginocchiata a terra. Elizabeth non fece in tempo a vedere cosa ne fu di Cenerentola, perché uno dei soldati la spinse violentemente a terra. Elizabeth sentì una mano inguantata avvolgerle la gola, premendole la nuca contro l’erba.
- Che ne facciamo di loro, capitano?
Elizabeth vide con la coda dell’occhio Cenerentola che veniva atterrata a sua volta, mentre un altro soldato le premeva il torace e la guancia contro il terriccio. Nel contempo, avvertì la lama fredda di una spada graffiarle la giugulare.
Udì i passi del capitano Navarre affondare nel fango che ricopriva il terreno della Foresta Incantata. I secondi le parvero durare secoli.
- Uccidetele.
Elizabeth trattenne il fiato, sentendo il cuore balzarle via dal petto; non riusciva a pensare a nulla, vedeva solo la spada del soldato alzarsi sopra di lei.
D’un tratto, la stretta intorno alla gola cessò; una frazione di secondo dopo, anche la lama sparì dalla sua vista, così come il corpo del soldato. Elizabeth lo vide sbalzare di lato, fluttuando a mezz’aria, prima di finire contro lo stesso capitano Navarre. I due uomini caddero al suolo con un tonfo sordo misto allo sbatacchiare delle loro armature.
Elizabeth alzò lo sguardo: di fronte a lei c’era un uomo di circa quarant’anni, molto alto e dalla corporatura massiccia, con addosso una casacca marrone lisa e strappata, il volto ricoperto da una leggera barba e da graffi e tagli.
Il soldato che tratteneva Cenerentola contro il suolo voltò il capo in direzione del suo compagno e del capitano accasciati al suolo; l’uomo approfittò del suo momento di distrazione, e subito lo afferrò per il bavero della cotta, sollevandolo di peso. Il soldato lasciò la presa ai polsi di Cenerentola, imprigionati dietro la schiena; la bionda emise un gemito a metà fra il dolore e il sollievo, tentando di rialzarsi.
Il Cacciatore strinse con forza la mano intorno alla gola del soldato: l’uomo emise un gracchiare soffocato, cercando di respirare; il Cacciatore aumentò ancora la stretta, tenendolo sospeso a mezz’aria. Presto, gli occhi del soldato divennero vitrei, il volto cianotico, la lingua prese a penzolare al di fuori della bocca; Elizabeth vide il Cacciatore lasciare cadere al suolo il suo corpo senza vita.
Cenerentola ansimò, sollevandosi in ginocchio. Puntò gli occhi contro l’uomo di fronte a lei, quindi il suo sguardo si dipinse di orrore quando scorse Navarre alle sue spalle alzarsi e brandire la spada. Provò a urlare, ma il capitano fu più veloce della sua voce, e colpì il Cacciatore alle spalle, ferendolo di striscio a un fianco. L’uomo emise un gemito di dolore, mentre i suoi occhi ebbero una scintilla giallo brillante; si voltò con una velocità innaturale, quasi animalesca, e bloccò il braccio di Navarre un attimo prima che questi affondasse un altro colpo. Il Cacciatore fece inclinare la spada verso il suo avversario, quindi spinse Navarre lontano da sé; il capitano barcollò, finendo in ginocchio a terra con un urlo di dolore. Lasciò cadere la spada, portandosi una mano all’altezza dell’occhio sinistro: Cenerentola ed Elizabeth videro la sua mano imbrattarsi di sangue.
Navarre ringhiò, puntando l’occhio sano contro il Cacciatore: incontrò due iridi gialle, spaventose, mentre le pupille erano ridotte a due lunghe e strette fessure. Il capitano si rialzò barcollando, prendendo a correre seguendo l’altro soldato, anch’egli datosi alla fuga.
Solo quando furono abbastanza lontani Elizabeth si ricordò di respirare. Incontrò lo sguardo incredulo e sconvolto di Cenerentola, quindi entrambe puntarono gli occhi sull’uomo di fronte a loro.
Il Cacciatore non parve accorgersi del loro sguardo: ansimò, mentre gli occhi tornavano del loro naturale color castano scuro. Emise un gemito soffocato, portandosi una mano al fianco ferito che aveva preso a spillare sangue rosso scuro, che in un attimo si chiazzò di nero. Il Cacciatore si voltò barcollando in direzione delle due ragazze: boccheggiò, quasi a voler dire qualcosa, ma subito emise un altro gemito, prima di crollare sulle proprie ginocchia; si accasciò al suolo, gettando il capo all’indietro mentre crollava sull’erba. Cenerentola si gettò verso di lui, provando a sostenerlo per le spalle, ma il peso era eccessivo, e la bionda poté solo rallentare la caduta ed evitare che il capo sbattesse contro il suolo.
Il Cacciatore chiuse gli occhi, privo di sensi.
 

***

 
New York, ore 18:15 p.m.
 
Crawford fece cenno a Jones di arretrare di un passo: l’agente ubbidì, lentamente, facendo saettare lo sguardo dal procuratore al suo collega, ancora con le mani alzate sopra la testa e la calibro 38 puntata in mezzo alle scapole.
Hadleigh ansimò, cercando di ragionare. Che diamine stava succedendo? Cosa stava facendo Crawford? Aveva origliato tutta la sua conversazione con Jones, sapeva cosa era successo, allora che…
Lo sguardo gli si posò su una delle fotografie incorniciate che teneva sulla scrivania: raffigurava le sue figlie; l’aveva scattata lui stesso circa due o tre anni prima. Era il compleanno di Liz, compiva tredici anni. Le due ragazze erano sedute sul divano di casa: Elizabeth, con il volto ancora infantile, si apriva in un timido sorriso, mentre Anya le avvolgeva un braccio intorno alle spalle, ridendo come poche volte l’aveva vista fare. Non poteva credere che fosse trascorso così tanto tempo, da quel giorno, e che ora le sue figlie fossero nel Regno delle Favole…perché avevano seguito le indicazioni di Crawford!
La rabbia lo assalì partendo dal cuore nel petto, che prese a pulsare più furiosamente, facendogli tremare le braccia alzate sul capo e il sangue salire fino alla testa. Non gli interessava quasi più di avere una rivoltella puntata alla schiena: voleva solo girarsi e ammazzare Crawford con le proprie mani.
La sorpresa era sparita, e non aveva neppure fatto in tempo a provare paura, ma una domanda restava: perché?
Perché Crawford aveva mentito in modo che Anya e Liz si smarrissero? Perché ora stava minacciando lui e Jones e puntandogli una pistola addosso?
Ora gli era più chiaro anche il perché il procuratore avesse avuto tanta fretta di rispedirli a casa pur senza aver risolto il caso di Cappuccetto Rosso…ma perché?
Perché tutto questo?
- Si tolga la pistola dalla cintura e la getti lontano da sé - intimò Crawford, sempre rivolto a Jones. L’agente ubbidì, slacciandosi la rivoltella dalla cintola e posandola sul pavimento, per poi allontanarla da sé con un calcio. Hadleigh vide l’arma scivolare fino a finire sotto il termosifone contro la parete.
Il capitano sentì Crawford portare una mano all’altezza della sua cintura, infilando le dita nella fondina ed estraendone la propria pistola di ordinanza. Il procuratore la puntò contro Jones.
- Apra il cassetto della scrivania e prenda le manette - ordinò.- In fretta. E non faccia scherzi, o sparo a entrambi.
Jones si affrettò a spalancare il cassetto e a estrarne le manette. Crawford diede un colpo con la canna della calibro 38 alla schiena di Hadleigh, facendolo inginocchiare sul pavimento, quindi fece cenno a Jones di avvicinarsi.
Prese entrambi i polsi del capitano, unendoli insieme.
- Lo ammanetti alla scrivania.
Jones ubbidì, mettendo le manette ai polsi di Hadleigh e legandole intorno a una delle gambe della scrivania; gli rivolse uno sguardo terrorizzato, prima di rialzarsi e tornare a guardare il procuratore.
Crawford ripose la propria calibro 38 nella fondina, continuando a tenere la rivoltella di Hadleigh puntata contro Jones; gli lanciò delle altre manette con la mano libera.
- Ora faccia lo stesso con i suoi polsi. Si muova!
Jones si affrettò a compiere quanto ordinato, ammanettandosi i polsi all’altra gamba della scrivania di Hadleigh. Ora erano tutti e due inermi, pensò il capitano; avrebbe potuto fare di loro tutto ciò che voleva, senza che potessero ribellarsi o difendersi.
Crawford squadrò attentamente entrambi, prima di aprirsi in un sorrisetto compiaciuto.
Prese a passeggiare per la stanza con una lentezza snervante; Hadleigh lo vide soffermarsi brevemente su Jones e sul suo viso tondo, prima di avvicinarsi a lui. Il capitano lo guardò negli occhi: le iridi di Crawford erano grigie come il metallo, dure, senza alcuna emozione.
Il procuratore si umettò le labbra, guardandolo attentamente.
Prima che Hadleigh potesse accorgersene, Crawford lo colpì violentemente al viso con la canna della pistola; il capitano ringhiò, sentendo un forte bruciore all’altezza del sopracciglio destro. Una striscia di sangue caldo iniziò a corrergli giù per la guancia.
- Erano anni che desideravo farlo. E devo dire che ne è valsa l’attesa - commentò Crawford, senza alcuna inflessione nella voce.
Hadleigh emise un altro ringhio soffocato, puntando gli occhi in quelli del procuratore.
- Perché?- ruggì; il dolore alla ferita era niente rispetto alla rabbia che provava per ciò che quell’uomo aveva fatto alle sue figlie.- Perché sta facendo questo? Dove sono le mie figlie? E’ stato lei a farle perdere in quella maledetta foresta, figlio di puttana!- sputò fuori.
Jones ansimò, cercando di decifrare l’espressione del procuratore; Crawford guardò Hadleigh ancora per qualche istante, quindi le sue labbra avvizzite si distesero lentamente in un sorriso di scherno. Il capitano si soffermò sul volto dell’uomo: aveva sempre pensato che il procuratore Crawford fosse vecchio, ma solo ora si rendeva conto di dettagli che gli erano sempre sfuggiti, prima di quel momento.
Albert Crawford non era vecchio; anzi, non poteva avere più di cinquant’anni. Ma era avvizzito. La pelle rugosa era pallida, di un pallore malsano, e cascante, le guance infossate, gli occhi cerchiati e i capelli bianchi e radi. Era alto e allampanato, e magro. Troppo magro.
Sembrava quasi malato.
- Perché, mi chiede, capitano Hadleigh?- soffiò Crawford.- Perché, di che cosa? Perché l’ho colpita? Perché ho ammanettato lei e questa palla di lardo alla scrivania?- l’uomo riprese a passeggiare lentamente per la stanza, senza smettere di far saettare lo sguardo dall’uno all’altro.- Perché ho fatto in modo che quelle due mocciose non ritornassero a casa? O forse, vuole sapere perché sono invischiato in tutta questa storia, perché sto facendo tutto questo?
Crawford giocherellò distrattamente con la pistola, facendo passare l’indice sopra il grilletto; Hadleigh e Jones lo videro afferrare una seggiola poco distante e posarla di fronte a loro, prima di sedersi sopra senza smettere di fissare il capitano.
- Bene, in tal caso le darò una risposta per ogni domanda. La prima: perché mi andava di farlo - il procuratore ridacchiò.- La seconda: beh, mi pare abbastanza evidente. Non voglio che usciate da qui, né tantomeno che voi due ritorniate in quel ridicolo mondo e roviniate ciò a cui la Regina sta lavorando da ben dodici anni.
- La Regina?- sputò Jones.- La Regina Cattiva? Quella di Biancaneve?
- Che cosa?!- Crawford scoppiò a ridere.- Quella l’abbiamo ammazzata anni fa. Sempre fissata con quella storia dell’essere la più bella del reame, in perenne conflitto con Biancaneve…Non era adatta al compito che dovevamo portare a termine.
- Non è possibile!- protestò Jones.- Se fosse accaduta una cosa del genere, noi l’avremmo immediatamente saputo…
- Beh, temo che la nuova Regina abbia preso delle precauzioni molto attente, a riguardo.
- Dove sono le mie figlie?- ringhiò Hadleigh, scattando in avanti ma venendo subito bloccato dalle manette.- Cosa ne hai fatto di loro? Perché hai indicato loro la strada sbagliata?
- Io?- fece Crawford.- Io non ho fatto proprio niente. Non ho torto loro un capello, anche se non posso garantire lo stesso per gli altri abitanti del Regno delle Favole…- scosse il capo. - Sul perché ho fatto in modo che si perdessero…- Crawford si alzò, arrivando a pochi centimetri da Hadleigh.- Beh, capitano, sappia che le sue figlie sono coinvolte in qualcosa di molto grande.
- No! Non è vero!- ringhiò Hadleigh.- Loro non sapevano nemmeno dell’esistenza di quel luogo prima che…
- Lo so. Ma non è necessario conoscere qualcosa per farne parte. Può sembrare assurdo, è vero, ma è così. Vede, capitano, ho cercato di fare in modo che le due ragazze non mettessero piede in quel luogo, come anche lei, d’altronde…ma a quanto pare, non ci si può opporre al fato. Così, una volta giunte lì, ho eseguito quanto mi era stato ordinato. Confido che le favole faranno il resto.
- Ma che diavolo sta farneticando?!- sbottò Hadleigh.- In che cosa sono coinvolte le mie figlie? Di chi erano gli ordini che ha eseguito?
- Spiacente, capitano, ma questo non posso rivelarglielo. Ordini della Regina.
Hadleigh digrignò i denti, tentando di liberarsi e scontrandosi nuovamente con la resistenza delle manette.
- Ma perché?!- gridò.- Chi c’è dietro tutto questo?! Che cosa vuole dalle mie figlie?! Perché lei sta facendo questo?!
Crawford non rispose; lo guardò per un lungo istante, quindi sospirò impercettibilmente.
- Lei ha mai avuto il cancro, capitano?
Hadleigh si trovò preso in contropiede; boccheggiò, quindi fece cenno di no con il capo.
Crawford sospirò nuovamente, stavolta più forte.
- Allora non può capire.
Hadleigh e Jones lo videro stringere convulsivamente la pistola; Crawford serrò le labbra, abbassando lo sguardo.
- Non può capire - ripeté.- Non ha idea di cosa significhi. Non ha idea di cosa voglia dire vedere il proprio corpo distruggersi giorno dopo giorno, imbottirsi di veleno sperando che uccida il tuo cancro, e invece sta solo uccidendo te, ti fa stare male sempre di più, e sai che se non ti ammazzeranno le chemioterapie lo farà la tua malattia. Sai che presto o tardi dovrai morire. Eppure continui a imbottirti di veleno, continui a stare male ogni volta di più sperando che finisca presto. Sì, proprio così; è questo che ti dici: tieni duro, finirà presto. E te lo ripeti così tante volte che alla fine finisci per crederci davvero. E speri, speri sempre di più che un giorno guarirai, che davvero tutto finirà presto. Fino a che anche la speranza non ti viene portata via - Crawford rise, una risata amara, che nascondeva tracce di pianto.- Lei non può neanche immaginare cosa voglia dire. Non può immaginare come ci si senta quando un dottorino da quattro soldi fresco di laurea ti comunica che non c’è più spazio nemmeno per la speranza, che hai sofferto per mesi inutilmente, che qualunque cosa accada dovrai morire!- Crawford scoppiò a ridere, gettando il capo all’indietro.- In tutti gli schifosi film polizieschi, lo sbirro muore sempre da eroe, magari lasciando a casa una famiglia che lo ama più di qualunque altra cosa. Non viene in mente a nessuno che un poliziotto possa finire i suoi giorni in un letto d’ospedale, senza più essere in grado di badare a se stesso, a dover ringraziare chi lo ripulisce dalla sua stessa merda, sapendo che ogni giorno che passa potrà solo peggiorare, fino a che non morirà, solo come un cane, senza nessuno che sarà lì a piangere per lui.
Le labbra di Crawford si ridussero a una fessura, quindi avanzò verso Hadleigh. Si chinò di scatto, afferrandolo per il bavero della camicia, e avvicinò il proprio volto rinsecchito al suo.
- Se lei si fosse trovato al mio posto, avrebbe fatto lo stesso!- sibilò, con gli occhi iniettati di sangue.
- Se una donna che millantava di essere la Regina Cattiva si fosse presentata nella sua stanza e avesse giurato di poterla guarire dal cancro, se lei si fosse schierato dalla sua parte, poco importava se ciò che le chiedeva fosse giusto o sbagliato, lei avrebbe accettato!
Crawford lo lasciò all’improvviso, spingendolo indietro con il busto, quindi ritornò in posizione eretta. Era sudato, ansimava; prese un profondo respiro e chiuse gli occhi, stringendo la pistola fra le dita, quindi tornò a guardare il capitano.
- Non c’è più niente che lei possa fare, Hadleigh. Le sue figlie sono l’ultimo ostacolo al compimento del piano, e dopo che saranno state eliminate niente potrà impedire il ritorno dei Grimm. Dopodiché, niente sarà più come prima, nessuno potrà più essere felice senza il permesso della Regina, e anch’io, finalmente, avrò il mio lieto fine!
Hadleigh emise un ringhio rabbioso e frustrato, tentando nuovamente di liberarsi dalle manette, ma senza riuscirvi; Jones era stralunato, continuava a guardare prima il capitano poi procuratore come se avesse avuto di fronte due spettri.
Crawford tornò improvvisamente calmo; ripose la pistola nella fondina, quindi si avviò in tutta tranquillità verso la porta.
- Mi dispiace che abbiate dovuto fare questa fine, tutti e due; eravate due bravi poliziotti, in fondo. E invece, temo proprio che dovrò ammazzarvi - il procuratore aprì la porta, scoccando un’occhiata all’orologio.- Sinceramente, preferirei farlo seduta stante, ma non voglio correre il rischio di contrariare la Regina. Capisco che l’attesa potrà essere snervante, ma sarò di ritorno fra…diciamo, dieci minuti. A più tardi, signori.
Rivolse loro un’ultima occhiata, accompagnata da un sorrisetto beffardo, prima di uscire dalla stanza e chiudere la porta. Hadleigh udì chiaramente il rumore della molla della serratura che scattava; non che Crawford avesse veramente bisogno di chiudere la porta a chiave per assicurarsi che non scappassero, pensò, ma era chiaro che non voleva correre rischi.
Tentò di nuovo di liberarsi dalle manette, ma anche stavolta non vi riuscì; la scrivania era inchiodata al pavimento, e non c’era modo di sollevarla.
- Pazzo psicopatico!- soffiò Jones.- Rick, dobbiamo trovare il modo di andarcene da qui!
- E credi che non lo sappia?!- ringhiò Hadleigh. Non poteva morire, si disse; non poteva, doveva salvare Anya e Liz! Non poteva lasciarle da sole.
- Beh, allora pensiamo a qualcosa, e in fretta!- sussurrò Jones, tentando di rompere le manette.- Quello torna fra dieci minuti!
Hadleigh inspirò a fondo, cercando di ritrovare un barlume di lucidità; il suo cervello prese a ragionare a tutta velocità, alla ricerca di un modo per non finire con una pallottola dritta in mezzo alla fronte. Il capitano fece dardeggiare lo sguardo tutt’intorno: doveva pur esserci qualcosa in quell’ufficio che potesse spezzare quelle manette e che fosse facilmente raggiungibile da…
Lo sguardo si inchiodò a poca distanza da lui, scorgendo una forma nera nascosta sotto a un termosifone.
La pistola di Jones.
 

***

 
Gaston si aggrappò disperatamente alla riva del fiume, riemergendone bagnato fradicio e confuso come non lo era mai stato prima di allora. Un attimo prima stava mentalmente dando della troia ad Anya Hadleigh, appoggiato al muro di quella stanza, e un attimo dopo…
- Ehi! Tu!
Sobbalzò, sollevando lo sguardo di fronte a sé.
Chi l’aveva apostrofato era un uomo in uniforme – o almeno, supponeva si trattasse di un’uniforme. Era un completo nero dalla testa ai piedi, quasi un’armatura, con stivali di pelle e un elmo calato sul capo; prima che potesse pensare alcunché, Gaston si ritrovò con le mani bloccate dietro la schiena, inginocchiato a terra.
- Chi sei tu? Cosa ci fai qui? Sei amico di quelle due sgualdrine?
Gaston boccheggiò, non sapendo che dire o cosa fare. Udì dei passi di fronte a sé, e subito sollevò lo sguardo: un altro uomo in uniforme gli stava davanti, piantato con le mani sui fianchi, e una smorfia rabbiosa sul volto. Vide che aveva una profonda cicatrice sul viso, da cui il sangue sgorgava ancora fresco, che partiva dal centro del sopracciglio sinistro, attraversava la palpebra e scendeva giù per la guancia, sino a terminare all’angolo della bocca.
- Ora tu ed io faremo quattro chiacchiere…
 

***

 
New York, ore 18:45 p.m.
 
La signora Parker rabbrividì, spegnendo immediatamente la televisione non appena il talk show mandò in onda un altro servizio sui bambini scomparsi. Non si faceva altro che parlare di loro, al telegiornale, alla radio, sui giornali…e ora c’era anche chi avanzava l’ipotesi che fossero caduti in mano a un’associazione criminale che trafficava in organi, o a un serial killer, per non parlare delle continue e scontate allusioni alla pedofilia.
La signora Parker scosse il capo, tornando a concentrarsi sul pollo che stava tagliando per la cena e costringendosi a non lasciarsi prendere da pensieri paranoici. Era sempre stata molto sensibile, sin da ragazza, e la maternità l’aveva resa ancora più incline alla commozione facile, oltre che iperprotettiva e, come suo marito sosteneva sempre, anche eccessivamente apprensiva.
Non osava nemmeno pensare a cosa fosse potuto accadere a quei piccoli angeli: Sarah Hammonds, nove anni, Joey Mitchell di sette e quelli che erano ben presto stati ribattezzati dal pubblico come i due fratellini di Little Italy, dalla zona adiacente al quartiere da cui erano scomparsi, ovvero Katie e Toby MacPherson. Uno aveva otto anni e l’altra soltanto sei, povere gioie. E come se non bastasse, quel pomeriggio stesso era avvenuta un’altra scomparsa: si trattava di Sally Marsh, di dieci anni.
La fotografia che ritraeva una bambina con i capelli biondi annodati in una coda e il naso spruzzato di lentiggini aveva già fatto il giro di tutti i programmi televisivi e il giorno dopo sarebbe stata certamente sulla prima pagina del giornale, accanto a tutte le altre.
A quanto pareva, la piccola Sally era sparita nientemeno che negli spogliatoi della palestra che frequentava, dopo aver terminato una lezione di nuoto insieme ad altre ragazzine della sua età. Le bambine che erano con lei avevano detto che Sally si era allontanata un attimo dal gruppetto per andare al suo armadietto a prendere un asciugamano. Non era uscita dallo spogliatoio, ne erano certe.
Eppure, dal momento in cui Sally Marsh aveva svoltato l’angolo oltre le file degli armadietti, nessuno l’aveva più vista.
La signora Parker sospirò, costringendosi nuovamente a non pensarci. I bambini scomparsi erano già cinque…e lei sperava solo che una cosa del genere non accadesse mai a suo figlio…
Un pianto interruppe il silenzio, facendola sobbalzare. La signora Parker lasciò cadere il coltello sul pavimento per la sorpresa e lo spavento. Chiuse gli occhi, portandosi una mano al cuore e sospirando.
Raccolse velocemente il coltello da terra e si diresse in fretta nella direzione da cui proveniva il pianto, rimproverandosi di avere i nervi a fior di pelle.
Entrò nella camera di suo figlio, solo per trovarlo in lacrime seduto al centro del lettino.
La signora Parker si avvicinò alle sbarre, sorridendo con fare rassicurante.
- Cosa c’è, amore della mamma? Perché piangi?
Suo figlio Tom, Tommy, aveva dieci mesi, non era ancora in grado di camminare se non gattonando e non parlava, ma lei comunicava sempre con lui come se fosse un adulto, fatta eccezione per i continui versetti e coccole che gli riserbava.
La signora Parker aveva quarantadue anni, suo marito quarantacinque, e pur avendo da sempre desiderato un figlio, ormai disperavano di poterne avere uno, fino a che non era nato Tommy.
Il bambino continuava a piangere; la signora Parker tentò invano di calmarlo, ma doveva esserci qualcosa che non andava, realizzò. Provò a tastargli la fronte con una mano, ma non pareva avesse la febbre. La donna prese a guardarsi freneticamente intorno alla ricerca del problema, sorridendo quando lo trovò.
- Ecco qui! Era per questo che piangevi? Perché ti era caduto Bobo?
Gli porse un orsacchiotto di peluche e, proprio come aveva previsto, il bambino smise subito di piangere, afferrandolo con allegria e regalando alla madre un sorriso. La signora Parker ricambiò con tenerezza: Bobo era in assoluto il giocattolo preferito di suo figlio; si trattava di un vecchio orsacchiotto che aveva perso buona parte della sua imbottitura, malandato e spelacchiato, con legato intorno al collo un nastro rosso con fiocco scolorito, e che aveva ormai solo uno dei due bottoni che fungevano da occhi. Ma Tommy lo adorava, e non se ne separava mai.
La signora Parker posò un bacio sulla fronte del bambino.
- Ecco, è tutto a posto adesso. Vero, tesoro mio?
Tommy non diede segno di averla udita, ma fissava attentamente un punto di fronte a sé. La signora Parker seguì il suo sguardo: suo figlio teneva gli occhi puntati sull’armadio a due ante di fronte a sé.
- Cosa c’è, Tommy? Perché guardi l’armadio?
Il bambino non distolse lo sguardo; la signora Parker fece spallucce, rialzandosi in piedi. Posò un bacio sulla fronte del bambino.
- Ora la mamma torna di là a preparare la cena, poi torna da te e facciamo la pappa, d’accordo?
La donna si voltò, rivolgendo a suo figlio un ultimo sorriso prima di uscire dalla stanza e chiudere la porta. Tommy rimase solo nella camera; non aveva smesso di guardare l’armadio, né di stringere il braccio di Bobo in una mano.
Per diversi istanti, non accadde nulla. Quindi, dall’armadio iniziò a provenire un debole scricchiolio, che si fece via via più forte.
Tommy emise un versetto senza senso, continuando a guardare il mobile.
Lo scricchiolio cessò di colpo, e nella stanza ritornò il silenzio.
Tommy…
Oltre le ante chiuse provenne un sussurro. Tommy si aggrappò alle sbarre del lettino per sostenersi, tirandosi in piedi sul materasso.
Tommy…Tommy…
Il bambino strinse Bobo fra le dita. Si udì di nuovo uno scricchiolio, e le ante dell’armadio si aprirono un poco. Oltre esse non si vedeva nulla, solo il buio.
Tommy…Ciao, Tommy…
Quella che lo stava chiamando era la voce di una bambina. Tommy iniziò a saltellare su e giù sul materasso, reggendosi alle sbarre del lettino.
Tommy…vieni a giocare con noi, Tommy…
Stavolta la voce era chiaramente quella di un bambino. Tom Parker ridacchiò allegramente, agitando Bobo su e giù con il braccio.
Vieni a giocare con noi, Tommy…Siamo tanti bambini, qui…Ti divertirai, Tommy…
Lo scricchiolio si ripeté, e le ante dell’armadio si aprirono ancora di più. Dentro non c’erano bambini, ma dallo spiraglio si scorgeva solo oscurità.
Ci sono tanti giocattoli…Tommy…Non avere paura, Tommy…E’ bello, qui, Tommy…
Ora le voci erano più di una; voci di bambine, di bambini, che si confondevano, si sovrapponevano l’un l’altra, lo chiamavano. Tommy iniziò a ridere, saltellando allegramente.
 
Uno, due, tre,
l’Uomo Nero viene per te.
 
La voce di una bambina, quella che aveva parlato per prima, iniziò a canticchiare. Tommy smise immediatamente di ridere e saltellare, tornando d’un tratto serio, lo sguardo puntato sull’armadio e Bobo stretto fra le mani.
Le ante si aprirono ancora di più.
 
A, b, c,
guarda alle tue spalle, lui è lì.
 
La filastrocca proseguì, e le ante si aprirono ancora.
Tommy…Toooommyyyyyyyyy…
Le voci ora erano ancora più confuse, stridule, strascicate.
Non umane.
 
Sotto al letto, in cantina,
l’Uomo Nero si avvicina.
Fa paura la sua voce,
al tuo cuore stringi la croce.
Apri gli occhi, stai all’erta!
Lui è sotto la coperta.
 
Le ante si aprirono ancora di più.
Tommy…
Ora non c’era più traccia delle voci dei bambini, ma chi lo stava chiamando aveva una voce profonda, cavernosa, orribile.
Al bambino iniziarono a salire le lacrime agli occhi.
 
Resta sveglio, non dormire questa notte, attento, attento!
Lui è dietro l’angolo del tuo letto.
Attento, attento, non puoi scappare!
Attento, attento, lui sta per arrivare!
La mamma dice “vai a letto, bel bambino,
dormi tranquillo sul tuo cuscino!”.
 
Tommy scoppiò a piangere. Le ante dell’armadio si spalancarono di colpo, lasciando che l’oscurità invadesse la stanza.
 
Bugia, bugia…
l’Uomo Nero ti porta via!
 

***

 
Anya venne svegliata con un calcio sferrato all’altezza della colonna vertebrale. La ragazza tossì, gemendo di dolore.
- Alzati!- le intimò rabbiosamente una voce. - Alzati, avanti!
Anya gemette, puntellando i gomiti sul terreno. Il sole le bruciò gli occhi, e intuì che dovesse essere l’alba. Si era addormentata solo un paio d’ore prima, sfinita da tutte quelle emozioni che definire poco piacevoli sarebbe stato un cortese eufemismo; era rimasta sveglia tutta notte fino a che non era crollata, rimuginando sull’intera situazione senza riuscire a trovare una via d’uscita. Aveva quasi totalmente accantonato il pensiero di trovarsi davvero nel Regno delle Favole, e i suoi problemi principali, in quel momento erano: ritrovare sua sorella e cercare un modo per sottrarsi alle grinfie di quello sconosciuto.
Sconosciuto che era rimasto sveglio tutta notte, senza dare mai il minimo segno di stanchezza…e senza voltarsi mai a guardarla negli occhi.
- Mi hai sentito?! Ho detto di alzarti!
Senza attendere oltre, il Primo Ministro l’afferrò per il collo della maglietta, tirandola su a sedere. Anya si ritrovò accovacciata sull’erba, con i polsi e le caviglie ancora legate. L’uomo la squadrò per un lungo istante, prima di portarsi una mano alla cintura; Anya si sentì morire dal terrore quando lo vide brandire un pugnale affilato, lanciando un grido quando lui si chinò velocemente su di lei, ma l’urlo le morì sulle labbra quando vide che aveva solo tagliato le corde intorno alle caviglie.
Il Primo Ministro si rialzò, afferrandola rudemente per un braccio e facendola alzare in piedi.
- E ora cammina!- ringhiò, cercando di spingerla in avanti.
Anya digrignò i denti, irrigidendo i muscoli e puntando i talloni a terra. Cercò di divincolarsi ritraendo il braccio verso di sé, ma il Primo Ministro la trattenne saldamente. L’uomo digrignò i denti, strattonandola con forza.
- Ho detto di muoverti!- ululò.
- No!- Anya arretrò per quanto le mani legate e la forza dell’uomo glielo permettevano.
Il Primo Ministro le diede un altro strattone, tale da farla barcollare.
- Vedi di smetterla di ribellarti e iniziare a camminare, o giuro che ti spezzo le gambe!
- No!- la ragazza strillò nuovamente, come una bambina che faceva i capricci, iniziando a colpirlo al petto e alle spalle con i pugni, con la poca forza che i polsi legati le consentivano.
Il Primo Ministro le afferrò la gola, spingendola indietro e sbattendola contro il tronco di un albero lì accanto. Anya soffocò un grido di dolore quando la sua schiena cozzò violentemente contro la corteccia, sentendo un attimo dopo il peso dell’uomo che le stava premendo proprio il corpo addosso.
Alzò le mani legate di fronte a sé come per difendersi, ma immediatamente anche quelle si ritrovarono bloccate fra il proprio petto e il torace dell’uomo. Anya si rese conto di essere busto contro busto, fianchi contro fianchi; non riusciva nemmeno a muovere le gambe, in quella posizione.
La stava immobilizzando.
Il Primo Ministro ansimò, sollevando gli occhi azzurri su quelli della ragazza; quasi fu sorpreso di trovarvi tracce evidenti di paura. La guardò meglio: era pallidissima, con la fronte sudata e ansimava. Una spallina della strana e corta sottana che indossava era scivolata giù nell’impatto contro il tronco, e ora le lasciava la spalla nuda. Il Primo Ministro ridacchiò, avvicinando il volto a quello della ragazza e tracciando con il mento la linea del suo mento, scendendo giù per il collo fino a sfiorarle la spalla.
Trattenne una risata nel sentirla tremare di paura.
Scoprì i denti in un ghigno soddisfatto.
- Adesso non scalci più tanto, vero?- sibilò.
Stuprala!, sussurrò una voce da qualche parte nella sua mente. Stuprala qui, adesso. Non devi fare altro che strapparle da dosso quegli abiti da uomo che indossa, e il gioco è fatto. Vedrai che dopo che le avrai dato ciò che si merita non si ribellerà più. Deve capire chi comanda. Dopo non ti darà più alcun problema.
Il sorriso gli morì sulle labbra.
No! No, quello non era lui.
Si sentì di nuovo invadere dalla rabbia, stavolta nei confronti di se stesso. Dannazione, ancora dopo tanto tempo ciò che era stato in passato continuava a riemergere, e negli aspetti peggiori!
No. Non poteva farle una cosa del genere. Non voleva farlo. Non era ancora caduto così in basso da compiere un simile atto nei confronti di una donna; erano esseri spregevoli, quelli, proprio come il capitano Navarre e i suoi scagnozzi, o come il Principe Azzurro.
Lui era migliore di loro. E poi, se un tempo qualcuno avesse fatto una cosa del genere alla donna che amava, sicuramente l’avrebbe…
- Lasciami andare!- la voce di quella ragazza era un soffio.- Toglimi le mani di dosso!
Il Primo Ministro tornò a sogghignare: era come se gli avesse letto nel pensiero, aveva intuito ciò che stava per fare, tremava come una foglia e la sua voce era un pigolio terrorizzato, eppure riusciva ancora a essere ribelle e arrogante!
Si staccò da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi. La traccia di paura era scomparsa non appena lui si era ritratto. Questo non andava bene, pensò.
Quella sgualdrina doveva avere paura di lui. Se avesse continuato con quell’atteggiamento, allora gli avrebbe reso solo le cose più difficili. Se avesse perseverato nel ribellarsi, allora gli avrebbe solo fatto perdere un sacco di tempo e rallentato il passo, e il tempo stringeva.
La Regina era stata chiara: voleva i cuori di entrambe le ragazze, e lui doveva portarglieli. Entrambi. Non poteva ritornare al castello a mani vuote o con solo metà del lavoro portato a termine. Si era lasciato sfuggire l’altra ragazza, e doveva trovarla al più presto, prima che lo facesse qualcun altro.
Ma ora aveva per le mani quella sciacquetta che non faceva altro che gridare e tirare calci, che non faceva altro che rallentarlo e rendergli il lavoro più difficile. Il problema era che non aveva idea di come fare per metterla a tacere una volta per tutte.
Ammazzarla, non poteva; se l’avesse ridotta in fin di vita a furia di percosse, oppure spezzato un braccio o le gambe come aveva promesso, avrebbe solo peggiorato la situazione, si sarebbe trasformata in un peso morto che l’avrebbe ostacolato ancora di più.
L’unico modo era tirarla dalla sua parte. Ma come? Non poteva mostrarsi gentile e galante adesso dopo averla imprigionata e maltrattata per una nottata intera. Doveva tentare un’altra strada per ingraziarsela, magari fingendo un malinteso, mentendole sulle sue vere intenzioni…
D’altronde, il tempo che restava prima della Luna di Sangue era molto poco, e lui aveva a che fare con una potenziale Salvatrice, disposta a qualunque cosa, ci scommetteva, per ritrovare l’altra ragazza; certamente sarebbe stata una notevole scorciatoia per la Pietra del Male. E poi, per quel che ne sapeva, l’altra candidata in quel momento poteva anche essere finita nel pentolone di un Gigante o nella casa di qualche megera. Se al posto di due ragazze avesse riportato alla Regina solo una possibile Salvatrice, ma con essa anche qualche oggetto che conducesse alla Pietra…
Sì; sì, era un piano ragionevole, astuto.
Era ora di iniziare la scena.
Il Primo Ministro tenne gli occhi puntati in quelli di Anya, estraendo il pugnale dalla cintura. Accostò la lama alla guancia della ragazza, con la punta premuta all’altezza dello zigomo.
- Vediamo se avrai ancora voglia di ribellarti, dopo che ti avrò cavato un occhio…
Fece salire lentamente la punta del coltello in direzione del bulbo oculare. Anya gridò, serrando gli occhi e stringendo i denti in un ultimo, disperato tentativo di autodifesa.
Anya sentì improvvisamente la lama arrestarsi nel suo percorso, quindi il freddo del coltello scivolare via dalla sua guancia; riaprì gli occhi: l’uomo di fronte a lei aveva smesso di guardarla, e ora era concentrato sulle sue mani.
Il Primo Ministro le afferrò i polsi, tagliando le corde con un gesto deciso del pugnale. Anya avvertì la piacevole sensazione del sangue che riprendeva a defluire in modo normale.
L’uomo si staccò da lei, dandole le spalle e allontanandosi di qualche passo. Anya ansimò, cercando di calmare il battito del suo cuore ma senza staccare gli occhi dall’uomo.
Il Primo Ministro si chinò a raccogliere il proprio arco con la faretra; ora si stava comportando come se lei non fosse lì. Anya sbatté le palpebre, confusa: prima la trattava peggio di un cane, poi la liberava e adesso la ignorava?!
Tutta la sua razionalità le urlava di colpire quel tipo con la prima pietra che le fosse capitata in mano, girare i tacchi e allontanarsi da lì il più in fretta possibile, ma a quanto pareva il suo corpo non aveva alcuna intenzione di darle ascolto.
Il Primo Ministro sogghignò tra sé, quindi voltò il capo con studiata lentezza.
- Sei ancora qui?- chiese, fingendosi sorpreso.- Se non ho capito male, non avevi molta voglia di seguirmi…
Anya boccheggiò, scuotendo il capo.
- Ma che…- balbettò.- Che cosa…?
- Ti devo le mie scuse. Non sei una spia.
La ragazza si sentì come se il mondo le fosse crollato addosso. Una spia?! Era per questo motivo che l’aveva imprigionata e trattata in quel modo?! Per un sospetto?! Solo per questo?!
Si sentì invadere dalla rabbia.
- Brutto figlio di una grandissima puttana!- strillò, scacciando via il pensiero che avrebbe dovuto già essere lontana da lì da un bel pezzo, invece di stare urlando contro a un personaggio delle favole.- Hai idea di quello che hai fatto, pezzo di merda?! Una spia?! Mi hai riempita di cazzotti solo perché pensavi che io fossi una spia mandata da chissà chi, maledetto stronzo?- Anya gli andò incontro a passo di carica, alzando un braccio pronta a colpirlo in pieno volto, ma il Primo Ministro le bloccò il colpo il polso un attimo prima che il pugno si abbattesse su di lui.
Anya gridò di dolore quando le girò il braccio dietro la schiena, imprigionandola.
- In effetti, hai ragione - sogghignò il Primo Ministro.- Sono stato veramente stupido a credere che una ragazzina ridicola e patetica come te potesse essere veramente una spia, ma credimi, sono stato gentile con te. Se così non fosse stato, tu a quest’ora giaceresti in un angolo della foresta con il cranio sfondato.
Anya ringhiò, divincolandosi dalla stretta stavolta senza alcuna fatica; era evidente che aveva voluto lasciarla andare, questa volta, pensò, con una punta di frustrazione.
- E’ per questo che hai scoccato quella freccia? Eri tu, non è vero?- chiese.- Mia sorella è scomparsa per colpa tua! Credevi che anche lei fosse una spia? E di chi?
- Di chiunque. Chiunque avrebbe potuto inviare una spia, specialmente la Regina.
- La…la Regina?
Il Primo Ministro la superò con passo deciso, nascondendo un sorriso compiaciuto.
- In ogni caso, ora che ho appurato la verità, sei libera di andartene.
Anya boccheggiò, stralunata. Era assurdo!
Inspirò a fondo, cercando di ragionare. La voglia di rompere il muso a quel tipo era fortissima, ma ora doveva cercare di ragionare. Le aveva detto che poteva andarsene. Certo, ovvio che se ne sarebbe andata, doveva essere pazzo a credere che sarebbe rimasta ancora con lui!
Doveva trovare Elizabeth…Elizabeth che in quel momento era chissà dove…
- Devo…devo trovare mia sorella…- mormorò, non sapendo bene se stesse parlando a se stessa oppure se in lei ci fosse il desiderio inconscio di essere ascoltata.
- Buona fortuna, allora.
- L’ho persa di vista quando quell’albero…
- Si può sapere perché mi stai dicendo queste cose?- il Primo Ministro si voltò a guardarla, incrociando le braccia al petto.- Credi che m’interessi qualcosa di te e della tua cara sorellina? Oppure speri che ti dia una mano?- inarcò un sopracciglio, regalandole un sorrisetto beffardo.
Anya si corrucciò, indietreggiando bruscamente.
- Ma stai scherzando?! Io non voglio niente da te!
- Meglio così, perché io non ho tempo da perdere. Ho cose ben più importanti da fare, e la Pietra del Male non sta lì ad aspettarmi…
- La Pietra del Male?
Il Primo Ministro nascose nuovamente un sorriso di soddisfazione, fingendo di sistemarsi il pugnale alla cintura.
Touché!
- Intendi…ti riferisci alla pietra della profezia?- fece Anya.
- Esattamente. Non sei così ottusa come pensavo. Bene, visto che sai di che cosa parlo, ti renderai anche conto che non ho tempo da perdere…
Il Primo Ministro si voltò, iniziando ad allontanarsi. Era sempre stato bravo a inscenare quelle commedie per ottenere quello che voleva. Sogghignò quando udì la voce di quella ragazza chiamarlo con un aspetta un attimo! che recava tracce non poi così sottili di disperazione.
- Cosa vuoi, ancora?- l’apostrofò, voltandosi appena a guardarla.
- So come trovare la Pietra del Male, se è questo che t’interessa - dichiarò Anya; in un’altra situazione, si sarebbe immediatamente defilata, ma in quel momento sentiva di aver bisogno di aiuto più che mai. Per quanto la storia della spia avesse un retrogusto amaro che non la convinceva per niente, doveva trovare Elizabeth, e quel tizio sembrava sapere il fatto suo; l’aveva maltrattata per una nottata intera, ma adesso doveva fare affidamento su di lui. Era parecchio frustrante, ma non c’era altro modo. Non era più a New York, doveva ammettere a malincuore, e dopo tutto quello che era accaduto conveniva andarci piano con l’avventura. Si sentiva come se stesse camminando sulle uova, e ancora non sapeva dov’era Liz. Aveva bisogno di aiuto.
- Ti propongo uno scambio!- disse, con forza, guardando negli occhi lo sconosciuto.- Io ti aiuto a trovare la Pietra del Male, e tu mi dai una mano a cercare mia sorella.
- Cosa ti fa pensare che io voglia il tuo aiuto?
Anya si gelò; non si aspettava una risposta del genere. Aggrottò le sopracciglia, sentendosi infinitamente stupida. La situazione era umiliante: cosa voleva quel tipo? Aveva certamente capito che era in difficoltà; che pretendeva, che si gettasse in ginocchio e lo implorasse.
Il Primo Ministro sogghignò, decidendo che l’aveva torturata abbastanza. Era sempre così: con la giusta abilità, non avevi più bisogno di dare la caccia alla tua preda.
Sarebbe stata la tua preda a venire da te.
- Le regole sono queste - dichiarò.- Quando troveremo la Pietra, sarò io a prenderla e a decidere come usarla. Nel frattempo, non m’intralciare. Stai al passo, parla solo se strettamente necessario e fai quello che ti dico io.
- Che cosa? Non sono un cane, non puoi pretendere che…
- Un’altra parola e l’accordo salta.
Anya si zittì, sentendo le mani bruciarle. Quanto avrebbe voluto prenderlo a schiaffi…
Il Primo Ministro si voltò, facendole segno di seguirlo; lei ubbidì, imbronciata. Non le importava niente della Pietra del Male, per quello che la riguardava quel tizio avrebbe anche potuto ingoiarsela, a lei non interessava. Ciò che le premeva, in quel momento, era ritrovare Liz sana e salva, mollare quello stronzo e quindi cercare un mezzo che le riportasse a casa.
Continuò a seguirlo in silenzio per qualche minuto, stando mezzo metro dietro di lui, quando il suo cervello elaborò una domanda a cui non aveva pensato prima: chi era quell’uomo?
Si trovava nel Regno delle Favole, quello doveva essere per forza il personaggio di qualche fiaba. Ma chi?
- Tu chi sei?- chiese, prima che potesse trattenersi.
- Ero un prigioniero della Regina, sono scappato qualche giorno fa.
Anya si corrucciò; non era quello che voleva sapere. Tentò un’altra via.
- Come ti chiami?
Il Primo Ministro si voltò, lanciandole un’occhiata in tralice.
- Ha importanza?- chiese tra i denti.
Anya si strinse nelle spalle. L’uomo sospirò, voltandosi a dall’altra parte e accelerando il passo.
- Chiamami Vincent - mormorò alla fine.
Vincent, ripeté mentalmente Anya, cercando di richiamare alla memoria tutto quel poco che sapeva sulle favole. Era Elizabeth l’esperta dei libri, non lei; ma il nome Vincent non le diceva niente.
Il Primo Ministro sorrise fra sé: era stato tutto fin troppo facile. Ora non doveva fare altro che usare quella ragazzina per trovare la Pietra, quindi non doveva fare altro che ucciderla.
Strapparle il cuore sarebbe stato molto semplice…
 
 
 
 
Angolo Autrice: Eccomi qui come promesso…Andiamo per ordine.
Come alcuni di voi avevano intuito, il Cacciatore ha salvato la pelle a Elizabeth e Cenerentola, ma in compenso è stato ferito e ora qualcuno dovrà provvedere a lui. Si sa qualcosa di più sulla storia di Crawford, mentre le sparizioni dei bambini continuano. (P. S. don’t forget Bobo!).
Per la filastrocca sull’Uomo Nero…allora, nessuna violazione di copyright dal momento che è tutta farina nel mio sacco e me la sono inventata di sana pianta senza neanche stare lì a rileggermela. Ci tengo a chiarire che è pensata per essere cantata da dei bambini, spero solo che non sia risultata stupida o ridicola; se sì, ditemelo in modo che possa apportare le dovute modifiche, e vi giuro che non l’ho fatto apposta…io la vena poetica mai ce l’ho avuta e mai ce l’avrò, sono consapevole di questo mio limite e del fatto che non vado più in là di ambarabacciccicoccò tre civette sul comò, ma mi sono impegnata tanto, I swear it! Don’t beat me, please!*occhioni stile Gatto di Shrek*.
Per quanto riguarda Anya e PM, le cose vanno meglio per modo di dire, dal momento che lui per il momento pensa ancora di sfruttarla e poi di strapparle il cuore…oh, altri indizi sull’identità del PM…l’interrogativo è sempre aperto, gente ;).
Il prossimo capitolo s’intitolerà The Boogieman (e con questo ho detto tutto ;) e arriverà fra due settimane, dal momento che 1 sarà un capitolo impegnativo e voglio scriverlo il meglio che posso, e 2 ho altre long che sono rimaste in stagnazione per diverso tempo e devo provvedere. Comunque, vi posso dire che sarà in gran parte incentrato, oltre che sull’Uomo Nero, anche su Anya e Vincent/Primo Ministro.
Ringrazio chi ha aggiunto la storia alle ricordate, alle seguite e alle preferite e Pandora Stark, cleme_b, Princess Vanilla e LadyAndromeda per aver recensito.
Ciao, al prossimo capitolo!
Dora93

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Capitolo 13
*** The Boogieman, part I ***


The Boogieman, part I

 
New York, ore 19:00 p.m.
 
- Che cazzo facciamo?!- sbraitò Jones.- Quello sta per tornare!
Hadleigh non rispose, tenendo lo sguardo puntato sulla pistola scivolata sotto il termosifone. Era a diversi metri da lui, e con le mani legate alla scrivania di certo non avrebbe potuto afferrarla. Doveva trovare un’altra via.
Inspirò a fondo, sperando che Jones si zittisse quanto necessario per permettergli di concentrarsi. Si lasciò scivolare sul pavimento distendendo le gambe, e fece scorrere i polsi ammanettati alla scrivania in basso verso il pavimento, in modo da potere allungare le braccia sopra la sua testa e coprire così più spazio possibile.
- Ma che fai?- mormorò Jones, attonito. Hadleigh non rispose, cercando di staccarsi quanto più possibile dalla gamba della scrivania. I polsi erano ancora ammanettati, ma lui ora era praticamente quasi disteso sul pavimento. Jones ora era ammutolito, forse stava iniziando a comprendere cosa stava tentando di fare.
Hadleigh gettò un altro sguardo alla pistola del collega: il termosifone sotto cui era finita ora era vicinissimo alle sue gambe, ma non riusciva ancora a raggiungere l’arma. Il capitano contrasse il viso in una smorfia mentre distendeva la gamba destra quanto più gli era possibile. Riuscì a toccare la canna della rivoltella con il tacco della scarpa. Hadleigh si sforzò di contrarre i muscoli del polpaccio in modo da distendere ancora di più la gamba. Colpì con la suola la pistola, e questa fece un mezzo giro su se stessa. Entrambi i poliziotti trattennero il fiato nel timore che quel gesto avesse irreversibilmente allontanato l’arma, ma subito dopo Hadleigh ritentò, riuscendo finalmente a raggiungere il calcio di questa coprendolo con tutta la scarpa.
Facendo strisciare la rivoltella sul pavimento, il capitano la tirò verso di sé, all’altezza delle proprie ginocchia.
- Bravo, Rick!- si complimentò Jones sottovoce.- Ora liberaci da questi affari! Crawford sta per tornare!
Hadleigh sbuffò per riprendere fiato, quindi si rimise in ginocchio; con attenzione, afferrò il calcio della pistola fra entrambe le rotule, quindi si mise seduto, sollevando le gambe all’altezza del mento. Spostò il gomito all’altezza della pistola, spingendola verso di sé; aiutandosi con il braccio la tenne stretta al petto. Ora doveva solo riuscire a prenderla in mano…
Prese un profondo respiro, contraendo i muscoli del braccio libero in modo da poter raggiungere la pistola senza lasciarla cadere. Tirò le catene delle manette al massimo, riuscendo ad afferrare l’arma fra l’indice e il medio, impugnandola poi completamente con l’aiuto dell’altra mano.
Sapeva cosa doveva fare. Il problema era che il proiettile sarebbe di sicuro rimbalzato via a una distanza così ravvicinata, e non aveva molto margine di errore. Rischiava di mancare il bersaglio, di spararsi in una gamba o magari di colpire Jones.
- Che stai aspettando?! Muoviti!
Hadleigh ansimò, e aprì la bocca per rispondere, quando un rumore di passi che percorrevano tranquillamente il corridoio lo raggiunse. Non aveva dubbi su chi poteva essere: nessuno veniva mai in quella zona della centrale o al Dipartimento Favole se non era strettamente necessario, e Crawford era stato via anche per troppo tempo.
Strinse i denti, imponendosi di dimenticare tutte le sue paranoie e i suoi dubbi. Doveva sparare adesso, o nessuno di loro due sarebbe uscito vivo da quella stanza. Doveva liberarsi e andare a cercare le sue figlie. Aveva una possibilità sola e doveva impiegarla al meglio.
Puntò la canna della pistola dritta al centro della catena, inclinandola verso il muro. Chiuse gli occhi, e premette il grilletto.
Il suono dello sparo rimbombò sui muri; nel contempo, Hadleigh sentì i polsi scivolare l’uno in una direzione diversa dall’altro. Aprì gli occhi, boccheggiando: aveva le mani libere. Si assicurò di non aver ferito Jones, ma i suoi calcoli erano stati esatti e la pallottola aveva fatto un foro nella parete.
In compenso, i passi in corridoio prima calmi e rilassati presero a correre.
Hadleigh si rialzò in fretta, dirigendosi verso il suo collega.
- Forza, liberami!- lo incitò Jones. Hadleigh fece per chinarsi su di lui, ma sentì un tonfo alla porta.
- Maledetti figli di puttana!- sentì urlare, mentre l’ombra di Crawford attraverso il vetro armeggiava furiosamente con la serratura. Il capitano raggiunse di corsa la porta un attimo prima che il procuratore la spalancasse completamente; Hadleigh si gettò contro il legno colpendolo con una violenta spallata, richiudendo la porta. Girò la chiave nella serratura mentre Crawford lanciava un urlo di rabbia e frustrazione, afferrò una sedia e puntellò la maniglia.
Si allontanò appena in tempo prima che Crawford rompesse il vetro con un pugno; Hadleigh tornò di corsa da Jones, afferrandogli le mani in modo che il suo collega le allargasse e tendesse la catena delle manette.
- Ehi, sta’ attento a quello che fai…!- gridò Jones, mentre Hadleigh puntava la rivoltella prendendo la mira.
Crawford lanciò un altro urlo dall’esterno, infilando una mano attraverso il foro nel vetro e spostando brutalmente la sedia, che cadde al suolo con un gran fracasso. Hadleigh udì avvicinarsi in lontananza altri passi: doveva trattarsi degli altri poliziotti, sicuramente accorsi a causa del fracasso.
Il capitano puntò la canna della pistola contro la catena delle manette, sparando il colpo; in un attimo, Jones si rialzò dal pavimento, le mani libere.
- Bastardi!- urlò Crawford; un secondo dopo, si udì un secondo sparo, e la serratura della porta saltò in aria. Hadleigh scattò all’indietro, afferrando il davanzale della finestra con una mano e sollevando la vetrata. Si voltò a guardare Jones.
- Forza, esci!- lo incitò, indicando la scala antincendio.
La porta si spalancò, rivelando Albert Crawford con il volto sudato e arrossato, e la rivoltella puntata verso di loro. Jones sgranò gli occhi, arretrando istintivamente; Hadleigh puntò repentinamente la pistola del collega di fronte a sé, sparando un colpo.
Videro il procuratore gemere accasciandosi a terra, reggendosi la spalla sinistra con una mano. Sulla parete alle sue spalle c’era una chiazza di sangue. I passi e le voci sconcertate si avvicinavano.
Jones si sentì afferrare per una manica della maglietta, quindi Hadleigh lo tirò verso la finestra.
- Avanti, usciamo da qui!- lo incitò, spingendolo sulla scala antincendio.
- Ma perché?!- sbottò Jones, raggiungendo a fatica il pianerottolo di ferro a causa del suo fisico grassoccio.- Rick, non senti? Stanno arrivando…
- Fa’ come ti dico!- Hadleigh gli diede un’altra spinta, scavalcando a sua volta il davanzale e iniziando a correre insieme a lui lungo la scala antincendio. Jones ubbidì, guardandolo senza capire.
Hadleigh strinse con forza la pistola, sentendosi il sangue alla testa. Jones non c’era arrivato, ma lui sì.
Forse erano scampati a Crawford, ma restavano comunque nei guai. Stavano arrivando i loro colleghi, possibili testimoni. Testimoni che avrebbero visto Crawford disteso a terra ferito e sanguinante, non loro due; testimoni che gli avrebbero sicuramente riso in faccia se lui avesse svelato loro la verità sul Dipartimento Favole; testimoni ai quali Crawford avrebbe potuto raccontare – se non l’aveva già fatto – qualunque fandonia sul loro conto, molto più credibile di qualunque altra cosa lui e Jones avrebbero potuto dire per discolparsi.
Richard Hadleigh, Nathan Jones…preparatevi a divenire dei ricercati.
 

***

 
Era tutto molto frustrante.
Non solo era capitata in un mondo alternativo e, a suo parere, anche vagamente grottesco; non solo non aveva idea di dove si trovasse sua sorella in quel momento; non solo aveva appena scoperto che suo padre le aveva mentito per una vita; non solo non aveva idea di come fare per trovare Liz né tantomeno in che modo sarebbero tornate a casa; non solo non riusciva a soffocare il ricordo assillante di quella profezia accompagnato dal dubbio che potesse essere lei la fantomatica Salvatrice…
…ma le toccava anche sopportare quello stronzo che non si curava nemmeno di nascondere quanto lo infastidisse la sua presenza!
Anya sbuffò, incespicando nell’ennesima fottuta radice sporgente dell’ennesimo fottuto albero. Già, gli alberi. Gli alberi sembravano tutti uguali, in quella foresta. Le pareva quasi di stare girando in tondo. Ma quell’uomo che la precedeva di mezzo metro da una giornata intera, senza apparentemente curarsi di aspettarla, o quantomeno che lei stesse al passo, le dava l’idea di sapere esattamente dove stessero andando…e quello era l’unico motivo per cui aveva accettato di fidarsi di lui.
Quello, insieme alle armi che si portava addosso.
Anya lo guardò forse per la centesima volta: sembrava uscito da un film di ninja giapponesi. Era completamente vestito di nero, dalla casacca fino agli stivali, e perfino il mantello e i guanti erano neri; ad Anya, tuttavia, pareva quasi fosse più armato che vestito.
Aveva scorto un pugnale con cui nessun essere umano sano di mente avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia saldamente legato alla cintura di cuoio, insieme alla frusta annodata con cui le aveva quasi spezzato le gambe la prima volta che aveva cercato di scappare, e l’impugnatura di un’altra lama spuntava dallo stivale. Anya sospettava nascondesse qualche altro coltello da qualche parte. Sulla spalla sinistra portava una faretra ricolma di frecce e un arco.
Nulla di tutto ciò le diceva niente in merito alla sua identità; non che gliene importasse poi molto, quello che le interessava era che mantenesse la sua parola e l’aiutasse a trovare Elizabeth, ma le sarebbe comunque piaciuto sapere con chi aveva a che fare.
E il nome Vincent non le ricordava nulla, se non un vecchio telefilm degli anni ’80, intitolato Beauty and the Beast,in cui il protagonista – un Ron Perlman con una faccia da leone che viveva nelle fogne di New York – portava lo stesso nome. Comunque, questo Vincent non pareva avere nulla di bestiale.
Era semplicemente stronzo come lo erano la maggior parte degli uomini che aveva conosciuto. Forse un pochino al di sopra della media.
Non aveva fatto altro che ignorarla per tutto il giorno, comportandosi come se lei non fosse lì in quel momento, tranne che per quando si accorgeva che lei era inciampata in una radice, era rimasta bloccata in un cespuglio di rovi o si era impantanata nel fango.
A quel punto pareva ricordarsi di lei e alzava gli occhi al cielo, per poi ringhiarle di darsi una mossa e non fargli perdere tempo. Circa un’ora prima erano passati di fronte a un ramo spezzato e caduto al suolo, e Anya aveva dovuto accelerare il passo per non cedere alla tentazione di raccoglierlo da terra e romperlo sulla testa di quel maleducato arrogante.
- Ci fermiamo qui!- dichiarò d’un tratto Vincent, arrestando la marcia nel bel mezzo di una radura e liberandosi dell’arco e della faretra, che lasciò cadere sull’erba.
Anya si riscosse, rimanendo interdetta.
- Ci…fermiamo?- mormorò, sconcertata. Si accorse solo in quel momento che era quasi il tramonto.- Qui?- si guardò intorno.
- Sì. Cosa non ti è chiaro di ciò che ho appena detto?- la rimbrottò il Primo Ministro, slacciando la frusta dalla cintura, ma tenendo con sé il pugnale.
- Non…non dovremmo proseguire?- suggerì Anya, tentando di mantenere la calma.- C’è ancora luce, e io devo trovare…
- Devi trovare tua sorella, lo so - borbottò Vincent, innervosito, voltandosi a guardarla.- Abbiamo entrambi un obiettivo, ricordi? E credimi, per quanto desideri liberarmi di te il più in fretta possibile, non sono così pazzo da proseguire il cammino nella Foresta Incantata dopo il tramonto. Ma se vuoi suicidarti, prego, fai pure - allungò un braccio indicandole un punto particolarmente oscuro alle sue spalle. Anya incrociò le braccia al petto, mordendosi l’interno della guancia cercando di tenere a freno la rabbia. Se quello era un personaggio delle favole, pensò, allora doveva essere sicuramente uno di quegli sfigati incattiviti che neanche il lieto fine osa avvicinare…esistevano anche i comprimari nelle storie, no? Tipo i topolini di Cenerentola, i servitori del Re o della Regina di turno…le aveva detto di essere un prigioniero. Qualcuno doveva aver già provveduto a dargli il ben servito.
Anya soffocò una risatina.
Il Primo Ministro s’inginocchiò sull’erba, iniziando a raccattare alcuni rametti da terra, riponendoli in un mucchio; la ragazza rimase impalata a guardarlo per diverso tempo, sentendosi profondamente inutile.
- Posso fare qualcosa?- azzardò a un certo punto, inclinando il capo di lato.
- Sì: stai zitta e lasciami fare il mio lavoro - ringhiò l’uomo, senza guardarla, ora impegnato a sfregare due pietre appuntite insieme nel tentativo di cavarne fuori una scintilla.
Anya digrignò i denti, pestando un piede a terra.
- Cos’ho fatto di sbagliato per meritarmi di essere trattata come una pezza da scarpe?- ringhiò.
- Se non ricordo male, avevamo un accordo - Vincent voltò il capo nella sua direzione, puntandole addosso gli occhi azzurri e gelidi.- Io ti faccio da guardia del corpo e tu in cambio mi cedi tutto ciò che troveremo riguardante la Pietra. Nel frattempo, tu fai quello che ti dico io, stai al passo, non m’intralci e tieni la bocca chiusa. E ci tengo a farti notare che finora non hai rispettato nessuna di queste regole!- sbottò, guardandola con rabbia prima di tornare a concentrarsi sulle pietre che teneva in mano, sfregandole ancora per un paio di volte fino a che da queste scaturì una scintilla, e la legna ammucchiata al centro della radura non divenne un falò.
Anya lo guardò per un istante, esterrefatta e incredula, quindi emise un verso rabbioso, girando i tacchi e iniziando a scendere velocemente lungo un pendio non troppo scosceso, inoltrandosi nella foresta.
- Ehi!- la chiamò Vincent.- Dove diavolo stai andando?
- Dove sarò sicura di non poterti spaccare la faccia!- strillò lei di rimando, senza voltarsi né interrompere la marcia.
Il Primo Ministro si rialzò velocemente da terra, guardandola scomparire oltre gli alberi.
Nel buio.
Il sangue gli si gelò nelle vene.
- Torna subito qui!- urlò, senza venire ascoltato. Anya era già scomparsa nel folto della foresta.
Vincent rimase a fissare il punto dove era sparita, quindi alzò lo sguardo al cielo: era il tramonto, ci sarebbero voluti ancora diversi minuti prima che il sole calasse completamente, ma le ombre proiettate dagli alberi si erano fatte più grandi e più intense. C’era abbastanza oscurità perché…
Il Primo Ministro si sentì rabbrividire di paura, una strana e inspiegabile paura. Una paura che conosceva bene. Si chinò velocemente, raccogliendo da terra l’arco e la faretra ricolma di frecce e afferrando un ramo infuocato dal mucchio di legna.
Brandì la torcia di fronte a sé, inoltrandosi in fretta nella foresta.
 

***

 
- Idiota!- sibilò Anya fra i denti, tirando un calcio a un sasso di fronte a lei. Continuò a camminare a passo sostenuto, calpestando furiosamente l’erba, senza avere la più pallida idea di dove stesse andando. Spostò con un gesto innervosito un ramo sporgente che si era posto sul suo cammino, inoltrandosi ancora di più nel bosco, fino a giungere a un’altra radura, più piccola di quella in cui lei e lo stronzo si erano fermati, e molto più cupa.
Anya si fermò, ansimando per riprendere fiato. Chiuse gli occhi, inspirando a fondo e passandosi entrambe le mani fra le ciocche corvine, gettando il capo all’indietro. La situazione era già abbastanza complicata, pensò; l’ultima cosa che le serviva in quel momento era farsi venire un esaurimento nervoso. Riaprì gli occhi, guardandosi intorno: le fronde degli alberi ora s’intrecciavano le une con le altre, ricoprendo completamente il cielo, tanto che solo qualche flebile spicchio di luce solare riusciva a raggiungerla facendosi strada tra le foglie e i rami. I tronchi gettavano ombre scure tutt’intorno, e la luce sembrava farsi sempre più flebile.
Anya fece dardeggiare lo sguardo tutt’intorno: solo alberi, nient’altro. Guardò alle proprie spalle: quanta strada aveva percorso? Non le pareva di aver camminato così tanto, non doveva essersi allontanata per più di venti, trenta metri…Eppure, non ricordava di aver percorso il sentiero alle sue spalle. E le piante le sembravano tutte uguali, esattamente come prima.
Dio, ma dov’era finita?!
Inspirò nuovamente a pieni polmoni, cercando di mantenere la calma. Sapeva la direzione da cui era venuta, tutto ciò che doveva fare era percorrere la strada all’indietro. La sua guardia del corpo con la bastardaggine insita nel DNA aveva acceso un fuoco, l’avrebbe sicuramente visto in lontananza.
Doveva solo stare calma e non farsi prendere dal panico.
Girò i tacchi, iniziando a incamminarsi lungo la via del ritorno, ma fece appena in tempo a muovere due passi che sentì la punta dello stivaletto colpire qualcosa di troppo morbido per essere una pietra o una radice. Anya indietreggiò, abbassando lo sguardo sorpresa e incuriosita.
Quello che vide la lasciò perplessa.
L’oggetto in cui era inciampata era un orsacchiotto. Un orsacchiotto di pezza, di quelli che si regalavano ai bambini piccoli. Anya sbatté le palpebre, confusa, raccogliendo il giocattolo da terra. Rimase a fissarlo per diversi istanti, rigirandoselo fra le mani. Era un orsacchiotto piuttosto malandato, a guardarlo bene, spelacchiato e con una forte carenza di imbottitura; intorno al collo aveva un fiocco rosso sbiadito, e dei due bottoni che fungevano da occhi ne era rimasto solo uno.
Anya aggrottò le sopracciglia: che ci faceva un oggetto del genere lì, in mezzo al nulla?
Se lo rigirò attentamente fra le mani, voltandolo: sulla schiena, in un angolo ricamata a caratteri minuti, c’era una scritta.
Bobo, lesse mentalmente Anya.
Sospirò, riprendendo a guardarsi intorno. Ormai non c’era più luce, e quasi non riusciva a vedere di fronte a sé. Doveva sbrigarsi a ritornare indietro, se non voleva…
Anya…
Sobbalzò, voltandosi in direzione della voce che l’aveva chiamata. Guardò alle sue spalle: non c’era nessuno.
- Chi è?- domandò all’aria, senza ottenere risposta.
Anya si passò una mano sulla fronte, imponendosi di non essere paranoica. Non c’era nessuno, lì con lei. Eppure, le era veramente parso di sentire qualcuno…
Anya…
La ragazza si voltò di scatto; stavolta l’aveva sentito bene, ma alle sue spalle non c’era nessuno.
- Ma che scherzo idiota è, questo?- ringhiò.- Chi ha parlato? Chi c’è là?
Anya…
Si sentì chiamare di nuovo, ma continuò a non vedere nessuno.
Anya…Anya…
La ragazza mosse un passo in direzione della voce; aveva un timbro infantile, sicuramente apparteneva  a un bambino. Anya mosse un altro passo in avanti.
- Chi è là?- ripeté.
La voce sembrava provenire da un punto oscuro e indistinto della foresta.
Anya…Anya…
Sì, si trattava sicuramente di un bambino. Anya mosse altri due passi verso l’oscurità da dove stava provenendo la voce.
­- Non riesco a vederti…- mormorò, chinandosi un poco in avanti. Tese la mano che reggeva l’orsacchiotto.- Ho trovato questo. E’ tuo?
Anya…
La voce era molto strana. Era certamente quella di un bambino, ma era come se fosse vicina e lontana allo stesso tempo, quasi come se lei la stesse udendo parlare attraverso un foro in un muro.
Anya si avvicinò ancora un poco agli alberi.
- E dai, vieni fuori…- mormorò, con un piccolo sorriso d’incoraggiamento.
Anya…vieni a giocare con me, Anya…
La ragazza aggrottò le sopracciglia.
- Dove sei? Non riesco a vederti!- ripeté, un po’ incerta. Perché non usciva allo scoperto?
Anya.
La ragazza si gelò: la voce era cambiata. Ora era più decisa, più forte, più matura. Più femminile. Più conosciuta…
Anya…
- Liz!- esclamò la ragazza, incredula. Prese a dirigersi con passo deciso verso l’oscurità fra gli alberi.
Anya…vieni qui, Anya…
- Liz, ma che fine avevi fatto?! Dai, esci da lì…
Anya!
La ragazza si arrestò a pochi centimetri dalla pozza di buio a cui stava andando incontro. Sentì il cuore mancare uno o due battiti, le mani divenirle sudate. Strinse convulsivamente l’orsacchiotto fra le dita.
Anya! Anya, vieni subito qui!
La voce era cambiata di nuovo: ora non era più né quella di un bimbo né quella di Elizabeth. Era più acuta e più decisa di quella di sua sorella, più secca, forte, perentoria.
Anya! Mi hai sentita? Ho detto di venire qui, subito!
Indietreggiò velocemente, allontanandosi il più possibile dall’oscurità. Le iridi verdi erano puntate verso il buio; Anya ansimava furiosamente, le gambe le tremavano, il cuore che sembrava volerle schizzare via dal petto.
- Mamma…!
Anya! Non costringermi a metterti in punizione! Anya!
- No…!- la ragazza indietreggiò velocemente, inciampando con un tacco in una pietra; cadde seduta sull’erba. Alcune ciocche di capelli le erano finite di fronte agli occhi, ma riusciva comunque a distinguere le sagome di fronte a sé. Buio, nient’altro che buio.
Si rese conto di aver iniziato a tremare furiosamente; cercò di ritrovare la lucidità, ma sentiva il proprio sangue pulsarle nelle tempie, il battito del suo cuore nelle orecchie, quasi non respirava.
Anya…Aaaaanyyyyyyaaaaa…
La voce era cambiata di nuovo, ritornando quella infantile che aveva udito la prima volta. Ma non era più la stessa. Ora era più acuta, strascicata, lontana e vicina allo stesso tempo.
E non era più una sola, realizzò. Erano tante voci, tutte voci di bambini che si sovrapponevano in una cantilena stridula.
 
Uno, due, tre,
l’Uomo Nero viene per te.
 
Anya piegò le ginocchia, aggrappandosi con le dita a dei fili d’erba.
Vattene!, urlò una voce nella sua testa. Vattene via da qui, alla svelta! Scappa!
 
A, b, c,
guarda alle tue spalle, lui è lì.
 
Una strana, inspiegabile, inquietante paura aveva iniziato a farsi strada dentro di lei. Non sapeva esattamente cosa fosse, ma la terrorizzava…e, anche se non sapeva perché, sentiva che qualcosa di terribile stava per succedere da un momento all’altro.
Anya si rialzò in fretta, iniziando a indietreggiare sempre di più. Avrebbe voluto scappare, ma era come se qualcosa la stesse bloccando. Paralizzando. Come se una strana forza le stesse impedendo di andarsene via da lì, ma solo di allontanarsi un poco dal buio.
 
Sotto al letto, in cantina,
l’Uomo Nero si avvicina.
 
Quella nenia continuava, ma stavolta era molto più vicina. Quasi al suo fianco.
Anya abbassò lo sguardo, ricordandosi solo in quel momento di avere ancora l’orsacchiotto Bobo fra le mani. Lo fissò, allentando istintivamente la presa mentre puntava le iridi nell’unico occhio a bottone del pupazzo.
D’un tratto, la bocca sigillata di Bobo si spalancò.
- Bambina cattiva!- gridò la voce di sua madre attraverso l’orsacchiotto.
Anya strillò, scaraventando il giocattolo lontano da sé e indietreggiando ancora, più veloce. La ragazza puntò lo sguardo verso l’oscurità.
 
Bugia, bugia…
l’Uomo Nero ti porta via!
 
Fece appena in tempo a udire un ringhio animalesco, prima che due occhi rossi le volassero addosso.
Anya gridò, ritrovandosi distesa supina a terra mentre una grossa ombra le gravava sul torace. Si dimenò nel tentativo di liberarsi, ma quella la schiacciava. Era un’ombra enorme, alta e grande, che riproduceva delle fattezze umane ma che di esse aveva solo la sagoma.
Anya sentì l’ennesimo grido morirle in gola, mentre la paura e il panico erano tornati a farsi strada dentro di lei. Puntò lo sguardo sull’ombra, incontrandone gli occhi rossi senza iridi né pupille.
Anya gridò quando si sentì colpire il volto, avvertendo subito dopo un forte bruciore seguito da un sapore amaro sulle labbra. Fece appena in tempo a rendersi conto di stare ingoiando il proprio sangue che gli artigli dell’ombra ripresero ad accanirsi su di lei, stracciandole la maglietta, squarciandole i jeans e graffiandole la pelle, una, due, tre, quattro, cinque volte, senza fermarsi, riempiendola di graffi e facendola sanguinare.
Si staccò da lei repentinamente, quasi fosse stata davvero solo un’ombra, e le afferrò una caviglia, circondandola con le dita artigliate. Anya urlò, tentando di aggrapparsi all’erba e al terriccio mentre l’ombra la trascinava con sé. Verso l’oscurità.
D’un tratto, la ragazza udì un fischio acuto squarciare l’aria, quindi l’ombra emettere un ringhio acuto e stridulo, quasi il rumore di un’unghia contro una lavagna. Anya alzò lo sguardo: una freccia aveva colpito l’Uomo Nero all’altezza di una spalla.
L’ombra scomparve, e la freccia cadde a terra come se non fosse mai stata scagliata. Anya voltò repentinamente il capo, incontrando la figura di Vincent.
Il Primo Ministro parve non badare a lei, ed estrasse velocemente un’altra freccia dalla faretra. L’Uomo Nero emise un altro ringhio stridulo; Anya si voltò: ora l’ombra era riapparsa a mezz’aria contro il tronco di un albero.
Vincent scoccò la freccia, ma l’Uomo Nero scomparve nuovamente, lasciando che la punta si conficcasse nel tronco.
Anya fece dardeggiare lo sguardo tutt’intorno alla radura avvolta nel buio, cercando di capire dove fosse andato. Vincent abbassò l’arco, raccogliendo da terra la torcia infuocata che aveva portato con sé, raggiungendo la ragazza; l’afferrò per un braccio, tirandola in piedi al suo fianco.
Il ringhio stridulo si ripeté, e l’Uomo Nero riapparve proprio a pochi metri da loro.
Vincent tenne saldamente il braccio di Anya, indietreggiando di qualche passo. L’Uomo Nero strillò, scoprendo i denti aguzzi e agitando gli artigli affilati.
Il Primo Ministro ringhiò, brandendo la torcia infuocata di fronte a sé.
L’Uomo Nero emise un sibilo acuto, scattando all’indietro non appena la luce del fuoco lo raggiunse. Vincent strinse i denti, agitando la torcia di fronte a sé; l’ombra si ritrasse come se la stessero pugnalando.
Anya sentì la stretta intorno al suo braccio aumentare.
- Sta’ vicino a me! Sta’ vicino alla luce!- urlò Vincent.- Ha paura della luce, gli fa male!
Anya lo vide muovere dei passi in avanti, sempre agitando la torcia in direzione dell’Uomo Nero. L’ombra si ritrasse, ma spalancò le fauci in un ringhio come per difendersi.
O attaccare.
Vincent digrignò i denti, tendendo il braccio; Anya lo vide lanciare con forza e furia la torcia contro l’ombra. Il fuoco colpì in pieno l’Uomo Nero.
Si udì un altro ringhio stridulo, ma molto più forte e acuto dei precedenti, quasi un urlo di dolore. Anya vide l’ombra ripiegarsi su se stessa. L’Uomo Nero continuò a strillare, contorcendosi; la sua figura iniziò a sformarsi, come fosse stata una chiazza d’inchiostro nell’acqua.
Anya avvertì un’ondata di gelo che le sferzò il viso e scompigliò i capelli, prima che l’ombra emettesse l’ultimo urlo acuto. Quindi, si dissolse nell’aria.
Tutt’intorno tornò immobile, silenzioso.
Anya ansimò; le pareva quasi che ora ci fosse più luce.
Vincent si allontanò da lei, muovendo qualche passo in avanti. La torcia era ancora accesa, e giaceva abbandonata a pochi metri da loro. Il Primo Ministro si chinò a raccogliere la faretra, staccando quindi la freccia dal tronco in cui si era conficcata. Anya vide che non staccava lo sguardo dal punto dove fino a poco prima c’era l’ombra.
L’Uomo Nero era sparito.
 
 
 
Angolo Autrice: Stavolta non dovete incolpare me per il ritardo, bensì il mio computer che ha pensato bene di andare in palla, cancellarmi il capitolo e causarmi così questa entrata in scena ritardataria del tredicesimo capitolo. Tredicesimo capitolo che, avrete notato, è diviso a metà. Sì, c’è una parte 2, e vi spiego subito il perché di questa scelta: essenzialmente, non volevo fare un capitolo troppo lungo, e ci tenevo a pubblicare almeno questa prima parte dato il ritardo. Comunque, il prossimo capitolo sarà più tranquillo di questo, si parlerà ancora dell’Uomo Nero si spiegherà meglio che cosa è e cosa fa…Avremo anche una parte su Elizabeth, Cenerentola e Cacciatore, più Lady Marian (che, penso lo abbiate capito, pure se sta in prigione è un personaggio importante) e Gaston, e il tanto atteso – almeno dai più, mi è parso di comprendere – avvicinamento fra Anya e il PM/Vincent e – anche se non prometto niente – un po’ di Tremotino e della sua vecchia amica, do you remember?
Questo capitolo è ricco di azione, spero tanto non sia risultato grottesco o ridicolo, in genere i combattimenti e le sparatorie non mi vengono molto bene…consigli e critiche sempre ben accetti, anche se con annesso lancio di pomodori.
Per chi segue Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast, aggiornerò la settimana prossima, dal momento che è successa la stessa cosa con questo capitolo – cancellazione inopportuna e inaspettata che mi ha causato una crisi isterica mica da ridere!
Chiedo scusa a tutti quanti.
Vediamo di aggiornare la classifica sulle ipotesi riguardanti il PM.
Abbiamo:
Robin Hood;
Il Cacciatore;
Il Principe Azzurro;
Il Lupo Cattivo;
Il cane da caccia del Cacciatore;
La Bestia de La Bella e la Bestia.
Per ora, Robin Hood rimane in testa alla classifica ;).
Ringrazio i lettori silenziosi, chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite e NevilleLuna, Malanova, cleme_b, Princess Vanilla, Pandora Stark, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito.
Ora (so che avete guardato questi link da quando avete scorto l’angolo autrice XD), let me explain…l’idea di mettere delle immagini di come potrebbero essere gli interpreti dei personaggi è arrivata dopo una serie di discorsi insieme a cleme_b…è una cosa che ho già fatto in passato, e visto che anche Pandora Stark ha fatto lo stesso nella sua storia…ecco qui.
Ammetto e rispetto il diritto di immaginarsi i personaggi come si vuole quindi, chi preferisce continuare su questa linea, può non aprire i link.
 
Anya (Katie McGrath):
 
http://1.bp.blogspot.com/-AtAeVVKr7BI/Tqd33e7O67I/AAAAAAAABcA/oWMeVwT68UA/s1600/Morgana_sitter.jpg  
Elizabeth (Emilie De Ravin):
 
http://images1.wikia.nocookie.net/__cb20130423201705/onceuponatime8042/images/0/06/219You'reAlive.png  
Primo Ministro/Vincent (James Franco):
 
http://www.yeshairstyles.com/wp-content/gallery/james-franco/james-franco-tristan-and-isolde-long-curly-hair-screen-grab-fashion-style.jpg
 
La Regina Cattiva (Monica Bellucci):
 
http://images.movieplayer.it/2003/06/23/monica-bellucci-e-la-splendida-queen-mirror-de-i-fratelli-grimm-17682.jpg
 
Lady Marian (Meghan Ory):
 
https://si0.twimg.com/profile_images/3404874071/ecf19f66ad532c6cb2f870c5d5664790.jpeg  
Il Cacciatore (Chris Hemsworth):
 
http://3.bp.blogspot.com/-7zlN4Tj3Z6Y/T8zcOc3NlXI/AAAAAAAAB58/ER9ly34W80Q/s1600/Chris-Hemsworth-in-Snow-White-and-the-Huntsman-2012-Movie-Character-Poster-600x876.jpg
 
Se l’idea vi è piaciuta, nel prossimo capitolo inserirò le immagini dei possibili Richard Hadleigh, Gaston, Nathan Jones, Albert Crawford, Cenerentola e Tremotino (a proposito di questi ultimi due…HELP!!! Un consiglio, please!).
Ciao, al prossimo capitolo!
Baci,

Beauty (ho cambiato nick, sì :).

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Capitolo 14
*** The Boogieman, part II ***


The Boogieman, part II

 
Il silenzio si fece velocemente innaturale.
Anya si sollevò a fatica in ginocchio con l’intenzione di rimettersi in piedi, ma prima di poterlo fare Vincent le volò addosso, afferrandola per il collo e sollevandola da terra.   La ragazza emise un gemito soffocato, più per la sorpresa che per il dolore, prima che il Primo Ministro la immobilizzasse spingendola contro un tronco d’albero.
- Tu, stupida ragazzina incosciente!
Anya sgranò gli occhi: il volto dell’uomo era vicinissimo al suo. Vincent la guardava come se volesse ucciderla.
- Tu non puoi neanche immaginare cosa sarebbe potuto succedere! Cosa volevi fare, farci ammazzare tutti e due?!
Anya boccheggiò, a malapena comprendendo ciò che stava dicendo. Fece saettare lo sguardo ora alla radura ora al volto dell’uomo, quasi senza accorgersi di avere ancora la sua mano intorno alla gola.
Vincent emise un ringhio di frustrazione; stava per riprendere a urlarle contro, quando si accorse dei tagli. Si allontanò un poco da lei, guardandola con attenzione: quella ragazza era piena di graffi.
La corta sottana che le arrivava alla vita e i pantaloni da uomo erano squarciati qua e là da lunghi tagli nella stoffa, attraverso i quali si scorgeva la pelle sanguinante. Sul volto, appena sotto lo zigomo sinistro, c’erano altri tre graffi. Vincent li guardò con attenzione: non erano poi molto profondi, e sicuramente non sarebbe rimasta alcuna cicatrice…ma sanguinavano.
Le lasciò andare la gola, voltandole le spalle e recuperando la torcia accesa da terra.
Anya schiuse la labbra come per dire qualcosa, ma dalla sua gola non uscì nulla.
- Torniamo indietro - disse Vincent con voce incolore.- Per stanotte non ci darà più fastidio, ma è meglio ritornare all’accampamento. Muoviti, vedi di stare al passo.
 

***

 
Alcuni deboli gemiti provenivano da oltre la porta della cella. Una guardia passò di fronte ad essa, gettandovi dentro una distratta e annoiata occhiata attraverso le sbarre della finestrella. Un altro soldato se ne stava di guardia in piedi sul posto, l’elmo nero calato sul capo quasi a nasconderle il volto e la lancia piantata dritta al suo fianco.
I gemiti si fecero appena più forti, e più frequenti.
La sentinella gettò un’occhiata d’intesa alla guardia.
- Ma questa da noie anche quando dorme?- s’informò.
- Credo che stia sognando - bisbigliò l’altro soldato di rimando.
La sentinella fece uno sbuffo divertito.
- Fossi in te, entrerei lì dentro e le darei un calcio. Le passerebbe la voglia di fare tutto questo rumore.
- La Regina ha proibito qualsiasi forma di violenza su di lei - replicò la guardia.- Ha detto che si tratta di una pedina troppo preziosa per poter essere danneggiata in alcun modo…
La sentinella sbuffò, contrariata, voltandosi per riprendere il suo giro di ronda. Sorpassò la cella, gettando un’ultima occhiata a Lady Marian, addormentata sul pagliericcio umido.
 
- Ti piacciono i dolci, vero?
- Sì, molto…
Non fidarti di lei! Vieni via, non darle ascolto!
La voce che la sta ammonendo è carica di preoccupazione, ma lei non l’ascolta. Le sembra familiare, la conosce, ma non sa dire chi sia. E poi, quella signora è così gentile…
Vieni via! Per favore, non ascoltarla!
- Ecco qui! Ti piace la torta di mele?
- Grazie…
No! Ti prego…
Fa freddo. E’ buio. La luce filtra attraverso le ante dell’armadio. Fa freddo, è buio, e lei sta così stretta. Vorrebbe uscire, ma non può. Sta succedendo qualcosa di brutto là fuori, e forse nascosta in quel luogo non è nemmeno al sicuro…
Ti prego…No...! Per favore, non fidarti di lei!
La voce continua a implorarla, ma ora non la sente più. Non sta gridando, o meglio sta gridando solo nella sua testa, non è più nelle sue orecchie, quella voce senza nome è un brutto ricordo, ora, un ricordo doloroso che ritorna come il più reale degli incubi.
Non fidarti di lei!
Fa freddo. E’ buio. Tutto è confuso, lei è stretta schiacciata fra i vestiti della mamma. Che sta succedendo là fuori? Dov’è la mamma? Perché papà sta gridando di nascondersi? Dove sono tutti?
Ha sentito il guaito del suo cagnolino. Sta male, lo sente quando sta male. Sta soffrendo, qualcuno gli sta facendo del male. Vorrebbe piangere, vorrebbe uscire da lì, ma non può farlo.
Sa che qualcosa di brutto sta succedendo là fuori. Non lo vede, ma lo sente.
Non fidarti di lei!
Sente le urla, un tonfo, la mamma che grida e piange, poi però anche il suo pianto cessa all’improvviso. Lei deve stare nascosta, qualunque cosa succeda non uscire da qui!, le ha detto papà prima di chiudere l’armadio, ma dov’è ora papà? Perché non lo sente gridare più? E perché non sente più la mamma, e il suo cagnolino, e quella voce che è tanto familiare ma che non riesce a ricordare?
Non fidarti di lei! E’ cattiva!
Ora c’è solo silenzio. Così silenzio che riesce anche a sentire il suo respiro. Come si può sentire il respiro? Ma se lo sente vuol dire che è viva…quando sei morto il tuo respiro non lo senti più…
E poi, l’armadio si spalanca…
 
Lady Marian si svegliò di soprassalto, lanciando un grido che le morì immediatamente sulle labbra non appena si rese conto di trovarsi nel solito luogo. La sua cella nei sotterranei del castello. Prigioniera della Regina Cattiva. Non che fosse molto rincuorante, ma senza dubbio meglio di…
Lady Marian sospirò, mettendosi a sedere sul pagliericcio e abbandonando il dorso contro la parete umida alle sue spalle. Chiuse gli occhi, inspirando a fondo e cercando di regolarizzare il proprio respiro.
Come si può sentire il respiro? Ma se lo sente vuol dire che è viva…
Da non molto tempo erano ricominciati. I sogni. Quei sogni tremendi a cui non aveva mai saputo dare un significato e che l’avevano sempre tormentata, sin da quando ne aveva memoria.
Ovvero molto poco.
Lady Marian sospirò, riaprendo gli occhi e riacquistando un poco di calma e concentrazione. L’aveva confessato solo a poche persone – il suo amico Cacciatore, il Primo Ministro…e l’uomo che amava, naturalmente. Chissà dov’era lui, in quel momento? Erano già tre anni che non lo rivedeva…era vivo o morto? –, le quali non avevano potuto fare altro se non aiutarla e confortarla quando si risvegliava da uno dei suoi incubi, ma a poco era servito. Una volta, ricordò, il Primo Ministro – viscido traditore! – le aveva suggerito che forse i suoi sogni erano in realtà dei ricordi.
- Potrebbe anche essere…- aveva soggiunto il Cacciatore.- Se non ricordi chi sei, se non rimembri nulla del tuo passato…allora potrebbe essere che i tuoi sogni ti stiano dicendo qualcosa riguardo a esso…
Beh, pensò Lady Marian, se i suoi sogni erano il suo passato, allora doveva essere un passato veramente molto brutto.
Non aveva altri ricordi che risalissero a prima dei suoi otto anni, quando era stata accolta al castello della Regina Cattiva, diventandone col tempo la sua dama di compagnia. All’epoca la Regina si fidava di lei, e lei si fidava della Regina…prima che scoprisse quale essere spregevole fosse in realtà e quali fossero i suoi piani, e decidesse di unirsi alla ribellione. La sua vicinanza alla sovrana e ai suoi segreti aveva fatto di lei un membro prezioso dei ribelli, ma alla fine non era servito a risparmiarle l’accusa di alto tradimento e la prigione.
E tutto per colpa del Primo Ministro.
Lady Marian rise amaramente ricordando di quando l’aveva abbracciata fingendo sollievo quella notte in cui aveva fatto tardi, di come l’aveva presentata al Cacciatore e all’uomo di cui si sarebbe innamorata elencando loro tutte le sue qualità, di quando correva al suo letto la notte quando si risvegliava dai suoi incubi.
Falso. Tutto falso.
Alla fine il Primo Ministro li aveva traditi tutti, aveva fatto incarcerare lei e molto probabilmente anche il Cacciatore, e sicuramente doveva essersi vendicato anche su di lui.
Già, lui…Lady Marian non sapeva più nulla di lui, da tre anni, ormai. Non sapeva dove fosse, se stesse bene, ma non osava neppure pensare che non fosse più in vita. L’aveva sognato spesso, lì in cella, e quei sogni erano stati piacevoli.
Invece, da qualche tempo, gli incubi erano ricominciati. Forse il Cacciatore aveva avuto ragione, forse quelli erano davvero ricordi sopiti del suo passato…ma erano tremendamente confusi. A volte le voci erano familiari, altre volte non lo erano per niente, e c’erano sempre urla, buio…e paura. Tanta paura.
Lady Marian non aveva idea di cosa volessero dirle quei sogni…ma era meglio che lei si sbrigasse a decifrarli, se voleva uscire inerme da quella storia. La Salvatrice era tornata, e questo voleva dire che la Luna di Sangue era vicina…il suo amico Cacciatore era là fuori, chissà dove…
E lei non aveva dimenticato le parole della Regina.
Lady Marian voltò lentamente il capo, puntando lo sguardo sulla parete opposta.
La scritta era ancora lì, incisa nella pietra.
 

Senza cuore è la Regina,

solo il Vero Amore salverà la prima bambina.

 
Ogni volta che la leggeva, Lady Marian avvertiva un brivido lungo la colonna vertebrale. Che voleva dire?
 

***

 
Il fuoco scoppiettava mandando alcune scintille qua e là. Anya continuò a guardarlo, piegando le ginocchia e abbracciandosi le gambe. Si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, scoccando un’occhiata di sottecchi a Vincent. Lo vide strappare un lembo del proprio mantello, quindi slacciare dalla cintura di pelle una fiaschetta di cuoio.
L’uomo fece una smorfia infastidita e contrariata, aprendo la fiaschetta e versandone il contenuto sul pezzo di stoffa. Era un liquido scuro, rossastro, e il suo odore ricordò molto ad Anya il vino rosso.
Vincent si morse l’interno della guancia.
- Stai ferma.
Anya lo guardò, sconcertata; prima che potesse replicare o chiedere spiegazioni, Vincent le accostò il panno impregnato di vino allo zigomo, premendolo contro la pelle. Il bruciore dell’alcool a contatto con le ferite sanguinanti fu lancinante, e Anya lanciò un grido di dolore, allontanandosi di scatto.
Quella reazione lo fece innervosire non poco.
- Vuoi che s’infettino?!- ringhiò.
- Ma cavolo mi hai fatto male…!
Il Primo Ministro le tirò addosso il panno, colpendola all’addome.
- E allora fallo da sola!- borbottò, voltandosi appena dall’altra parte.
Anya digrignò i denti, aggrottando le sopracciglia; prese malamente il panno fra le mani e con esso colpì Vincent a una spalla. Il Primo Ministro le diede una spinta, con poca forza, ma tale da farle perdere l’equilibrio della posizione seduta e inclinarsi di lato.
L’uomo sbuffò, tornando a fissare il fuoco.
- Stupida ragazzina…!- borbottò.
Anya si risollevò, tornando in posizione seduta; appoggiò malamente il dorso contro il tronco della quercia alle sue spalle, rigirandosi il panno fra le mani. Scoccò un’ultima occhiata a Vincent, quindi accostò lentamente il pezzo di stoffa allo zigomo. Emise un sibilo di dolore quando il bruciore si ripeté, ma se non altro ora, con una maggiore delicatezza, era un poco più attenuato.
Anya continuò a tamponare delicatamente il sangue, alzando lo sguardo al cielo. Il sole stava tramontando, fra non più di dieci minuti sarebbe stato completamente buio, pensò.
La colse un assalto di angoscia.
- Sta per fare buio…- mormorò.- Quella…quella cosa…ritornerà?- chiese, temendo non poco la risposta. Vincent sospirò, gettando un altro legnetto nel fuoco.
- No - dichiarò infine.- Per stanotte ci lascerà in pace, ma tornerà. Dovremo prestare attenzione, in futuro, specialmente la notte. Lui può muoversi solo con il buio.
- Chi era?- Anya voltò il capo in direzione di Vincent.
Il Primo Ministro non la guardò, rispondendole con una piccola risatina senza alcuna traccia di allegria.
- Chi era?- sibilò.- Faresti meglio a chiedermi che cosa era…
Anya prese a fissarsi le ginocchia, continuando a tamponarsi il viso; il bruciore era quasi scomparso.
- Sì, avevo intuito che non fosse esattamente un essere umano…- borbottò.- Comunque, che accidenti era, si può sapere?
- L’Uomo Nero.
Anya si sentì percorrere da un brivido, anche se non sapeva esattamente a che cosa fosse dovuto. Forse al fatto di essersi appena trovata faccia a faccia con una creatura che mai avrebbe pensato esistesse davvero e il cui solo nome era già tutto un programma. O forse perché Vincent l’aveva dichiarato con un tono così duro e piatto allo stesso tempo, come se stesse parlando di una cosa sì poco piacevole, ma anche estremamente scontata, che l’aveva lasciata quasi sconvolta.
Forse un mix di entrambe le cose.
- L’Uomo…l’Uomo Nero?- boccheggiò.
- Tendi spesso a ripetere quello che dicono gli altri?- borbottò Vincent.
Anya si zittì; ora il bruciore era cessato, e sicuramente le ferite erano disinfettate. Lasciò cadere il panno di lato, ripromettendosi di scoprire che accidenti di liquore Vincent ci avesse versato sopra.
Tornò a fissare il fuoco, ripensando a quanto era successo. I graffi sul volto non erano gli unici, ricordò: quella creatura l’aveva colpita anche in altre parti del corpo, squarciandole gli abiti e la pelle. Tutto con la sola forza delle unghie.
Anya avvertì un tuffo al cuore; mio Dio, quell’essere aveva unghie affilate come artigli! Per non parlare dei denti…e degli occhi…
E Vincent avrebbe detto che sarebbe tornato con il buio.
- Ma ora è ferito - disse all’improvviso; Vincent si voltò per la prima volta a guardarla, leggermente sorpreso. Anya ricambiò lo sguardo, incerta.
- L’hai…l’hai colpito, no?- insistette.- L’hai colpito con una freccia…e poi, il fuoco…
- Non cantare vittoria troppo presto - l’ammonì Vincent, con voce piatta.- Non servono le frecce per ferirlo, con l’Uomo Nero è tutto inutile. Il fuoco forse può averlo indebolito, ma di certo non si lascerà abbattere per così poco. Ora è solo più debole, ma non appena si sarà rigenerato tornerà.
- Avevi detto che la luce gli fa male…- osservò Anya.
- E’ vero, ma di certo una fiammella non è sufficiente - spiegò Vincent; alla ragazza parve quasi che il suo volto si fosse disteso, che le parlasse più volentieri.
O perlomeno, meno malvolentieri di quanto non facesse prima.
- Non sarà certo una torcia accesa a ucciderlo…sempre che possa effettivamente venire ucciso…
- Lui non…non può morire?- chiese Anya con un filo di voce.
Vincent ravvivò brevemente il fuoco con un rametto.
- No - mormorò infine.- No, non può morire. Può essere ferito, indebolito, e anche imprigionato, ma di certo non può morire.
- Com’è possibile?- protestò la ragazza.- Non esiste un uomo che non possa morire, è assolutamente…
- Mi pareva di aver chiarito che non si tratta di un uomo - ringhiò Vincent, innervosito.
- E allora che cos’è, di grazia?!
Vincent distolse lo sguardo, visibilmente irritato. Anya sospettò che lo infastidisse dover rispondere a tutte quelle domande, ma non le importava. Era appena stata aggredita da un’ombra famelica e umanoide che si era rivelata essere nientemeno che l’Uomo Nero, e anche se l’aveva scampata per un pelo, riteneva di essere uscita da quell’incontro non esattamente gradevole piuttosto malconcia.
Aveva il diritto di sapere con chi aveva a che fare. Specialmente ora che si trovava in una dimensione parallela decisamente fuori controllo e aveva perso Elizabeth. Se quell’essere fosse tornato, allora forse nemmeno sua sorella sarebbe stata al sicuro.
E poco importava se Vincent la considerava una ragazzina petulante. Le avevano detto anche di peggio.
- L’Uomo Nero…lui…non è niente - mormorò infine il Primo Ministro.- Non è un uomo, né un animale, e nemmeno un oggetto inanimato come gli alberi o le rocce. E’ solo un’ombra, una maledetta ombra che, tuttavia, è anche una delle cose più temute di questo mondo…
- Ma come può esistere?- Anya si sporse un poco in avanti per poterlo guardare meglio.- Se è solo un’ombra, com’è possibile che…
- E’ la paura, che lo genera - l’interruppe Vincent.- L’Uomo Nero è nato grazie alla paura, vive della paura e si nutre di essa. Per questo non può morire. Può essere allontanato o sconfitto per un breve tempo, quando riesci a vincere il tuo timore. Ma non scomparirà mai del tutto, non morirà mai…non finché al mondo ci sarà la paura.
Anya era ammutolita; improvvisamente, si sentì inerme, indifesa. Fragile. Come se fosse stata una bambola di porcellana e fosse bastato un solo movimento brusco per far traballare lo scaffale su cui era sistemata e farla cadere a terra, lasciando che s’infrangesse in mille pezzi.
Odiava quella sensazione.
- Da qualche parte, in qualunque mondo, ci sarà sempre qualcuno che avrà paura - proseguì Vincent, con una calma che alla ragazza pareva assurda e innaturale. Diamine, si rendeva conto che le stava descrivendo un mostro?!.- Paura dell’oscurità, paura della morte…è la paura che lo attira, e la paura è sempre più forte quando calano le tenebre. Quella cantilena che hai udito…la cantavamo noi bambini per cercare di tenerlo lontano, ma con il passare dei secoli è divenuta il suo marchio, tanto che sono le stesse persone che ha portato via a cantarla, e ogni volta che la senti vuol dire che lui sta arrivando…
- Ma che fine hanno fatto le persone che ha preso?- insistette Anya; si rese conto che il suo tono di voce aveva assunto una tonalità isterica.- Dio, erano dei bambini a cantarla…Che fine hanno fatto?
- Questo nessuno lo sa. Nessuno che sia mai stato portato via dall’Uomo Nero è mai tornato per raccontarlo. Comunque, il fatto che tu abbia udito delle voci di bambini non deve risultarti insolito. L’Uomo Nero ha sempre prediletto i bambini. Sono le sue prede preferite, perché sono ancora piccoli e più facili da intimorire. Prima che fosse imprigionato, era fuori controllo: entrava nelle loro stanze di notte, si nascondeva sotto ai loro letti o dietro i tinelli, spesso li attirava imitando le voci dei genitori o entrando in un giocattolo. Poi, riuscirono a fermarlo, ma ora è di nuovo libero…E’ un mostro, a tutti gli effetti.
Anya era senza parole; quasi stentava a credere a ciò che le stava dicendo Vincent, le pareva impossibile che un essere del genere fosse sempre esistito…e che avrebbe benissimo potuto entrare in camera sua e di Liz quando erano bambine, e portarle via.
E’ un mostro, a tutti gli effetti.
Quasi si vergognava ad ammetterlo, ma non si era mai preoccupata dell’Uomo Nero. Non le era mai passato per la testa che qualcuno o qualcosa si potesse nascondere sotto al suo letto o dentro l’armadio. E nemmeno a Liz, ne era certa. Sebbene sua sorella avesse da sempre avuto una fantasia ben più fervida della sua, Anya era sicura che non si fosse mai preoccupata dell’eventualità che ci fosse un mostro da qualche parte.
Anya! Non costringermi a metterti in punizione! Anya!
Bambina cattiva!
Non aveva mai temuto di poter un giorno aprire le ante dell’armadio, o sollevare la coperta e guardare sotto al letto e trovarci l’Uomo Nero, o che un mostro potesse entrare in casa.
Perché il mostro era già in casa.
E non le serviva nascondersi da qualche parte e attendere il buio per fare del male a lei e a Elizabeth.
Le bastava semplicemente attraversare il corridoio…
Vincent si alzò di scatto, e Anya fu quasi sollevata quando quel gesto riuscì a distoglierla da quei cupi pensieri. Benché, se qualcuno gliel’avesse chiesto, non l’avrebbe confessato mai, l’aver sentito la voce di sua madre dopo tanto tempo l’aveva scossa parecchio.
- Hai fame?
Anya lo guardò, sorpresa: non tanto per il fatto che fino a una sera prima non si era mai curato di questo particolare, quanto piuttosto perché lei stessa se ne era completamente dimenticata. Da quanto non mangiava? Un paio di giorni? Ricordò che durante tutto il cammino di quella giornata aveva sentito più volte il suo stomaco brontolare, ma in quel momento, complice anche lo spavento preso a causa dell’Uomo Nero, quello stesso stomaco sembrava essere chiuso in una morsa.
Vincent non attese risposta; con ulteriore stupore della ragazza, estrasse da una tasca del mantello una mela rossa, porgendogliela con fare sbrigativo.
- Tieni. Mi servi in forze per domani, se svenissi per la fame mi rallenteresti e basta.
Che gentiluomo!, ironizzò Anya. Guardò la mela che il Primo Ministro le porgeva: era grande, straordinariamente lucida e rossa. Molto rossa.
Il Primo Ministro scoprì un ghigno beffardo.
- Cosa c’è? Forse preferisci la testa di un coniglio?
Anya serrò le labbra a fessura, innervosita, e gli strappò la mela di mano.
- Grazie…- borbottò; continuò a guardare quella mela, tracciandone i contorni con le dita.
Il Primo Ministro ravvivò nuovamente il fuoco.
- Non sono riuscito a procurarmi di meglio, per oggi ti dovrai accontentare - aggiunse; le scoccò un’occhiata di sottecchi: la ragazza teneva lo sguardo fisso sul frutto, rigirandoselo fra le mani. Tutta la sua espressione lasciava trapelare diffidenza e ostilità.
Vincent scoprì un altro ghigno.
- Che c’è?- la beffeggiò.- Madamigella forse non gradisce?
Anya strinse il frutto fra le mani, continuando a fissarlo. Era solo una mela, in fondo. E aveva anche un aspetto invitante. Ma era rossa. Troppo rossa.
Sollevò lo sguardo sull’uomo.
- E’ avvelenata?- ringhiò.
Forse non era una divoratrice di libri come Liz; forse non credeva nelle favole; forse in quel luogo era la meno esperta e sapeva meno di sua sorella come muoversi. Ma non era così ignorante in materia, le favole più famose le conosceva e da bambina aveva visto i film della Walt Disney.
E non era poi così sprovveduta. I concetti generali li sapeva, e aveva sempre avuto una sorta di sesto senso per le fregature.
Il Primo Ministro rimase a guardarla per qualche istante, stavolta sinceramente e palesemente stupefatto. Con grande sconcerto della ragazza, le scoppiò a ridere in faccia.
- Avvelenata?!- rise Vincent.- E che senso avrebbe ucciderti adesso? Come farei ad arrivare alla Pietra, me lo spieghi?!
Anya distolse lo sguardo, arrossendo vistosamente; si sentì infinitamente idiota.
Il Primo Ministro smise di ridere, ma mantenne il ghigno di beffa di poco prima, avvicinandosi a lei.
Le strappò la mela di mano.
- Mi spiace per te, ma hai perso l’occasione.
Anya lo guardò, attonita: il Primo Ministro diede un morso alla mela, per poi gettarla lontano da sé.
- E ora è meglio se chiudi la bocca e con essa anche gli occhi. Domani si riparte all’alba.
Ad Anya il suo tono di voce parve molto sbrigativo, come se volesse risolvere una questione il più presto possibile. Sollevò nuovamente lo sguardo al cielo: ormai il sole era quasi calato. La notte era vicina.
- Tu dormi; io resto di guardia.
Anya lo vide allontanarsi da lei a passo svelto, quindi Vincent si sedette all’altro capo della radura, il più lontano da lei. Sollevò il cappuccio del mantello, voltandole le spalle.
- D’accordo…- mormorò la ragazza, sconcertata, distendendosi sull’erba. - Solo, potresti dirmi quando inizia il mio turno?
- Non c’è nessun turno. Ho detto di dormire, qui ci penso io.
- Ma…
- Vuoi stare zitta?!- ringhiò Vincent, senza guardarla.
Anya lo osservò per un lungo istante, chiedendosi perché mai avesse sollevato il cappuccio e ora le desse le spalle.
Il buio era quasi calato.
- Okay…- acconsentì lei, dubbiosa, stendendosi completamente.
Lasciò trascorrere qualche istante di silenzio, prima di parlare di nuovo.
- Comunque, io mi chiamo Anya Hadleigh - disse, ricordandosi di non essersi mai presentata.
- Si suppone che m’interessi?
Anya aggrottò le sopracciglia, innervosita.
Stronzo!
Si voltò dall’altra parte, raggomitolandosi su se stessa, ben decisa a non parlargli più per tutta la notte e di provare a dormire almeno un po’, per quanto glielo consentiva l’erba umida e le rocce spigolose sotto di lei.
Vincent si calò ancora di più il cappuccio sul capo, stringendosi nel mantello. Ora era completamente buio, e lui l’aveva scampata per un pelo. Non avrebbe dovuto importargli che una stupida ragazzina che, peraltro, sarebbe morta molto presto, vedesse le tracce di una cosa che non esisteva più.
Ma non voleva ugualmente. Non voleva che lei lo guardasse negli occhi.
Sospirò; prima avrebbero trovato la Pietra, prima le avrebbe potuto strappare il cuore, e prima le avrebbe strappato il cuore, meglio sarebbe stato per tutti quanti.
Per il momento, lei pareva fidarsi di lui e della sua parola, e questo voleva dire meno intralci e pesi morti. Ma non significava che non fosse stata ingenua a donargli così facilmente la sua fiducia.
Le aveva detto che non avrebbe avuto senso avvelenarla adesso, ed era la verità.
Non le aveva giurato che non l’avrebbe mai uccisa…
 

***

 
- Ma si può sapere chi siete?! Che volete da me?!
Gaston continuava a sbraitare da almeno un’ora, ma nessuno di quegli uomini si degnava di rispondergli o di dargli spiegazioni. L’avevano tirato malamente fuori dall’acqua, legato, imbavagliato, spintonato fino a quel casolare abbandonato dove l’avevano spinto su una seggiola e immobilizzato.
Erano tre uomini, tutti vestiti con divisa nera, stivali di pelle e mantello, quasi fossero usciti da uno di quei pallosi film in costume. Uno di loro, presumibilmente il capo, aveva il volto sfregiato da una cicatrice ancora recente che gli attraversava tutta la parte sinistra del volto.
- Che cosa volete?! Dove sono finito?!- ansimò rabbiosamente Gaston.
- Silenzio!- tuonò il capitano Navarre.- Da questo momento in avanti sei nel territorio di Sua Maestà la Regina Cattiva!
Il volto di Gaston si distese in una risata nervosa.
- Ma cos’è, uno scherzo?!- fece.- La Regina Cattiva? Ma siete fatti, o…
- Ho detto silenzio!- urlò Navarre, sfoderando la spada. Gaston sentì il proprio cuore mancare un battito quando il capitano gli puntò la lama affilata sotto al mento, all’altezza della gola.
Iniziò a sudare, ansimando, il cuore che batteva a mille. Non era uno scherzo, per niente, realizzò.
Navarre inclinò il capo di lato, squadrandolo con attenzione.
- No. Quest’uomo non ha niente a che fare con quelle due - dichiarò.- Che ne facciamo di lui?- chiese, rivolto ai suoi scagnozzi.
- Uccidetelo, capitano!- disse uno dei soldati.
- No!- implorò Gaston, sull’orlo delle lacrime.- No, vi prego, no…
- Zitto, o ti trapasso da parte a parte!- minacciò Navarre.
- Uccidetelo…- ripeté il soldato.- Non ci serve. Abbiamo già abbastanza prigionieri, questo di sicuro non…
- Capitano - lo interruppe l’altro soldato.- Capitano, io avrei una soluzione migliore…
Navarre lo guardò, senza abbassare la lama.
Il soldato squadrò attentamente Gaston, quindi si schiarì la voce.
- Guardatelo, capitano - disse infine.- E’ alto, ben piazzato, sembra forte e sano. Con l’addestramento adeguato, potrebbe divenire un’ottima recluta.
- Stai suggerendo di farlo diventare uno dei nostri?- la voce di Navarre era carica di scetticismo.
- Ci occorre un nuovo soldato - spiegò l’altro.- La biondina ha ucciso Boris, Xavier è ferito e quell’uomo ha strangolato Claude. Un uomo in più gioverebbe a tutti.
Navarre si umettò le labbra, riflettendo sulla proposta. Squadrò Gaston: effettivamente, aveva il fisico adatto per un soldato, anche se non pareva essere troppo intelligente. Beh, poco male. L’importante era che fosse bravo e celere nell’eseguire gli ordini.
- Molto bene - dichiarò, ritraendo la spada.- Come vi chiamate, giovane?
- Gaston…- soffiò l’altro, più frastornato che mai.
- Gaston? Gaston. Molto bene, Gaston, a voi la scelta: potete decidere di morire qui, oppure unirvi a noi al servizio della Regina. Cosa scegliete?
Gaston deglutì, incredulo, confuso, frastornato, impaurito come mai lo era stato.
E avrei una scelta?!
- Allora?- incalzò Navarre.
- Accetto.
 

***

 
Cenerentola posò velocemente una ciotola d’acqua sul pavimento, afferrando alcune pezze e immergendone una fino a impregnarla completamente. Elizabeth s’inginocchio di fianco al corpo immobile del Cacciatore.
- Ecco, tieni!- Cenerentola le porse la pezza bagnata.- Tampona la ferita, io penserò a rinfrescargli la fronte…
Elizabeth annuì, afferrando la pezza impregnata di acqua calda e tornando a fissare il punto in cui l’uomo era stato ferito. Dopo che aveva perso i sensi nella foresta, lei e Cenerentola erano riuscite a trasportarlo fino al villaggio, infilandosi nella prima casa la cui porta avevano trovato aperta. Lei si era occupata di distenderlo sul pavimento, mentre la bionda aveva preso a rovistare in ogni luogo alla ricerca di ciò che le occorreva. Le aveva raccomandato di non toccare assolutamente coperte, bicchieri, posate, e qualunque altra cosa potesse essere giunta a contatto con il respiro delle persone. Era probabile che il colera fosse ancora in agguato, le aveva spiegato.
Elizabeth sollevò attentamente un lembo della casacca dell’uomo, squarciata all’altezza del fianco dal colpo di spada ricevuto. Un taglio piuttosto profondo, anche se non così tanto da danneggiare gli organi interni, divideva la pelle e la carne di almeno dieci centimetri, spargendo un sacco di sangue.
Già, il sangue…se quello poteva veramente essere definito sangue.
Elizabeth lo osservò attentamente, ritrovandone similitudini anche sul taglio poco profondo e ormai in via di guarigione sulla gamba di Cenerentola. Il sangue del normale color rosso scuro si mischiava a una sostanza altrettanto liquida e vischiosa, di uno strano e innaturale nero pece. Elizabeth si era sporcata le dita con essa quando aveva deposto il Cacciatore sul pavimento: era appiccicosa proprio come il sangue, ma quel nero non era normale.
Pareva quasi inchiostro, più che sangue.
- Che fai lì impalata?!- la riscosse Cenerentola, posando un’altra pezza bagnata sulla fronte del Cacciatore. - Forza, che aspetti? Bisogna lavare via il sangue!
Elizabeth si riprese, annuendo, e ubbidì. Tamponò con la pezza prima le parti intorno alla ferita, quindi passò al taglio vero e proprio. A quel punto, il Cacciatore sussultò. Elizabeth ritrasse istintivamente la mano; l’uomo continuava a tenere gli occhi chiusi, ma quando Cenerentola gli tamponò le tempie emise un mugolio e voltò il capo di lato. Le palpebre iniziarono a muoversi.
- Si sta svegliando…- sussurrò Cenerentola.- Com’è quella ferita?
- Profonda, anche se non sembra grave. Ma credo che gli occorra qualche punto - osservò Elizabeth.
- Qualche…punto?- Cenerentola inarcò un sopracciglio, confusa.
- Ehm…voglio dire…credo che dovremmo ricucirla…- precisò la ragazza, dandosi mentalmente della stupida. Ancora non aveva assimilato bene il concetto che in quel luogo la gente parlava, si comportava, e magari anche pensava in maniera diversa dalla sua; era ovvio che Cenerentola non capisse a cosa si stava riferendo. Dal modo in cui guardava i suoi abiti, Elizabeth aveva dedotto che ancora non si capacitasse che lei indossasse dei jeans, o pantaloni secondo la bionda. Senza contare che aveva già fatto la cavolata di raccontarle tutta la sua storia…
Cenerentola tamponò ancora un poco la fronte dell’uomo. Il Cacciatore mugolò nuovamente, aprendo gli occhi. Sbatté più volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco le immagini di fronte a sé.
- Oh, siete sveglio!- esclamò Cenerentola, con un sorriso d’incoraggiamento.- Come vi sentite?
Il Cacciatore non rispose, portandosi una mano alla fronte. Guardò lentamente le due ragazze, mettendone a fuoco i volti. La prima cosa che notò fu che dovevano avere all’incirca la stessa età: una era bionda, con i capelli lunghi, molto magra ma con un viso estremamente grazioso, ed era vestita di stracci; l’altra aveva i capelli color castano scuro, lunghi, aveva il viso ovale e sembrava meno denutrita della bionda, e indossava degli abiti maschili.
Il Cacciatore riconobbe entrambe come le ragazze che aveva salvato nella Foresta Incantata; spostò lo sguardo sulla brunetta: aveva un’aria molto familiare, doveva averla già vista da qualche parte…
All’improvviso, i pochi e sbiaditi ricordi della precedente luna piena ritornarono nella sua mente, e rivide la stessa ragazza che ora stava di fronte a lui gridare e cercare di sfuggire al mostro che era diventato.
Si sollevò da terra con tanta foga da lasciarle entrambe stupefatte.
- Per tutti gli dei…!- esclamò, guardando Elizabeth.- State bene? Siete ferita?
- Ehm…questo forse dovrei chiedertelo io…- mormorò la ragazza, perplessa, indicando la ferita all’altezza del fianco.
Il Cacciatore abbassò lo sguardo, frastornato.
- Ma che…?
Improvvisamente, il dolore che fino a un attimo prima non aveva avvertito parve manifestarsi in tutta la sua forza, portandolo a emettere un gemito soffocato e a portarsi una mano al fianco. Cenerentola lo afferrò per le spalle, facendogli poggiare il dorso contro le pietre che circondavano il focolare.
- State giù!- lo ammonì.- State fermo, la ferita è ancora aperta e avete perso un sacco di sangue…
- Voi state bene?- s’informò il Cacciatore, guardando entrambe.- Quando ho visto cosa stavano per farvi i soldati della Regina, io…
- Lo sappiamo, e ve ne siamo infinitamente grate. Ma lo saremo ancora di più se ora voi starete fermo e mi lascerete ricucire quella ferita - disse Cenerentola; si alzò da terra dirigendosi verso una cassettiera poco distante, iniziando a rovistarvi all’interno.
Elizabeth si avvicinò al Cacciatore, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un po’ a disagio.
- Grazie…- soffiò.- Per averci salvate…
- Di nulla…- il Cacciatore fece un debole sorriso.- Voi come vi chiamate?
- Io sono Elizabeth, e lei è…
- …Cenerentola - concluse la bionda, ritornando con ago e filo in mano. Elizabeth la guardò: l’aveva sentita pronunciare il suo nome solo un paio di volte, e in entrambi i casi lo aveva accompagnato ora con un sorriso amaro ora con una smorfia infastidita.
Cenerentola s’inginocchiò accanto al Cacciatore, infilando il filo nella cruna dell’ago.
- Non muovetevi. Cercherò di essere il più delicata possibile…
La bionda infilò la punta dell’ago nella pelle, iniziando a ricucire la ferita. Il Cacciatore fece una smorfia di dolore, ma presto questo si attenuò.
- Cosa volevano i soldati della Regina da voi?
- Semplicemente ucciderci - rispose Cenerentola, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo.
- Chi sei? Da dove vieni?- domandò Elizabeth.
- Sono un cacciatore. Ero prigioniero della Regina, ma sono riuscito a fuggire…
- Prigioniero?- fece eco Cenerentola.- E perché mai?
Il Cacciatore distolse lo sguardo, evitando di rispondere. Si vergognava già abbastanza di ciò che era diventato e di cosa aveva fatto; se quelle due ragazze l’avessero scoperto, probabilmente l’avrebbero allontanato. E lui non poteva andarsene, non ora che aveva trovato una delle due prescelte, quella che avrebbe con ogni probabilità potuto essere la Salvatrice.
Anche se, se davvero aveva intenzione di continuare a proteggerla, avrebbe innanzitutto dovuto provvedere a proteggerla da lui stesso. Non avrebbe potuto tenerle nascosto il suo segreto molto a lungo.
Il Cacciatore era consapevole che, scappando dalle prigioni della Regina, si era soltanto risparmiato le catene e tante frustate. Ma non era scampato alla maledizione della luna piena. Al prossimo plenilunio si sarebbe trasformato, in ogni caso. Ma non sarebbe più stato sotto il controllo della Regina Cattiva…o almeno così sperava.
In ogni caso, il problema era tutt’altro che risolto: se anche la Regina non avesse più potuto controllarlo, la prossima luna piena lui si sarebbe trasformato in ogni caso. E sarebbe stato fuori controllo. Avrebbe potuto fare del male a qualcuno. Avrebbe potuto uccidere di nuovo.
Non poteva rischiare di mettere in pericolo delle persone, specialmente quella ragazza che lo stava curando in quel momento e una possibile Salvatrice. La cosa più giusta e prudente da fare sarebbe stato andarsene in quel momento, ma non poteva farlo. L’Oscurità si avvicinava; la Luna di Sangue era ormai prossima; e le cose nel Regno delle Favole avevano cominciato, sebbene impercettibilmente, a peggiorare. Bastava guardare quel villaggio distrutto dai saccheggi.
Aveva un dovere verso la ribellione, verso il suo mondo e verso la Salvatrice, e l’avrebbe portato a termine. Non poteva permettere che la Regina riportasse in vita i Grimm, o che usasse Lady Marian per chissà quale oscuro piano, o che uccidesse la prescelta; se una cosa del genere fosse accaduta, allora ciò avrebbe decretato la fine del mondo che conosceva. Non poteva lasciare che avvenisse.
Doveva proteggere la Salvatrice, aiutarla a portare a termine la sua missione.
Doveva trovare un modo per fermare la sua maledizione. Qualunque sortilegio poteva essere spezzato, lo sapeva. Anche la maledizione della luna piena poteva essere annullata…doveva solo capire come.
Chiuse gli occhi, sperando che le due ragazze attribuissero questo gesto al dolore causato dalla ferita, e prese una decisione. Sarebbe rimasto insieme alla Salvatrice…quanto alla maledizione, gliel’avrebbe detto quando sarebbe stato il momento, e nel frattempo avrebbe cercato una cura.
Ma per ora, sarebbe rimasto.
 

***

 
In genere gli sarebbe bastato schioccare le dita per materializzarsi nel preciso luogo in cui desiderava andare, ma quel giorno aveva deciso di fare un’eccezione e di prendere un po’ di sana aria fresca facendo una breve passeggiata nella Foresta Incantata.
Inutile dire che il suo obiettivo era stato raggiunto e aveva notato dei cambiamenti oltremodo interessanti.
L’energia magica e disgustosamente benigna sprigionata da quel luogo si era notevolmente attenuata; gli alberi erano molto più scuri di quando li aveva visti l’ultima volta; non aveva avvertito alcuna presenza che riconducesse alle fatine del bosco.
Erano piccoli cambiamenti, ma restavano comunque dei notevoli passi avanti.
Che fossero maledetti i Grimm, quanto adorava i piani ben riusciti!
Tremotino spostò con una mano un ramo sporgente in modo da poter vedere meglio: esattamente come ricordava, le coordinate erano corrette. E proprio di fronte a lui, in quella radura sperduta ma non così tanto da non poter essere raggiunta da tutti i bambini smarritisi nel bosco, sorgeva ciò che stava cercando.
Tremotino si dissolse in una nuvola di fumo nero, ricomparendo proprio di fronte alla porta della casetta. Subito un nauseante profumo dolciastro di caramelle e dolciumi lo raggiunse, e il mago oscuro fece una smorfia disgustata. Non aveva mai amato i dolci, quindi era ovvio che una casetta fatta interamente di marzapane, con le finestre di miele, l’erba di zucchero filato, il tetto di cioccolato da cui colava glassa e caramello, il tutto contornato da liquirizie e dolciumi di ogni genere in grado di far marcire i denti anche a un Orco sdentato, non lo attirasse poi così molto. Anzi, Tremotino non si sarebbe mai avvicinato a una struttura tanto pacchiana e grottesca, se non avesse avuto degli affari da sbrigare.
Bussò alla porta di liquirizia per non smentire la sua fama di gentiluomo, ma non si fece scrupolo a entrare senza aver ricevuto alcuna risposta. D’altronde, lui non aveva mai avuto bisogno di chiedere il permesso a qualcuno, per ottenere ciò che voleva.
L’interno era, come previsto, anch’esso ricolmo di leccornie di ogni genere, sebbene fosse molto più cupo rispetto a come appariva da fuori; tuttavia, Tremotino non si stupì affatto, rimanendo anzi sorpreso per quanto l’ambiente non fosse cambiato in tutti quegli anni.
- E’ permesso?- gracchiò, con un ghigno stampato sulle labbra.- C’è nessuno in casa?
Nessuno rispose; non che si fosse aspettato il contrario.
- So che il mio arrivo non era atteso, Strega Cieca, ma ho pensato comunque di farti una visitina…
Ancora silenzio; Tremotino incrociò le braccia al petto con fare annoiato.
Improvvisamente, la porta alle sue spalle si chiuse di colpo; un secondo dopo, anche le imposte alle finestre si sbarrarono da sole come per magia, una dopo l’altra, precipitando l’interno ancora più nell’oscurità. Questa, tuttavia, venne immediatamente interrotta da un fuoco che sia accese da solo nel caminetto contro la parete.
Tremotino sogghignò.
- Andiamo, non crederai davvero di impressionarmi con questi trucchetti da quattro soldi? Nel caso te lo sia dimenticato, non sono un bambino smarrito nella foresta. Davvero mi credi così sprovveduto, Strega Cieca?
- Questa non è più la dimora della Strega Cieca da molto tempo, ormai!
Tremotino sollevò lo sguardo nella direzione da cui era provenuta la voce. Dalla semioscurità emerse lentamente la figura di una donna, alta, snella e formosa, con lunghi e folti capelli castani che le ricadevano sulle spalle fino alla vita, labbra carnose e grandi e penetranti occhi scuri. Indossava un elegante vestito nero lungo fino a terra, che le lasciava le spalle scoperte e aveva un poco di strascico, mentre il bustino era ricamato con ghirigori argentati.
La donna sorrise, incrociando le braccia al petto.
- Comunque, devo dire che sono felice di rincontrarti dopo tutto questo tempo, Tremotino.
Il mago oscuro ricambiò il sorriso, salutandola con un inchino.
- Anche per me è un piacere rivederti, Gretel.
 
 
 
Angolo Autrice: Con che coraggio aggiorna questa storia?!, starete pensando. E avete ragione. So che dopo il disastro tecnologico di pochi giorni fa dovrei aggiornare Once Upon a Time in Storybrooke, ma il prossimo capitolo di questa arriva domenica, I promise! Ci tenevo ad aggiornare ancora questa perché 1, ho lasciato il capitolo a metà, 2 ero in ritardo pazzesco con il precedente e volevo rifarmi. Anyway scusatemi se non ho risposto a tutte le recensioni ma ora vado di fretta perché mi aspettano al lavoro, recupererò al più presto. Ci tengo solo a fare un in bocca al lupo a Sylphs e a NevilleLuna che domani iniziano l’esame di maturità e assicurare a LadyAndromeda che recensirò il nuovo capitolo della long non appena avrò un po’ di fiato, dal momento che sono sotto esami universitari anch’io. Per la cronaca, stamattina ho fatto un esame e presa dalla follia ho scritto questo capitolo mentre attendevo il mio turno, e poi a casa, in tutto solo tre ore di lavoro…quindi, se ci sono porcherie, perdonatemi!
Ringrazio chi ha recensito e chi legge silenziosamente. Avevo promesso che avrei inserito delle immagini, lo so, ma come vi ho detto vado di fretta e oggi è stata una giornata pesante, prometto che mi rifarò con il prossimo, e di nuovo, scusate le mancanze e gli eventuali obbrobri. Comunque, ringrazio tutti quelli che mi hanno dato consigli in merito a Cenerentola e Tremotino, nel prossimo capitolo passerò a ringraziarvi uno per uno.
Informazione: il prossimo capitolo vedrà Elizabeth, Cenerentola e il Cacciatore, Tremotino e Gretel, Hadleigh e Jones, e forse inserirò anche un pochino di Anya/PM. Ah, il prossimo capitolo s’intitolerà Hooked…e con questo ho detto tutto ;).
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 15
*** Hooked ***


Hooked

 
New York, ore 8:30 p.m.
 
- No…no, mamma, non so quando torno…potrebbe volerci una settimana, o forse due…- Jones scoccò un’occhiata nervosa a Hadleigh, il quale tuttavia continuò a fissare la parete di fronte a lui, senza curarsi di nascondere impazienza e nervosismo. L’agente strinse la cornetta del telefono pubblico fra le mani, sentendole sudate.
- Non ti preoccupare, ho tutto quello che mi serve…no…non posso dirtelo…cose di lavoro, è importante…!
Hadleigh prese a camminare nervosamente su e giù per il vicolo buio in cui si erano rifugiati. Erano parecchio distanti dalla centrale di polizia, quasi in prossimità del molo. Avevano percorso l’intero tragitto in metropolitana, approfittando del poco vantaggio che era stato loro concesso. Crawford era ferito, e se erano fortunati era finito in ospedale – morto, no, non era morto, Hadleigh si rendeva conto fin troppo bene di aver sparato un colpo così a caso che era già una gran cosa aver ferito il procuratore. Questo, comunque, avrebbe contribuito a ritardare la notizia e di conseguenza il mandato per il loro arresto. E poi, lavorava in polizia da più di vent’anni, e sapeva benissimo che per iniziare una caccia all’uomo sarebbe occorso del tempo per avvertire le volanti già in servizio e prepararne altre.
E in ogni caso, di certo Crawford non avrebbe avuto vita facile, se il suo intento era quello di catturarli. Non doveva dimenticare che il suo era un reparto segreto della polizia. Erano ben pochi quelli che erano a conoscenza della verità, e ancora meno quelli su cui il procuratore poteva contare. Anche lui nascondeva qualcosa e di conseguenza doveva stare attento a non farsi scoprire. Se avesse spifferato la verità, da un lato l’avrebbero preso per pazzo, e dall’altro per incriminare due poliziotti così su due piedi avrebbe dovuto giocoforza scomodare i pezzi grossi della CIA o dell’FBI, oppure i vertici della DEA. Non gli conveniva. Molto probabilmente avrebbe condotto delle indagini coinvolgendo pochi agenti, e certamente sottobanco, senza destare troppo clamore.
Questo avrebbe concesso loro un discreto vantaggio.
- Sì…sta’ tranquilla…no, va tutto bene, davvero…se ti serve qualcosa chiama Bobby, d’accordo? Ciao, mamma…
Con sua somma gioia ed estremo sollievo, Jones riattaccò; Hadleigh roteò gli occhi: il solo contenuto di quella telefonata era ridicolo – ma andiamo, un uomo di trent’anni che vive ancora con la madre? Era patetico! – e non aveva fatto altro che rallentarli.
- Fatto…- mormorò Jones, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans.
- Sei riuscito a convincerla?- ringhiò Hadleigh, tirandosi su il bavero del cappotto per nascondere la sua espressione scocciata.
- Sì…- soffiò il suo collega; gli lanciò un’occhiata.- Senti, Rick, lavoriamo insieme da dieci anni, e anche se non mi hai mai detto niente a proposito so come la pensi…ma credimi, dovevo farlo. Rick…io non vivo con mia madre perché sono un inetto…lascia che ti spieghi…se sto con lei, è perché ha bisogno di me…non posso lasciarla da sola molto a lungo…
- Nate…con tutto il rispetto, ma non mi sembra il momento di parlare di questo - borbottò Hadleigh.- Sicuro che non ti dispiaccia se tengo io la tua pistola?
Jones si zittì, indietreggiando di un passo. Pareva veramente a disagio.
- No, fai pure…- mormorò.- Allora, vogliamo andare?
Hadleigh annuì, prendendo a percorrere il vicolo in profondità, rasentando la parete. Jones lo seguì, incerto.
- Perché non abbiamo preso il passaggio dietro alla centrale?- chiese l’agente.
- Non ci ho pensato - ammise Hadleigh.- Tutto quello che avevo in mente in quel momento era liberarci di Crawford…
- Sì, non eri l’unico…- mormorò l’altro.- Ehi, Rick!- lo chiamò.
Hadleigh si girò a guardarlo, piuttosto infastidito. Che diamine, doveva trovare Anya e Liz!
- Rick, ascolta…- Jones assunse un’aria grave.- Io e te, adesso, siamo due ricercati, quelle due ragazze si sono perse in un mondo parallelo, e c’è un assassino a piede libero…
- Sì, questo lo so anch’io…
- Senza contare che non sappiamo dove esattamente ci condurrà quest’altro passaggio…- Jones indicò con un cenno del capo la porta di fronte a loro.- Rick…prima di fare cose di cui potremmo pentirci, proviamo a ragionare un attimo…
- E su che cosa vuoi ragionare?!- lo rimbrottò il capitano.- Nathan, siamo nella merda, l’hai capito questo o no? Cosa pensi che dovremmo fare? Stiamo solo perdendo tempo, le mie figlie adesso sono…
- Ci sono quelli di Los Angeles!- l’interruppe il collega.- Potremmo provare ad avvertirli…loro ci aiuterebbero, se sapessero cosa sta succedendo…E poi, sono meglio organizzati di noi, quello che hanno a disposizione loro non si avvicina neanche lontanamente a…
Hadleigh scosse il capo con decisione.
- Non hanno mosso un dito quando Cappuccetto Rosso e sua nonna sono state ammazzate, hanno lasciato che tutto il lavoro ce lo sbattessimo noi. E poi, non ci aiuterebbero comunque, se sapessero che due persone che non fanno parte del Dipartimento sono nel Regno delle Favole. Anya e Liz non dovrebbero sapere nulla di questa storia, e per quello che interessa a quei pidocchi di L. A. sarebbe meglio se loro due non tornassero, pur di non far uscire allo scoperto la verità.
Jones si zittì per la seconda volta, ammettendo silenziosamente che il suo collega aveva ragione.
C’erano due organizzazioni, in America, che avevano a che fare con la protezione e la tutela del Regno delle Favole, nonché con il mantenimento del suo ordine e del suo segreto. Una era quella in cui lavoravano loro, a New York; l’altra, invece, aveva sede a Los Angeles…e, benché gli affari sotto la loro giurisdizione fossero gli stessi, fra le due c’era un abisso di differenze.
Una era la loro, ovvero uno squallido ufficio umido in una fottuta e anonima centrale di polizia, dove chi ci lavorava veniva costantemente preso per i fondelli dai colleghi, male attrezzata e anche poco organizzata. L’altra era quella di Los Angeles, valeva a dire un enorme palazzo di vetro che avrebbe fatto impallidire i reparti della CIA, dove una marea di individui – fossero essi poliziotti, amministratori, scienziati, tecnici di laboratorio, damerini da quattro soldi, dannazione!, là dentro pure le tavolette del cesso erano piene di boria –, rigorosamente incravattati e dotati delle migliori tecnologie, si sentivano al centro del mondo improvvisandosi James Bond di Perrault, e intervenivano solo e soltanto in questioni di massima gravità.
No, Hadleigh aveva ragione. Non li avrebbero aiutati.
Il capitano sospirò, guardando la porta di fronte a sé. Improvvisamente, si sentì in colpa nei confronti del suo collega. In fondo, tutto ciò che stava succedendo era in parte anche colpa sua.
- Mi spiace, Nate…- mormorò.- Tu non c’entri niente in questa storia…- si voltò a guardarlo.- Io devo trovare le mie figlie…ma se non vuoi, non sei costretto a venire…
Jones sorrise, dandogli una pacca su una spalla.
- Anche se non volessi, che credi che potrei fare? Sono ricercato, ricordi? E poi…- ridacchiò. ­- Ho fatto da babysitter a quelle due talmente tante volte che un po’ ci sono affezionato…
Hadleigh ricambiò il sorriso, annuendo con gratitudine, quindi aprì la porta di fronte a sé.
In pochi secondi, i due vennero risucchiati dal vortice.
 

***

 
Hadleigh ingoiò un bel po’ di acqua salata prima di riuscire a raccapezzarsi e ricordarsi di aver bisogno di ossigeno per respirare. Nuotò fino in superficie e riemerse quasi in contemporanea con Jones, ed entrambi iniziarono a tossire furiosamente.
- Ma che diamine è successo?!- sbraitò l’agente, mantenendosi disperatamente a galla fra i flutti.
- Te l’avevo detto che non sapevo dove conducesse quel portale…!- tossì Hadleigh.
Ci mise pochi istanti a comprendere che si trovavano in mare aperto; l’azzurro del cielo quasi si confondeva con quella distesa d’acqua blu scuro attraversata dalle onde. Il capitano annaspò, cercando di rimanere a galla nonostante il mare mosso.
Non c’era traccia di vita umana o quantomeno di terraferma.
- E adesso che accidenti facciamo?!- fece Jones.
- Aspetta, fammi pensare…
- Pensare?! Porca miseria, Rick, siamo in mare aperto!
Hadleigh si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva. Forse un appiglio, ma che cosa sperava di trovare in mezzo al nulla? Jones aveva ragione: erano in mare aperto, e se anche avessero provato a nuotare, non sapevano in che direzione andare, né dove fosse la terraferma più vicina, sempre ammesso che ci fosse della terraferma nelle vicinanze…
Le onde si fecero improvvisamente più numerose e frequenti, e leggermente più alte.
Jones venne colpito in piena faccia, ingoiando un’altra sorsata di acqua salata. Tossì, sputandone fuori un fiotto; Hadleigh alzò lo sguardo al cielo, dimenticandosi per un attimo di respirare.
Si stava avvicinando un vascello.
Era imponente, soprattutto visto dal basso. Era una di quelle navi che si vedevano sempre nelle illustrazioni dei libri di storia, completamente di legno non verniciato, con tre alberi maestri che svettavano verso il cielo, e una polena scolpita sulla prua che raffigurava una giovane donna dai capelli sciolti sulle spalle, probabilmente una sirena.
I due nuotarono velocemente all’indietro in modo da allontanarsi il più possibile dall’imbarcazione che si stava avvicinando. Jones fece per alzare le braccia e mettersi a gridare a squarciagola per attirare l’attenzione, ma Hadleigh lo bloccò, accorgendosi di un dettaglio.
La nave batteva bandiera pirata.
Il telo nero su cui erano cuciti un teschio bianco con due ossa incrociate sventolava in cima all’albero più alto. Jones boccheggiò, guardando Hadleigh. Il capitano non sapeva cosa fare; non si poteva negare che fossero nella merda fino al collo, e che se qualcuno non avesse provveduto a tirarli fuori dall’acqua al più presto sarebbero diventati cibo per i pesci. Ma era anche vero che avevano a che fare con dei pirati.
E in quel mondo con i pirati non si scherzava.
Prima che potesse porsi ulteriori dubbi, tuttavia, ci pensarono i marinai della nave a decidere per lui.
Hadleigh e Jones videro una scialuppa venire calata dal ponte del vascello; a bordo c’erano tre o quattro individui, di cui non riuscivano a scorgere i volti, ma certamente non dovevano apparire molto raccomandabili.
Hadleigh sentì un tuffo al cuore quando la barca toccò la superficie marina, e gli uomini iniziarono a remare nella loro direzione.
Che non avessero intenzione di compiere un’opera di bene fu chiaro sin dal primo istante.
Hadleigh si sentì afferrare per il collo del cappotto e tirare su a bordo della scialuppa.
- Forza, muoviti!
- E sbrigati, non abbiamo tutto il giorno!
- Anche tu, grassone, vedi di darti una mossa!
Jones venne issato a bordo un attimo dopo di lui. Entrambi si ritrovarono distesi sul fondo della barca, bagnati fradici e frastornati. Hadleigh ebbe abbastanza lucidità da gettare repentinamente un lembo del cappotto sul proprio fianco, in modo da nascondere la pistola riposta nella fondina.
Alzò lo sguardo, trovandosi faccia a faccia con volti maschili bruciati dal sole, dai denti storti e neri, cicatrici a bizzeffe e barbe incolte.
- Cosa…- boccheggiò il capitano, rendendosi conto che in quella situazione aveva ben poco da dire.- Io…noi…
- Zitto!- lo freddò uno dei pirati, ringhiandogli in faccia.- Quello che hai da dire lo propinerai al capitano, sempre ammesso che voglia ascoltare le tue lagne. E ora, torniamo a bordo!- urlò, rivolto agli altri.
Jones si mise a sedere, imitato da Hadleigh; entrambi si scambiarono un’occhiata di sottecchi, incerti sul da farsi. Il capitano aveva con sé una pistola, ma non era sicuro di quanti colpi ci fossero dentro, e non aveva proiettili di riserva. Mettersi a sparare in quel momento non era decisamente una buona idea, tanto più che loro erano in due e quei pirati in quattro, e Jones era disarmato.
Era meglio aspettare di arrivare a bordo e vedere che piega avrebbero preso le cose. Chi poteva saperlo, magari il capitano si sarebbe rivelato un tipo ragionevole…
Hadleigh si sentì imprigionare con forza le mani dietro la schiena, quindi lui e Jones vennero spintonati malamente sul ponte della nave. Furono accolti da un gruppo di almeno venti uomini, tutti che li guardavano, chi in cagnesco chi sghignazzando.
- Bene, bene. Cos’abbiamo qui?
I due poliziotti alzarono lo sguardo all’unisono, incrociando quello di chi aveva parlato.
Hadleigh sgranò gli occhi.
Di fronte a loro c’era un ragazzo.
Era molto giovane, Hadleigh pensò che dovesse avere l’età di Anya, forse due o tre anni in più, ma di certo non arrivava ai venticinque. Intuì che dovesse trattarsi del capitano della nave dal modo in cui era abbigliato: gli altri pirati indossavano tutti abiti stracciati e consunti, che non vedevano il sapone da chissà quanto tempo; invece, la giacca rosso fiammante lunga fino a terra di quel ragazzo era pulitissima, perfettamente liscia, e i bottoni d’oro splendevano al sole che stava tramontando. Al di sotto di essa Hadleigh poteva intravedere dei pantaloni neri e degli stivali di pelle lucida e un gilet marrone scuro sopra una camicia bianca dal colletto a sbuffo e dalle maniche di pizzo. Il ragazzo indossava un cappello in stile vittoriano con una piuma bianca; aveva i capelli lisci, neri e lunghi che gli arrivavano fino alle spalle, un viso fresco e ben rasato su cui spuntava un sorrisetto arrogante che faceva il paio con il brillio nelle sue pupille scure.
Pareva uno di quei figli di papà perdigiorno tutto fumo e niente arrosto, ma quest’ultima riflessione venne brutalmente smentita quando Hadleigh si accorse di un dettaglio che non aveva notato.
Al giovane capitano mancava una mano. Al suo posto, era piazzato un uncino affilato.
Un uomo grasso e tarchiato si avvicinò velocemente al giovane.
- Eccoli qui, capitano. I naufraghi. Come avevate richiesto.
- Ben fatto, Spugna - sorrise Capitan Uncino.- Voi!- chiamò, rivolto ai due poliziotti.- Chi siete? Perché vi trovavate in mare?
Hadleigh drizzò le spalle, invitando con lo sguardo Jones a fare lo stesso. Non riusciva a capacitarsi che quello fosse davvero Capitan Uncino. Quando Anya e Liz erano piccole, aveva visto con loro Peter Pan della Disney, e da allora aveva sempre pensato a Capitan Uncino come un uomo di quarant’anni, un vecchio pirata che odiava i bambini, con il volto equino e due baffetti ben curati; invece, in quel momento aveva di fronte un ragazzo che avrebbe potuto essere suo figlio.
Ma si trattava comunque di Capitan Uncino. Meglio andarci cauti.
- Noi…noi siamo…- boccheggiò, sentendo la voce bloccata in gola.
- Come, prego?- lo beffeggiò Uncino.- Non ho sentito bene…e voi, marmaglia, avete capito?
La ciurma rispose con una sonora e sguaiata risata. Jones si guardò intorno, frastornato. Hadleigh inspirò a fondo, cercando di calmarsi.
- Io sono il capitano Richard Hadleigh…lui, invece, è…
- Capitano?!- abbaiò Uncino.- Bada bene a come parli, bifolco, se non vuoi che ti faccia tagliare la lingua! Su questa nave c’è un solo capitano, mi sono spiegato?
Hadleigh ammutolì, mentre Jones arretrò di un passo.
Uncino si avvicinò a loro, a passi lenti e misurati, ma al contempo trasudanti di arroganza e sicurezza, facendoli risuonare sulle tavole di legno nel silenzio generale.
- Sapete, io in genere ho l’abitudine di non risparmiare gli intrusi…- disse, con voce calma e il sorriso sulle labbra.- Quindi, a voi la scelta. Cosa preferite? La spada o la passerella?
- Non vi daremo alcun fastidio!- intervenne Jones, con i sudori freddi.- Capitano…- deglutì, sperando che quella piccola forma di rispetto lo rabbonisse almeno un poco.- Capitano, vi prego…se ci lascerete andare non appena attraccherete, noi vi promettiamo che…
- Attraccare?- Uncino sghignazzò, imitato dal resto della ciurma.- Dico io, ma siete impazziti? Siamo appena tornati da una trasferta a Tortuga. Ci vorranno giorni, prima che sbarcheremo di nuovo. E io non voglio pesi inutili e bocche da sfamare.
- Faremo tutto ciò che volete!- insistette Jones; Hadleigh lo guardava come se desiderasse sputargli in faccia, e non lo biasimava. Da una parte, anche lui si faceva schifo. Implorare pietà, strisciare come un verme…sì, lo disgustava. Ma gli era successo così tante volte di avere disgusto per sé stesso che riuscì a ignorarlo, anche quella volta.
Lui era un mago nell’umiliarsi. Si sarebbe quasi potuto dire che non avesse fatto altro in tutta la sua vita. L’aveva sempre fatto, da piccolo quando suo fratello Bobby lo ricattava per un paio di caramelle in più, e poi, da adulto, aveva ripreso a farlo quando suo padre li aveva abbandonati tutti e quattro ed era giunto il momento di decidere chi si sarebbe occupato della madre invalida. Aveva ingoiato il rospo quando Bobby lo aveva mollato a prendersi cura di lei, e aveva acconsentito a sua sorella Tessa di seguire i propri capricci e lasciarlo solo.
E adesso, la vita sua e di Rick dipendeva da quanto si sarebbe umiliato.
- Potremmo lavorare…- insistette, ignorando Hadleigh e cercando di decifrare l’espressione impassibile di Uncino.- Davvero. Faremo tutto ciò che…
- Lavorare?- fece eco Uncino.- E come? Che sai fare, palla di grasso?
Jones ingoiò il boccone amaro, e sostenne lo sguardo di Capitan Uncino.
- Io e il mio collega potremmo aiutarvi qui sulla nave - propose.- Diteci cosa dobbiamo fare, e noi…
- Va bene, basta con questi piagnistei - dichiarò Uncino, esibendo un’aria profondamente annoiata.- In effetti, ho dato il mozzo in pasto al coccodrillo tempo fa. Questo ponte è pieno di sporcizia. Vi concedo tre giorni di prova, signori. Se mi riterrò soddisfatto, diverrete parte della ciurma. Altrimenti…beh, vorrà dire che riuscirò a tenere a bada quel dannato coccodrillo ancora per un po’…- voltò loro le spalle, allontanandosi.- Per stanotte potete riposare, ma domani inizierà il vero lavoro. Benvenuti a bordo della Jolly Roger, signori!
L’augurio di benvenuto fu accompagnata da una generale risata di scherno, quindi la ciurma si disperse, e i due si ritrovarono soli in un angolo del ponte.
Jones si sentì afferrare per un braccio.
- Sarebbe questa la tua idea?- sibilò Hadleigh.- Farci lavare i pavimenti? Devo ricordarti che…
- Non mi è parso che tu ne avessi una migliore!- lo rimbrottò; sospirò, scuotendo il capo.- Rick, lo so che devi trovare quelle due ragazze e sei nervoso, ma qui se non stiamo attenti ci fanno la pelle. Abbi pazienza. Quel Jack Sparrow dei poveri ha detto che attraccheranno fra qualche giorno; a quel punto potremo andarcene e iniziare le ricerche. Ma per ora dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco…
Hadleigh digrignò i denti, colpendo rabbiosamente con un pugno le assi di legno del ponte; inspirò a fondo, cercando di calmarsi. Era vero; era troppo nervoso e le loro possibilità erano limitate. Doveva trovare Anya ed Elizabeth, ma per farlo doveva uscire vivo da quella situazione.
Doveva solo cercare di non farsi salire il sangue alla testa…
Jones osservò Hadleigh mentre chiudeva gli occhi e annuiva silenziosamente; l’agente sospirò, alzando gli occhi di fronte a sé.
Tutto avvenne in un rapido flash.
Jones fece appena in tempo a vedere una figura aggrappata alla balaustra della nave scomparire dall’altra parte, dove c’era il mare. Sgranò gli occhi, scattando all’indietro sorpreso.
Hadleigh si riscosse, sollevando il capo.
- Cosa c’è?- fece, sottovoce.
Jones boccheggiò, tornando a fissare il punto in cui era scomparsa quella figura. Si stropicciò gli occhi, sbattendo le palpebre più e più volte. Aggrappato alla balaustra non c’era nessuno.
- Cos’hai visto?- incalzò Hadleigh.
Jones distolse lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente…- soffiò.
Doveva avere le traveggole, pensò. Forse era tutta colpa dello shock o di quello che stavano passando…eppure era strano…avrebbe potuto giurare di aver visto scomparire una chioma di capelli rosso fuoco…
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Non c’è molto da dire su questo capitolo, tranne forse il fatto che non è molto entusiasmante, ma andava fatto. Due paroline su Capitan Uncino: allora, chi segue Once Upon a Time non si sarà stupito di trovarlo giovane e bello. Comunque, il mio Capitan Uncino è di gran lunga più giovane di Colin O’Donogue per il fatto che ho voluto attenermi il più possibile alla versione originale di Peter Pan, dove Uncino aveva diciotto anni. La scelta di un Capitan Uncino così giovane sarà anche più chiara in seguito, quando si scoprirà qualcosa di più su questo personaggio. E, a proposito di personaggi, verso la fine ne è stato introdotto uno nuovo…anche stavolta non ho dubbi sul fatto che abbiate già capito chi è ;).
E spunta fuori un altro Dipartimento Favole, ben più organizzato e localizzato in quel di Los Angeles…occhio a questo particolare perché avrà un suo perché e una sua importanza…
By the way, avevo promesso delle altre immagini. Eccole qui.
 
Capitano Richard Hadleigh (Tobias Moretti):
 
http://www.todocotilleo.com/wp-content/uploads/2008/08/image4_1200086606.jpg
 
Agente Nathan Jones (David Blue):
 
http://www.wearysloth.com/Gallery/ActorsB/tve77918-20091023-2158.jpg
 
Procuratore Albert Crawford (Terence Stamp):
 
http://img232.imageshack.us/img232/2517/hauntedqn0.jpg
 
Gaston (Tom Felton):
 
http://images.fanpop.com/images/image_uploads/Harry-Potter-Pictures-tom-felton-110797_570_761.jpg
 
Come già specificato, queste immagini si avvicinano solo a come potrebbero essere i personaggi, e ognuno ha il diritto di immaginarseli come meglio preferisce.
Ora, passiamo a Cenerentola e Tremotino.
Dunque, avevo chiesto il vostro aiuto per loro due, e vi ringrazio tantissimo per la collaborazione :). Per Cenerentola sono state proposte: Blake Lively, Emma Stone, Saoirse Ronan, Kirsten Dunst, Amanda Seyfried e Katherine Heigl. E’ quella che ha ottenuto più proposte fra i due. Dalla lista ho dovuto eliminare giocoforza Saoirse Ronan perché troppo giovane e Kirsten Dunst e Amanda Seyfried. Non perché non mi piacciano ma perché loro due sono già state selezionate per altri due personaggi ;).
Quindi, alla fine ho optato per Blake Lively, dato che era quella che più si avvicinava a come mi immagino io la mia Cenerentola :).
 
Cenerentola (Blake Lively):
 
http://cdn.blogosfere.it/cheapechic/images/091408_lively2_400x400.jpg
 
Ben più ostica è stata la questione di Tremotino. Sono stati proposti David Bowie, Tom Hiddleston e, ovviamente, il grande Robert Carlyle. Ora, a causa della citazione nel capitolo Who is Afraid of the Big Bad Wolf?, non ho potuto inserire David Bowie e, idem per come è successo con Kirsten Dunst e Amanda Seyfried, anche Tom Hiddleston ha già un suo ruolo.
Per tutti noi – e anche per me! – Robert Carlyle è TREMOTINO per eccellenza, tuttavia non volevo apparire banale, senza contare che, idem per Capitan Uncino, il mio Tremotino è molto più giovane.
Quindi, per evitare torti, ho deciso di introdurre un’immagine sia di Carlyle sia dell’attore che, a mio parere, più somiglia a questo Tremotino. A voi la scelta ;).
Ho scelto Gaspard Ulliel…che ne pensate?
 
Tremotino (Gaspard Ulliel):
 
http://entrevistas.cine.hispavista.com/fotos/entrevistas/2007/03/C0000022445.jpg
 
Tremotino (Robert Carlyle):
 
http://www.edesubitoserial.it/amministrazione/includes/upload/daeditor/Rumpelstiltskin-once-upon-a-time.jpg
 
Ecco qui…nel prossimo capitolo inserirò l’immagine di Gretel…e di Capitan Uncino. Anche per lui, ho bisogno del vostro aiuto. Non fatemi ripiegare su Colin O’Donogue, vi prego! Okay che sarà anche un bel pezzo di figliolo, ma prima o poi qualcuno mi accuserà di plagio!
Help me!
Comunque…due parole sui prossimi capitoli. Il prossimo s’intitolerà Straw, e sarà un capitolo interamente in flashback, dove verrà raccontata la storia originale di Tremotino. Che palle!, starete pensando, soprattutto chi ha letto la mia OS Solo un nome…ALT! Prima che diate inizio al linciaggio, ci tengo a farvi sapere che dal punto di vista della storia e dei personaggi ci saranno parecchie novità, e che questo capitolo, oltre a far luce – almeno in parte – sul passato di Tremotino, sarà anche la base per alcuni avvenimenti futuri e di una certa rilevanza. Il capitolo 17, invece, sarà un po’ di mezzo, e vedrà il trio Cacciatore/Elizabeth/Cenerentola, più Anya e PM, e Tremotino e Gretel.
E, per la felicità di LadyAndromeda, nel capitolo 18…*rullo di tamburi*…finalmente la Bella Addormentata!
Stavolta dovrei riuscire ad aggiornare in tempi abbastanza rapidi…
Ringrazio chi legge, chi ha aggiunto la storia alle seguite, ricordate e preferite e Princess Vanilla, NevilleLuna, cleme_b, Nymphna, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito.
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 16
*** Straw ***


Straw

 
Era stata una giornata magra. A poco a poco che la stagione del raccolto andava allontanandosi era sempre più difficile spigolare nei campi. La zia diceva sempre che presto non avrebbero avuto non solo la farina da vendere, ma neppure quella per il pane.
- Dovremo fare a metà…- mormorò sua madre, scuotendo mestamente il capo mentre contava le spighe di grano che avevano fra le mani.
- No, a me ne bastano molto meno - dichiarò zia Mallory, categorica.- A casa mia siamo solo io e mio marito, voi invece ne avete di bocche da sfamare...per non parlare del mulino…
- Tu quante spighe sei riuscita a raccogliere, Ginevra?- chiese sua madre, sporgendosi un poco verso di lei. Ginevra abbassò lo sguardo sulle proprie mani, mostrandole cinque spighe di grano.
Sua madre sospirò, mentre tutt’e tre varcavano il grande portone d’ingresso delle mura che circondavano la città. Subito Ginevra venne colpita dal puzzo del fango e delle bestie, mentre nelle orecchie iniziò a farsi strada il brusio della gente e le urla dei venditori.
Quel giorno l’intera città era in fermento; era stato previsto il ritorno dal fronte di re Uther Pendragon e di suo figlio. Ginevra accelerò il passo, tenendosi ben vicina alla madre a zia Mallory per non perdersi in mezzo alla folla.
- Speriamo che con il ritorno del re le cose cambino!- esclamò sua madre, tristemente.- Se andiamo avanti di questo passo, presto non avremo più nemmeno di che sfamarci…
- Sì, come no! Svegliati, bambina, e guarda in faccia la realtà!- la rimbrottò la zia. - Al re non importa niente di noi; senza contare che Camelot è sommerso dai debiti sin da quando noi eravamo piccole. Al massimo ci getterà qualche soldo come elemosina, ma col marito che ti ritrovi in casa stai pur certa che quelle due monete d’oro dureranno giusto il tempo di un boccale d’idromele!
- Mallory!- esclamò sua madre, a metà fra lo scandalizzato e il vergognoso.- Ma che dici?! Il mio Harold lavora sodo, è solo che…beh, sai, tutti gli uomini hanno i loro piccoli vizi…
- Certo…Il vizietto di mio marito, ad esempio, è andare a prostitute tutta la notte e poi tornare a casa e pretendere che io sia pronta per lui!- ironizzò la zia. - Dimmi un po’, Josephine: quand’è stata l’ultima volta che Harold è riuscito a vendere un sacco di farina? E l’ultima volta che è tornato a casa con le proprie gambe?
- Adesso stai esagerando, Mallory!
- Ah, davvero? Di’ un po’, Ginevra, sto forse parlando a vanvera?
Ginevra evitò prudentemente di rispondere, chinando il capo e tacendo per non mettersi tra due fuochi, ma in fondo al cuore sapeva che sua madre non voleva guardare in faccia la verità…e che zia Mallory aveva dannatamente ragione.
Essere la figlia di un mugnaio non ti dava certo l’accesso all’élite di Camelot, non ti assicurava bei vestiti e pretendenti danarosi, ma a Ginevra sarebbe semplicemente bastato riuscire a consumare tre pasti al giorno e potersene andare in giro per le strade senza udire alle proprie spalle le risatine di scherno delle altre persone.
C’erano altri mugnai, a Camelot, e le loro famiglie non pativano la fame come quella del mugnaio Harold. Ginevra sapeva che suo padre era fuori dalla concorrenza già da un pezzo, e chi comprava loro il pane e la farina era solo qualche amico di sua madre, oppure qualche cliente pietoso che magari aveva visto lei e i suoi fratelli vagare per le strade con gli abiti stracciati e i capelli arruffati.
Nei suoi diciassette anni di vita, Ginevra aveva imparato che due monete d’oro equivalevano per loro a uno dei banchetti organizzati da Uther Pendragon, e che andavano tenute da conto, magari nascoste sotto il materasso imbottito di paglia o nel vasetto del sale sull’ultimo ripiano della credenza. Aveva imparato a rammendare un vestito all’infinito, sfruttandolo fino a che questo non cadeva a pezzi, e solo in quel momento poteva essere gettato via. Spesso si trovava a raccontare ai suoi due fratellini di nove e dieci anni che la casacca cenciosa che indossavano era uguale a quella che il principe Artù aveva addosso alla loro età, oppure a complimentarsi con sua sorella Betty per un meraviglioso abito che altro non era se non un vestito smesso di quando Ginevra aveva cinque anni.
La carne in tavola era un lusso che si potevano permettere solo e soltanto a Natale, se sua madre riusciva a elemosinare qualche scarto dal macellaio, mentre la legna per il fuoco doveva essere centellinata.
E soprattutto, doveva sempre stare attenta che suo padre non s’impossessasse se non di una o due monete, non di più. Zia Mallory aveva ragione a dire che Camelot era sommerso dai debiti da anni, e che il re di certo non si curava che i suoi sudditi morissero di fame…ma aveva anche ragione a dire che la loro miseria sarebbe potuta essere almeno una povertà dignitosa, se solo suo padre si fosse dato da fare per mantenere la famiglia.
Il mugnaio Harold trascorreva di norma più tempo alla taverna che a cuocere il pane. Suo padre nutriva una smisurata passione per il grog e l’idromele, il tutto unito a battute oscene, risate sguaiate e commenti sconci insieme ai suoi compagni di baldoria.
Suo padre non diventava cattivo, quando beveva; c’erano diversi uomini a Camelot che amavano bere e ubriacarsi, ma quando ciò succedeva spesso diventavano violenti e iracondi, si facevano trascinare in risse oppure tornavano a casa e picchiavano la moglie e i figli.
Il mugnaio invece no; Ginevra non ricordava che avesse mai alzato le mani su sua madre, sui suoi fratelli o su di lei. Piuttosto, suo padre tendeva a tornare a casa a notte fonda ridacchiando senza freno, barcollando e chiamando Josephine con voce impastata, fino a che lei e la madre non riuscivano a metterlo a letto. Ma più spesso non tornava neppure a casa, e allora la moglie la pregava di andare a cercarlo. E Ginevra lo ritrovava sempre addormentato sul bancone di qualche bettola, oppure in piedi su di un tavolo mentre si ricopriva di ridicolo di fronte a tutti, e le toccava trascinarlo a casa.
Certo, molto meglio questo che prendersi schiaffi e calci come altre ragazze, ma era comunque sempre dura vedere suo padre ridotto alla stregua del giullare di Camelot; tanto più che, quando era ubriaco, spesso tendeva a lasciarsi sfuggire qualche sciocchezza o frottola colossale.
Uno squillo di trombe richiamò l’attenzione dei presenti.
Mallory, Josephine e Ginevra si voltarono all’unisono con le altre persone, mentre si stavano formando due file parallele ai bordi della strada. In lontananza, si udiva il rumore di zoccoli al galoppo.
- E’ il re!- esclamò Josephine, arretrando di un passo e tirandosi vicino Ginevra.
- E’ tornato a succhiarci il sangue, maledetto…!- ringhiò zia Mallory.- Che siano dannati, lui e suo figlio!
- Il principe Artù non è malvagio!- intervenne Ginevra.
La zia fece uno sbuffo divertito.
- E tu che ne sai? Sei per caso stata a corte, di recente?
Ginevra non rispose, e tornò a concentrarsi sul rumore dei cavalli che si avvicinavano; lentamente, il galoppo si estinse, e quando il corteo fece il suo ingresso a Camelot i destrieri camminavano al passo, con andatura lenta e solenne. Il suono delle trombe cessò, lasciando spazio al silenzio più totale mentre i soldati e i valletti si facevano strada fra la folla, precedendo la famiglia reale.
Ginevra si sollevò sulle punte per vedere meglio.
Re Uther Pendragon cavalcava un purosangue nero alla testa del corteo, tenendo il capo dritto e lo sguardo di fronte a sé con quell’atteggiamento fiero e anche un poco altezzoso che Ginevra gli aveva sempre scorto. Alle sue spalle, a pochi metri di distanza, il principe Artù lo seguiva a cavallo di un destriero bianco, un poco più incerto del padre.
Ginevra lo guardò, e come al solito avvertì un tuffo al cuore.
Si sentiva infinitamente stupida. Era come nelle antiche leggende, o nelle ballate popolari: la povera fanciulla che s’innamora del bel principe. Il figlio del re era un giovane molto piacente, con capelli neri e mossi, occhi scuri e penetranti, alto e slanciato, con un volto amabile e gentile.
Non erano poche le ragazze e le donne che ne ammiravano la bellezza e il coraggio dimostrato in guerra e la destrezza nei tornei. Ma per Ginevra era diverso.
Lei era innamorata del principe Artù.
Era tutto molto stupido, insensato oltre ogni dire: il figlio di Uther non le aveva mai neppure rivolto la parola – e perché mai avrebbe dovuto perdere il suo tempo a parlare con una contadina? –, eppure erano anni che lei lo amava di lontano. All’inizio, l’aveva scambiata per semplice ammirazione, e vissuto con allarme e paura il momento in cui si era resa conto dei propri sentimenti.
Aveva cercato di attribuire alla cosa l’importanza dovuta a una passeggera infatuazione, ma a distanza di anni ancora il suo amore non si era estinto.
Ginevra non ne aveva parlato con nessuno; e come avrebbe potuto? Chiunque l’avrebbe presa in giro e canzonata. Lei stessa si sentiva patetica e ridicola, eppure non poteva farci niente. Le pareva impossibile essersi innamorata di un uomo – e non un uomo comune, il principe Artù! – solo guardandolo di lontano, ma era così.
Sapeva che era un amore impossibile e che lui non avrebbe mai e poi mai donato a lei le sue attenzioni. Ma era abituata a convivere con questa certezza. L’unica cosa che sperava era che nessuno oltre a lei se ne accorgesse.
Il corteo proseguiva con solenne lentezza; sembrava che il tempo si fosse fermato, e che tutto il mondo si muovesse al passo del re e dei suoi soldati.
Tuttavia, ben presto fu chiaro a chiunque che non procedeva tutto secondo la perfezione. Uno dei cavalli, in sella al quale montava un uomo in armatura – un soldato o un ufficiale, presumibilmente – aveva iniziato a dare segni di agitazione sin da quando aveva varcato il portone d’ingresso a Camelot. Probabilmente tutta quella folla l’innervosiva, fatto stava che procedeva a passi veloci e nervosi, e sempre spronato dal suo cavaliere ad andare avanti. L’animale muoveva il muso a destra e a sinistra, con gli occhi sbarrati e impauriti.
Un nitrito attirò l’attenzione di tutti, compreso il re, che non mancò di scoccare un’occhiata furente. Il principe si voltò, incuriosito da tutto quel trambusto. Il soldato tirò le briglie del cavallo nel tentativo di riportarlo all’ordine, ma questo parve solo peggiorare la situazione.
Il cavallo lanciò un altro nitrito acuto, prima di scuotere violentemente il muso e impennarsi sulle zampe posteriori, agitando in aria gli zoccoli anteriori. Il cavaliere venne disarcionato, cadendo a terra con un tonfo.
Tutti i componenti del corteo e la gente che assisteva al passaggio arretrarono con dei mormorii e grida di spavento, mentre l’animale imbizzarrito continuava ad agitarsi pericolosamente.
- Indietro!- urlarono delle guardie. Il re fece indietreggiare il suo cavallo, mentre Artù scostò il proprio. Alcune guardie tentarono di avvicinarsi per calmare l’animale, ma senza riuscirci.
Il cavallo scalciava sempre più incontrollato a ogni minuto che passava.
Ginevra venne spintonata dalla folla che arretrava. Alcune madri tentavano di proteggere i bambini piccoli tirandoli verso di sé. Mallory emise un gemito quando venne colpita da una gomitata.
- Dannazione, fermatelo!- ringhiò re Uther.
Due guardie afferrarono le briglie del cavallo per farlo stare fermo, ma subito questo si divincolò, riprendendo a dimenarsi. Il principe Artù smontò velocemente dalla sua cavalcatura, avvicinandosi velocemente per aiutare i soldati.
La folla si stava facendo sempre più spaventata e irrequieta; Ginevra veniva spintonata qua e là quasi senza capire dove si trovasse. A un certo punto, Josephine emise un gridolino, venendo spintonata in avanti; la donna cadde a terra, a pochi centimetri dal cavallo imbizzarrito.
Ginevra si fece velocemente strada tra la folla, raggiungendo sua madre. Josephine arretrò impaurita strisciando nella polvere quando il cavallo s’impennò nuovamente.
Ginevra non ci rifletté troppo; spiccò un piccolo balzo in avanti e afferrò le briglie dell’animale. Questo dimenò il muso cercando di liberarsi.
- Buono! Sta’ buono!- ansimò Ginevra, cercando di calmarlo, ma quell’animale era di gran lunga più forte di me. La ragazza sentì le briglie di cuoio graffiarle la pelle mentre le scivolavano via dai palmi.
Josephine sgattaiolò via, rifugiandosi di nuovo fra le persone impaurite.
Il cavallo s’impennò di nuovo; Ginevra era certa che sarebbe riuscito a divincolarsi di nuovo, ma una seconda e più salda presa si aggiunse alla sua intorno alle briglie. La ragazza voltò il capo, incrociando il volto del principe.
- Sta’ fermo!- ringhiò Artù, cercando di trattenere il cavallo.
A quel punto, altri tre soldati corsero in loro aiuto, riuscendo alla fine a calmarlo.
Ginevra lasciò cautamente le briglie, pronta a raggiungere di nuovo la madre e la zia il più in fretta possibile, ma incespicò inavvertitamente nell’orlo del proprio abito sdrucito. La ragazza finì a terra con un tonfo, suscitando qua e là qualche risata di scherno.
- State bene?
Ginevra fece uno sbuffo innervosito, prima di alzare lo sguardo su chi aveva appena parlato. Immediatamente, la sua espressione, da seccata, si fece imbambolata.
Il principe Artù si chinò verso di lei, tendendole una mano e aiutandola a rimettersi in piedi.
- Ecco qui. Tutto a posto?
Ginevra boccheggiò; si sentiva come se la voce le si fosse spenta nella gola. Alla fine, non trovò niente di meglio che chinare il capo e annuire con forza, cercando di sistemarsi almeno un po’ il vestito.
- Vi ringrazio. Siete stata di grande aiuto - sorrise il principe.
Ginevra avvampò.
- Artù!- tuonò il re. - Andiamo, abbiamo perso fin troppo tempo!
- Arrivo subito, padre!- rispose Artù; s’inchinò, baciando il dorso della mano di Ginevra, prima di allontanarsi.
Non appena il corteo ebbe ripreso la via del castello e fu scomparso oltre la cinta di pietra, la ragazza iniziò ad avvertire su di sé le prime risatine canzonatorie, ma non vi badò, rimanendo a fissare la strada quasi in stato di ipnosi. Fu la scrollata a una spalla da parte di zia Mallory a riportarla alla realtà.
- Ehi, che fai lì impalata?- gracchiò la zia. - Sei stata brava oggi, cara la mia San Giorgio, ma cerca di non farti troppe illusioni…
Ginevra si riscosse.
- Che cosa?- boccheggiò.- Illusioni? Zia, ma di che stai…
- Non fare la finta tonta. Guarda che l’ho capito, sai?- ammiccò la zia. - Puoi ingannare Harold, che sta sempre attaccato alla bottiglia, e tua madre che ha sempre la testa fra le nuvole, ma non me. Ginevra, da’ retta alla zia: lascia perdere. I Pendragon sono tutti uguali, si curano di noi povera gente solo per succhiarci via il sangue. Il principe Artù è fuori dalla tua portata. Credimi, lo dico per il tuo bene. Hai diciassette anni, e sei anche graziosa; non buttare via tutto seguendo un amore impossibile.
Ginevra non rispose, chinando il capo. Zia Mallory le rivolse un sorriso complice, circondandole le spalle con un braccio e tirandola verso di sé, raggiungendo Josephine e riprendendo la via di casa.
 

***

 
Uther Pendragon scaraventò rabbiosamente uno degli innumerevoli quaderni di conti dall’altra parte della sala, alzandosi in piedi e ribaltando con furia la grande e pensante scrivania in legno di ciliegio. Centinaia di foglia fluttuarono nell’aria; molti consiglieri e ministri si ritrassero spaventati, ma il principe non si scompose. Era abituato agli scatti d’ira di suo padre.
- Come sarebbe a dire che dovremo dichiarare bancarotta?!- ululò il re.
Di fronte a lui, il Ministro del Tesoro arretrò un poco, ma mantenne un atteggiamento risoluto.
- Mi dispiace, Vostra Maestà. I conti non tornano, e le casse di Camelot sono praticamente vuote.
- Allora aumentiamo le tasse!- dichiarò il re. - Quei volgari paesani avranno sicuramente…
- Il popolo non può sopportare oltre ulteriori tassazioni. La gente non ce la fa più - rispose l’uomo. - Aumentare ancora le tasse comporterebbe il serio rischio di una rivolta…
Il re ringhiò sommessamente, sbattendo un pugno contro una parete.
- Ci dev’essere un sistema!- sibilò.- Un’altra guerra, allora…
- L’esercito non è in grado di affrontare altre battaglie - dichiarò un consigliere.- Gli uomini sono stremati, e non abbiamo i mezzi per sostenere altre spedizioni.
- Vostra Maestà!- inaspettatamente, un soldato si fece avanti.- Vostra Maestà, forse conosco io la soluzione…
Tutti si voltarono a guardarlo, stupefatti e anche un poco scettici. Re Uther aggrottò le sopracciglia, avanzando verso di lui.
- Ebbene, parlate, allora!- lo incitò.
Il soldato si schiarì la voce.
- Stamane ho udito al villaggio alcune voci…- esordì.- Pare che un mugnaio abbia dichiarato di avere una figlia in grado di filare la paglia in oro.
- Davvero? Si tratta forse di una strega?
- Non saprei dirlo, Vostra Maestà. Ma credo che si tratti piuttosto di un dono.
- E come fate a sapere che non si tratta di una menzogna?
Il soldato si strinse nelle spalle.
- Conosco il nome di quell’uomo e il luogo dove abita. Un tentativo non nuocerà a nessuno. Se scoprirete che si tratta di una fandonia, potrete prendere i provvedimenti che ritenete più giusti.
Uther si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, riflettendo sulla proposta.
- Bene, dunque - dichiarò dopo pochi istanti.- Vi affido questa missione, capitano. Portatemi quella ragazza.
 

***

 
Ginevra accelerò il passo, stringendosi in un vecchio scialle di lana grezza per proteggersi dal vento notturno. Superò velocemente alcune botteghe chiuse e pochi rari passanti, fino a giungere in prossimità di una vecchia baracca di legno, fango secco e paglia, con una sola porta e poche finestre. Un’insegna risplendeva alla luce di una lanterna.
La Testa di Porco, lesse mentalmente Ginevra.
Salì in fretta i pochi gradini che la separavano dalla porta d’ingresso, spalancandola ed entrando nella stanza semibuia. Subito venne investita da un forte tanfo di alcool misto a odore di chiuso e di olio per le lanterne. Udì lo scalpiccio di alcuni ratti sul pavimento di legno.
Anche quella sera suo padre non era tornato a casa. Josephine aveva atteso insieme a lei e ai suoi fratelli fino a quasi mezzanotte, inutilmente, e allora le aveva chiesto di andarlo a cercare. Non era la prima volta che Ginevra si ritrovava a vagare di notte per le strade di Camelot, da sola, alla ricerca di suo padre e, negli anni, aveva imparato a memoria i luoghi in cui era più possibile trovarlo.
E La Testa di Porco era una delle sue taverne preferite.
Infatti, Ginevra non ebbe difficoltà a riconoscere, fra i pochi e ubriachi clienti, in quel sacco di stracci abbandonato sul bancone il mugnaio Harold.
Suo padre giaceva addormentato sul ripiano del bancone di legno di fronte a una decina di boccali vuoti. Ginevra si avvicinò a lui, scuotendolo malamente per una spalla.
- Padre!- chiamò.- Padre, svegliatevi!
Harold scosse il capo, grugnendo e mugolando qualcosa nel sonno, prima di aprire lentamente gli occhi e sbattere le palpebre per mettere a fuoco la figura della figlia.
- Che cosa…?- fece, con voce impastata.- Chi…? Ginevra…?
- Ehi, Harold! E’ tua figlia, quella?- sbraitò una voce maschile altrettanto impastata, ma Ginevra non si curò neppure di sapere a chi appartenesse, e afferrò suo padre per le spalle, tirandolo in piedi. Il mugnaio si rialzò, barcollando.
- Sì, è mia figlia! La mia Ginevra!- biascicò, dandole delle lievi pacche su una spalla.- Sei venuta a raccattare il tuo vecchio, tesoro mio?
Ginevra non rispose; fece circondare le proprie spalle da un braccio di suo padre, sostenendolo mentre si avviavano verso l’uscita.
- Ehi, ragazza!- l’apostrofò l’oste. - Guarda che quell’ubriacone mi deve ancora tre monete d’argento
- Ora non ho denaro…- soffiò la ragazza.- Ma vi prometto che vi pagheremo quanto prima.
L’uomo sbatté rabbiosamente una mano sul bancone.
- Bada bene che è l’ultima volta che vi faccio credito, morti di fame!
- Ma di che ti preoccupi?- biascicò la voce di prima.- Cosa credi, che abbiano problemi? Quel bocconcino sa filare la paglia in oro, non lo sapevi?
- Andiamo!- ringhiò Ginevra, trascinandosi dietro suo padre.
Lei e Harold si lasciarono alle spalle La Testa di Porco, arrancando e incespicando in direzione della loro catapecchia; quando vi giunsero, Ginevra spalancò la porta con un calcio, entrando insieme al mugnaio.
- Buon Dio, guarda come si è ridotto questa volta!- esclamò Josephine, correndo incontro al marito.
- Betty e i bambini sono già a letto?- s’informò Ginevra, richiudendo la porta.- Non voglio che lo vedano in questo stato…
- Sì, sono a letto. Dov’era stavolta?
- Alla Testa di Porco, ubriaco fradicio. Ora credo che sia meglio portarlo a let…
Un rumore interruppe la sua frase a metà. Josephine e Ginevra si voltarono all’unisono: qualcuno stava bussando con forza contro la porta. La ragazza si morse il labbro inferiore, un po’ esitante, quindi si decise a togliere il chiavistello e ad aprire.
- Ah, e così sei tu! La ragazza del cavallo…beh, a saperlo, di avremmo già fatto visita stamattina…
Ginevra sgranò gli occhi; di fronte a lei c’erano tre soldati della guardia reale, armati di tutto punto e dall’espressione decisa e sicura di loro stessi. Uno di loro entrò in casa senza farsi scrupolo.
- Che cosa volete?- boccheggiò Josephine.- C’è qualche problema?
Il soldato non si degnò di risponderle, e squadrò Ginevra da capo a piedi.
- Tu ora vieni con noi…- dichiarò, afferrando la ragazza per un braccio.
Ginevra emise un gemito di dolore quando il soldato l’afferrò per un braccio. Josephine si lanciò verso di loro, tentando di fermarli.
- No!- implorò.- Vi prego…mia figlia non ha fatto niente…!
- Spostati, donna!- abbaiò il secondo soldato, allontanandola con uno spintone.- Ordini del re.
 

***

 
Ginevra venne spinta così forte che, quando la porta della torre si spalancò, cadde riversa sui mattoni di freddo marmo. La ragazza singhiozzò, cercando di rialzarsi e guardando negli occhi le guardie.
- Ma perché?!- strillò, in preda alla disperazione.- Perché mi state facendo questo? Che cosa ho fatto di male?
- Ma niente, mia cara…ero solo…ansioso di conoscerti - sibilò con scherno una voce cattiva alle spalle del soldato. Subito questo si scostò, esibendosi in un profondo inchino prima di uscire dalla stanza.
Ginevra, ancora inginocchiata sul pavimento, si ritrovò di fronte a re Uther Pendragon.
Alla sua destra, con espressione incerta e vagamente preoccupata, c’era il principe Artù; alla sinistra del re, invece, se ne stava un uomo piuttosto alto, con addosso un mantello nero con il cappuccio sollevato, ma non abbastanza da nascondere il volto solcato da rughe e una lunga barba bianca.
Ginevra chinò il capo.
- Perché sono qui?- soffiò.- Ve lo giuro, Vostra Maestà, io non ho fatto nulla di male…
- Lo so - ghignò il re, avanzando di un passo all’interno della stanza.- Non sei qui per qualcosa che hai fatto, figlia del mugnaio…ma per qualcosa che devi fare
Ginevra sollevò lo sguardo su di lui, senza sapere cosa pensare.
- Io…io non capisco…- balbettò.
- Voltati. Alle tue spalle c’è tutto ciò che devi sapere.
Ginevra ubbidì, sgranando gli occhi quando vide cosa c’era di fronte a sé.
In un angolo della torre era stato sistemato un enorme mucchio di paglia, che occupava quasi tutta la stanza ed era alto sino al soffitto. A fianco di esso, era posto un arcolaio.
- Ultimamente mi sono giunte all’orecchio alcune voci…- proseguì Uther, incurante dello sconcerto della ragazza.- Tuo padre, figlia del mugnaio, dice che sei in grado di filare la paglia in oro. Bene. Hai a disposizione tutta la notte per dimostrare che è vero…
- Vostra Maestà…- balbettò Ginevra, voltandosi verso di lui.- Io…ci dev’essere un errore…io non…
- Se non ci riuscirai… - continuò re Uther.- Se non ci riuscirai, all’alba sarai processata e condannata a morte. Ti auguro un buon lavoro, figlia del mugnaio.
Detto questo, Uther Pendragon fece un cenno al figlio e all’uomo incappucciato affinché lo seguissero, e uscì dalla stanza; una guardia chiuse a chiave la porta, lasciando Ginevra sola e disperata inginocchiata sul pavimento.
 

***

 
- Padre, ma che state facendo?!- protestò Artù non appena ebbero raggiunto il corridoio.- Condannarla a morte? Padre, non sappiamo nemmeno se è in grado di…
- Le ho dato la possibilità di dimostrarmi la verità - replicò duramente Uther.- Se ha mentito, allora pagherà per le sue bugie.
- E’ stato suo padre a mentire, non lei!
- Mio signore…- s’intromise l’uomo incappucciato.- Mio signore, il principe ha ragione. Senza contare che la capacità di trasformare qualcosa in oro è simbolo di stregoneria…
- Oh, lo so bene, mio caro Merlino - ghignò il re. - E puoi stare certo che la ragazza verrà messa al rogo, per questo…
- Ma…ma allora morirà comunque!- ringhiò Artù, incredulo e indignato insieme.- Padre, questo è spregevole!- urlò. - State sfruttando quella poveretta! La state usando per i vostri fini e il vostro divertimento! Questo è…
- Un’altra parola, Artù, e ti farò rinchiudere nelle segrete!- ululò Uther.- Sono io il re, e decido io cosa fare e come farlo. Questo tu e Merlino farete bene a ricordarvelo, d’ora in avanti!
Il principe ammutolì, stringendo i pugni dalla rabbia. Re Uther si voltò, facendo strusciare il mantello, e si allontanò, scomparendo poco dopo in un altro corridoio.
- Merlino, dobbiamo fare qualcosa!- disse Artù, voltandosi in direzione dell’uomo. - Quella poveretta all’alba morirà. Dobbiamo liberarla. La porta è chiusa a chiave…io non posso entrare, ma tu sei un mago…
- Non c’è nulla che possiamo fare, per il momento - dichiarò Merlino, risolutamente.
- Ma non possiamo lasciarla morire! Mio padre non avrà pietà di lei in nessun caso, e io non credo che sia una strega…
- Infatti. Non lo è. So riconoscere chi pratica la magia, e quella ragazza di sicuro non è a conoscenza né delle arti bianche né di quelle malefiche. Non è in grado di filare la paglia in oro.
- Allora, forse mio padre avrà pietà di lei…
Merlino scosse il capo con aria grave.
- No. Conosco il re, e niente sarà in grado di fargli cambiare idea. Ma forse…- si avvicinò al principe.- Forse, domani all’alba, qualcun altro potrà salvare quella fanciulla…
- E chi?
- Voi, principe Artù.
 

***

 
Io non posso filare la paglia in oro! E’ impossibile!
Non appena queste parole che rappresentavano una certezza si furono, dopo lunghi minuti di confusione trascorsi a fissare la paglia e l’arcolaio di fronte a sé, formulati con chiarezza nella sua mente, Ginevra si lasciò cadere sul pavimento, affondando il viso nelle mani e iniziando a singhiozzare.
Perché stava succedendo tutto questo? Che aveva fatto di male? All’alba sarebbe morta, e per cosa? Una bugia, una maledetta menzogna che suo padre, ubriaco, aveva raccontato con noncuranza? Non meritava di morire! Aveva diciassette anni, non aveva fatto nulla di male…
Perché doveva morire?
- Io non posso filare la paglia in oro…- singhiozzò, dando voce ai suoi pensieri.- Non…non posso…io non posso…
- Davvero? No? Beh, e se ti dicessi che io invece posso?
Ginevra sobbalzò, riscuotendosi e prendendo a guardarsi intorno con aria frenetica. Ansimò, asciugandosi le lacrime quando scorse una figura opaca nascosta in un angolo, appena dietro al mucchio di paglia. Quando tornò a vedere in maniera chiara, la scorse con chiarezza.
Si trattava di un uomo, abbastanza alto e dal fisico magro; aveva i capelli castani, gli occhi neri come la notte e come i suoi abiti. Indossava stivali di pelle, pantaloni e camicia scuri e un mantello nero foderato internamente di rosso. Doveva essere molto giovane, all’incirca venticinque o ventisei anni, ma i tratti appuntiti del viso non lo rendevano molto affascinante.
Lo sconosciuto mosse qualche passo verso di lei; inaspettatamente, le gettò un fazzoletto di seta con aria infastidita.
- Asciugati gli occhi!- le ordinò.- Non ho mai sopportato i mocci, e voi donne avete le lacrime in tasca…
Ginevra afferrò il fazzoletto quasi meccanicamente, e ubbidì all’ordine, ancora frastornata.
- Grazie…- mormorò, ancora con voce rotta.- Voi…voi non eravate qui, un attimo fa…- balbettò, guardandolo negli occhi.- Come avete fatto a entrare?
Lo sconosciuto le sorrise, scoprendo due file di denti bianchissimi e affilati. Ginevra si sentì percorrere da un brivido: quel ghigno pareva essere stato disegnato da Lucifero in persona.
- Magia!- rispose l’uomo. - Se no, come credi che avrei fatto?
Ginevra scosse il capo, asciugandosi completamente gli occhi. Lo sconosciuto mosse un altro passo nella sua direzione; le tese una mano, aiutandola a rialzarsi.
- Come ti chiami, dolcezza?- ammiccò.
- Ginevra…- soffiò la ragazza, un po’ incerta.
- Ginevra? Un nome molto carino…direi quasi…regale!- ridacchiò lo sconosciuto.- Bene, se le orecchie non mi hanno ingannato, poco fa, mi è parso di capire che tu hai un piccolo problema con tutta questa paglia…- avvicinò il proprio volto a quello della ragazza.- Zia Mallory aveva ragione sui Pendragon, vero?- sibilò.
Ginevra trasalì, arretrando istintivamente.
- Come conoscete il nome di mia zia? Mi avete spiata?! Chi siete voi?- ansimò.
- Chi sono io non ha importanza, cara. Quello che conta…- sorrise lo sconosciuto.- …è ciò che posso fare per te.
Ginevra non rispose, e lo guardò attentamente. Sembrava che dicesse la verità, ma poteva fidarsi di lui? C’era in gioco la sua vita…a quel punto, che altra scelta aveva?
- Voi…voi potete davvero filare tutta questa paglia in oro?- domandò, incerta.
- Uhm…fammi pensare…sì!- rise l’uomo. - Una notte di lavoro dovrebbe essere sufficiente…
- Allora mi aiuterete?!- esclamò Ginevra, sentendosi rinascere.- Oh, grazie! Grazie, grazie, vi ringrazio infinitamente, io davvero non so come…
Lo sconosciuto sogghignò, sollevando una mano per bloccarla.
- Non correre troppo, piccola. Sì, è vero, posso filare tutta questa paglia in oro, ma non credere che io vada in giro a fare la carità ai disperati come il caro vecchio Merlino. No, tesoro…sai come si dice, vero? Quid pro quo
- Che intendete dire?
L’uomo le rivolse un sorriso smagliante.
- Facciamo così: io filerò questa paglia in oro al posto tuo, e in cambio tu mi darai ciò che ti chiedo…
- Ma…ma io non ho niente…
- Non sto parlando di qualcosa che hai. Ma di qualcosa che avrai - l’uomo sogghignò.- Sai, tesoro, ho come l’impressione che il principe Artù abbia messo gli occhi su di te. Ma non è ricchezza, ciò che voglio…
- E allora, che cosa volete?
Lo sconosciuto ghignò.
- Il tuo primo bambino - sussurrò, mentre una luce maligna gli accendeva lo sguardo.
Ginevra trasalì nuovamente, arretrando di diversi centimetri.
- Il…il mio…- boccheggiò.- Voi volete…volete il mio primo…
- Il tuo primo bambino, sì, cosa non ti è chiaro di ciò che ti ho appena detto?- rispose l’uomo, con fare sbrigativo.- Mi sembra ragionevole, dico bene? La tua vita per quella del tuo primogenito. So che stai pensando che è orribile, immorale, e altre sciocchezze senza senso…ma cerca di ragionare. Hai diciassette anni, è un po’ presto per morire, no? Io posso salvarti la vita, e in cambio chiedo solo quella di un fagottino urlante che neppure conosci, e che potrai sicuramente sostituire con altri figli. Allora? Che ne dici? Prendere o lasciare, raggio di sole!
Ginevra strinse le labbra a fessura, e si portò istintivamente una mano al ventre. Ciò che le stava chiedendo quell’essere era ignobile, spregevole, le stava proponendo uno squallido accordo a cui nessuna madre avrebbe mai ceduto.
Il suo primo bambino…in cambio della sua salvezza. Ginevra si sentì mancare, ma si fece forza, cercando di essere lucida. All’alba sarebbe morta, e lei voleva disperatamente vivere. Quello sconosciuto la poteva salvare. Non le importava se fosse un semplice uomo, uno stregone, una creatura malefica. Ciò che contava era che sapesse filare la paglia in oro, come le aveva ordinato re Uther. E in cambio voleva che lei gli cedesse il suo primogenito…
Ma chi l’aveva detto che avrebbe avuto un figlio? Povera com’era, non bella, per di più senza dote, chi l’avrebbe mai chiesta in moglie? Molto probabilmente non si sarebbe mai sposata, non avrebbe avuto figli…Forse c’era il modo di salvarsi la vita e di ingannare quell’essere. Non tutte le donne avevano figli, dopotutto. Lei avrebbe fatto in modo di non averne. Le zitelle non avevano bambini, e nemmeno le suore. Sì! Ecco cos’avrebbe fatto! Sarebbe entrata in convento! Lì avrebbe liberato i suoi genitori dal peso di una figlia nubile, avrebbe condotto una vita dignitosa e onorevole al servizio di Dio, e avrebbe così scampato l’accordo.
Era la soluzione migliore, per lei e per chiunque.
Ginevra chiuse gli occhi, inspirando a fondo.
- Accetto l’accordo.
 

***

 
Più volte aveva letto gli annunci che vedevano la condanna al rogo di una donna accusata di stregoneria. Ma mai avrebbe pensato che, su quei manifesti ricchi di accuse infamanti, un giorno ci sarebbe stato scritto il suo nome.
Ginevra si rannicchiò ancora di più in un angolino della cella umida e buia del castello dei Pendragon, nascondendo il volto in un braccio e sciogliendosi in lacrime.
Era stato tutto inutile. Aveva siglato un accordo orribile per niente.
Non era bastato aver filato la paglia in oro come voleva il re. Quando, all’alba, re Uther Pendragon era entrato nella torre e aveva scorto il mucchio di paglia ora tramutato in fili di oro zecchino, non aveva mantenuto la sua parola. Aveva ordinato che fosse imprigionata e condotta in catene di fronte ai giudici. Era stata processata con l’accusa di essere una strega che praticava la magia nera.
Ed era stata ritenuta colpevole.
Aveva trascorso tutta la giornata e buona parte della notte in cella. Il giorno dopo sarebbe morta sul rogo.
Ginevra riprese a singhiozzare, stavolta più forte, disperata come non lo era mai stata. Perché stava capitando tutto questo? Che aveva fatto di male?
La porta si aprì cigolando, lasciando entrare un fascio di luce.
- Madamigella…Ginevra, se non sbaglio?
La ragazza alzò lo sguardo. Nonostante la disperazione, si stupì non poco che il principe Artù fosse venuto a trovarla in cella; le venne quasi da ridere, ridere di se stessa, quando ripensò al suo stupido amore platonico, e a come quella sarebbe stata la morte perfetta: fra le braccia del suo Vero Amore.
Ma non era più tempo di illusioni.
Si asciugò le lacrime con una manica dell’abito.
- Siete venuto a dare l’ultimo saluto a una condannata a morte?- domandò, con una sorta di amara ironia.
Il principe si avvicinò, inginocchiandosi al suo fianco.
- No…- mormorò.- Sono venuto a dirvi che…che forse c’è una speranza…
Ginevra lo guardò, incerta se credergli o meno, se la stesse canzonando oppure no.
- Una speranza?
- Sì. Ma dipende da voi - Artù inspirò a fondo, prima di continuare.- Fra le priorità di un principe ereditario, c’è anche quella di poter scegliere la propria moglie - spiegò.- Se voi acconsentiste a divenire la mia promessa sposa, solo per finzione, sareste assolta da ogni accusa. Dopo, avremo tutto il tempo per dimostrare la vostra innocenza, e sarete libera.
Ginevra lo guardò, incredula. Il principe Artù le stava dando una possibilità. Fingere di divenire sua moglie, in modo da poterla scagionare da ogni accusa. Acconsentire a un falso fidanzamento solo per…questo voleva dire che lui le credeva?
Quasi le stesse leggendo nel pensiero, Artù le prese una mano.
- So che non siete una strega. Non siete stata voi a filare quella paglia in oro, ma non m’interessa sapere chi è stato. Mio padre ha oltrepassato il limite, e voi non meritate di morire per i suoi capricci. Gli ho già annunciato il nostro fidanzamento…ora, dipenderà solo da voi…
Ginevra si sentì ancora una volta salire le lacrime agli occhi, ma stavolta era diverso. Erano lacrime di sollievo, di commozione, di liberazione.
Annuì con forza e, senza più pensare, gettò le braccia al collo al principe.
- Ma…ma come farete a dimostrare la mia innocenza?- domandò poco dopo.
- A quello penserà Merlino. Ha detto di sapere esattamente come sono andate le cose…
 

***

 
L’ennesimo bicchiere di vino venne scaraventato sul pavimento, infrangendosi in mille pezzi. Re Uther Pendragon non se ne curò, e riprese a percorrere barcollando il corridoio che conduceva alle mura a Nord, borbottando frasi sconnesse con voce impastata.
- Tutto questo non vi fa bene, Vostra Maestà.
Uther rise senza allegria a quel commento, voltandosi lentamente e puntando gli occhi arrossati in quelli di Merlino.
- E da quando ti interessi della mia salute, vecchio pazzo?- biascicò.- Non credo che te ne importi molto di me, dal momento che ti sei schierato con quel traditore di mio figlio e la sua puttana.
- Io ho deciso di stare dalla parte che ritenevo giusta, votata al Bene - replicò Merlino, senza scomporsi.- Per tutti questi anni vi ho servito e aiutato sopportando ogni vostro capriccio e ogni crudeltà, ma ora mi sono stancato di restare a guardare. Ho sperato che, con i miei consigli, voi cambiaste, ma ora mi rendo conto di quanto sono stato cieco.
- Cambiarmi, dici?- sbraitò il re, ridendo sguaiatamente.- Cambiarmi? Beh, in tal caso, direi che decisamente non ci sei riuscito, anzi, hai fatto di tutto per mettere mio figlio contro di me. Ma non puoi sconfiggermi, oh no!, ti farò vedere con chi hai a che fare, in realtà. Domani stesso disconoscerò mio figlio e farò condannare quella strega. Quanto a te…finirai al rogo come meritano gli stregoni come te…!
Detto questo, senza attendere risposta, il re si allontanò, ubriaco e barcollane.
Merlino rimase a guardarlo, impassibile, mentre iniziava a salire le scale.
Uther raggiunse lentamente la porta in cima a esse, borbottando imprecazioni e frasi rivolte contro Merlino e Artù. La spalancò con furia, uscendo all’aria aperta.
Incespicò lungo il corridoio di solito pattugliato da sentinelle, ma quella sera stranamente deserto. Un lato era costeggiato dalle mura del castello; l’altro era separato dal vuoto solo da una striscia di merlature. Uther barcollò fino a quasi metà del corridoio, appoggiandosi malamente alla balaustra dei merli. Gettò il capo in avanti, ridendo fra i denti.
In fondo, non ci avrebbe perso molto a disconoscere quel sempliciotto di suo figlio. Artù era sempre stato deludente, dopotutto. Aveva destinato il trono a lui solo perché era il suo unico figlio legittimo, ma aveva una quantità di bastardi in giro, concepiti con cortigiane e serve di corte. Per ovviare al problema della successione gli sarebbe bastato riconoscere il più meritevole di loro, nulla di più.
Artù se l’era cercata. Aveva cercato di salvare quella sgualdrina e si era messo contro di lui, ma non l’avrebbe passata liscia. Oh no. E neanche Merlino. Aveva tollerato la sua magia solo perché era bianca e potente, e gli era stato utile in molte occasioni, ma quel vecchio pazzo ultimamente aveva iniziato a montarsi troppo la testa. Doveva prendere dei provvedimenti, se non voleva rischiare di vedersi spodestato da…
Uno dei mattoni di pietra delle merlature cedette, e la mano di Uther scivolò; il re emise un piccolo grido, agitando le braccia per tenersi in equilibrio, ma a nulla servì. L’uomo cadde di peso, sbattendo il torace contro la balaustra, e cadendo dall’altra parte.
Uther urlò, aggrappandosi disperatamente alle merlature con entrambe le mani. Si ritrovò a penzolare nel vuoto; sotto di lui c’era il marmo freddo e duro del cortile riservato all’addestramento dei cavalieri.
Il re ansimò, cercando di far forza sulle braccia per risollevarsi. Strinse i denti, gettando un avambraccio al di là della balaustra e riuscendo a sollevarsi fino al collo.
Una figura emerse dall’ombra.
Uther sgranò gli occhi, a metà sorpreso e a metà felice che ci fosse qualcuno in grado di aiutarlo. Il qualcuno in questione era un giovane uomo, alto e vestito completamente di nero, dai capelli castani e gli occhi molto scuri, e i tratti del viso affilati.
- Aiutatemi!- implorò re Uther.
Il giovane uomo si avvicinò, puntando le sue iridi nere negli occhi grigi del re. Si muoveva con calma e lentezza misurata, quasi avesse avuto tutto il tempo di questo mondo. Beh, Uther invece non ce l’aveva!
- Aiutatemi! Vi prego, aiutatemi!- supplicò ancora.
Lo sconosciuto avanzò ancora verso di lui, senza che l’espressione del suo viso lasciasse trasparire alcuna emozione. Uther annaspò, cercando di sollevarsi ancora.
- Sono…sono scivolato…- soffiò, quando l’uomo fu a pochi centimetri da lui.- Vi prego, aiutatemi a risalire…
- Scivolato, eh?- lo sconosciuto scoprì i denti in un ghigno sbilenco.- Proprio un bell’inconveniente, vero?
- Già…- ansimò re Uther; che lo stesse prendendo in giro? Beh, quando sarebbe ritornato con i piedi per terra gli avrebbe fatto passare la voglia di ridere!.- Aiutatemi, ve ne prego…
- Oh, ma certo. Certo. Sicuro che vi aiuterò - lo sconosciuto si chinò verso di lui.- Coraggio, tendetemi le mani…
Re Uther ubbidì, tendendogli a fatica prima l’una poi l’altra mano. Lo sconosciuto scoprì i denti in un altro sorriso, afferrandogliele con forza. Uther fece una smorfia di dolore quando gli conficcò le unghie nella carne.
- Grazie…- soffiò. - Vi ringrazio…sarete ricompensato per aver prestato aiuto al re…
- Al re…?- sibilò lo sconosciuto.- Oh, sì, certo…sto rendendo un grande favore a vostro figlio e sono certo che non tarderà a ricompensarmi…
- Mio…mio figlio?
Lo sconosciuto ghignò, ridacchiando sommessamente. Uther sgranò gli occhi, mentre la sua espressione si tramutava in puro terrore.
L’uomo conficcò ancora di più le unghie nella carne del sovrano, chinandosi verso di lui fino a quasi accostare il proprio volto al suo.
- Lunga vita al re!- sibilò.
Un secondo dopo, Uther sentì la presa intorno alle proprie mani scivolare via. Il re urlò, precipitando nel vuoto. Si udì un tonfo sordo, e immediatamente le grida cessarono.
L’uomo in nero si sporse un poco per guardare oltre la balaustra, scorgendo il corpo inerte e immobile del re riverso a terra contro il pavimento di marmo. Il suo volto si aprì in un genuino e soddisfatto sorriso, prima di allontanarsi facendo frusciare il mantello.
Poco distante, non visto, Merlino sollevò ancora di più il cappuccio sul capo.
 

***

 
Niente era andato come previsto. Gli eventi avevano preso una piega inaspettata ma che, in fondo, era molto migliore di quella che si era preannunciata. Se non fosse stato per un particolare.
Era incinta. Dopo tutte le promesse e i buoni propositi che si era fatta, era rimasta ugualmente incinta. Incinta di Artù.
Sebbene fosse iniziato tutto con un inganno, una farsa escogitata per salvarle la vita, alla fine l’aveva sposato ugualmente. I suoi sogni di ragazzina si erano avverati…ma a che prezzo?
La notte stessa in cui Artù le aveva proposto il suo piano per salvarla, re Uther era morto. Dicevano che fosse ubriaco e che fosse precipitato giù per sbaglio da uno dei corridoi esterni del castello.
Trascorsi i due mesi previsti per il lutto, Artù era stato incoronato nuovo re di Camelot.
A quel punto, Ginevra si era resa conto che la sua presenza lì era inutile. Aveva trascorso una brutta avventura, ma ora era passata, e dal momento che Uther era morto non c’era più alcun motivo per cui Artù dovesse proteggerla. Ma il nuovo re l’aveva pregata di rimanere ancora per un poco, se non altro per farsi perdonare per il modo in cui era stata trattata.
Poi, la settimana di ospitalità era divenuta un mese, e il mese si era protratto ancora più a lungo. Ginevra era ancora incredula sul fatto che Artù si fosse davvero innamorato di lei, ma così era.
Ora che erano sposati, sarebbe stato tutto perfetto…se non fosse stato per quel bambino che mai e poi mai sarebbe dovuto nascere.
Artù era felice del nuovo arrivo, e anche lei lo sarebbe stata, se non ci fosse stato di mezzo quell’accordo. Ginevra non aveva detto nulla al marito in merito, e adesso era più disperata che mai.
Si sedette sul letto a baldacchino della sua camera matrimoniale, accarezzandosi con l’indice e il medio il ventre arrotondato di otto mesi. Il bambino stava per nascere, e presto lui sarebbe venuto a reclamarlo.
Non voleva dare via il suo bambino. Non voleva!
- Mai visto un ventre così grazioso, mia cara!- gracchiò una voce alle sue spalle.
Ginevra sentì il battito del proprio cuore arrestarsi di colpo, per poi riprendere a battere furiosamente. Si voltò di scatto, dandosi mentalmente della stupida per non averci pensato. Aveva dato per scontato che le guardie avrebbero tenuto lontani gli intrusi, dimenticando che, la prima e unica volta che l’aveva incontrato, non aveva utilizzato la porta d’ingresso per entrare nella torre.
Scattò in piedi, arretrando istintivamente.
- Non sembri molto contenta di vedermi…- osservò ironicamente l’uomo. Non era cambiato in nessun dettaglio, dall’ultima volta. Ginevra si circondò il ventre con le braccia.
- Andate via!- ordinò, quasi strillando.- Andate via, o chiamerò le guardie!
- Sai meglio di me che non servirebbe a nulla. Me ne andrò con piacere, ma temo che mi rivedrai molto presto. Precisamente, il giorno della nascita di tuo figlio.
- No!
Ginevra arretrò ancora, fino a urtare una cassapanca alle sue spalle.
- No! No, voi non avrete il mio bambino!
- Avevamo un patto, carina, e nessuno rompe un accordo con me. Hai acconsentito a darmi il tuo primogenito, e che tu lo voglia o no, io lo avrò, con le buone o con le cattive.
Ginevra serrò le labbra, mordendosi l’interno di una guancia. In un attimo, scoppiò a piangere.
- Vi prego!- implorò.- Vi prego…farò qualsiasi cosa…
- Perdonami, ma stento a fidarmi di chi ritira in questo modo la parola data.
- Vi supplico!- insistette Ginevra.- Vi darò ciò che volete…
L’uomo ghignò, scuotendo il capo con aria compassionevole.
- Odio quando succede così…- sospirò.- E va bene, dolcezza: ti propongo una sfida. Tornerò da te il giorno della nascita del bambino. Avrai tre possibilità per indovinare il mio nome. Se ci riuscirai…- alzò le mani in segno di resa. - Allora ti lascerò per sempre in pace. In caso contrario…mi prenderò tuo figlio come stabilito.
Ginevra abbassò lo sguardo, scuotendo il capo, sconvolta.
- Ma…ma come posso…- mormorò, alzando nuovamente gli occhi, ma non terminò la frase.
L’uomo era sparito.
- Mia signora!
Ginevra trasalì, voltandosi in direzione della porta.
- Merlino!- esclamò, incredula e impaurita.
- Ho udito tutto, mia signora…- mormorò il mago, entrando nella stanza.
Ginevra chinò il capo, affondando il volto fra le mani.
- Merlino, cosa posso fare?!- singhiozzò.- Come posso indovinare il suo nome? E’ praticamente impossibile!
Il mago si avvicinò a lei, prendendole le mani fra le sue.
- Sedetevi!- le ordinò, conducendola verso il letto.- E’ meglio che non vi affatichiate troppo, nelle vostre condizioni!
Ginevra ubbidì, ma non smise di singhiozzare.
- Merlino, io non so proprio come fare! Si prenderà il mio bambino!
- No - dichiarò il mago, risolutamente.- No, non lo farà.
Ginevra lo guardò senza capire; Merlino si sedette accanto a lei, senza lasciarle le mani.
- L’essere con cui avete stretto un accordo si chiama Tremotino.
La ragazza si asciugò velocemente gli occhi.
- Tremotino?- ripeté.- Voi…voi lo conoscete?
Merlino annuì.
- Si tratta di uno stregone molto potente, forse il mago oscuro più forte di questo mondo. Un tempo era votato al Bene, ma poi…beh, è una lunga storia…
- Voglio saperla!- insistette Ginevra.- Merlino, quell’essere vuole mio figlio!
- Ora che conoscete il suo nome, potete considerare l’accordo annullato. Tremotino pratica le arti oscure, è malvagio e infido, ma rispetta sempre i suoi patti.
- Ma potrebbe fare ancora del male! Al bambino, ad Artù, a Camelot!- Ginevra si avvicinò a lui.- Merlino, dobbiamo…
- Non temete - sussurrò il mago, con aria grave.- Non temete, mia signora…penserò io a questo…
 

***

 
I goblin avevano paura della luce. Lo stesso Castello Oscuro era immerso nelle tenebre, anche se Merlino non avrebbe saputo dire se il motivo fosse la presenza di quelle creature notturne, oppure se semplicemente l’aspetto della dimora di Tremotino rispecchiasse l’animo del suo padrone.
Entrare era stato facile. Merlino aveva eluso abilmente la guardia dei goblin, materializzandosi all’interno del palazzo. Il mago si guardò intorno: quello doveva essere un atrio, grande e circolare, con marmo nero a ricoprire i pavimenti e solo poche candele per illuminare l’ambiente.
Tutto pareva permeato di una strana immobilità, un silenzio innaturale riempiva l’intera stanza.
Merlino avanzò di un passo, calandosi il cappuccio dal capo.
- Tremotino!- chiamò, e la sua voce rimbombò sulle pareti.- So che sei qui, Tremotino! Fatti vedere!
- Accontentato!- rise una voce giovanile alle sue spalle.
Merlino si voltò senza scomporsi; Tremotino se ne stava con le spalle appoggiate a una parete, le braccia incrociate al petto, e un sorriso sulle labbra.
- A cosa devo questa visita inaspettata, maestro?- chiese.
Merlino avanzò un poco verso di lui.
- Sono venuto qui per avvertirti - dichiarò.- Da questo momento in avanti, farai bene a lasciare in pace la regina di Camelot, la sua famiglia, e tutti gli abitanti del regno.
- Oh, ma che paura!- lo canzonò Tremotino.- Davvero credi che bastino due parole intimidatorie per fermarmi, maestro?
- Io non sono il tuo maestro! Non più - disse Merlino.
- Davvero?- Tremotino avanzò lentamente verso di lui, senza smettere il suo sorriso.- Strano. Eppure sei stato tu a insegnarmi la magia.
- Io ti ho insegnato a utilizzare le arti magiche per fare la cosa giusta. Ma tu hai voltato le spalle al Bene per seguire la via dell’Oscurità. Sei diventato un mostro, Tremotino!- ringhiò il mago.
- Non esageriamo!- rispose lo stregone, con noncuranza.- Diciamo che ho semplicemente scelto ciò che era più conveniente per me. La tua magia non poteva darmi ciò che cercavo, così ho deciso di fare a modo mio.
- E cos’è che cercavi? La vendetta?!- Merlino lo guardò con furia.- Avrei dovuto capirlo anni e anni fa. Il tuo cuore è sempre stato oscuro. Sempre, sin dal momento in cui ti ho salvato la vita e ti ho portato con me. Ho sbagliato a farti divenire il mio apprendista, ma speravo che prima o poi avresti dimenticato i tuoi propositi di vendetta…e invece…
- Non parlare di cose che non conosci!- ululò Tremotino; in un attimo, il suo volto si era trasformato in una maschera di rabbia.- Tu non sai niente!- sibilò.- Non hai idea di cosa si prova. Tu sei solo un povero vecchio solo che si diverte a fare il moralista. Dov’erano tutte le tue belle parole, quando ho ucciso re Uther?- beffeggiò.
- Se avessi potuto salvare il sovrano, l’avrei fatto - dichiarò Merlino.- Perché l’hai ucciso?- gli chiese.- Lui non c’entrava niente con Ginevra e il bambino. Perché l’hai fatto?
Tremotino rise con scherno.
- Perché mi era d’intralcio, ecco perché. Re Uther non si sarebbe fatto scrupolo a sacrificare una vita umana, ma quel sempliciotto di suo figlio mi cederà qualunque cosa, pur di riavere indietro il bambino - spiegò, con voce melliflua.- Davvero credi che a me importi di un inutile neonato?- chiese.- Il figlio del re è solo una pedina. E’ altro ciò che voglio. E ora, vedi di andartene…- gli voltò le spalle, iniziando ad avviarsi verso una porta dall’altra parte della stanza.- La regina ha siglato un accordo con me, e sarà costretta a rispettarlo. Non c’è niente che tu possa fare.
- L’ho già fatto - disse Merlino.- Ginevra ora conosce il tuo nome, Tremotino. Hai perso.
Tutto accadde molto in fretta.
Il mago fece appena in tempo a vedere Tremotino voltarsi nella sua direzione come una furia, prima che questo stendesse un braccio verso di lui; Merlino venne improvvisamente sbalzato a diversi metri di distanza, finendo riverso a terra con un tonfo.
Il mago tossì, dolorante, cercando di rialzarsi, ma un istante dopo si ritrovò con uno stivale di Tremotino premuto contro il petto.
Lo stregone lo schiacciò, tenendolo premuto a terra.
- Maledetto!- sibilò.- Tu, dannato impiccione! Devi sempre mettere il becco negli affari altrui, vero?
- Ho fatto ciò che era giusto fare - soffiò Merlino, con un fil di voce.
- E credi che questo sarà sufficiente?- lo schernì Tremotino.- Mi dispiace deluderti, mio caro, ma stavolta l’allievo ha superato il maestro - ghignò.- Avrò ciò che voglio, anche se dovrò aspettare. Quel bambino è la chiave d’accesso a ciò che bramo, e sarà mio, prima o poi.
- Ma che cos’è che vuoi?- tossì Merlino, guardandolo con rabbia.
Tremotino sogghignò.
- Davvero non lo immagini?
Il mago impiegò diversi secondi prima di capire, e quando comprese sgranò gli occhi in preda al terrore.
- No! Tu sei pazzo!- urlò. - Non puoi averla! Non puoi, in alcun modo, loro non possono essere…
- Oh, sì che posso - sorrise Tremotino.- Peccato che tu non sarai lì a goderti la mia vittoria…
Tremotino racchiuse la mano destra a pugno, pronto a colpirlo con un altro incantesimo, ma Merlino fu più lesto. Lanciò un incantesimo che colpì lo stregone in pieno petto, facendolo cadere all’indietro.
Merlino strisciò sul pavimento, cercando di raccogliere quanto più potere possedeva per avere la forza di smaterializzarsi.
Tremotino si rialzò, ringhiando, pronto al contrattacco, ma ancora una volta Merlino fu più veloce, e si smaterializzò di fronte ai suoi occhi.
Nella sala tornò il silenzio.
Tremotino si rialzò, furioso.
- Non riuscirai a fermarmi ancora a lungo!- ululò, parlando al nulla.- Mi hai sentito? Non potrai sempre metterti in mezzo, Merlino! Hai capito? Avrò quel bambino! Avrò ciò che voglio!- ringhiò.- Un giorno avrò la mia vendetta!
 

***

 
Il popolo di Camelot accolse con grande festa e clamore la nascita della nuova principessa. Ginevra rivolse uno sguardo carico di tenerezza prima al marito e poi alla figlia, prima di ritirarsi dalla terrazza e rientrare nelle sue stanze.
Merlino le sorrise, attendendo che Artù uscisse prima di avvicinarsi alla sovrana e alla neonata. Poco distante, seminascosto nella penombra della camera, un ragazzino sugli undici o dodici anni stava ramazzando il pavimento con uno straccio bagnato.
- Grazie per tutto quello che avete fatto, Merlino - Ginevra gli sorrise, grata.- Spero solo che quell’essere non torni mai più…
A quelle parole, il ragazzino smise di pulire, drizzando il capo.
- Questo purtroppo non posso garantirvelo, mia signora - sospirò Merlino.- Tremotino è molto potente, ed estremamente determinato. Dovremo prestare molta attenzione, da qui in poi.
- Già…- soffiò Ginevra, guardando la neonata con aria inquieta.- Spero solo che non faccia del male alla piccola…
- Non temete, mia regina!- saltò su il ragazzino.
Ginevra e Merlino si voltarono a guardarlo all’unisono.
- Non dovrete preoccuparvi per la sorte della principessa - proseguì lui con entusiasmo ma anche estrema serietà.- Da grande sarò cavaliere, e penserò io a proteggerla!
- Oh beh, in tal caso allora posso dormire sonni tranquilli!- Ginevra rise di gusto.- Come ti chiami, ragazzino?
Quello si esibì in un profondo inchino prima di rispondere.
- Il mio nome è Lancillotto, mia signora.
- Lancillotto, eh?- sorrise Ginevra.- E’ un bel nome, vero, Merlino?
- Concordo. A proposito di nomi…- fece il mago. - Potrei avere il piacere di sapere come si chiama la nostra nuova principessa?
Ginevra sorrise, cullando piano la neonata. Le rivolse uno sguardo carico d’amore.
- Odette. Il suo nome è Odette.
 
 
 
 
Angolo Autrice: Con questo capitolo credo di essermi definitivamente giocata la stima di tutti voi. Era un azzardo, me ne rendo conto. So che Merlino e co. non sono personaggi delle favole ma, come ho già spiegato con Lady Marian, non solo il Regno delle Favole si sta mobilitando per l’arrivo dei Grimm.
Questo era un flashback che però avrà molta importanza nella storia. Vediamo di fare due precisazioni…
Allora. Il nome Odette è parlante. Immagino avrete compreso a che storia mi riferisco e a cosa succederà. Per chi se lo stesse chiedendo: sì, Tremotino sarà il Rothbart di turno. A questo proposito, sento già gli sbuffi di chi, oltre a questa storia, segue anche la mia Riflessi d’ombra. Due paroline di spiegazione: tranquilli, sebbene le due vicende tratteranno argomenti simili, non ho nessuna intenzione di rendere le due cose papali e identiche, love stories (chi vuole intendere intenda!) comprese (a questo proposito, keep an eye on Odette and Lancillotto! :P), e cercherò anche di dosare i ritmi di pubblicazione e gli episodi raccontati per non rendere troppo noiose le due narrazioni.
Comunque, in questa storia la vicenda di Odette arriverà solo fra un po’ di tempo.
Merlino è un altro che ne sa un pezzetto in più rispetto agli altri…Il passato di Tremotino. Dunque. Mi è parso di udire gli accidenti che tutti coloro che si aspettavano delucidazioni su Mary-Anne mi hanno inviato. Ancora, vi chiedo di avere pazienza. Qui si è scoperta solo una parte del passato di Tremotino, ma si scoprirà anche il resto a tempo debito.
E intanto…a cosa gli serve la bambina? Che cosa vuole in realtà e perché Merlino è così terrorizzato che se ne impossessi? Contro chi vuole vendicarsi e perché?
Passiamo alle immagini. Ecco qui, come promesso, Gretel.
 
Gretel (Rose McGowan):
 
http://25.media.tumblr.com/500f94108b12dda65c0907f19834684f/tumblr_mjnpdhxwpS1rm2bcqo1_500.gif
 
Veniamo ora a Capitan Uncino. Ringrazio cleme_b per il suggerimento. Io non ci sarei mai arrivata XD.
 
Capitan Uncino (Ben Barnes):
 
http://cdn01.cdn.justjared.com/wp-content/uploads/headlines/2007/12/ben-barnes-factory.jpg
 
Bene, ho detto tutto :). Ringrazio chi legge e chi recensisce :).
Al prossimo capitolo!
Beauty

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Capitolo 17
*** A Poisoned Soul ***


A Poisoned Soul

 
- Svegliati! Andiamo, forza, svegliati!
Anya mugolò nel sonno, sentendo qualcuno scuoterla per una spalla. Tentò di rannicchiarsi su se stessa, ancora intontita, ma le scosse si fecero più decise. Emise un altro mugolio, aprendo gli occhi e sbattendo le palpebre per mettere a fuoco la scena di fronte a sé. Ebbe un attimo di confusione quando, anziché il comodino con la lampada e il poster di David Bowie in camera sua, si ritrovò di fronte una radice affusolata che spuntava dal terreno, ma subito ricordò tutto.
Il Regno delle Favole. La profezia. Sua sorella. Il vortice.
Qualcuno continuava a scuoterla per una spalla…
Ah, già. Lui.
- Allora, le fate del sonno ti hanno fatto un incantesimo?!- la domanda aveva un qualcosa di romantico in sé, ma chi l’aveva pronunciata era serissimo e, a giudicare dal ringhio che ne era uscito, anche vagamente innervosito.- Ti vuoi alzare?!
- Ho capito!- sbuffò Anya, tirandosi pesantemente su a sedere sull’erba. - Ho capito, dammi un attimo…- borbottò; la prima cosa che le venne in mente era che con ogni probabilità i suoi capelli dovevano assomigliare a un nido di condor. Cercò di sistemarseli come meglio poteva.
Vincent si allontanò da lei, spegnendo con un rametto gli ultimi residui del fuoco; Anya gli lanciò un’occhiata di sottecchi: doveva presumere che fosse rimasto sveglio tutta la notte, ed effettivamente aveva tutta l’aria di chi ha trascorso una nottata in bianco. Era pallido e aveva delle occhiaie marcate; tutto sommato, però, sembrava abbastanza in forma. Anya fece un breve calcolo mentale: era il secondo giorno e la seconda notte che trascorrevano insieme, una delle quali lei l’aveva passata da prigioniera. Doveva dedurre che fosse rimasto alzato anche due sere prima, per assicurarsi che lei non fuggisse. In totale, erano quasi quarantotto ore di sonno in arretrato, più stanchezza dovuta al cammino nella Foresta Incantata, e non aveva nemmeno voluto – ora che avevano stretto un accordo e che, presumibilmente, lui si fidava un po’ più di lei – che gli desse il cambio durante il turno di guardia.
E ora stavano per rimettersi in marcia, ma si vedeva lontano un miglio che era stanco morto…quanto tempo sarebbe riuscito a resistere, prima di crollare?
Vincent si voltò verso di lei e, senza alcun preavviso, le lanciò un’altra mela rossa in mano. Anya la prese al volo, colta in contropiede.
- Vedi di non fare le stesse storie di ieri sera, altrimenti non mangerai neanche per oggi - borbottò, sedendosi di fronte a lei.- E cerca di fare in fretta, non abbiamo tempo da perdere.
Anya annuì, e diede un piccolo morso alla mela; masticò lentamente per diversi secondi, assicurandosi che non avesse un qualche strano sapore che potesse ricondurre a un veleno. Non trovò nulla di simile, e si sentì abbastanza sicura da addentarne un altro morso.
- Tu non mangi?- s’informò, scoccando un’occhiata a Vincent.
- Ho già mangiato…Sbrigati a finire, dobbiamo metterci in marcia.
- Di già?- fece Anya. - Non vuoi…dormire un po’?
Non avrebbe mai creduto di riuscire a sorprendere un tipo del genere, eppure a quella domanda Vincent sollevò il capo di scatto, guardandola stupefatto.
- Dormire?- ripeté, incerto, come se lei avesse appena pronunciato una blasfemia.
Anya annuì.
- E’ da due giorni che non dormi…ho pensato che volessi…
- Hai pensato male - la freddò.
- Se sono io che ti preoccupo, mi sembra di ricordare che abbiamo un accordo, io e te - Anya non demorse.- Non scapperò, davvero. Sarei una stupida se lo facessi, e non credo che un paio d’ore farebbero molta differenza…Al tuo posto, a me sarebbe già preso un esaurimento nervoso.
- Un…che cosa?- incredibile, era riuscita a prenderlo di sorpresa ben due volte!
- Un esaurimento nervoso - ripeté Anya, lentamente, in modo da essere il più chiara possibile. Aveva scordato di trovarsi in una specie di mondo parallelo, o roba simile, era ovvio che un personaggio delle favole non capisse determinate cose. - E’ una specie di malattia…da dove vengo io, si prende quando si è sotto stress…cioè, volevo dire, nervosi o ansiosi…
- Da questo momento in avanti, ti sarei infinitamente grato se tu e il tuo mondo teneste la bocca chiusa, a meno che tu non decida di aprirla per finire quella dannata mela!
Anya aggrottò le sopracciglia, innervosita.
- Potresti anche rispondermi un po’ meglio, sai?- ringhiò.- Io volevo solo essere gentile.
- Tienila in serbo per i Grimm, la tua gentilezza. Chi lo sa, forse così ti uccideranno senza farti soffrire troppo…- ghignò Vincent, facendosi beffe di lei.
Anya si costrinse a ignorare il sarcasmo, dando un altro morso alla mela.
- In questo mondo, sembrate tutti essere ossessionati da questi Grimm…- mormorò poco dopo.- Ti stai riferendo ai due scrittori tedeschi, vero?
- Tedeschi?
- Della Germania.
- E che posto è, questo?!
- Lascia stare…- sospirò Anya. - Comunque, perché tutti ne hanno così paura? Che possono farti due persone morte più di tre secoli fa?
- Ragazzina, credimi: non sempre la parola morto è sinonimo di inoffensivo, specialmente in tempi bui come questi. E in ogni caso, i fratelli Grimm non sono morti…
- Ma…ma come? In che senso non sono…
Vincent si alzò in piedi di scatto, sistemandosi il mantello; raccolse l’arco e la faretra ricolma di frecce, gettandoseli entrambi sulle spalle.
- Ne hai di cose da imparare…- sospirò, con aria rassegnata.- E’ una storia lunga, ti basti sapere questo. E noi non abbiamo il tempo per riportarla alla luce come si deve. Dobbiamo muoverci, o non troveremo mai la Pietra.
Anya s’imbronciò, senza curarsi di nasconderlo. Che diamine pretendeva, quello? Che lei se ne stesse buona buona e facesse tutto quello che diceva lui senza porre domande. Era da quando era stata trascinata in quel luogo che non sentiva parlare d’altro che dei Grimm, e per di più l’oggetto a cui stava dando la caccia e la profezia che riguardava lei e sua sorella c’entravano con loro…Aveva il diritto di saperne di più. Per tutta la vita aveva creduto che i fratelli Grimm fossero dei semplici autori di fiabe, ma era evidente che si stava sbagliando. Doveva esserci sotto molto di più, se erano così temuti.
Comunque fosse, lei aveva il diritto di sapere la verità.
- Oggi dovremo ad ogni costo uscire dalla Foresta Incantata e raggiungere la città più vicina - dichiarò Vincent, riscuotendola dalle sue riflessioni­. Anya scosse il capo, riprendendosi.
- Perché?- chiese, un po’ frastornata.
- Lì avremo più probabilità di trovare informazioni sulle cinque chiavi - spiegò Vincent.- Chiunque in questo mondo conosce la profezia, ed essa parla solo di un sogno infranto e di una bellezza nella morte, ma non vi è alcun cenno all’ubicazione di questi. Per di più, non è completa…In una città ci sono sicuramente degli archivi e dei libri, e le storie e le leggende circolando con più frequenza. Forse troveremo un punto di partenza.
Anya ci pensò un po’ su, quindi annuì con vigore, convinta. Si rialzò in piedi, pronta a iniziare la marcia. Vincent la squadrò per diversi istanti, quindi distolse lo sguardo e prese a camminare.
- E in una città c’è sempre un buon sarto, da qualche parte - borbottò.- Con un po’ di fortuna, riusciremo a elemosinarti un vestito…
Anya si ricordò solo in quel momento di avere gli abiti sbrindellati a causa dell’attacco dell’Uomo Nero; arrossì violentemente, tirandosi su una spallina della maglietta e affrettandosi a seguire Vincent, senza dire una parola.
 

***

 
- Ecco qui…come vi sentite?- chiese Cenerentola, non appena ebbe terminato di ricucire la ferita.
Il Cacciatore tentò di rivolgerle un sorriso di gratitudine, ma gli riuscì solo una smorfia tirata a causa del dolore che ancora si faceva sentire. Si tirò su a sedere.
- Molto meglio. Vi ringrazio - aggiunse, guardando entrambe.- Senza di voi, molto probabilmente sarei morto…
- Si potrebbe dire lo stesso di noi due - ridacchiò Elizabeth.
Cenerentola sospirò, spostando di lato la ciotola d’acqua e gli stracci, e si mise a sedere sul pavimento.
- E ora che cosa facciamo?- chiese, intrecciando le dita delle mani e posandosele in grembo.
- Non vorrei dire una stupidaggine, ma credo che non sia il caso di rimanere ancora qui - azzardò Elizabeth.- Saranno passate sì e no un paio d’ore e abbiamo rischiato di venire ammazzati ben due volte…
- Cos’è accaduto?- domandò il Cacciatore, gettando degli sguardi tutt’intorno.- Questo luogo è abbandonato, dico bene?- mormorò.
Cenerentola annuì.
- Se ne sono andati tutti, e quelli che non sono fuggiti o sono morti o sono prigionieri dei soldati…- spiegò.
- Sono stati i soldati della Regina a fare questo?- ringhiò il Cacciatore.
- Loro, e gli Orchi del Nord. E quello che non hanno fatto quelle bestie, l’ha portato a termine il colera. No, Elizabeth ha ragione…non è più possibile restare qui…- Cenerentola scosse il capo.- Ma non ho proprio idea di dove potremmo andare. Io non conosco…
- Quello che cos’è?- fece d’un tratto il Cacciatore, puntando lo sguardo sulla borsa di Elizabeth.
La ragazza sbatté le palpebre, perplessa, quindi scorse il libro di favole spuntare dalla sacca. Lo estrasse, incerta.
- Questo?- fece eco, mostrandolo.- Beh, ecco, a dire il vero neanche io sono certa di…
- Ah, questo!- esclamò Cenerentola, strappandole praticamente il volume di mano e iniziando a sfogliare furiosamente le pagine.- Tu mi devi ancora delle spiegazioni…- Elizabeth si vide restituire il libro aperto. Cenerentola le aveva piantato di fronte la figura del cerchio e del triangolo inscritti nella circonferenza, con a fianco il testo monco della profezia. La piccola pietra azzurrina che era stata la scarpetta di cristallo brillava nella penombra della stanza.
- Che diamine è successo?- incalzò Cenerentola.- Che cos’è questa? Che fine ha fatto la mia scarpetta?
- Io…io non lo so…- soffiò Elizabeth.- Io non c’entro niente, non…
Il Cacciatore si sporse in avanti, tendendole una mano aperta.
- Permettete?- chiese, gentilmente.
Elizabeth esitò un attimo; le attraversò la mente un rapido flash che le ricordò una simile scena vissuta insieme a Tremotino. Annuì, un po’ incerta, e gli porse il libro.
Il Cacciatore lo prese attentamente fra le mani; gettò una rapida occhiata alla profezia, accigliato, quindi prese a concentrarsi sulle figure geometriche. Infine, restituì il volume a Elizabeth, sospirando.
- Alla fine, il momento è giunto…I Grimm stanno davvero per tornare…
- I Grimm?!- esclamò Cenerentola, sgranando gli occhi.- No! Non è possibile! I Grimm sono stati sconfitti centinaia di anni fa, come possono…
- Conoscete la profezia, non è vero?- l’interruppe il Cacciatore.- E avete visto cosa è accaduto al vostro villaggio…Non ci sono molte altre spiegazioni per quanto è successo.
Cenerentola annuì, tormentandosi nervosamente una ciocca di capelli.
- Ero a conoscenza della profezia che voleva il loro ritorno, un giorno…ma…beh, ecco…mai avrei pensato di essere ancora in vita, quando…- s’interruppe, mordendosi il labbro inferiore.- E invece…Oh, cielo, la mia scarpetta è una delle chiavi che porta al ritorno di quei…
Il Cacciatore si sporse verso di lei, prendendole una mano nel tentativo di confortarla.
- E’ per questo che dobbiamo fermarli - disse fermamente.- Voi avete trovato la prima chiave e la Salvatrice è con noi…c’è ancora qualche speranza…
- Ma non sappiamo neppure dov’è la Pietra…
- Nessuno lo sa, e senza le altre chiavi non potremo mai…
- Fermifermifermi!- sbottò Elizabeth.- Dio santo, mi volete spiegare che sta succedendo?!
Entrambi si voltarono a guardarla, Cenerentola decisamente perplessa, il Cacciatore stranamente calmo.
Elizabeth si passò una mano fra i capelli, sentendo di stare tremando; tentò di recuperare un pochino di calma, ma continuò a stringere convulsivamente il libro di favole.
- Io non ci sto capendo più niente! I Grimm? Questo coso io l’ho preso alla biblioteca, e ora prende vita! Non so dove sono, non so dov’è mia sorella, e non so nemmeno chi cazzo sia questa Salvatrice, quindi se sapete qualcosa vedete di dirmelo, o io giuro che…
- Calmatevi - il Cacciatore si sporse verso di lei, afferrandole i polsi.- Calmatevi, vi prego…- ripeté, tranquillamente. Elizabeth inspirò a fondo, chiudendo gli occhi e annuendo; si accorse di stare tremando.
Il Cacciatore le lasciò le mani solo quando il suo tremore si fu placato, ritornando a sedersi accanto a Cenerentola. Elizabeth riaprì gli occhi.
- Scusatemi…- soffiò, rivolta a entrambi.- Scusatemi, non intendevo farmi prendere da una crisi isterica…
- Cos’è una crisi isterica?- domandò Cenerentola, guardandola come se avesse di fronte un’aliena proveniente da un altro pianeta. In effetti, la realtà dei fatti non era poi tanto lontana da questo…
- Volevo dire…spaventarmi in questo modo…- si corresse Elizabeth.
- Non preoccupatevi. E’ normale essere spaventati, di questi tempi, con tutto ciò che sta succedendo - la tranquillizzò il Cacciatore.- E sono d’accordo con il vostro pensiero: avete il diritto di sapere - sospirò.- Purtroppo, temo che non potremo darvi molte informazioni…
- Mi basta solo sapere come ritrovare mia sorella e andarmene da qui…- mormorò Elizabeth.- Ho l’impressione di essermi imbarcata in un’impresa più grande di me. Voglio trovare Anya e andarmene.
- Che cosa?!- Cenerentola la guardò, con una punta di supplica e disperazione mista a incredulità.- Non puoi andartene! Se davvero sei la Salvatrice, allora devi restare! Non puoi lasciarci nei guai, sei destinata a sconfiggere i Grimm! La profezia dice che tu…
- Io non so se sono la Salvatrice - si difese Elizabeth; in quel momento, sperava davvero di non esserlo.- La…la Fata Turchina ha detto che possiamo essere entrambe, o io o mia sorella. Ma…chi sono, questi Grimm?
- Però avete il libro - osservò il Cacciatore.- E avete trovato una delle chiavi che portano alla Pietra del Male - disse, indicando la pietra azzurrina.
- La mia scarpetta, dite?- fece Cenerentola, inarcando un sopracciglio con fare scettico.- Ma non è niente! La Fata Turchina mi aveva donato quelle scarpette tempo fa, per andare a un ballo…Ne ho persa una, e ho conservato l’altra…ma non ha mai avuto niente tale da farmi pensare che…
- La tua scarpetta è il sogno infranto - spiegò Elizabeth, mostrandole le due parole della profezia sbiadite e cancellate.- O almeno credo…E’ il simbolo della tua delusione, del tuo sogno infranto per non essere riuscita a cambiare vita come speravi…
Il Cacciatore le lanciò un’occhiata di sottecchi; Cenerentola arrossì vistosamente. Lo stesso accadde a Elizabeth quando si rese conto di ciò che aveva appena detto.
- Oh, scusami…- pigolò, piena di vergogna, desiderando solo di sprofondare.- Non volevo, mi spiace…
- Non fa niente…- borbottò Cenerentola.- Piuttosto, dobbiamo ancora decidere che cosa fare - dichiarò un attimo dopo, parzialmente ripresasi dall’imbarazzo.- La mia scarpetta è il sogno infranto della profezia, d’accordo. Ma noi non possiamo restare qui a rimuginare - guardò entrambi negli occhi.- Presto i soldati torneranno per fare razzia, e se ci trovano ancora qui non ne usciremo molto bene…Dobbiamo andarcene.
- Sono d’accordo - dichiarò il Cacciatore.
- Sì, ma dove?- fece Elizabeth.- Cioè, voglio dire…io non ho neanche idea di dove sono, non saprei da che parte andare…
- A questo forse ho io la soluzione.
Elizabeth e Cenerentola si voltarono all’unisono a guardare il Cacciatore. L’uomo si schiarì la voce.
- Tempo fa, quando tutto questo è iniziato, io facevo parte della resistenza - spiegò.- Il Principe Filippo l’aveva fondata quando la Regina Cattiva aveva iniziato ad acquisire potere. Eravamo in molti nelle sue fila…Purtroppo, la repressione dei soldati ha ucciso, imprigionato e disperso molti di noi. Io stesso sono stato prigioniero, e una mia cara amica è ancora nelle segrete del castello - disse, e dovette fare un enorme sforzo per non soffermarsi troppo con il pensiero a Lady Marian; si chiese se non fosse opportuno metterle a parte anche del tradimento di Vincent, ma subito si rese conto che sarebbe stato troppo compromettente, avrebbe fatto loro intuire qualcosa riguardo alla sua doppia natura.- La Regina sperava così di disperderci, ma so per certo che la Ribellione esiste ancora e continua a resistere. Forse c’è modo di raggiungerla…
- Come?- incalzò Cenerentola.- Dove si trovano i ribelli?
- Alcuni manipoli sono sparpagliati per le città, i villaggi e la Foresta Incantata, ma il gruppo più forte ha una base fissa - rispose il Cacciatore.- La repressione della Regina li ha costretti ad arretrare e a nascondersi ancora più nell’interno della foresta, ma non credo che si siano spostati di molto. L’ultima volta si erano rifugiati al Nord, presso il Castello di Rovi.
- A Nord…- Cenerentola assunse un’espressione pensosa.- E’ parecchio lontano da qui…Come faremo ad arrivarci?
- Aspettate un attimo!- intervenne Elizabeth.- E mia sorella? Devo trovarla…e poi, anche lei potrebbe essere la Salvatrice…
- Il modo più rapido per trovare vostra sorella è raggiungere la Pietra - disse il Cacciatore.- Ha poteri illimitati, sicuramente saprà ritrovare qualcuno…Ma per farlo, dobbiamo prima trovare le cinque chiavi. E più saremo, meglio riusciremo a organizzare le ricerche e a proteggersi.
- Ma quanto tempo ci vorrà, prima di raggiungere la Ribellione?- chiese Elizabeth; nel pronunciare quelle parole si sentì esattamente come la protagonista di un qualche film apocalittico.
- Difficile dirlo. Due settimane, forse. Ma nel frattempo, voi possedete il libro…potremo comunque continuare a cercare le altre chiavi, e se ci troveremo in prossimità di una di esse, sarà lui a fare il resto.
- Due settimane?- fece eco Cenerentola.- Non abbiamo neppure le provviste per un giorno…come potremo resistere per due settimane?
- Troveremo un modo. Sono un cacciatore, non mi sarà difficile trovare della selvaggina o della frutta commestibile. E poi, ci sono molti villaggi da qui alle Terre del Nord. Potremo sostare lì, in caso di bisogno.
- La città più vicina è Salem - disse Cenerentola.- Ma da qui dista due giorni di cammino…e poi, a dire il vero, avevo sentito girare alcune voci su quel posto…
- Che voci?- fece Elizabeth, incuriosita.
- Non saprei…Cose strane, avvenimenti inspiegabili…- Cenerentola si torse nervosamente le mani. - Dicono che ci sia di mezzo la magia nera…
- La magia nera è dovunque, di questi tempi…- sospirò il Cacciatore.- Tra due giorni saremo a Salem. Riuscireste a trovare abbastanza provviste fino a quel giorno?- chiese, rivolgendosi a Cenerentola.
- Ci posso provare…
Elizabeth non disse nulla, alzandosi stancamente in piedi e stringendosi il libro di favole al petto come se fosse stato un neonato e lei temesse che potessero strapparglielo via. Si rese conto di essere impallidita, e aveva una gran voglia di piangere.
Il Cacciatore se ne accorse, e la guardò negli occhi.
- Vi sentite bene?- chiese, pur conoscendo già la risposta.
Elizabeth si morse un angolo del labbro inferiore, stringendosi ancora di più il libro al petto.
- Sono…preoccupata…- soffiò; non era mai stato il tipo che si lasciava andare in confidenze con uno sconosciuto, per di più appartenete a una realtà parallela abitata da personaggi fiabeschi, ma in quel momento sentiva un gran bisogno di sfogarsi.- Ho perso mia sorella…e non credo di potercela fare a fronteggiare questa situazione da sola…
- Non sei sola. Ci siamo noi - Cenerentola le sorrise, alzandosi a sua volta.- Vedrai che andrà tutto per il meglio. Non si può sfuggire a una profezia: e questa è dalla nostra parte.
Elizabeth si sforzò di sorriderle, quindi annuì, leggermente sollevata.
Il Cacciatore sorrise a sua volta, tentando di rimettersi in piedi.
- Riuscite ad alzarvi?- s’informò Cenerentola; il Cacciatore annuì, ma subito dopo si lasciò ricadere mollemente a terra, portandosi una mano alla ferita con una smorfia di dolore.
Cenerentola sospirò, chinandosi verso di lui.
- Venite, lasciate che vi aiuti…- disse, facendogli avvolgere un braccio intorno alle sue spalle.
Il Cacciatore le rivolse uno sguardo di ringraziamento, mentre la bionda lo aiutava a rialzarsi. Elizabeth li raggiunse, afferrandogli l’altro braccio e aiutandolo a sua volta.
- Grazie…- soffiò il Cacciatore non appena si fu rimesso in piedi. Cenerentola si assicurò per un attimo che riuscisse a reggersi sulle proprie gambe, quindi si allontanò da lui. Elizabeth fece un piccolo sorriso, ma subito lo sguardo le cadde all’altezza del fianco dell’uomo.
Proprio dove era stato ferito, una chiazza di sangue circondava lo strappo nella casacca. Ma non era solo sangue…era sangue e una strana sostanza nera. Inchiostro.
- Quello…quello che cosa…?- boccheggiò Elizabeth, senza terminare la frase; si era accorta di quel particolare anche quando Cenerentola era stata ferita a una gamba, ma nella concitazione del momento non si era soffermata troppo a rifletterci. Ora, invece, le appariva chiaro che quel sangue non era altro che inchiostro nero.
Il Cacciatore sospirò, gettando una rapida occhiata alla propria ferita.
- E’ l’Oscurità - rispose, cupo.- Sta arrivando…
 

***

 
- Dunque…secondo te, cosa potrebbero essere?- chiese Anya, dopo un’ora di silenzio ininterrotto.
Il Primo Ministro le rivolse un’occhiata interrogativa.
- A cosa ti riferisci?
- Agli oggetti della profezia - precisò la ragazza.- Hai detto che la conosci anche tu…Ti sarai pur fatto un’idea di cosa siano il sogno infranto e la bellezza nella morte…
- Se sapessi cosa sono, a quest’ora li avrei già trovati, non credi?- la beffeggiò.
- Sembrano degli indovinelli - proseguì Anya, ignorando il sarcasmo. - Il sogno infranto dev’essere una specie di delusione…ma la bellezza nella morte, non ho proprio idea di cosa possa essere.
- Potremmo provare a unire le due parole - fece Vincent, pensoso.- E’ qualcosa che, pur in una tragedia come la morte, ha conservato ugualmente la propria bellezza. Come un simbolo, o un ricordo di qualcosa…
- Non potrebbe essere il ricordo della vita?- azzardò Anya. - O il ricordo di qualcosa che era bello in vita ma che la morte ha distrutto…
- Se così fosse, non ci sarebbe bellezza. E’ piuttosto qualcosa che in mezzo alla desolazione della morte è rimasto…intatto. Come la purezza, o l’innocenza.
- Ci può essere purezza nella morte?- fece Anya, scettica
- Dipende da chi muore…- il Primo Ministro la guardò.- La morte non risparmia nessuno, nemmeno i puri di cuore o gli innocenti. Se essi muoiono, allora queste virtù non vengono violate.
- E io che avevo il coraggio di dire che Kant era complicato…- borbottò Anya, superando un poco Vincent mentre scendevano un ripido pendio che conduceva a una stretta radura in mezzo agli alberi. Superò una grossa roccia reggendovisi con una mano, prima di saltare una radice sporgente.
- Comunque, dovremmo capirci qualcosa, se vogliamo trovare questa fantomatica Pietra…- proseguì.- Non che me ne freghi molto, sia chiaro, a me interessa solo recuperare mia sorella e andarmene da qui. Spero davvero che tu abbia ragione e che in città potremmo trovare delle informazioni in più…
Il Primo Ministro borbottò qualcosa che Anya non riuscì ad afferrare, ma non se ne curò, proseguendo con decisione cinque passi più avanti di lui.
- Sta’ attenta a dove metti i piedi…- le disse Vincent, ad alta voce.
- Sì…- sbuffò Anya, con un tono annoiato e strascicato, ma continuò a scendere il pendio senza prestare molta attenzione a dove stesse andando.
- Sappi che non ho nessuna intenzione di portarti in braccio se ti fai male!- ringhiò il Primo Ministro.- La Foresta Incantata è piena di fosse e piante velenose. Guarda dove vai!
- Ho detto di sì…
Vincent si aggrappò a sua volta alla roccia, raggiungendo la radura con un solo balzo, facendo ondeggiare il mantello. Anya gli si affiancò.
- Stavo pensando a quella cosa della morte…- disse.- E se la vera bellezza fosse la morte stessa?
- Ci trovi qualcosa di bello nella morte?
- Ehm…no…
- Per l’appunto.
Anya sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
- Scusami, sto solo cercando di capirci qualcosa…!- borbottò.
- Pensa a guardare dove cammini, il resto verrà dopo.
- Ho detto che ci sto attenta!
Vincent sospirò, scuotendo il capo; la ragazza lo superò, prendendo a camminare speditamente nella radura. Il Primo Ministro la seguì, a passo più lento; per quanto si rifiutasse di ammetterlo, quella ragazzina aveva ragione: era stanco, aveva bisogno di dormire. Erano due giorni che non riposava; ciò che era rimasto in lui della sua doppia natura gli avrebbe permesso di conservare le forze ancora per un po’, ma se non avesse preso un po’di sonno al più presto, sarebbe certamente svenuto. Magari avrebbe anche potuto venirgli un esaurimento nervoso, che non doveva essere nulla di piacevole – di qualunque cosa si trattasse. Ma per ora, non poteva ancora permettersi di dormire la notte: finché non fossero stati al sicuro, il più lontani possibile dall’Uomo Nero, non poteva abbassare la guardia, o lasciare quella ragazza da sola a fare la sentinella mentre lui dormiva. E poi, non si fidava ancora di lei…chi poteva sapere che non stesse facendo la dolce e la gentile solo per ingannarlo e scappare il prima possibile? E inoltre, c’era anche l’altro problema…Stando sveglia la notte, quella ragazza avrebbe anche potuto guardarlo negli occhi…
Anya proseguiva senza prestare molta attenzione a ciò che la circondava. Vincent pensò che o era stupida o era un’incosciente. O si stava facendo beffe di lui. Lo credeva un idiota che si preoccupava per nulla…Ma lui era prudente, lei invece pazza!
Vincent ne ebbe la completa certezza quando la vide avviarsi tranquillamente in direzione di un mucchietto di foglie.
Sgranò gli occhi, riconoscendo al volo di cosa si trattasse.
- Attenta!
L’avvertimento arrivò proprio nel momento esatto in cui Anya poggiava un piede sul mucchietto di foglie. Poi, la terra venne a mancare.
La ragazza lanciò istintivamente un grido mentre si sentiva prima affondare e poi cadere sempre più in basso; in un attimo, quasi senza rendersene conto, toccò il fondo con un gran tonfo, atterrando di peso su di un fianco.
Tutt’intorno a lei si sollevò un polverone di terra.
Anya tossì, reggendosi il fianco dolorante e tentando nel contempo di rialzarsi e di capire cosa diamine fosse successo. Cercò di raccapezzarsi, rendendosi conto vagamente di essere caduta in una specie di fossa.
Non ebbe ulteriore tempo di rifletterci sopra che udì i passi di Vincent avvicinarsi rapidamente; un attimo dopo, vide spuntare sopra la sua testa il capo e il busto dell’uomo, inginocchiato sul bordo della buca.
- Ti sei fatta male?- le urlò, sporgendosi un poco per vederla.
- Tanto bene…non mi…sono fatta…- soffiò Anya fra un colpo di tosse e l’altro.
- Sei ferita?
La ragazza sbuffò, rimettendosi in piedi a fatica e togliendosi nervosamente la polvere dai jeans.
- No…- mormorò.
Bastò la conferma per rispedire a dormire la parte gentile e preoccupata di Vincent e risvegliare l’altra, quella rompiscatole e perennemente incazzata.
- Mi sembrava di averti detto di guardare dove mettevi i piedi!
- Lo so, scusami!- sbuffò Anya. - Però avresti potuto dirmi che c’erano delle fosse così profonde…!
- Io veramente mi preoccupavo di piante velenose o rocce affilate…- mormorò Vincent.- Questa fossa è stata scavata da qualcuno…sembra una trappola per animali…
- Di qualunque cosa si tratti, come faccio a uscire da qui?- gridò Anya, in modo da farsi sentire.
- Uscire?- ringhiò Vincent.- Meriteresti che ti lasciassi lì…aspetta, penso a una soluzione…
- Bentornato, Mister Simpatia…!- borbottò Anya, piantandosi le mani sui fianchi mentre Vincent scompariva dalla sua visuale. Un attimo dopo, qualcosa le atterrò sul capo, strisciando lungo i capelli.
- Ehi!- esclamò la ragazza, prima di rendersi conto di cosa fosse: un pezzo di stoffa, abbastanza lungo.
Anya sollevò il capo: Vincent si era tolto il mantello dalle spalle, e ora lo aveva disteso in modo da calarlo dentro la fossa. La buca era parecchio profonda, e lui aveva dovuto distendersi sull’erba per far arrivare il mantello fino a lei, che comunque riusciva a raggiungerla solo appena sopra il capo.
- Riesci ad aggrapparti?- le chiese Vincent, reggendo l’altro lembo del mantello.- Punta i piedi sulla parete, e cerca di risalire…
Anya annuì brevemente, alzando le mani fino ad afferrare l’altro capo del mantello; si avvolse la stoffa intorno ai polsi in modo che fosse più salda, e puntò il tacco dello stivaletto sulla parete di terra. Appuntò mentalmente anche quest’ultima disavventura sul conto di suo padre, prima di fare forza sulle braccia e issarsi anche con l’altro piede.
Vincent contrasse il volto in una smorfia quando la ragazza iniziò a salire.
Anya ridusse le labbra a una fessura, muovendo un altro passo lungo la parete e issandosi sempre di più. Vincent lasciò la presa con una mano, tendendola verso di lei in modo che l’afferrasse.
- Forza, ci siamo quasi…!- soffiò; Anya allungò a sua volta la mano per prendere quella dell’uomo, ma un attimo prima che la raggiungesse, una voce sopraggiunse molto vicina a loro.
- Fermi! Non vi muovete, o vi ammazziamo come dei cani!
Anya trasalì, mente Vincent allentò pericolosamente la presa per la sorpresa, rischiando di lasciarla cadere. La ragazza barcollò, sentendosi nuovamente scivolare in basso, ma il Primo Ministro fu abbastanza svelto da afferrarla per un braccio e tirarla verso di sé.
- Fermi, ho detto!
- Tirate fuori quella sgualdrina dalla fossa!
Un secondo dopo, Anya si sentì afferrare malamente per una spalla, e tirare su con forza fino a terra. Vide Vincent che veniva trascinato in ginocchio a forza, quindi una lama puntarsi contro la sua gola. Il Primo Ministro ansimò per la sorpresa, compiendo un vano e istintivo movimento per liberarsi.
- Sta’ fermo, o ti squarcio la gola!- abbaiò una terza voce, diversa dalle due precedenti.
Anya si sentì nuovamente afferrare per entrambe le spalle e sollevare da terra, finendo un attimo dopo distesa sull’erba accanto a Vincent. L’uomo fece una smorfia di dolore quando qualcuno gli imprigionò i polsi dietro la schiena e iniziò a legarglieli con delle corde. Un secondo dopo, anche Anya avvertì qualcosa di ruvido avvolgersi intorno alle sue mani.
- Chi sono?
- Non ne ho idea! Sono caduti nella trappola…
- Sono spie della Regina!
- Non ne abbiamo le prove! Potrebbero essere dei vagabondi o dei contadini…
- Ma non l’hai visto questo? E’ armato dalla testa ai piedi!
- Sì, ma lei non sembra…
Anya ansimò, cercando di rialzarsi ma senza alcun successo.
- Ma che sta succedendo…?- soffiò; non riusciva a vedere in faccia chi li aveva catturati.
- Zitta! Qui le domande le facciamo noi!- tuonò una voce profonda e autoritaria.- Chi siete? Che cosa ci fate nella Foresta Incantata?
- Stavamo…ci stavamo dirigendo verso una città…- ansimò Vincent, tentando di liberarsi.
- Qui non ci sono città per miglia e miglia!
- Sono spie della Regina!- ripeté una seconda voce.
- Non siamo spie!- si difese Vincent.- Lei è caduta, la stavo aiutando a risalire…
- Bugiardo!
- Che ne facciamo di loro?
- Non ci servono prigionieri! Ammazziamoli adesso!
- No, aspettate! E se dicessero la verità?
- Non possiamo correre questo rischio, idiota!
- Il Principe Filippo ha detto di non uccidere nessuno, se non siamo completamente sicuri che sia un nemico!
- Il Principe Filippo è scomparso mesi fa, è fuggito come un codardo, e tu ancora dai ascolto ai suoi ordini?!
- Ma non possiamo giustiziarli così, senza una prova!
- E chi ci dice che non mentiranno?
- Mettiamoli alla prova.
- Che cosa vuoi dire?
- Abbiamo un problema da risolvere, no?
- Ti riferisci a…?
- Sì, esattamente. Priviamoli delle armi e inviamoceli al posto di qualche altro disgraziato. Abbiamo già perso tre uomini in quest’impresa. Se ne escono senza la magia nera, allora avremo la conferma che non sono dalla parte della Regina Cattiva.
- E se non dovessero sopravvivere?
- In tal caso, non perderemmo niente, no?
- Ben detto! Chi è d’accordo?
Si levò un mormorio di approvazione. Anya cercò di sollevare il capo per cercare lo sguardo di Vincent, ma qualcuno glielo impedì. Non capiva più nulla di cosa stesse succedendo, ma aveva la sensazione che, qualunque cosa stessero confabulando, loro due non ne avrebbero guadagnato nulla di buono.
- Va bene, allora è deciso. Tirateli su!
In un attimo, entrambi vennero sollevati in ginocchio e poterono finalmente vedere chi avevano di fronte. Anya sgranò gli occhi, indecisa se mettersi a ridere o a piangere.
Se ce ne fosse stato uno in più, allora sarebbe stato perfetto, ma anche in quel modo non aveva dubbi. Chi li aveva catturati erano degli uomini. Solo sei. E di bassa statura.
Ma cambiava poco.
Si era fatta catturare dai sette nani!
 

***

 
Si aggrappò con entrambe le mani a una delle assi della Jolly Roger, issandosi fino al ponte della nave pirata e nascondendosi appena al di sotto delle assi della prua, sbirciando da una piccola apertura sul basso della balaustra. Sorrise, trattenendo a stento l’istinto di ridacchiare dalla contentezza; sapeva di stare facendo qualcosa di proibito, che suo padre aveva vietato categoricamente a lei e alle sue sorelle di salire in superficie, eppure non riusciva mai a trattenersi.
Tutto ciò che apparteneva al Mondo Di Sopra l’affascinava come mai nulla era stato in grado di fare in vita sua; ultimamente, poi, quella nave carica di esseri umani navigava in quelle acque in tutta tranquillità, e lei non aveva saputo resistere alla tentazione.
Era già la terza o la quarta volta che lasciava il mare per spiare i passeggeri di quella nave – Jolly Roger, che nome curioso! – e lo aveva fatto sempre di notte. A dire il vero, una volta aveva provato a salire in superficie di giorno, alla luce del sole, ma aveva quasi rischiato di essere scoperta. Da un uomo non molto magro, ancora giovane e dall’aria estremamente preoccupata.
Si appostò meglio, facendo girovagare lo sguardo sul ponte. Quella aveva tutta l’aria di essere una festa, come quelle che dava suo padre nel suo castello di Atlantide, ma questa aveva l’aria di essere molto meno raffinata. C’erano solo uomini, tutti vestiti in modo trasandato, che ridevano e bevevano da dei grossi bicchieri.
Rimase a osservare la scena per qualche minuto, incuriosita. Sembravano essere molto allegri, ma presto notò che non tutti si stavano divertendo: infatti, in un angolo se ne stavano seduti in disparte due uomini, con l’aria triste e anche arrabbiata. In uno di loro riconobbe l’uomo che l’aveva quasi scoperta, abbastanza giovane e grassottello come un pesce palla, mentre l’altro era colui che stava sempre in sua compagnia. Li aveva osservati spesso, e non parlavano con nessuno se non l’uno con l’altro, e sempre sottovoce, mentre lavoravano e gli altri uomini gli davano ordini. Quello più vecchio e magro aveva l’aria triste e sconsolata.
Lo vide stringersi nel cappotto quando un gruppo di uomini lo indicò, ridendo a crepapelle.
Spostò lo sguardo su di essi: a parlare era stato un giovane, che aveva tutta l’aria di essere il capo.
Il cuore le mancò un battito. Rimase a guardare quel giovane, incantata e dimentica per un attimo del rischio che correva. Era molto affascinante, vestito con un cappotto rosso, con il viso giovane e fresco circondato da capelli lunghi e scuri, e non doveva essere molto più vecchio di lei.
Aveva un sorriso meraviglioso e degli occhi penetranti. Notò che gli mancava una mano, e che al suo posto portava un lungo e affilato uncino. Si sentì profondamente dispiaciuta per lui, chiedendosi come avesse potuto perdere la sua mano.
Sarebbe rimasta lì a guardarlo per ore, se non avesse visto l’uomo che somigliava a un pesce palla voltare di scatto il capo nella sua direzione. Si spaventò, lasciando andare le assi e rituffandosi in mare; solo quando fu sott’acqua si concesse di calmarsi.
Ma era arrabbiata. Non riusciva a non pensare a quel bel giovane, e ce l’aveva a morte con il pesce palla umano che l’aveva quasi scoperta: per tutti i sette mari, era sempre colpa sua!
 

***

 
I sei nani li sbatterono contro una quercia, mettendoli a sedere. Vincent digrignò i denti, cercando di liberarsi, ma a nulla servì. Anya rimase a guardare mentre gli sottraevano la frusta, i pugnali, l’arco e la faretra con le frecce, non sapendo più che pensare.
Osservò tutti e sei i nani: si somigliavano, avevano tutti abiti scuri e di taglio militaresco, barbe chi scure, chi nere chi grigie, ed erano armati con spade, pugnali e asce. Uno di loro – presumibilmente il più giovane – le si avvicinò con aria sorpresa.
- Ragazzi…non vi pare che somigli a Biancaneve?- fece, rivolto agli altri.
- O alla Regina Cattiva!- borbottò uno di loro, con la barba nera lunga e incolta.- E non nominare Biancaneve! Ha ucciso il povero Mammolo, ricordi?
- Chiedo scusa…
- Che cosa volete?- ringhiò Vincent.- Non siamo delle spie, ve l’abbiamo detto!
- Questo starà a noi deciderlo!- dichiarò quello con la barba nera.- Per accertarcene, vi sottoporremo a una prova…
- Ehm…Brontolo, sei sicuro di volerlo fare?- chiese un altro, con la barba grigia.
- E’ l’unica soluzione. Se la supererete, allora avrete accesso alla Ribellione. Altrimenti, morirete…
Anya boccheggiò, non sapendo più che fare o cosa pensare. Il nano che l’aveva definita somigliante a Biancaneve ora aveva puntato lo sguardo su Vincent. Si avvicinò a lui, con le sopracciglia aggrottate.
- Io ti ho già visto, da qualche parte…
Quell’affermazione parve agitarlo parecchio; Vincent digrignò i denti, voltando il capo di lato.
- Ti sbagli, nano. Io e te non ci siamo mai incontrati!- ringhiò.- Di che prova si tratta?- soffiò infine.
Brontolo fece cenno agli altri, i quali li fecero alzare da terra, ancora con i polsi legati. Uno di loro raccolse le armi del Primo Ministro, quindi iniziarono a camminare.
- Dove…dove ci state portando?- soffiò Anya.
- Al Castello di Rovi.
 

***

 
Gretel tenne le braccia conserte, senza smettere di guardare Tremotino in piedi di fronte a sé. Non si era aspettata di rivederlo, non dopo tutti quegli anni in cui era stato solo un ricordo – anche se non avrebbe saputo dire se piacevole o amaro –, ma d’altra parte sapeva che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato. Tremotino era molto bravo a elargire favori, e altrettanto bravo a ricordarsi il pagamento che gli si doveva per tali favori.
Gretel aveva un debito con lui, un debito enorme che non aveva mai saldato. In fondo al cuore, sapeva che presto o tardi sarebbe tornato a bussare alla porta della Casetta di Marzapane per riscuotere il pagamento. Ora, tutto stava nell’ascoltare che cosa volesse da lei.
Tremotino le rivolse un altro sorriso, lasciandosi cadere su una seggiola poco distante, proprio di fronte alla tavola imbandita. Gretel lo imitò, imponendosi di sembrare rilassata, sedendosi con grazia e accavallando le gambe.
- Sai, mi stupisce trovarti ancora qui…- commentò Tremotino, guardandosi intorno con aria annoiata.- Non credevo che volessi veramente rimanere in questo posto buono solo ad attirare i bambini…
- I bambini sono molto più prelibati e gustosi dei dolciumi, lo sapevi?- Gretel sorrise con fare suadente.
- No, devo ammettere di non aver mai avuto occasione di assaggiarne uno. E dimmi: che fine ha fatto la vecchia Strega Cieca? Non dirmi che l’hai cacciata dalla sua stessa casa, monella che non sei altro!- Tremotino ridacchiò con cattiveria.
- La Strega Cieca è morta anni fa - spiegò Gretel.- Mi è stata utile per qualche tempo, ma ultimamente era diventata solo un peso. Ho fatto ciò che avrei dovuto fare a dodici anni.
- Spingerla nel forno?
- Oh! Non sapevo che ricordassi ancora questa storia!- esclamò Gretel.
- Beh, se non ricordo male, fui io a convincerti a desistere dal farlo.
- Già. Anche se non ho mai capito perché tu ti sia preso la questione tanto a cuore…
- Vedevo delle potenzialità in te, ecco tutto - Tremotino sogghignò, sistemandosi meglio sulla seggiola.- Avevo capito che in fondo non avevi veramente paura della magia, a differenza di tuo fratello. Ne eri affascinata. D’altronde, la figlia di un taglialegna che non aveva altro futuro se non farsi mettere incinta dal primo boscaiolo di passaggio, come avrebbe potuto non rimanere affascinata dal potere della magia nera? E’ stato un piacere aiutarti a divenire l’apprendista della Strega Cieca, e devo dire che te la sei cavata molto bene. Anche se non capisco che gusto ci provi a continuare ad adescare bambini in questa catapecchia…
Gretel ridusse la labbra a una fessura, punta sul vivo. Si sporse verso Tremotino, guardandolo negli occhi.
- Sei qui per leggermi la vita, Tremotino, oppure mi hai fatto visita per una ragione?
Tremotino le sorrise, un sorriso aguzzo e maligno accompagnato da uno sguardo penetrante, quindi si alzò in piedi, sospirando.
- A dire il vero, avrei preferito qualcuno di maggiore esperienza, come la Strega Cieca - disse, divertendosi a punzecchiarla.- Ma a questo punto suppongo che dovrò accontentarmi. Diciamo che sono venuto a riscuotere il favore che mi devi…
- Spero non sia troppo oneroso - disse Gretel.- E’ alla Strega Cieca che devo ciò che sono, non a te.
- Davvero? Non si direbbe, visto come l’hai ripagata!- ridacchiò Tremotino.- E poi, sappiamo tutt’e due che non è vero. La Strega Cieca ti avrebbe divorato senza pensarci due volte. Non le occorreva un’apprendista, tantomeno una dodicenne petulante come te. Se non ci fossi stato io a convincerla, a quest’ora le tue ossa giacerebbero sul fondo di un pentolone. Non credere che sia stato facile, sai? La Strega Cieca considerava i bambini la più grande leccornia di questo mondo, non è stato per niente semplice convincerla, senza contare che per te ho perduto anche della preziosissima Polvere di Drago…
- Dunque, che cosa vuoi?- lo interruppe Gretel, spazientita.
Tremotino le voltò le spalle, sogghignando fra sé.
- Diciamo che ultimamente ho avuto un piccolo problema - sibilò, senza voltarsi.- Riguarda una ragazzina…
- Sei caduto così in basso da non riuscire più nemmeno a sconfiggere una bambina?- ridacchiò Gretel, prendendosi una piccola rivincita.
- So che ti piacerebbe un mondo, mia cara, ma non è così. Semplicemente, le circostanze m’impongono di restare nell’ombra ancora un po’. Mi occorre qualcuno per fermarla.
- Intendi ucciderla?
- Brava, sei molto perspicace, mia cara.
- Beh, non potevi dirlo subito?- Gretel si alzò in piedi, sorridendo.- Sarà facile come divorare un bambino. Basta solo che tu mi dica chi è e dove posso trovarla…
Tremotino si voltò a guardarla, senza smettere di sogghignare.
- Mi fa piacere che tu abbia accettato così in fretta, cara. Credevo avresti avuto più esitazioni…
- E perché mai?
- Beh, perché, secondo le mie informazioni, la ragazza e i suoi accompagnatori si stanno dirigendo verso la città di Salem - Tremotino si concesse una pausa, senza smettere di guardare negli occhi Gretel.- Tu sai che quel posto è infestato da una strega…Tuo fratello sarà già accorso sul posto…
Gli occhi di Gretel si ridussero a due fessure; la donna serrò le mascelle, stringendo i pugni sino a conficcarsi le unghie nella carne.
- Non nominare mio fratello!- sibilò fra i denti.
- E perché mai? Credevo fosse una storia morta e sepolta, quella - ghignò Tremotino.
- Io e mio fratello abbiamo preso strade diverse!- ringhiò Gretel.- Io ho scelto di diventare una strega, e lui ha iniziato a dare la caccia a quelle come me!
- In effetti, non ha mai approvato la tua filosofia di vita - ridacchiò malignamente lo stregone; Gretel non rispose.- Dunque, sei ancora disposta a ricambiarmi il favore o hai cambiato idea?
Gretel inspirò profondamente e lentamente.
- No - rispose infine.- No, non cambia nulla. Ucciderò quella ragazza. Ma prima…- Gretel ritrovò un poco il sorriso, pregustando la sua vendetta.- Vorrei sapere perché tu non voglia occupartene di persona. Non sei mai stato il tipo che delega gli altri per svolgere i suoi affari…
Tremotino non si scompose, né raccolse la provocazione. Si limitò a sorriderle.
- Ho altre questioni da sbrigare - rispose.- In particolare, ultimamente ha iniziato a tirare un piacevole vento dal mare…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Questo è un altro capitolo di mezzo, ma era necessario ai fini della storia. Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e i lettori silenziosi, assicurandovi che il problema con Internet è in dirittura d’arrivo e da qui in avanti dovrei riuscire a stare al passo con le recensioni.
Dal prossimo capitolo...La Bella Addormentata!
In questo capitolo si sa qualcosa di più sulla Ribellione e sul Principe Filippo…attenzione alla sua scomparsa perché avrà una bella importanza nella storia. Intanto, uno dei nani sembra aver riconosciuto il PM…con la sua identità siamo in dirittura d’arrivo, vi avverto! ;).
Ciao, al prossimo capitolo!
Beauty

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Capitolo 18
*** Ghostly, Deadly Beautiful, part I ***


Ghostly, Deadly Beautiful
part 1
 
Anya non ci mise molto a capire perché il Castello di Rovi si chiamasse in tal modo, dato che un’intricata foresta di spine lo circondava pressoché interamente, lasciando intravedere solo alcune torri che svettavano verso il cielo scuro. Non si riusciva a vedere molto oltre la coltre di rovi, solo alcune pietre delle mura molto scure, così come lo erano le torri. Cupo, fu la prima parola a cui pensò Anya. Poco originale, ma non le veniva in mente altro modo per descriverlo, se non cupo e tenebroso. Da quel poco che riusciva a vedere, somigliava molto ai classici castelli dei libri di favole o dei film della Walt Disney, oppure – alla lontana – al palazzo di Neuschwanstein in Germania.
Solo, la sua forma era molto più spigolosa e sembrava che la famiglia Addams ne avesse fatto la residenza estiva.
I sei nani li conducevano a passo sostenuto, guardandosi intorno con aria circospetta quando iniziarono ad addentrarsi in mezzo ai rovi, lungo una sorta di sentiero che, a giudicare dal taglio secco e netto che avevano ricevuto alcune piante a cui era stato mozzato un ramo o una radice, doveva essere stato aperto a colpi di coltello o – date le circostanze fiabesche – di spada. Lei e il Primo Ministro avevano ancora i polsi legati, e Anya stava cominciando ad avvertire un fastidioso bruciore quando la corda le graffiava la carne. Scoccò un’occhiata di sottecchi a Vincent: non parlava, e come i nani continuava a guardarsi intorno con fare guardingo. Ma era nervoso, decisamente arrabbiato, e continuava ad agitare le mani legate. Sembrava sul punto di ribellarsi da un momento all’altro.
Quasi senza accorgersene, percorsero tutto il sentiero costeggiato da spine, ritrovandosi di fronte a un alto e immenso portone di legno scuro. Anya lo guardò: le assi erano scheggiate e mezze marce.
Era così imponente da incutere soggezione.
Uno dei nani – non avrebbe saputo dire chi fosse, ma appellandosi ai suoi ricordi di bambina, dedusse dalla sua forma rotondetta che si trattasse di Gongolo…e a quel punto, il pensiero di essere stata catturata da niente meno che Gongolo le fece dimenticare per un attimo la misteriosa prova a cui stavano andando incontro e tornare la voglia di mettersi a piangere e ridere insieme come un’isterica – le sciolse i lacci dai polsi con apparente esitazione, mentre un altro faceva lo stesso con le corde che imprigionavano le mani di Vincent.
Il Primo Ministro parve essersi liberato da un peso enorme, e si lasciò sfuggire un sibilo innervosito mentre si massaggiava i polsi inguantati.
Brontolo afferrò Anya per un braccio, spingendola in avanti verso il portone.
- Entrate!- intimò loro.- Se ne uscirete vivi, potrete considerarvi dei nostri.
- E chi ha mai detto di voler essere uno dei vostri?- ringhiò Vincent.
Brontolo lo guardò con aria di sfida.
- O vi arruolate o potete dire addio alle vostre teste - abbaiò.
- L’accordo prevedeva che ci avreste lasciati andare, se avessimo superato questa prova!- protestò Anya. Brontolo le rispose con uno sberleffo.
- Ora che sapete della Ribellione, non potete più andarvene!- rispose con decisione.- Entrare lì dentro, portateci ciò che vogliamo e noi vi considereremo come nostri alleati. L’alternativa è venire impiccati…sempre che usciate vivi da lì, è chiaro.
Anya sentì un brivido correrle lungo la colonna vertebrale. Quando succede, è perché qualcuno sta camminando su quella che sarà la tua tomba, sussurrò una vocetta maligna nella sua testa, che si affrettò a zittire. Tutto quel parlare di morte la inquietava, ma ancora di più la spaventava ciò a cui sarebbero andati incontro lei e Vincent: di che diamine di prova si trattava?!
- Di che cosa si tratta?- chiese il Primo Ministro, come se le avesse letto nel pensiero – o più probabilmente, per cambiare argomento da quell’arruolamento forzato.- Che cosa dobbiamo fare?
- Prendere un oggetto per noi, uscire da lì e consegnarcelo - rispose Brontolo, diretto.
- Quale oggetto?
Uno dei nani ridacchiò sotto i baffi, ma si vedeva chiaro e tondo che si trattava di ridarella nervosa. Un altro gli sferrò una gomitata affinché si ricomponesse. Brontolo sospirò, rimanendo per un attimo pensoso, quindi si decise a parlare.
- Visto che siete destinati o a morire o a diventare parte della Ribellione, non c’è alcun motivo per cui non ve lo dica - dichiarò.- Abbiamo scoperto l’ubicazione di una delle cinque chiavi che conducono alla Pietra del Male. Qui - precisò, indicando il portone.- Non sappiamo ancora cosa sia, né in quale anfratto del castello sia nascosta. Sarà compito vostro scoprirlo e consegnarla a noi. Ecco in cosa consiste la prova, e vi consiglio caldamente di non prenderla alla leggera: abbiamo già perso tre uomini là dentro, tre guerrieri molto più valorosi di voi.
- Perché?- incalzò Anya. - Perché sono morti? Cosa è successo?
Brontolo le rispose con un ghigno, ammiccando un poco e muovendo un passo verso di lei.
- Questo lo scoprirai da te, dolcezza - la beffeggiò.- Ma… se posso darti un consiglio: sbrigati a trovare la chiave, e cerca di uscire da lì prima che cali il sole. Non sarebbe piacevole trascorrere un’intera nottata là dentro…
- Brontolo…- intervenne timidamente un altro nano. - Brontolo, non credi che dovremmo almeno avvertir…
Brontolo non lo lasciò terminare, interrompendolo con un grugnito seccato, prima di dare un altro spintone ad Anya.
- Forza, entrate adesso!- ruggì.
La ragazza fissò il portone, sconcertata e anche un po’ intimorita. Vincent si avvicinò a lei.
- Va bene…- mormorò, ma subito puntò lo sguardo su Brontolo.- Potrei riavere le mie armi?- chiese.
- No! Assolutamente no!- ululò il nano, ma un altro si fece avanti, timidamente.
- Ehm…Brontolo…- soffiò.- Brontolo, io credo che dovremmo restituirgliele.
- E magari una volta che le avrà ricevute ce le punterà contro e ci sterminerà tutti come mosche!
- Dobbiamo pur dar loro la possibilità di difendersi, là dentro - insistette l’altro.
Brontolo borbottò fra i denti qualcosa che nessuno di loro comprese, quindi tornò a guardare Vincent.
- Solo una - sibilò minacciosamente.- Puoi scegliere quello che preferisci, ma è tutto ciò che avrai. Se riuscirai a tornare con la chiave, ti verranno restituite anche le altre.
Anya spostò lo sguardo su Vincent; sembrava che stesse riflettendo attentamente sull’offerta, magari su quale arma scegliere, ma rispose talmente in fretta e con così tanta sicurezza da dare l’impressione che non avesse avuto alcun dubbio nella scelta.
- L’arco e le frecce - rispose prontamente, tendendo la mano in avanti per ricevere quanto richiesto. Uno dei nani – quello che, Anya ricordò, l’aveva scambiata per Biancaneve e a cui era parso di aver già incontrato Vincent – gliele porse, mentre Brontolo grugniva, innervosito. Il Primo Ministro si sistemò la faretra sulle spalle, senza dire nulla.
La ragazza si trattenne dal lasciarsi sfuggire una smorfia molto simile a un broncio, ma era delusa. Non s’intendeva di armi, né aveva la presunzione di sostenere il contrario, ma se fosse toccato a lei, avrebbe scelto uno dei coltelli oppure il pugnale. L’arco e le frecce, invece, le parevano un poco inutili, o comunque meno efficaci di una lama.
Perché Vincent aveva scelto proprio quelli?
In ogni caso, ormai quel che era fatto era fatto, e i nani non le diedero neppure il tempo di rifletterci. Uno di loro aprì cautamente il portone, quel tanto che bastava affinché loro due potessero entrare. Il Primo Ministro varcò la soglia per primo, e Anya lo seguì, titubante.
Quando anche lei fu entrata, il nano richiuse il portone.
Calò il silenzio.
- Dite che abbiamo fatto bene a mandarli là dentro?- chiese uno di loro.
- Le loro vite non contano così tanto - ribatté Brontolo.- Meglio lasciar morire loro due che un altro dei nostri…
- A me sembrano in gamba - dichiarò un terzo.- Lei ha l’aria sveglia e lui deve essere un bravo combattente.
- Quella faccia comunque non mi è nuova…- soffiò quello che aveva consegnato le armi al Primo Ministro.
- Quale faccia? A chi ti stai riferendo?
- Lui - precisò l’altro.- Sono sicuro di averlo già incontrato da qualche parte…
 
***
 
Anya sobbalzò quando udì il colpo forte e secco del portone che si richiudeva alle sue spalle. Non poté fare a meno di voltarsi a guardarlo brevemente, prima di concentrare l’attenzione a ciò che le stava di fronte. Si trovavano in quello che doveva essere – o essere stato – senza dubbio un giardino, imponente, forse grande quanto Central Park, se non di più. I rovi che circondavano il castello salivano fino al cielo, precludendo alla luce qualsiasi via per raggiungere la terra.
Forse era per questo che tutt’intorno era morto.
Anya osservò ogni dettaglio che i suoi occhi riuscirono a cogliere. L’erba era nera, secca e rada, la terra scura e ruvida, gli alberi morti rinsecchiti e ripiegati su se stessi, senza foglie e alle loro radici spuntava qualche frutto nero e marcio. Non c’era l’ombra di un fiore, niente di colorato o quantomeno vivo.
Sembrava di trovarsi in un cimitero.
Anya spostò lo sguardo su Vincent, perplessa e inquietata: il Primo Ministro le dava le spalle, e si guardava intorno, ma appariva tranquillo, come se tutta quella desolazione non lo toccasse più di tanto.
- Che è successo qui, secondo te?- gli chiese; trascorsero diversi secondi, e lei non ottenne risposta. Anya riprese a guardarsi intorno, stringendosi istintivamente le braccia al petto e afferrandosi le spalle con le mani. Avanzò di qualche passo; Vincent, di fronte a lei, sembrava ancora in fase di osservazione, come se stesse sondando il terreno, valutando l’ambiente.
D’un tratto, poco distante da lei, alla sua destra, Anya avvertì un piccolo rumore. Voltò lentamente il capo, rimanendo in ascolto: sembrava una specie di cigolio, uno scricchiolio flebile che si andava progressivamente facendo più forte e acuto.
- Vincent…- chiamò.- Non senti anche tu questo…
Prima che potesse terminare la frase, lo scricchiolio raggiunse il suo massimo, e da dietro un albero sbucò una carcassa di ragnatele e ferro. Anya si lasciò istintivamente sfuggire un grido quando vide uno scheletro vestito da soldato, con lancia in mano, spada al fianco, elmo e armatura piombarle addosso, mentre l’intera sua struttura ossea si sfasciava.
Vincent si voltò, allarmato.
La ragazza scattò all’indietro, evitando per un pelo di essere colpita da quell’ammasso di ossa che cadde a terra, sfracellandosi. Anya e Vincent videro le braccia e le gambe spezzarsi, smembrarsi mentre si sparpagliavano disordinatamente sul terreno morto. Le falangi che avevano tenuto saldamente la lancia sino a quel momento si divisero, e il fracasso dell’arma si unì a quello del ferro dell’armatura.
Anya vide il teschio rotolare verso di lei, fermandosi a pochi centimetri dai suoi piedi e puntandole contro le orbite vuote.
La ragazza strinse i denti e serrò le palpebre, mettendosi le mani nei capelli per lo spavento e il disgusto.
- Dio mio, ma che cos’è?!
Vincent la guardò per un breve istante, quindi spostò la sua attenzione sul cranio.
- Sta’ tranquilla…- disse, con voce atona.- E’ morto.
- Lo vedo anch’io che è morto, è proprio questo il problema!- sbottò Anya. - Ma dove accidenti siamo?!
Ansimò, tornando a guardare quella grottesca scatola cranica che la fissava senza occhi, con i denti mezzi divorati distesi in un macabro sorriso. Scosse il capo con disgusto, e si allontanò, facendosi più vicina a Vincent. Il Primo Ministro l’afferrò per un polso, facendole cenno di spostarsi.
Con grande sorpresa di Anya, si chinò e sfilò la spada dalla fodera dello scheletro; la ripulì alla bell’e meglio dalla polvere e dalle ragnatele, quindi si voltò e fece cenno alla ragazza di seguirlo, stringendo l’impugnatura. Lei lo seguì, ancora scossa.
- Dove siamo?- soffiò, standogli il più vicina possibile per un improvviso e innato istinto di autodifesa. In qualche modo, si sentiva come se stare vicino a lui la tenesse al sicuro. Aveva ripreso a guardarsi intorno, e ora ai suoi occhi risaltava il macabro scenario che, a causa del buio, prima non aveva notato.
In quel luogo, non era solo la natura ad essere morta.
Anya iniziò a vedere un altro scheletro, appoggiato al tronco di un albero, poi altri due sull’attenti contro alcune colonne di pietra, poi un quarto, un quinto, numeri che presto divennero a due cifre, dieci, quindici, venti…
Quel luogo era un cimitero, un ossario. Man mano che proseguivano lungo l’ampio viale, gli scheletri si moltiplicavano. Quasi tutti indossavano un’armatura e avevano lancia e spada, segno che dovevano essere stati dei soldati o delle guardie, ma qua e là ne spuntavano altri vestiti in maniera differente: al centro del giardino, Anya ne vide uno con addosso degli abiti sbrindellati e un grembiule, accasciato su una carriola ricolma di frutta marcia e appassita; un altro, abbigliato con pantaloni stretti che un tempo dovevano essere stati di seta bianca, e una giacca blu, era semidisteso contro una parete del grande castello; i resti di un cane che mordeva un osso giacevano all’ombra di un albero senza foglie.
Era uno spettacolo macabro e inquietante, e un paio di volte la ragazza si sentì sul punto di dare di stomaco.
- Dove siamo?- ripeté, per la terza volta.
- Al castello di Rosaspina - le rispose Vincent, continuando a guardarsi intorno con aria guardinga.
- Chi?- fece Anya, perplessa.
- La principessa Rosaspina - spiegò il Primo Ministro.- Non hai mai sentito parlare di lei? Molti le hanno dato il soprannome canzonatorio di Bella Addormentata.
Anya si batté una mano sulla fronte. Certo, come no, la Bella Addormentata…avrebbe dovuto arrivarci quando aveva visto i rovi. Conosceva bene la favola…solo…per quel che ne sapeva lei, gli scheletri non erano contemplati!
- Conosco la storia…- mormorò.- Ma non ricordo questa parte…
- Cosa sai, esattamente?
- Beh, c’è questa principessa, e un giorno una fata cattiva si offende per non essere stata invitata al suo battesimo, così la condanna a morire a sedici anni - spiegò Anya, cercando di fare mente locale.- Poi arriva una fata buona che cambia la maledizione e…se non ricordo male, lei si punge il dito con il fuso di un arcolaio e si addormenta per cento anni, fino a che non arriva un principe e la sveglia con un bacio…
- Non hai studiato bene la lezione - la rimbeccò il Primo Ministro, con un sorrisetto ben poco allegro.- Per cominciare, non fu una fata a maledirla, ma una strega.
- Malefica!- saltò su Anya, ricordandosi in un flash il nome della strega nel cartone animato della Walt Disney.
- Sì, la strega Malefica. Furono gli abitanti del regno a darle questo nome, quando iniziò a praticare la magia nera. Prima, il suo vero nome era Carabosse, e non se la prese per così poco come un mancato invito…
- Cos’è che l’ha fatta così tanto incavolare, allora?
- Ti dico solo una cosa: in questo regno, non è concessa la bigamia.
Anya aggrottò le sopracciglia, non capendo. Vincent, comunque, non se ne avvide. Proseguirono lungo il viale; ormai erano a pochi metri dal portone d’ingresso.
- C’è comunque qualcosa che non quadra…- insistette Anya.- La Bella Addormentata dormiva per cento anni, è vero…Ma non moriva mai, né invecchiava. Qui è tutto morto…- osservò, nella speranza che Vincent comprendesse e le evitasse lo strazio di dover continuare.
- Forse è stata Malefica, o forse è l’Oscurità che si sta avvicinando - ribatté il Primo Ministro, incupendosi.- Di questi tempi, anche gli incantesimi oscuri subiscono delle modifiche. Il bacio del Vero Amore ha tardato ad arrivare, e la natura ha fatto il suo corso. Ora, la Bella Addormentata non è più né bella né addormentata…- ghignò di nuovo; Anya si chiese che ci trovasse di tanto spiritoso in tutto quello a cui stavano assistendo.
- Perché il bacio del Vero Amore ha tardato?- s’informò.- Se non ho capito male, il Principe Filippo deve essere sparito o qualcosa del genere…è il Principe Filippo che ama la Bella Addormentata, giusto?
- Giusto. E sul perché il bacio del Vero Amore ha tardato…tu baceresti uno scheletro?
- Ma è proprio indispensabile?- chiese Anya.
- Cosa?
- Questo bacio del Vero Amore…- la ragazza si massaggiò la nuca. - Come funziona?
- E’ come una magia - spiegò Vincent, serio.- Quando due persone si amano, allora non c’è incantesimo che possa tenerle separate. Il bacio del Vero Amore spezza qualunque maledizione, se è autentico.
- E se non è Vero Amore?
- Allora non ti resta che raccomandare la tua anima al Regno dei Morti - sbuffò il Primo Ministro.- Come peraltro succede la maggior parte delle volte…
- Davvero? Io sapevo il contrario…- fece Anya. - Nelle favole c’è sempre il principe che risveglia la bella con un bacio…
- Favole?
- Le storie su di voi. Su questo mondo - precisò la ragazza.- Da dove vengo io le chiamiamo così. E questo fantomatico bacio funziona sempre…
- Se ti fa piacere illuderti, fai pure.
- Perché sei scettico?
- Perché a differenza tua so come vanno le cose nella realtà. E fidati se ti dico che amore, amicizia, e tutte queste sciocchezze esistono solo nella tua testa…
Anya rimase interdetta; Vincent distolse lo sguardo, accelerando il passo senza aspettarla. Era perplessa: era iniziata come una normale conversazione, e poi tutto d’un tratto il suo umore era cambiato senza che lei facesse o dicesse nulla – almeno, così le era sembrato – che avesse potuto offenderlo.
Improvvisamente, capì al volo.
Si lasciò sfuggire una risata.
- Sai che credo di averti capito!- ridacchiò, rincorrendolo; Vincent alzò gli occhi al cielo.- Tu ti sei preso una sbandata per una tipa…- proseguì Anya, sogghignando.- E lei ti ha mollato per il tuo migliore amico. E’ andata così? Ho indovinato?
- Non sono affari che ti riguardano! E per favore, parla in modo normale, non ci capisco niente!
- Ecco perché dici così…- proseguì Anya, imperterrita.- Non credi nell’amore e nell’amicizia perché…
- Il perché non ti riguarda!- ringhiò Vincent. La ragazza ammutolì, indietreggiando di un passo.- Ma tu lo sai che cosa significa?- insistette il Primo Ministro, guardandola negli occhi.- Sai cosa significa amare qualcuno, o essere un amico? Sai cosa vuol dire quando rinunci alla tua vita per aiutare qualcun altro, e quando arriva il tuo turno di essere in difficoltà tutti ti voltano le spalle?
- So cosa significa soffrire!- ribatté Anya. - So cosa significa quando tuo padre se ne frega di te, e come una sola persona possa rovinare la vita degli altri…
- Beh, per me è bastato molto meno!- sibilò lui.- Quindi, ora cammina e tieni la bocca chiusa…!
Anya ammutolì, riducendo le labbra a una fessura, mortificata. Forse non avrebbe dovuto essere così invadente. Anzi, a pensarci bene, avrebbe fatto meglio a rimanersene nel suo guscio e risparmiare a entrambi la psicologia da quattro soldi.
Vincent aveva ragione: non erano affari suoi.
Il Primo Ministro si avvicinò al portone che conduceva all’interno del maniero, iniziando ad armeggiare con il catenaccio arrugginito che lo teneva sigillato. Anya gli si avvicinò, cauta, mentre Vincent scioglieva definitivamente la catena.
Senza bisogno che qualcuno lo spingesse, il portone si aprì cigolando, socchiudendosi appena.
Il Primo Ministro si assicurò la spada al fianco, imbracciando l’arco ed estraendo una freccia dalla faretra; spinse il portone entrando con cautela. La ragazza lo seguì, e subito venne investita da un forte tanfo di chiuso e aria viziata, carica di polvere e sporcizia. Puzza di cadavere.
Anya fece una smorfia, coprendosi la bocca e il naso con un lembo intatto della sua maglietta sbrindellata. Vincent si voltò a guardarla.
- L’aria è irrespirabile, qui dentro…!- gemette la ragazza.- Credi che sia…tossica?- chiese, d’un tratto, in un presentimento orrendo. I nani avevano detto che tre uomini erano morti, durante quell’impresa. Che ci fosse un qualche incantesimo, o roba del genere?
- Che significa tossica?- fece Vincent, portandosi a sua volta una mano all’altezza del viso; Anya lo guardò: d’accordo, c’era un puzzo pazzesco là dentro, ma niente di così catastrofico. A lei dava fastidio, ma sembrava quasi che Vincent ne soffrisse ancora di più: avrebbe potuto giurare che gli lacrimassero gli occhi.
La sua teoria delle sostanze tossiche venne avvalorata ancora di più.
- Vuol dire…con dentro del veleno…- cercò di spiegare, alla bell’e meglio, sentendo il panico montare dentro di sé.
- No…- soffiò Vincent.- No, è solo odore di cadavere…Malefica non ricorre a queste sottigliezze. Se avesse voluto ucciderci, l’avrebbe fatto in modo molto più spettacolare.
- Okay…- sbuffò Anya, incominciando ad assuefarsi. Dopo qualche secondo, si azzardò a lasciare la maglietta.- Da dove cominciamo?- chiese.
- Beh, diamo un’occhiata in giro…- fece Vincent; lui non sembrava stare meglio, anzi.- Vieni, ci sono delle scale, laggiù…
Anya lo seguì, guardandolo preoccupata. Non si era ancora assuefatto, sembrava che soffrisse parecchio di quel puzzo. Si avvicinò a lui.
- Ti senti bene?- domandò, mordendosi il labbro inferiore.
- Sì…- sbuffò Vincent.- E’ solo…Io…io sento gli odori con più chiarezza degli altri - spiegò…spiegazione che lasciò Anya parecchio insoddisfatta e confusa. La ragazza fece spallucce, limitandosi a seguirlo. Voltò distrattamente il capo, incontrando il paesaggio desolato al di fuori dei vetri rotti di una finestra in stile gotico. In lontananza, il sole stava iniziando a calare sul giardino che faceva da cimitero a tutti quegli scheletri.
Le tornarono alla mente le parole di Brontolo.
Se posso darti un consiglio: sbrigati a trovare la chiave, e cerca di uscire da lì prima che cali il sole. Non sarebbe piacevole trascorrere un’intera nottata là dentro…
- Vincent…- mormorò.- Secondo te perché dobbiamo uscire prima che cali il sole?
 
 
 
 
Angolo Autrice: Come per The Boogieman, anche questo capitolo è diviso in due parti. E credo che dopo averlo letto (e soprattutto per la seconda parte…), LadyAndromeda mi odierà a morte. A proposito di LadyAndromeda, anche lei sta scrivendo una storia sulla Bella Addormentata, da cui ho preso il vero nome della strega Malefica. Spero tu non te la sia presa, non volevo assolutamente copiare, è solo che ho cercato in lungo e in largo un nome che rimandasse alla tradizione per questa strega, e ho trovato solo Carabosse. Nel caso, chiedo scusa e mi dichiaro pronta a cambiarlo…anzi, se qualcuno ha dei consigli…
Quanto al nome della principessa…allora, molto probabilmente la maggior parte di voi si aspettava Aurora come nel film della Disney, e anche a tal proposito ho fatto una ricerca. La prima versione ufficiale di questa favola era Il Sole, la Luna e Talia, il cui nome della principessa era appunto Talia (il Sole e la Luna sono i suoi figli…anche qui una storia di stupro che lascio a voi, se interessati, la facoltà di approfondire). Perrault non le da invece un nome, mentre chiama sua figlia Aurora – nome adottato poi nel balletto di Čajkovskij e, in seguito, dalla Walt Disney per la Bella Addormentata stessa. Invece, nella versione della favola scritta dai Grimm, la principessa dormiente si chiama Rosaspina. Dunque, dato il titolo di questa storia, fra la gamma di scelte ho deciso di adottare quest’ultimo nome.
La strega Malefica qui non ha maledetto la principessa per la faccenda del battesimo, ma per un’altra motivazione che verrà specificata in seguito e che – SPOILER! – implica anche il Principe Filippo.
By the way…due paroline sulla storia in generale. Per l’identità del Primo Ministro, siamo agli sgoccioli e molti di voi hanno già indovinato. Nel prossimo capitolo avremo lui e Anya ancora nel Castello della Sleeping Beauty, più Gaston, il trio delle meraviglie (alias Cacciatore, Cenerentola e Liz) e, forse, un piiiiiiccolo scorcio sulla Jolly Roger e su Lady Marian.
Per quanto riguarda il numero dei capitoli…allora, ho fatto un breve conto, e dovrebbero essere intorno alla trentina. Ma, visto che questa storia nella mia testa ha preso delle pieghe parecchio complicate, può darsi che (se vorrete continuare a seguirla) la dividerò in due parti distinte ma collegate fra loro (ecco, con questo sono sicura di essermi giocata tutti i lettori, sigh! :(). La decisione di dividerla è data soprattutto dal fatto che non voglio fare cose troppo lunghe e (se la fortuna sarà dalla mia parte) intendo provare a pubblicare questa prima parte.
Da qui in avanti ci saranno un bel po’ di spoiler, quindi, se non volete sorprese, non leggete.
Partiamo dal discorso delle ship. A questo punto mi sembra doveroso dire due parole.
Cominciamo dalla Vinya – nome creato e gentilmente concesso da Sylphs a indicare la coppia Anya/PM –: come avrete ben capito, è una coppia ormai data per scontata, quindi…sì! Dico solo questo XD. Sono parecchio gettonate anche le seguenti: Cacciatore/Cenerentola, Uncino/Ariel, Jones/Ariel e Tremotino/Elizabeth…su tutte quante…SPECIALMENTE l’ultima…ci siete andati parecchio vicino. Vi dico solo che la nostra Liz sarà coinvolta in un triangolo…chi vincerà?
Per rispondere alla domanda di The_MaD_HaTteR: sì, posso dirti con certezza che il Cappellaio Matto ci sarà, ma arriverà nella seconda parte della storia. Per le new entries di questa prima parte avremo, fra gli altri, Mulan e il Gatto con gli Stivali, mentre fra non molto torneranno a farsi vedere la famiglia Pendragon con la loro figlia (che è cresciuta), più Lancillotto e Mago Merlino.
Per gli spoiler sulla seconda parte, dovrete attendere più in là.
Bene, a questo punto, anche se non ve ne potrà fregare di meno, voglio dirvi che ho preso un 30 con lode in psicologia sociale e che in questo momento sto vagando leggiadra a 100000000 di metri sopra il cielo per la contentezza! XD.
Ringrazio chi legge e ha aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite e GoneWithTheWind, The_MaD_HaTteR, Princess Vanilla, Mandie, Sylphs e LadyAndromeda per aver recensito. Un grazie particolare va a Ging che ha segnalato questa storia fra le scelte del sito.
Non mi resta che salutarvi e darvi appuntamento al prossimo capitolo.
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 19
*** Ghostly, Deadly Beautiful, part II ***


Ghostly, Deadly Beautiful
part 2
 
Una lama fendette l’altra procurando un frastuono metallico nel silenzio della radura. Gaston barcollò, mentre il soldato avversario continuava a tempestarlo di colpo che il ragazzo a malapena riusciva a parare. Indietreggiò sempre di più, già stanco dopo neppure dieci minuti di allenamento.
Ma dove diavolo sono finito? In che razza di faccenda mi sono lasciato coinvolgere?
Da quando aveva accettato di unirsi a quel manipolo di idioti in casacca medievale per salvarsi la pelle, il capitano Navarre l’aveva messo sotto torchio. Gli aveva imposto lo stesso regime ferreo degli altri soldati: non era solo costretto a indossare una ridicola armatura, ma doveva anche stare a ritmi e orari da caserma militare. Sveglia all’alba, acqua gelida per lavarsi, pane secco per colazione, e via con l’addestramento.
Quel capitano dal volto sfregiato lo stava uccidendo.
Un colpo più forte raggiunse la spada, spezzandone la lama a metà. Gaston barcollò, lasciandosi sfuggire di mano l’arma e finendo inginocchiato a terra. Tossì; la fatica era stata eccessiva, sentiva i polmoni sul punto di scoppiare.
Il suo avversario gli rivolse un ghigno di scherno, riponendo la propria spada nel fodero. Gaston continuò a tossire, avvertendo un senso d’ansia montargli dentro non appena udì dei passi decisi venire verso di lui.
- Non vali un accidenti!
Si sentì afferrare per il bavero della cotta e sollevare di peso da terra fino a ritrovarsi inginocchiato, il proprio volto a pochi centimetri da quello sfregiato del capitano Navarre.
- Non sai neanche tenere in mano una spada! Che diamine ci fai qui, spiegamelo!
Era tentato di rispondergli che non aveva la più pallida idea di dove fosse – Regno delle Favole, armata personale della Regina Cattiva, ma andiamo! – e sul perché si trovasse lì, beh, doveva salvarsi la pellaccia, ma si disse che era meglio starsene zitti.
Navarre ringhiò, lasciandolo andare in modo che il ragazzo cadesse nella polvere di peso, come un sacco vuoto. Gaston tossì di nuovo, e tutt’intorno a lui si levarono delle risatine di scherno.
- Ma che ti tengo a fare qui, eh?- sbuffò Navarre.
- Potreste sempre trucidarlo, capitano - propose una delle guardie.- Non è buono a niente. I corvi apprezzeranno la sua carne.
- No!- supplicò Gaston, con le lacrime agli occhi.- No, vi prego, vi giuro che…
- Zitto!
Navarre lo sollevò nuovamente per la collottola, costringendolo a mettersi in piedi. Gaston cercò di smettere di singhiozzare, ma non ci riuscì.
- E finiscila di piagnucolare! Sei già un soldato scadente, non mi occorre una donnetta nelle mie file!- ringhiò l’uomo. - Cassius ha ragione: dovrei sgozzarti e dare i tuoi resti in pasto ai mastini. Ma credo che questo fisico forzuto che ti ritrovi possa ancora esserci utile…
Navarre lo spinse in avanti, facendo cenno agli altri soldati di raccogliere le armi e prepararsi a mettersi in marcia.
- Ti concedo un’ultima possibilità. Vediamo se hai abbastanza fegato…
 
***
 
La Foresta Incantata – o almeno la parte di essa che stavano attraversando in quel momento – era molto più intricata di quanto ricordasse, così tanto che i rami degli alberi s’intrecciavano gli uni con gli altri fino a coprire il cielo. Questo le impediva di vedere in che posizione si trovasse il sole, ma Elizabeth era certa che – ammesso e non concesso che in quel luogo valessero ancora le norme base che regolavano la giornata, come il trascorrere delle ore – in quel momento dovessero essere all’incirca le due del pomeriggio. Più che lei, a dire il vero, a esserne certo era il suo stomaco.
La ragazza si premette istintivamente una mano sull’addome, sperando che nessuno dei suoi due accompagnatori udisse il gorgoglio di fame nella sua pancia. Sarebbe stato imbarazzante ammettere che, con tutto quel che stava capitando, lei aveva ancora il coraggio di permettersi di avere fame.
Era da quasi due giorni che non toccava cibo, il suo ultimo pasto era stato quel piatto di spaghetti al pomodoro che sua sorella aveva preparato per cena la sera stessa in cui era cominciato tutto quel casino, e sentiva che in quel momento sarebbe stata capace di sgranocchiarsi anche delle radici. Ma non poteva ammettere di avere fame, dato che Cenerentola era stata molto chiara a riguardo – il cibo è contato e il viaggio e lungo, si mangerà solo a cena e a colazione e niente spuntini fuori programma!.
Alla fine, si erano veramente decisi a dirigersi verso Salem – nome che le ricordava delle vicende non esattamente amene accadute in una cittadina omonima e riguardanti la caccia alle streghe, associazione questa resa ancora più inquietante dal fatto che, a quanto pareva, qualcosa di simile stava succedendo nella suddetta città. Il Cacciatore aveva previsto due giorni di viaggio in tutto, a piedi e riducendo le soste al minimo, con solo la notte per riposare.
- In questo modo, dovremmo arrivare lì abbastanza rapidamente - aveva dichiarato, dichiarazione che a Elizabeth era parsa incontestabile, dato che il Cacciatore sembrava quello fra loro che più ne capiva di tutta quella storia. D’altra parte, neppure Cenerentola aveva fatto domande, e aveva continuato a rovistare in ogni anfratto di quella casa abbandonata alla ricerca di ogni cosa avrebbe potuto tornare loro utile.
- E il colera?- aveva provato a obiettare Elizabeth.- Non c’è il rischio di incappare in oggetti infetti?
- Sta’ tranquilla…- l’aveva rassicurata Cenerentola.- Mi sono occupata di Madame Tremaine e delle sue figlie abbastanza a lungo per sapere cosa fare. Non toccare vestiti, coperte, lenzuola, tutto ciò che è stato a contatto con la pelle e il fiato delle persone, e fa’ lo stesso con bicchieri, piatti e cucchiai; cerca del cibo, possibilmente qualcosa di stagionato, come del formaggio, oppure del vino.
- Cosa mi dite dei coltelli e degli attrezzi da lavoro?- aveva domandato il Cacciatore, accennando a un martello abbandonato accanto a un’incudine poco più in là. - E’ possibile che anche quelli siano infetti?
Cenerentola si era voltata a guardarlo, riflettendoci a lungo prima di rispondere.
- No, solitamente no - aveva risposto infine.- Ma cosa ve ne fate di un martello? A che vi serve?
- Non ho armi con me, e nemmeno voi, a quanto vedo - il Cacciatore aveva afferrato un lungo coltello dalla lama affilata e lo aveva assicurato alla cintura di pelle dei pantaloni.- Non possiamo sapere chi o che cosa incontreremo, nella Foresta Incantata e a Salem, e neppure in qualunque altro posto andremo. La strada per il Castello di Rovi è lunga, e di questi tempi è più facile incontrare dei briganti che delle fate benevole.
- Secondo te, quindi, c’è modo di venire…attaccati?- Elizabeth aveva avvertito un groppo in gola a quel pensiero. Il Cacciatore si era stretto nelle spalle, e aveva impugnato un’accetta posata contro una parete poco distante.
- So solo che voi molto probabilmente siete la Salvatrice di cui narra la leggenda…- aveva replicato, tranquillamente.- E che non tutti saranno entusiasti del vostro arrivo. Preferisco essere preparato.
Era una risposta tutt’altro che rassicurante, ma in fondo preferiva fosse così. Già di quella storia ci stava capendo veramente poco, l’ultima cosa che le occorreva era che qualcuno le mentisse o cercasse di raccontarle mezze verità. Da parte sua, il Cacciatore sembrava essere fermamente convinto che la Salvatrice di cui parlava fosse lei, come se sua sorella fosse capitata lì per sbaglio; non ne aveva prove, ma lo credeva, come se stesse compiendo un atto di fede…e la trattava di conseguenza.
Sin dal primo istante, il Cacciatore l’aveva messa in guardia.
- Tutto questo non sta succedendo senza un motivo - le aveva detto, poco dopo essersi rimesso.- Le leggende e le profezie non sia avverano mai per caso. Occorre una pietra focaia, capite? Qualcosa o qualcuno che prenda in mano la situazione e decida di volgere la situazione a proprio favore, e spesso non con fini lodevoli. In questo caso, quella persona è giunta, e in poco tempo ha attirato dalla sua parte numerosi seguaci.
- Chi sono questi seguaci?- aveva chiesto Cenerentola.
- Non saprei dirvelo con esattezza. Uomini e donne, o anche altri esseri, che non hanno avuto il loro lieto fine, e sperano di ottenerlo riportando indietro i Grimm. Naturalmente non sanno che così facendo stanno firmando la condanna a morte di tutti noi, nessuno escluso…
Erano parole che di tranquillizzante e di incoraggiante non avevano un fico secco, e il Cacciatore ne era consapevole. Elizabeth, comunque, preferiva di gran lunga così, piuttosto che si fosse sprecato in falsi e retorici non preoccupatevi o andrà tutto bene, e cose simili, a cui non avrebbe creduto nessuno.
Il Cacciatore aveva detto a lei e a Cenerentola la verità, fin da subito, senza cercare di zuccherarla in alcun modo. Ed Elizabeth odiava profondamente chi cercava di zuccherare la verità.
Suo padre l’aveva sempre fatto, atteggiamento che sua sorella, con il passare degli anni, avrebbe sempre commentato con un secco ci prende per due cretine!.
Lei sapeva che non era così – esattamente come sapeva che da tempo Anya aveva dato il via a una battaglia più o meno gratuita nei confronti del padre e di tutto ciò che facesse o dicesse, poco importava se positivo o negativo –, ma aveva sempre detestato il suo ottimismo forzato che sfoderava in ogni momento, anche quando si vedeva chiaro come il sole che lui stesso avrebbe volentieri voluto mettersi a piangere. Quando erano piccole, e la mamma piangeva in continuazione, si tagliava, si chiudeva nel bagno per delle ore, oppure quando lei e papà litigavano, e anche dopo che era successo – espressione priva di un soggetto che però loro sapevano benissimo quale fosse, indicante un periodo successivo all’inferno vissuto con una pazza isterica in casa, ma non meno infernale –, lui non faceva altro che ripetere loro che non era niente, che era solo una brutta fase, sarebbe passata presto, e che sarebbe andato tutto bene.
Anche se niente era mai più andato bene, da allora.
Bastava solo guardare in che situazione era adesso: non solo aveva perso sua sorella, ma stava anche marciando diretta verso una città il cui nome risvegliava in lei ricordi decisamente poco gioiosi, in un mondo sconosciuto e in compagnia di nientemeno che Cenerentola e il Cacciatore!
Beh, pensò, in fondo sarebbe potuta andarle peggio. Avrebbe potuto finire scannata da Biancaneve, ad esempio. O divorata da quella specie di lupo mannaro…
Guardò di fronte a sé: il Cacciatore camminava a qualche metro di distanza da loro, ma non le era sfuggito il fatto che avesse rallentato il passo, né che continuasse a sbirciare alle sue spalle. Sulle prime, Elizabeth si era sentita imbarazzata, e aveva cercato di capire che diamine avesse combinato, credendo che stesse fissando lei – in genere chi si voltava a guardarla non lo faceva perché lei era la reginetta del ballo o la strafiga in minigonna che sfilava per i corridoi del liceo, ma perché o era caduta o si era rovesciata addosso del succo di frutta o aveva fatto qualcos’altro di imbarazzante o perché Jessica, Ursula e comari l’avevano appena sbattuta contro un muro –, ma presto aveva capito che il Cacciatore non stava guardando lei, bensì Cenerentola.
La bionda, infatti, faceva una fatica dannata a tenere il passo, e arrancava dietro loro due come se posare i piedi a terra le costasse uno sforzo immane. In effetti, non c’era da stupirsene troppo, in quelle condizioni.
Quel Regno delle Favole le aveva riservato parecchie sorprese, prima fra tutte quella del fatto che una non meglio specificata Salvatrice avrebbe messo fine al caos che la stava governando, eppure Elizabeth, ogni volta che guardava Cenerentola, non mancava mai di stupirsi. Era come se l’era sempre immaginata: bionda, bellissima, con dei tratti dolci e gentili; ma allo stesso tempo, aveva rivelato un carattere energico e un senso pratico che mai le avrebbe sospettato. Da sempre Cenerentola era stata la sua favola preferita, ma aveva sempre immaginato la protagonista come una ragazza fragile, una vittima, in sostanza: invece, ora veniva a scoprire che le sorellastre e la matrigna erano morte, e che lei per tutto quel tempo aveva resistito da sola in un villaggio assediato, con in aggiunta il dolore causato dal suo mancato lieto fine. Era bella, questo sì – la protagonista di una favola poteva non esserlo? –, ma i tratti del viso rivelavano stanchezza, erano segni di notti insonni e di giornate trascorse nella paura e nella fatica. Il suo fisico era magro, troppo magro per una persona sana, chissà quand’era stata l’ultima volta che aveva consumato un pasto decente, e adesso questa sua costituzione la impacciava non poco.
Elizabeth, con jeans e scarpe da ginnastica, camminava facilmente, non aveva difficoltà a stare al passo del Cacciatore; ma Cenerentola indossava una gonna stretta e sbrindellata, e prima di partire aveva fasciato i piedi nudi con degli stracci, ma questo serviva a ben poco.
Aveva gettato via il foulard da un pezzo a causa della fronte imperlata di sudore; era diversi passi più indietro di loro due, e incespicava in continuazione nelle piante del sottobosco. Era evidente che non ce la faceva più, ma altrettanto evidente che non si lamentasse per non infastidirli o rallentarli.
La stessa Elizabeth non sapeva bene che cosa fare: da un lato, avrebbe voluto andarle incontro e dirle di fermarsi un attimo e riposarsi, ma dall’altro aveva una paura dannata di combinare un casino, di compiere qualcosa di sbagliato in questo senza prima avere il consenso del Cacciatore.
L’uomo, per fortuna, parve pensarla come lei; a un certo punto si arrestò bruscamente, voltandosi a guardare le due ragazze. Spostò l’attenzione su Cenerentola, più indietro di loro di diversi metri.
- Sedetevi - le andò incontro; più che un invito, pareva quasi un ordine.
Cenerentola lo guardò, stralunata.
- No, ce la faccio…- protestò, anche se si vedeva benissimo che era stravolta.
- Sedetevi, ho detto - ripeté il Cacciatore.- Non andrete molto lontano se continuate così. Da brava, riposatevi un attimo…
La bionda sbuffò, un po’ contrariata, ma non si oppose quando il Cacciatore l’aiutò a sedersi su un tronco d’albero caduto poco distante; si asciugò con una mano il sudore della fronte, chiudendo gli occhi. Elizabeth le si avvicinò, rabbrividendo quando lo sguardo le si posò all’altezza delle sue gambe: i piedi di Cenerentola erano pieni di tagli, e le pezze sanguinavano.
Il rosso si confondeva con il nero.
La bionda abbassò lo sguardo, digrignando i denti mentre si toglieva le pezze sporche.
- Che l’intera Foresta Incantata precipiti nell’Oscurità Eterna!- imprecò, soffiando fra i denti per il dolore dei tagli. Quello che la preoccupava di più, però, sembrava essere quel liquido nero.
Il Cacciatore osservò con attenzione le ferite, quindi strappò un abbondante lembo di stoffa dal proprio cappotto, inginocchiandosi accanto alla bionda.
- State ferma - l’avvertì.- Potrebbe bruciare un po’…
Cenerentola strinse le labbra a fessura, ma non si oppose quando l’uomo iniziò a fasciarle i piedi con la stoffa pulita, facendo attenzione a non farle male. La bionda scoccò prima un’occhiata alle proprie ferite, quindi squadrò di sottecchi il Cacciatore.
- Allora è proprio vero…- mormorò.- La leggenda non mente quando dice che ciò che dalle tenebre è stato creato, dalle tenebre sarà distrutto…
- Non dite così - l’ammonì l’uomo. - Voi non sarete distrutta. Sono solo dei piccoli tagli, nulla di più…
- Ma guardate!- protestò Cenerentola.- Vedete anche voi che questo non è sangue!
Elizabeth si morse il labbro inferiore, stringendosi le braccia al petto, quindi si decise a parlare.
- Perché succede tutto questo?- chiese. Ricordava che, la prima volta che l’aveva domandato, il Cacciatore le aveva risposto solamente che l’Oscurità stava arrivando. Beh, le sarebbe piaciuto avere delle risposte più precise, adesso.
L’uomo terminò di fasciare i piedi di Cenerentola, prima di rispondere.
- La profezia di cui già sapete…fa parte di qualcosa di molto più grande - dichiarò infine, rimettendosi in piedi.- E il fatto che sia monca non fa altro che ampliare ancora di più il tutto…
- Non capisco…
Il Cacciatore sospirò, schiarendosi la gola.
- C’è una leggenda. Una leggenda che profetizza il ritorno di Jacob e Wilhelm.
- I fratelli Grimm…- precisò Cenerentola, con una smorfia di disgusto.- Siano maledetti, tutti e due!- sputò fuori. Elizabeth arretrò istintivamente di un passo.
- Parla di un improvviso ritorno dell’Oscurità su questa e sulle altre terre, e si dice che tutte le vittime che i Grimm mieteranno torneranno a ciò che erano…- il Cacciatore abbassò lo sguardo.- Inchiostro - precisò infine, in un soffio.
- Tutti noi, nessuno escluso, siamo stati creati da quei bastardi - ringhiò Cenerentola.- Quasi me ne vergogno…I fratelli Grimm hanno creato tutti noi, e fino a che la famiglia Pendragon non è riuscita a fermarli, loro si sono comportati come delle divinità.
- In che senso?
- Ciò che creavano, avevano anche il potere di distruggerlo - spiegò il Cacciatore.- Come e quando più piaceva loro.
- E…- Elizabeth boccheggiò, sentendosi la gola secca.- E che succedeva a chi veniva…distrutto?
A quella domanda, il Cacciatore avvertì una fitta di dolore al petto, all’altezza del cuore. Come in una fugace visione, rivide di fronte ai suoi occhi una mantellina rossa con il cappuccio, e sotto di esso una bambina che lo salutava e gli saltava in braccio.
Si morse l’interno di una guancia, così forte da sentire il sapore di quel sangue nero nella propria bocca.
Che succede a chi viene distrutto?
Era quello che era accaduto a Cappuccetto Rosso e alla nonna. Ed era solo colpa sua. Non solo le aveva uccise senza pietà, ma le aveva condannate a un destino ben peggiore della morte.
Era stato troppo indulgente con se stesso.
Era un mostro, molto più di quanto pensasse.
- Non c’è tempo per spiegarvelo, adesso - dichiarò infine, lasciando le due ragazze visibilmente perplesse.- La storia dei Grimm è molto lunga, troppo per poter essere raccontata in questo momento. Vi dirò tutto, ve lo prometto, ma ora è meglio andare…abbiamo ancora qualche ora a disposizione, prima che faccia buio…
- Sì, avete ragione…- concordò Cenerentola; il Cacciatore le tese gentilmente una mano.
- Ce la fate a camminare ancora un altro po’?- domandò.
- Sì…- soffiò Cenerentola, accettando la mano e rimettendosi in piedi.- Ma appena arriveremo a Salem, fossi anche costretta a rubarle, mi procurerò un paio di scarpe - dichiarò.- Quella strega di Madame Tremaine ha sempre voluto che me ne andassi in giro scalza perché, secondo lei, alle sguattere non occorrevano delle belle scarpe…Quindi, oltre a non sanguinare più, avrò anche la scusa per farla rivoltare nella tomba…
- Avrebbe dovuto vedere le scarpette di cristallo…- buttò lì Elizabeth, tanto per sdrammatizzare.
Cenerentola le rispose con uno sbuffo. Fece per replicare, ma un’improvvisa ventata gelida la fece rabbrividire. La bionda si strinse le braccia intorno alle spalle, tremando lievemente, e in effetti anche Elizabeth doveva ammettere di aver iniziato ad avvertire un po’ di gelo.
Sollevò istintivamente lo sguardo al cielo, e subito fu colpita da ciò che vide: oltre lo spesso strato di rami, si scorgeva un consistente velo di nuvole, grigie come il metallo. Aveva iniziato a tirare un vento molto freddo, e sia la temperatura sia l’aspetto del cielo erano gli stessi che, a New York perlomeno, preannunciavano una nevicata.
- Ehm…da queste parti il tempo cambia in maniera così rapida?- s’informò, infastidendo anche se stessa per quell’ironia fuori luogo, ma non poteva farci nulla: ricorrere al sarcasmo era l’unica via che era riuscita a trovare per non cadere nello sconforto.
- No…- mormorò il Cacciatore, alzando all’unisono con Cenerentola lo sguardo al cielo.- E’ come vi avevo detto. E’ la leggenda che si avvera…
- Sì…- soffiò Cenerentola.- Vento e ghiaccio si fonderanno con le tenebre ad annunciare il ritorno di coloro che nell’Oscurità Eterna sono stati esiliati…
- Temo che abbiate ragione - convenne l’uomo, con aria grave.- E’ il Grande Inverno.
 
***
 
Anya sollevò un lembo di un telo bianco e sporco che copriva quello che, un tempo, doveva essere stato un lungo tavolo per i banchetti. Immediatamente si levò in aria uno sbuffo di polvere che la colpì direttamente in volto. La ragazza sventolò una mano per cacciare via i granelli fluttuanti, dando qualche colpo di tosse.
- Credevi davvero che l’avresti trovato lì?
Anya sbuffò, allontanandosi dal mobile e voltandosi in direzione di Vincent. L’uomo se ne stava appoggiato allo stipite della porta, con le braccia incrociate all’altezza del petto. Il tono di scherno e sufficienza con cui le aveva parlato la fece innervosire.
- Beh, tentar non nuoce…- ribatté la ragazza.- Se non ho capito male, non abbiamo la più pallida idea di cosa sia l’oggetto che stiamo cercando. Oggettivamente, intendo - precisò.- Per il resto, data la situazione, mi sento abbastanza sicura nell’affermare che si tratti della bellezza nella morte…
- Tu dici?- ironizzò Vincent, gettando un’occhiata tutt’intorno.
Si trovavano in una stanza molto grande e ingombra di mobili e oggetti, con ogni probabilità doveva trattarsi delle cucine del palazzo. Una lunga tavolata riempiva la maggior parte dello spazio, e sebbene la sporcizia e le ragnatele avessero preso il sopravvento, qua e là si riuscivano ancora a individuare alcuni oggetti come utensili da cucina. Quando avevano aperto quella porta, Anya si era augurata che, almeno là dentro, non ci fossero scheletri in putrefazione, ma purtroppo era così: cadaveri ridotti a mucchi di ossa e cenere erano riversi sulla tavola con il capo affondato in quelle che, un tempo, dovevano essere state cipolle o bucce di patata, alcuni con addosso le divise da cuoco abbandonati sul pavimento, qualche altro – che, a giudicare dagli abiti rattrappiti, dovevano essere stati delle donne, forse cameriere o serve – seduto grottescamente su delle seggiole o piegato a metà sul davanzale di una finestra. Anya si era imposta di guardarli il meno possibile, concentrandosi sulla ricerca dell’oggetto sconosciuto o in alternativa tenendo lo sguardo puntato su Vincent, ma la sola idea di essere circondata da cadaveri la faceva rabbrividire. Passato il primo impatto, non le facevano più tanta impressione, ma non era comunque gradevole.
La ragazza si passò le mani sui jeans sbrindellati, cercando di ripulirsi alla bell’e meglio dalla polvere.
- Che facciamo? Continuiamo a cercare qui?- chiese.
- Credo che sarebbe inutile perdere ancora tempo - dichiarò Vincent.- Una cosa del genere, qualunque essa sia, in mezzo a tutto questo sfacelo dovrebbe come minimo risaltare…
- Saltare all’occhio, dici?- fece Anya. - E’ probabile. Ma tu questo come lo sai?
- Intuito - rispose semplicemente l’uomo. - Vieni, cerchiamo da qualche altra parte. Non concluderemo niente, qui.
Anya ubbidì, seguendolo al di fuori delle cucine. Lo guardò di sottecchi: Vincent pareva essersi a sua volta assuefatto a quell’odore pestilenziale, ma la sua reazione ancora non la convinceva.
- Già, hai ragione…- mormorò.- Senza contare che si sta facendo tardi…
- Perché, hai fretta?
- Non ti ricordi quello che ha detto il nano?!- sbottò Anya.- Ha detto che dopo il tramonto qui dentro succede…qualcosa.
- Io la frase me la ricordo un po’ diversa. Non ha specificato che sarebbe accaduto qualcosa…
- Era sottinteso - borbottò la ragazza.- E comunque, non mi va di sfidare la sorte. Muoviamoci…
 
Angolo Autrice: Sono sicura che questo capitolo è stato deludentissimo dato che non succede niente, e vi sicuro vi starete chiedendo perché l'ho pubblicato. Beh, essenzialmente per togliermi di mezzo questa specie di interludio e poi passare all'azione nella terza parte (che sarà completamente Vinya, se questo può aiutare a perdonarmi!), e per via di una promessa fatta a mia madre che ora non vi sto a raccontare.
Ripeto, scusate per la brevità e la poca consistenza, ma c'erano esigenze superiori. Non mi aspetto recensioni, ma se me le lasciate, beh, siete fantastici.
La terza parte verrà pubblicata prestissimo, ve lo giuro!
Ciao!
Beauty

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Capitolo 20
*** AVVISO! ***


AVVISO!
 
Ciao a tutti. Molti di voi quasi sicuramente vedendo l’aggiornamento si sarebbero aspettati la terza parte di Ghostly, Deadly Beautiful, e nel non trovarla si saranno sentiti delusi, immagino. Per questo, chiedo scusa a tutti, ma ho deciso di pubblicare questo avviso dal momento che ho una comunicazione da fare.
Dunque, questa storia non sarà aggiornata se non fra due settimane. Chiedo scusa, ma ho diversi impegni al di fuori del sito e qualche storia da portare a termine che è rimasta in stato di stallo troppo a lungo, e altre invece con un solo capitolo che infondono una tristezza infinita. Senza contare che la suddetta terza parte si sta rivelando parecchio difficoltoso da scrivere. Tuttavia, dopo questa piccola pausa, vi posso assicurare che – salvo imprevisti – questa storia sarà aggiornata regolarmente senza grandi pause nel mezzo.
Nel frattempo, vi chiedo di avere pazienza e ringrazio tutte quelle anime pie che ancora seguono Grimm – No more happily ever after. Nell’attesa del nuovo capitolo, vorrei sapere da voi quali sono i vostri personaggi preferiti e quelli che invece non vi piacciono, magari facendo anche una lista o qualcosa di simile, e magari elencandomi quali coppie vi piacerebbe vedere insieme (non ci sono limiti da questo punto di vista, tutti possono stare con tutti XD), o ancora indicarmi una qualche favola che vorreste vedere in questa fanfiction.
In secondo luogo, vorrei sapere che cosa non vi convince della storia e come secondo voi potrebbe andare modificato, se avete qualche idea o qualche consiglio, oppure se vi piacerebbe veder comparire un personaggio particolare; o anche, quale aspetto o background dei personaggi già presenti vorreste vedere approfondito.
Infine, vi chiederei cosa ne pensate delle seguenti idee:
-l’inserimento di Esmeralda, Quasimodo, Phoebus e altri personaggi del classico Disney;
-l’inserimento di un regno delle fate di background shakespeariano;
Nessun impegno rispetto a questi punti, è solo per conoscere la vostra opinione e farmi un’idea ;).
Ciao, ci sentiamo fra due settimane!
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 21
*** Ghostly, Deadly Beautiful, part III ***


Ghostly, Deadly Beautiful
part 3
 
Uscirono dalle cucine del castello, e dovettero ripercorrere in senso opposto il lungo e stretto corridoio che avevano attraversato in precedenza per arrivarvi. Era stata Anya a insistere, mentre Vincent avrebbe voluto invece cominciare dal piano superiore: ma che senso aveva partire dall’alto? Non dovevano dare niente per scontato, tanto valeva partire dal piano terra.
Purtroppo, il suo piano di ricerca aveva condotto a niente più che un buco nell’acqua, e Anya sapeva che la sua guardia del corpo, più presto che tardi, avrebbe trovato il modo di farle un dispetto per averlo contraddetto. Ormai se l’aspettava: Vincent doveva essere un tipo parecchio vendicativo, e in quel momento aveva la stessa espressione corrucciata e contrita di chi si è appena beccato un calcio negli stinchi e non aspetta altro se non fare lo sgambetto a chi glielo ha sferrato. Ma non era il suo malumore quello che la preoccupava: anzi, con tutto quello che le stava capitando, Anya non avrebbe neanche saputo dire con certezza cosa le premesse di più in quel momento. Ma di certo trovare la bellezza nella morte rientrava nella top ten.
Il corridoio conduceva dove erano entrati, nell’atrio del Castello di Rovi. Una grande sala con un pavimento a mosaico i cui tasselli erano spezzati, sporchi o anneriti, in modo tale che era ormai impossibile decifrare cosa ci fosse stato raffigurato un tempo. Intorno ad essa si aprivano numerose vie, più che altro corridoi costellati da porte e stanze laterali, ma ciò che spiccava di più era una grande scalinata in pietra che assumeva una forma ad arco, con una rampa di gradini che si divideva in due a una certa altezza. Ormai, Anya credeva di avere più o meno idea di come potesse essere fatto quel palazzo. Si era costruita una mappa mentale, e con quella cercava di orientarsi: al piano terra dovevano esserci le stanze “minori”, quelle adibite alla servitù, le cucine, e i vari magazzini…mentre ai piani superiori, supponeva, dovevano esserci le camere più importanti, quelle in cui abitava la famiglia reale…e la principessa Rosaspina.
La bella addormentata…
Anya rabbrividì, anche se non seppe dire se fu a causa dell’ennesimo cadavere che le sorrise non appena ebbe rimesso piede nell’atrio o se per la consapevolezza della fine orribile che doveva aver fatto quella principessa. Ecco, pensò, quella era una delle fregature delle fiabe: o avevi un bel principe che ti baciava al momento opportuno, o eri fottuta, stando a quello che le aveva spiegato Vincent.
- Tu come sapevi di tutto questo?- chiese, rabbrividendo quando la sua voce rimbombò contro l’alto soffitto dell’atrio. Vincent la guardò appena.
- Sapevo cosa?
- Della bella addormentata - precisò la ragazza.- Prima, quando mi hai raccontato cosa era successo qui, sembrava che conoscessi bene la sua storia…- Anya preferì lasciare in sospeso la frase, sperando che comprendesse l’allusione. Anche se non voleva ammetterlo, non riusciva a rassegnarsi all’idea di avere a che fare con un comprimario delle favole: okay, il nome Vincent non le diceva niente, ma era ben poco per smettere d’indagare.
- E chi non la conosce? Dopo cento anni, la sua è diventata una leggenda molto famosa, in ogni reame…- spiegò l’uomo, noncurante.- La principessa condannata a un sonno di cento anni dalla sua rivale Carabosse…Un secolo è un periodo molto lungo, e in tutto quel tempo Rosaspina e i suoi sudditi non hanno fatto altro che dormire. Nient’altro. Non credo ti stupirebbe molto, se ti dicessi che in capo a due settimane o poco più sono tutti morti di fame…Il tempo ha fatto il resto.
- E perché il principe non è venuto a salvarla?- insistette Anya.- Insomma, anche se poi lei è morta, c’era tutto il tempo di venire qui e baciarla, come hai detto tu. I nani hanno detto che lui è sparito nel nulla, forse le due vicende sono collegate.
- Non ho idea del perché il Principe Filippo sia scomparso, né m’interessa. Probabilmente deve essere stata opera di Carabosse, ma tutto è possibile.
- Ma chi è, questa Carabosse?- fece Anya.- Hai detto che è la strega che ha maledetto Rosaspina, no? Ma non mi hai spiegato perché ha fatto tutto questo…Cos’è questa storia della bigamia?!
- E’ una storia lunga, e ad essere sincero non conosco tutti i dettagli. Nessuno lo sa, in effetti, forse solo la stessa Carabosse e il Principe Filippo potrebbero dire la verità…- Vincent si voltò a guardarla, parlandole con fare sbrigativo.- Si dice che Rosaspina e sua cugina Carabosse fossero rivali, c’entrava un matrimonio e anche qualcosa riguardo a una successione dinastica, ma l’intera vicenda non è mai venuta del tutto allo scoperto. Per motivi sconosciuti, Carabosse ha iniziato a praticare la magia nera, è stata soprannominata Malefica e ha maledetto sua cugina…Questo è tutto quello che so.
- E che fine ha fatto, Malefica?- insistette Anya. - E’ morta? Sono passati cento anni…
- Non credo che sia morta. Le streghe vivono molto più a lungo dei comuni esseri umani, specialmente quelle più potenti come lo era Carabosse. Certamente si è rifugiata da qualche parte, ma ci sono buone possibilità che sia ancora in vita…
- Uhm…- mormorò Anya, guardandosi intorno. Pessima idea, dato che non si vedevano altro che scheletri. Ma il pensiero che la donna che aveva dato vita a quell’ossario fosse ancora in vita non era certo meno inquietante.- Allora…dove andiamo, adesso?- chiese con voce stridula, tanto per cambiare argomento.
- Dove dico io. Abbiamo già perso abbastanza tempo con te…- la rimbeccò Vincent, superandola e dirigendosi velocemente in direzione delle scale. La ragazza lo seguì, perplessa.
- Dove…dove vai?- domandò.
- Tu hai voluto iniziare dal basso. Bene, ora io comincio dall’alto - rispose.- La leggenda narra che la camera dove giace la principessa Rosaspina si trovi nella stanza più remota della torre più alta…
- Hai intenzione di andare lì?
- No, te l’ho detto solo perché mi andava di fare conversazione…- ironizzò l’uomo, con sarcasmo pungente, estraendo una freccia dalla faretra e iniziando a salire i gradini. Anya gli corse dietro, seccata.
- Ancora non ho capito che accidenti ti è saltato in mente di portarti dietro quel coso!- sputò fuori, accennando all’arco di Vincent.- Il nano bastardo ti aveva dato la possibilità di prendere un’arma e tu…cazzo, coltelli, pugnali, fruste…con tutto quell’armamentario che ti eri portato appresso dopo essere scappato di prigione non potevi scegliere qualcosa di più utile?!
Arrabbiatura a parte, diceva sul serio. Sin dal primo istante aveva disapprovato la scelta dell’arco e delle frecce, le parevano degli oggetti inutili, specie in vista di una possibile situazione in cui sarebbe stato necessario difendersi - …cerca di uscire da lì prima che cali il sole… –, e l’unica consolazione che aveva era la spada che Vincent aveva sottratto allo scheletro di quel soldato, e che ora era assicurata alla cintura intorno alla sua vita.
- Cos’hai contro il mio arco?- ringhiò l’uomo. Evidentemente o non gli piaceva che le sue scelte venissero messe in discussione, o era particolarmente affezionato al suddetto pezzo di legno.
- Se si avvicina qualcuno pronto a farti la pelle, che fai? Glielo rompi sulla testa?
- L’ho scelto proprio per non dare a chicchessia la possibilità di avvicinarsi più di quanto io non voglia…- Vincente fece un mezzo ghigno, passando la mano inguantata sull’arco quasi a volerne saggiare la consistenza.- Questo arco è il mio migliore amico, e non mi ha mai tradito…
- Devi avere una vita sociale affollatissima, allora…- ironizzò Anya, rendendosi conto solo un secondo dopo aver parlato che c’era qualcosa di strano nel modo in cui l’uomo aveva parlato. La voce si era indurita, nell’ultima frase: in particolare, le parole migliore amico e tradito suonavano incrinate, quasi stonate, come una corda spezzata di un violino. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma non lo fece – che avrebbe potuto dire, d’altra parte? Scusa, perché hai parlato così strano? – e si limitò a continuare a seguirlo lungo la scalinata. Senza chiederle alcun parere, Vincent decise d’imboccare gli scalini della rampa destra. Anya avrebbe voluto domandargli se sapesse dove stessero andando, ma evidentemente la fortuna pareva essere dalla parte del suo accompagnatore: man mano che proseguivano, infatti, la ragazza si rese conto che, malgrado la polvere, le ragnatele e il generale stato di abbandono, nonché gli scheletri sparsi qua e là, quella un tempo doveva essere stata un’ala adibita alle funzioni monarchiche, o comunque riservata alla famiglia reale o ai suoi funzionari. I pavimenti erano anch’essi a mosaico come nell’atrio, oppure di marmo liscio. I tacchi degli stivaletti di Anya ci rimbombavano sopra a ogni passo come se stesse camminando su del vetro.
- Sta’ attenta a dove vai…- l’ammonì Vincent, guardandosi intorno con attenzione.- Non vorrei che sprofondassi in qualche cavità del pavimento, visti i precedenti…
- Perché? Ci sono fosse anche qui?
- Passaggi segreti, poco ma sicuro. Sono ben nascosti, ma se ci presti attenzione non è poi tanto difficile individuarli…- spiegò l’uomo, al che Anya lo guardò perplessa.
- Come fai a sapere che ci sono dei passaggi segreti?
- Te l’ho detto, basta starci attenti. E poi, tutti i castelli ne hanno…- Vincent svoltò l’angolo, insinuandosi in un corridoio un poco più largo, ma più breve del precedente.
- Sapresti utilizzarli?
- Se ce ne fosse la necessità, sì…- Vincent fece spallucce, sbirciando all’interno di un grande portone, molto più ampio delle altre porte, a malapena socchiuso, quel tanto che bastava per lasciare aperto un piccolo spiraglio. Anya si avvicinò a lui, sbirciando dentro a sua volta: anche se non era pratica né di quel mondo né tantomeno di favole o castelli, non le ci volle molto a indovinare che lo stanzone al quale conducevano quei due battenti era la sala del trono. La prima cosa che le saltò all’occhio furono dei drappi rossi appesi alle pareti, stracciati e sporchi, pressoché sbrindellati. Un tempo doveva essere stato velluto o qualcosa di simile. Era parecchio affollato, là dentro, data la concentrazione di scheletri che giacevano abbandonati sul pavimento o contro i muri. Due, in particolare, risultavano alquanto macabri e grotteschi: erano due cadaveri seduti scompostamente su dei troni in fondo al salone. Dagli abiti che indossavano, Anya poté evincere che si trattavano di un uomo e una donna; quest’ultima, in particolare, aveva il cranio reclinato su di una spalla in modo quasi inquietante: sembrava sul punto di staccarsi dalle vertebre del collo e rotolare a terra da un momento all’altro.
- Ti presento re Stefano e consorte - fece Vincent, con un cinismo quasi imbarazzante.- I regali genitori della principessa Rosaspina…
- Andiamo?- chiese la ragazza, in fretta, ostentando un fare sbrigativo, ma al Primo Ministro non sfuggì la luce che c’era nei suoi occhi. Inquietudine e anche una non troppo velata supplica. Come se ciò che avesse veramente voluto dirgli fosse stato: andiamo…per favore?
Si limitò ad annuire, facendole cenno di seguirlo. Lei non se lo fece ripetere una seconda volta, affrettandosi a ubbidire. Era chiaro come il sole che non vedesse l’ora di sottrarsi a quel macabro spettacolo. Il Primo Ministro non sapeva bene che cosa provasse: da una parte, trovava ridicola tutta quell’ansia di fronte alla morte – lui della morte ne sapeva molto più della maggior parte delle persone e, peraltro, aveva provato sulla propria pelle che esistevano maledizioni ben peggiori –, ma in fondo, avvertiva come un senso di pena. Gli veniva quasi istintivo girarsi e cercare di dirle qualcosa per calmarla, ad esempio che non c’era niente di cui avere paura, ma quando si rese conto di questo impulso si morse l’interno della guancia così forte da farlo sanguinare.
 
E’ talmente magra che riesce quasi a sentire le sue ossa oltre la stoffa del vestito. La stringe più forte, cercando di sussurrarle qualcosa per tranquillizzarla, ma lei non riesce a smettere di tremare. Ha avuto uno dei suoi incubi, e stavolta deve essere stato veramente brutto. E’ sconvolta; se potesse, scoppierebbe a piangere.
- Vado a prendere un bicchiere d’acqua- la voce del Cacciatore è calda, rassicurante. Forse il suo amico dovrebbe cercare di confortarla, non lui. Non è mai stato molto bravo, in questo. Ma, pensa un po’ egoisticamente, è sempre una buona occasione per tenerla fra le braccia.
- Sì, grazie…l’aiuterà…- risponde al posto suo, scoccando al Cacciatore uno sguardo grato.
- Non può continuare a ridursi in questo stato…- lo sente borbottare mentre esce dalla stanza, e non può che dargli ragione. Quegli incubi peggiorano di giorno in giorno, anche se non si può dire lo stesso della sua memoria. Non ricorda ancora nulla del suo passato ma, se è come dice il Cacciatore e quei sogni sono davvero dei ricordi, beh, allora forse è meglio che tutto rimanga oscuro come è sempre stato. Con ogni probabilità, soffrirebbe e basta. E lui non sopporta di vederla soffrire.
Nemmeno adesso.
- Mi…mi dispiace…- balbetta, e ancora trema.- Ho…ho gridato molto forte?
- No, sta’ tranquilla…
- Non volevo…non volevo svegliarvi tutti quanti…mi spiace…
- Non ti preoccupare. Cerca di calmarti, adesso…- l’abbraccia più forte, le fa poggiare il capo contro la sua spalla. E’ madida di sudore.
- Ogni notte è sempre peggio…- soffia, e la voce adesso è incrinata.
- Sono solo incubi. Passeranno presto, Marian, vedrai…
 
Inspirò a fondo, prendendo a elencare mentalmente tutto ciò che non dovevi in alcun modo fare quando eri a caccia. E si accorse che per poco non stava per infrangere una marea di regole fondamentali: come provare empatia di fronte a ciò che non era nient’altro che una preda. Mai soffermarsi a riflettere sui sentimenti del tuo bersaglio: non aveva anima, né pensieri, né emozioni, né una famiglia o una nidiata di cuccioli che lo aspettava nella sua tana. Se iniziavi a farti degli scrupoli, allora potevi anche dire addio alla cena, e quando c’era in gioco la tua stessa sopravvivenza non potevi permetterti errori o passi falsi. Mors tua, vita mea, ecco come funzionava. Anche dare un nome a chi presto sarebbe divenuto carne da macello era fuori discussione, o non saresti mai più riuscito ad ammazzarlo.
Era per questo motivo che ancora, nella sua testa, continuava a riferirsi a lei come la ragazza, né l’aveva mai chiamata per nome.
Cercò di concentrarsi il più possibile sul percorso. La pianta di un palazzo o di un maniero era quasi sempre la stessa, cosicché non gli fu molto difficile individuare la strada che conduceva alla torre più alta del castello, quella in cui, presumibilmente, giaceva la principessa Rosaspina.
Ben presto, il corridoio prese ad avviarsi al termine, e le porte iniziarono a diradarsi fino a che non ne rimase solo una, alta e stretta, dal legno così tarlato che almeno una decina di fori fungevano da tanti spioncini.
Entrambi si fermarono di fronte a essa. Vincent incrociò le braccia al petto, studiandola con lo sguardo. Anya si avvicinò, sbattendo le palpebre, un po’ perplessa.
- E’ qui che dobbiamo entrare?
- Se non ho sbagliato i miei calcoli, sì.
Senza aggiungere altro, l’uomo spinse il battente con un gesto deciso della mano. Anya temette veramente che stesse per scardinarsi. Quando si aprì, si ritrovarono di fronte un’altra scalinata.
Stavolta, si trattava di una scala a chiocciola, incredibilmente stretta e buia. Alle pareti erano infisse delle fiaccole di ferro spente e arrugginite. Anya iniziò a salire i gradini con cautela, strisciando con una mano contro il muro di pietra e cercando di tenersi il più vicino possibile a Vincent, che la precedeva di qualche passo. Il pensiero di perderlo di vista e rimanere sola in quel posto buio e umido la terrorizzava.
Il Primo Ministro, da parte sua, rallentò il passo, un po’ per orientarsi meglio nel buio e un po’ per non lasciare indietro la ragazza, ma stette bene attento a non voltarsi. Non c’era oscurità completa come la notte, ma non voleva comunque correre rischi. Non doveva guardarlo negli occhi.
Avrebbe voluto anche tirarsi il cappuccio sul capo, se non avesse saputo che, per lei, sarebbe stato quasi un invito a cercare di scoprire cosa stava nascondendo.
- Quanto pensi che manchi?- ansimò Anya, dopo un po’. Quella scala a chiocciola era estremamente ripida, e sembrava non finire mai. Vincent non rispose, continuando ad avanzare. Un attimo dopo, la serie di gradini s’interruppe, lasciando il posto a un’altra porta, se possibile ancora più malandata della precedente. Anya si avvicinò a lui, fermandosi a poca distanza dalle sue spalle.
Senza esitazione, Vincent aprì anche quella porta.
 
***
 
Di nuovo, furono investiti da quel tanfo nauseabondo, quel misto di odore di chiuso, aria viziata, polvere e puzza di cadavere. Anya si sporse un poco per vedere oltre la spalla di Vincent: a quanto pareva, l’uomo ci aveva azzeccato.
Quella era senza dubbio una camera da letto che, un tempo, doveva essere stata non poco sontuosa. Si potevano scorgere senza difficoltà una toeletta ricoperta di ragnatele, uno specchio rotto e annerito, una seggiola foderata di velluto divorato dalle tarme; Di fronte a loro, una finestra aperta lasciava intravedere in lontananza il cielo color arancio mentre il sole calava sulla Foresta Incantata, gettando ombre su di un letto a baldacchino con tendaggi rossi e coperte sporche.
Anya non sapeva se l’inquietasse di più il fatto che fosse quasi buio o l’ammasso informe che giaceva immobile sul materasso.
Vincent si avvicinò al letto misurando i passi con attenzione, stringendo convulsivamente le dita intorno all’arco. La ragazza lo seguì a ruota, standogli vicina come un bimbo piccolo avvinghiato alla madre.
- E’…è la bella addormentata, quella?- soffiò, trattenendosi dall’aggrapparsi alla sua casacca. Continuava a ripetersi che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che quello che le stava di fronte erano solo i resti di una poveretta, un cadavere – qualcosa di innocuo, soprattutto visto e considerato il fatto che lei e sua sorella avevano ben presto imparato che i vivi erano da temere più dei morti. Ma non si sentiva comunque tranquilla: forse era solo suggestione, ma restava comunque che il sole era quasi calato. Voleva uscire da lì, e alla svelta.
Vincent annuì, senza staccare lo sguardo da quelle povere ossa.
- La principessa Rosaspina, sì - confermò, anche lui sottovoce. Non la smetteva di stringere fra le mani il suo arco. Anya vide che anche lui era divenuto improvvisamente nervoso, e faceva dardeggiare lo sguardo ora alla bella addormentata ora alla finestra. Il sole calava sempre di più.
Si avvicinarono ancora, e stavolta la ragazza riuscì a mettere a fuoco l’intera figura della principessa. Si trattava di uno scheletro, come previsto: le sue ossa erano putrefatte e annerite dal tempo, ma la sua postura si manteneva composta, quasi elegante. Rosaspina indossava un vestito che una volta doveva essere stato azzurro, magari di seta, e le ossa dei piedi nudi spuntavano dall’orlo. Era distesa supina, con le gambe distese. Dal cranio spuntavano ancora dei capelli, lunghi fino ai gomiti, che ricadevano compostamente sul cuscino. Anya pensò che, da viva, dovevano essere stati molto folti, forse biondi, ma ora erano di uno strano color grigio cenere, e spesso ciocche complete spuntavano sole in mezzo al cranio sterile e rado. Il teschio era abbandonato sul letto, con un ghigno macabro dipinto sul volto, e gli occhi privi di orbite fissavano la sommità del baldacchino.
Era uno spettacolo inquietante, macabro e grottesco allo stesso tempo, ma Anya non fece quasi in tempo ad accorgersene che la sua attenzione venne attirata da qualcos’altro, qualcosa che prima non aveva notato. Le pupille le si dilatarono in un misto di stupore e contentezza.
- L’abbiamo trovato - dichiarò Vincent, puntando lo sguardo sullo stesso punto.
Rosaspina era stata disposta come una morta, e teneva le mani scheletriche unite all’altezza del grembo: fra le falangi putrefatte, stringeva saldamente una rosa.
Non ci sarebbe stato nulla di strano, se anche quella fosse stata morta come lo era tutto ciò che li circondava. Invece, non era né appassita né rinsecchita: era una rosa rossa, dal gambo lungo e spinoso, i cui petali non presentavano alcuna traccia di imperfezione. In mezzo a tutto quel buio e quella desolazione, sembrava quasi rilucere.
- Pensi che sia quella?
- Non vedo cos’altro potrebbe essere, altrimenti. La profezia parla di bellezza nella morte, e qui non c’è nient’altro che possa ricondurre a una simile definizione. In ogni caso, lo vedremo subito…- con sua grande sorpresa, Vincent la spinse in avanti, con gentilezza ma con fermezza, in direzione del letto di Rosaspina.- Prendila! - ordinò, gettando una rapida occhiata alla finestra: il sole era quasi calato.
Anya rimase interdetta.
- La devo prendere io?
- Se davvero sei una possibile Salvatrice, allora succederà qualcosa. Forza, sbrigati, il sole sta tramontando!- la incitò, con impazienza. Se prima era lei quella a essere preoccupata, ora lui non vedeva l’ora di uscire da lì.
Anya voltò il capo di fronte a sé, puntando lo sguardo sul cranio di Rosaspina. Si umettò nervosamente le labbra, reprimendo sul nascere un conato di vomito.
Dio, no…! No, ti prego…no, non lo voglio fare…
Doveva farlo, o non sarebbero usciti mai più da lì. E poi, Vincent aveva ragione: era quasi buio. Erano morti in tre là dentro, c’era ben poco da scherzare, qualunque cosa stesse per accadere.
Prese un bel respiro, avvicinando una mano a quelle ossute della principessa. Afferrò la rosa per il gambo, cercando al contempo di non pungersi con le spine e di non toccare quelle dita scheletriche. Tentò di sfilare il fiore dalla presa di Rosaspina, ma si rivelò più difficoltoso di quanto sembrasse. Anya tirò ancora, riuscendo infine ad estrarre completamente tutto il gambo, concedendosi un piccolo sorriso compiaciuto, rimirando la rosa.
Durò poco.
Pochi secondi dopo averla avuta in mano, la rosa venne avvolta da un fascio di luce così forte che Anya dovette chiudere gli occhi. Quando questo si diradò, la ragazza si ritrovò sul palmo solo una piccola pietra color rosso rubino.
La ragazza si voltò a guardare Vincent, spiazzata.
- E’…è…
- E’ ciò che cercavamo - dichiarò il Primo Ministro con sbrigatività. L’afferrò per un braccio.- Brava, ma ora vedi di tenerla al sicuro. Usciamo da qui…
- Sì…
Anya si lasciò trascinare fino alla soglia della camera di Rosaspina, ma non appena i due vi giunsero, l’intera stanza si oscurò di colpo. Fuori dalla finestra, il sole diede un ultimo guizzo di luce, prima di scomparire all’orizzonte.
Era calata la notte.
Anya iniziò a respirare più affannosamente, sentendo che i battiti del suo cuore erano aumentati di colpo, a una velocità furiosa.
- Vincent…- boccheggiò, gettando un’occhiata preoccupata alla finestra.- Vincent, dovremmo muoverci…
Si accorse che la stretta dell’uomo intorno al suo polso si era più intensificata. Non le stava facendo male, ma era più forte e più decisa di prima. Anya guardò il suo accompagnatore: Vincent le dava le spalle, si era immobilizzato sul posto. Teneva lo sguardo fisso sul pavimento di fronte a sé, non la guardava. La ragazza si rese conto che stava ansimando, e che le spalle erano scosse da tremiti.
- Vincent…- chiamò, deglutendo. Non ottenne risposta, e si spaventò ancora di più. Allungò con cautela una mano. - Vincent, va…va tutto bene?- gli sfiorò una spalla con le dita.
- Non toccarmi!- il ruggito la fece sobbalzare, e subito dopo l’uomo si girò, afferrandole il polso con forza. Anya sentì il respiro mozzarsi in gola, cercando di comprendere cosa stava succedendo.
Gli occhi di Vincent non erano più azzurri come li aveva sempre visti. Ora apparivano più grandi, e gialli. La pupilla era ridotta a una fessura, e quello strambo colore sembrava scintillare nel buio.
Occhi gialli. Come i gatti.
O i lupi…
L’uomo parve rendersi improvvisamente conto di ciò che aveva fatto, voltandosi. Le lasciò il polso, arretrando precipitosamente di un passo, quasi come se fosse sconvolto. E in effetti, forse era così.
Sollevò le mani, quasi come a volersi nascondere il volto, ma non lo fece. Anya non riusciva a capire se fosse arrabbiato, spaventato o sconvolto. Di certo era che non avrebbe mai voluto che lei lo vedesse.
In un attimo, tutte le sue stranezze dei giorni passati le tornarono alla mente, stavolta con più chiarezza e razionalità.
Vincent indietreggiò ancora, tremando.
- Non…non mi guardare…
- Come faccio a non guardarti?!- sbottò Anya, scioccata.- Vincent, ma che cosa ti è success…
La ragazza venne interrotta da uno strano rumore. Sembrava quasi uno scricchiolio, ma era incredibilmente forte. I due si voltarono all’unisono, solo per ritrovarsi di fronte a una scena agghiacciante.
Davanti a loro c’era la principessa Rosaspina, ancora adagiata sul baldacchino. Ma non era più distesa; era seduta. Il busto era dritto, eretto, senza bisogno di alcun sostegno. Il teschio era voltato nella loro direzione, il ghigno macabro ancora fisso su di esso.
Anya puntò lo sguardo inorridito nelle orbite vuote di Rosaspina.
Orbite vuote che vedevano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ce l’ho fattaaaaaaaaa!!!
Questa è la terza e ultima parte, diciamo di passaggio nel Castello di Rovi. Il prossimo capitolo sarà ancora interamente Vinya, e vedremo come faranno i due a uscire dal castello – la cui maledizione, penso abbiate capito qual è ;).
La bellezza nella morte è la rosa rossa che la bella addormentata tiene in mano…che ne dite?
Dunque, ora Anya ha capito (più o meno) che in Vincent c’è qualcosa che non va…Ora, un paio di precisazioni per il futuro: il prossimo capitolo segnerà una specie di frattura fra due parti. Infatti, dopo il prossimo Anya starà relativamente tranquilla (a proposito, accadrà qualcosa che in seguito l’avvicinerà ancora di più al PM…cosa???), mentre a passare un bel po’ di guai sarà sua sorella e i suoi due accompagnatori. Altra cosa: nel prossimo capitolo, alla fine, avremo il ritorno della Regina Cattiva, che a quanto ho capito a molti di voi manca, e l’entrata in scena di un nuovo personaggio. Vi anticipo già che si tratterà di un villain…si accettano scommesse ;).
Dopo il prossimo, lasceremo un attimo Anya e Liz per due capitoli, in cui avremo: in uno, Hadleigh e Jones sulla Jolly Roger, e nell’altro torneremo a Camelot e alla famiglia Pendragon.
Ringrazio tutti quanti per la pazienza e la dedizione che avete nel continuare a seguire questa storia, e per tutti i bei consigli e incoraggiamenti che mi avete dato nello scorso capitolo :).
Grazie a tutti, davvero. Per sdebitarmi, prometto che continuerò ad aggiornare con una regolarità quasi…regolare :P. Ah, nei prossimi capitoli avremo tanti nuovi personaggi, quindi preparatevi! ;).
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 22
*** Maleficent ***


Maleficent
 
Anya ebbe la sensazione che tutto il suo sangue avesse improvvisamente smesso di fluire, che i globuli rossi si fossero pietrificati nel suo corpo ostruendole vene e arterie. Per contro, il cuore aveva ripreso a pompare furiosamente, dimenandosi nella cassa toracica. In un attimo, il ricordo degli occhi di Vincent sparì nella sua mente, venendo immediatamente sostituito dal freddo. Un freddo acuto e penetrante che le avvolse tutto il corpo, mentre le mani divenivano sudate.
Rosaspina ruotò il cranio nella loro direzione, socchiudendo appena le labbra, quasi come se stesse cercando di parlare. Dalla fessura fra le due file di denti si poté vedere la parete dietro allo scheletro.
Alla fine, la principessa parlò, e la sua voce era molto simile a un fischio, un sibilo acuto.
- Fame…
Sebbene non avesse più i bulbi oculari, Anya avrebbe potuto giurare di veder accendersi un lampo famelico in quelle orbite vuote. Con un movimento straordinariamente agile e fluido per uno scheletro, Rosaspina scivolò giù dal baldacchino, facendo frusciare la stoffa dell’abito sbrindellato. Iniziò a strisciare sul pavimento, come un verme, facendosi forza sulle braccia, avanzando verso di loro.
Anya indietreggiò di un passo, sentendosi invadere dal panico. Il suo cervello si era come bloccato, l’unica cosa che riusciva a fare era guardare inorridita quello scheletro che si avvicinava sempre di più a lei, con quello sguardo vuoto e affamato allo stesso tempo.
Il Primo Ministro le afferrò un braccio, strattonandola in modo che arretrasse. Anya sussultò, voltando il capo nella direzione dell’uomo: i suoi occhi erano ancora gialli, ma lei stavolta non li vide neppure.
- Via! Muoviti!- urlò, tirandola con sé verso l’uscita della torre.- Usciamo da qui, alla svelta!
A quell’esortazione, fu come se il cervello della ragazza avesse ripreso a funzionare, e a tutta velocità. Anya lanciò un’ultima, inorridita occhiata a Rosaspina, che continuava a strisciare verso di loro, e seguì Vincent al di fuori della stanza. Iniziarono a scendere le scale della torre di corsa, senza che lui le lasciasse il braccio. Anya aveva preso a respirare affannosamente, le mancava il fiato; le gambe le tremavano, ma non osava smettere di correre, né voltarsi a guardare alle sue spalle.
In un barlume di lucidità si accorse che una delle sue mani era ancora stretta a pugno e, contro il palmo caldo e sudaticcio, premeva la pietra rossa che era stata la rosa della bella addormentata. Anya la strinse ancora di più, sperando che non le scivolasse via, ma c’era qualcos’altro: un dolore, non molto forte ma comunque presente, che le aveva avvolto l’intera mano fino al polso.
- Fame…
La voce di Rosaspina giunse alle sue spalle. Non aveva idea di come avesse fatto a percorrere tanta strada semplicemente strisciando ma, porca puttana!, si stava avvicinando!
Vincent le urlò qualcosa che Anya non riuscì ad afferrare. Adesso, il dolore alla mano si era fatto più intenso, quasi insopportabile, ma lei non riusciva a pensare ad altro se non che c’era uno scheletro affamato alle loro spalle.
La scalinata che scendeva giù dalla torre sembrava non finire mai, e le gambe le tremavano così tanto che a malapena riusciva a stare al passo di Vincent e continuare quella precipitosa fuga. D’un tratto, il Primo Ministro si bloccò, arrestando la sua corsa ma senza lasciare il braccio della ragazza.
Delle ombre proiettate contro la parete di pietra avevano iniziato a stagliarsi in lontananza, divenendo sempre più grandi a mano a mano che uno scricchiolio misto a gemiti strozzati e allo sferragliare di armature si avvicinava. Vincent lasciò il braccio di Anya, portandolo all’altezza della propria nuca e imbracciando l’arco, pronto a ricevere i proprietari di quelle ombre.
Infatti, un attimo dopo, altri due scheletri, presumibilmente dei soldati, si pararono di fronte a loro: uno – in evidente stato di putrefazione – strisciando sugli scalini di pietra, l’altro avanzando in posizione eretta, per nulla caracollante nonostante fosse fatto interamente di ossa.
Vincent estrasse una freccia dalla faretra allacciata intorno alle sue spalle, posizionandone a punta contro la corda dell’arco.
- Stai indietro…- intimò ad Anya, in un soffio, prima di scoccare il primo tiro. Questo andò a segno, e la freccia si conficcò dritta in un’orbita dello scheletro che avanzava su due gambe; il cadavere cadde a terra, finendo riverso sui gradini. Il Primo Ministro estrasse un’altra freccia dalla faretra a una velocità che ad Anya fece quasi impressione, e mirò alla testa dello scheletro putrefatto. Anche stavolta il tirò andò a segno, trapassando il cranio della guardia in mezzo agli occhi.
La ragazza boccheggiò: Vincent aveva estratto due frecce e scoccato due tiri a una velocità impressionante, e senza sbagliare un colpo. Era stato talmente rapido che Anya aveva perfino dubitato che avesse preso la mira, eppure la sua precisione era stata evidente. Stava cominciando a comprendere il perché avesse scelto proprio l’arco e le frecce, fra tutte le armi a sua disposizione.
Intanto, si rese conto, il dolore alla mano si era fatto sempre più acuto, e ora stava cominciando a estendersi in tutto l’avambraccio.
- Fame!
Anya sobbalzò, lasciandosi sfuggire un grido di puro e autentico terrore quando si accorse che Rosaspina era riuscita a raggiungerli alle spalle e si era aggrappata alla stoffa dei suoi pantaloni, così tenacemente da trapassare i vestiti con le unghie.
- Fame…- rantolò la principessa, puntando le sue orbite vuote negli occhi verdi della ragazza.- Carne…
- No!- Anya si afferrò la stoffa dei pantaloni, cercando di liberarsi dalla presa di Rosaspina, ma lo scheletro pareva dotato di una forza incredibile, e si aggrappò ancora più in alto, cercando di strapparle di dosso gli abiti. O di scarnificarla.
Si scansò di lato, ma uno strattone della principessa le fece perdere l’equilibrio, e Anya finì inginocchiata sui gradini della torre, faccia a faccia con Rosaspina. Lo scheletro le piantò le unghie di una mano nella carne della spalla, ma subito il braccio le venne mozzato all’altezza del gomito da una lama. La bella addormentata non parve provare alcun dolore per quella mutilazione, ma il suo avambraccio rotolò per qualche metro giù dai gradini, liberando la ragazza dalla sua presa.
Vincent si chinò verso di lei, sollevandola da terra quasi di peso; aveva riposto l’arco sulle spalle, accanto alla faretra, e in mano reggeva l’impugnatura della spada sottratta al soldato di guardia alla porta del Castello di Rovi.
Anya si lasciò nuovamente tirare, mentre riprendevano a scendere di corsa i gradini della torre; si voltò brevemente, scoccando un’occhiata ai due scheletri e al cadavere di Rosaspina: questo continuava a strisciare giù per le scale, e l’osso dell’avambraccio mozzato era magicamente tornato al proprio posto; le carcasse dei due soldati, invece, si stavano rialzando da terra.
Vincent non parlava, ma non le lasciava il polso, continuando a guidarla giù lungo quella scalinata interminabile, verso l’uscita. Già, l’uscita: Anya realizzò tutto quando ormai questa si scorgeva in lontananza. Non era l’uscita, era solo una porta che divideva la torre dal resto del castello; ci sarebbe stata ancora un bel po’ di strada da percorrere, e il ricordo della sala del trono gremita di scheletri la raggiunse come un fulmine.
Difatti, non appena varcata la soglia della porta, entrambi si ritrovarono nel corridoio da cui vi avevano avuto accesso. Di primo acchito, Anya non vide né sentì nulla, ma dopo pochi secondi uno scricchiolio molto forte unito a uno sferragliare di armature le ricordò che non erano al sicuro neppure lì.
Esattamente dalla direzione che avevano percorso per arrivare sino a lì aveva iniziato ad avanzare verso di loro uno stuolo di morti, tutti scheletri più o meno in stato di decomposizione. Alcuni si reggevano sulle due gambe, altri invece strisciavano sul pavimento come la principessa Rosaspina; molti di loro indossavano armature, ma ad Anya parve di riconoscere anche qualche carcassa vestita di stracci che avevano incontrato nelle cucine o lungo il percorso. La rapida visione di una testa reclinata di lato le fece intuire che doveva esserci anche la regina, là in mezzo. Alcuni scheletri erano ben conservati, ma la maggior parte di loro erano putrefatti, anneriti, ricoperti di muffa e con le ossa bucate; a non pochi mancavano le gambe, o un braccio, altri ancora si muovevano pur non avendo più il cranio. Ma tutti quanti, nessuno escluso, avevano una luce famelica nelle orbite vuote.
E adesso che facciamo?
La domanda le balenò nella mente nello stesso istante della risposta. Niente. Ecco cosa potevano fare: niente, assolutamente niente. Erano intrappolati, bloccati in fondo a un corridoio sbarrato da una parete di pietra, e la loro unica via d’uscita era ostruita da un esercito di cadaveri ossuti che avanzava verso di loro. Il solo aver realizzato di non avere una via di salvezza sarebbe stato sufficiente a ucciderla.
Vincent si voltò a guardarla brevemente, quindi la spinse indietro, verso la parete. Lasciò cadere a terra la spada, imbracciando nuovamente l’arco e iniziando a scoccare altre frecce. Riuscì a colpire uno, due, tre, cinque, nove, dieci scheletri, senza mai sbagliare, ma era consapevole che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora a lungo. Non aveva idea di quante frecce ci fossero effettivamente all’interno della faretra – quando era partito a caccia di quelle due ragazze era convinto che non ne avrebbe sprecate più di una o due, per ucciderle –, ma di una cosa era certo: non sarebbero durate per sempre. Presto o tardi, le frecce sarebbero terminate, e lui e quella ragazza si sarebbero ritrovati senza più alcun mezzo di difesa. Sì, certo, aveva la spada, ma di fronte a lui c’erano almeno una cinquantina di scheletri: troppi per un corpo a corpo. E poi, lo vedeva anche ora, per quanti ne colpisse, altrettanti si rialzavano dopo pochi secondi.
Scoccò un’altra freccia, venendo raggiunto dalla voce della ragazza, disperata e dal tono isterico.
- Che cosa facciamo?!
Già, che cosa? Non lo sapeva.
- Cerca un passaggio nel muro!- le urlò in risposta, aggrappandosi più a una speranza che alla probabilità che ci fosse realmente un’uscita segreta. Quasi tutti i castelli ne avevano, in caso di emergenze come un incendio o un assedio, ma trovarli era tutto un altro paio di maniche. Ma che altra scelta avevano? Dovevano pur fare un tentativo.- Ci deve essere qualcosa! Forza, cercalo!
Anya ci impiegò qualche secondo per mettere a fuoco il senso delle parole di Vincent, ma appena comprese iniziò a guardarsi attorno freneticamente, alla ricerca di qualche cosa che segnalasse un’apertura o una porta nascosta. Non trovò niente.
Si mise a tastare disperatamente le pietre di cui era fatta la parete, nella speranza che si smuovessero al tocco proprio come era successo quando lei ed Elizabeth erano arrivate nel Regno delle Favole. Ancora nulla; Anya scoccò un’occhiata a Vincent: l’uomo aveva terminato le frecce e ora, raccolta la spada da terra, stava cercando di rallentare l’avanzata degli scheletri, ma era chiaro che si trattava di una battaglia persa. Aveva avuto la meglio quando a dargli addosso erano stati solo uno o due, ma presto gli attacchi iniziarono ad avvenire a gruppi di quattro o cinque, e sarebbero aumentati ancora di più. Vincent fendeva colpi e pugnalava quei cadaveri, ma non ce l’avrebbe fatta a fronteggiarli, quando questi fossero diventati troppi.
Anya cercò di tastare nuovamente le pietre, ma un’improvvisa fitta al braccio la immobilizzò per diversi istanti. Il dolore era divenuto fortissimo, e non era più esteso solo alla mano chiusa a pugno e all’avambraccio, ma adesso le aveva invaso tutta la parte superiore del braccio e la clavicola. La ragazza ansimò, lasciando cadere lo sguardo sulle proprie dita avvolte intorno alla bellezza nella morte. Attraverso le fessure delle falangi richiuse a pugno fuoriuscivano degli spiragli di luce rossa, una luce che si faceva sempre più intensa a ogni attimo che passava. Anya aggrottò le sopracciglia, e quasi istintivamente schiuse appena le dita, allentando la morsa della sua mano intorno alla pietra. Questa iniziò a brillare ancora di più, proiettando un fascio di luce contro la parete di fronte alla ragazza.
Un rettangolo di mattoni si smosse, spostandosi di lato come una porta scorrevole, rivelando un passaggio oltre il quale si apriva il buio.
- Vincent!- chiamò Anya, senza soffermarsi a riflettere su ciò che era appena accaduto. Quello che importava, in quel momento, era solo salvarsi la pelle.
Il Primo Ministro si voltò, vedendo immediatamente il passaggio nella parete. Si allontanò in fretta dalla schiera di scheletri che erano diventati troppi per poter essere affrontati da uno solo, e raggiunse la ragazza. L’afferrò per ciò che restava della sua maglietta maciullata e la trascinò dentro il passaggio, la cui porta si richiuse istantaneamente alle loro spalle, sbarrando la strada ai cadaveri.
Vincent e Anya si ritrovarono nella più completa oscurità.
 
***
 
La sua camera da letto era avvolta in una penombra spezzata solo dalle fiammelle di alcune candele posate sulla toeletta, le quali lanciavano lunghe ombre riflesse nello specchio. Il mobilio era sontuoso ed elaborato, tuttavia ridotto al minimo: un letto a baldacchino dalle lenzuola e i tendaggi di seta, e una toeletta con una seggiola foderata di velluto su cui erano posti un poco di cipria e del rossetto, occupata invece per la maggior parte dal grande specchio dalla cornice d’oro in cui erano scolpiti, proprio come nelle colonne su cui poggiava l’intero palazzo, dei teschi dalle voci spalancate in un urlo.
La Regina Cattiva fece scorrere i denti del pettine lungo una ciocca dei suoi capelli neri, con una lentezza e una delicatezza quasi inumane, accarezzando quella chioma corvina come se si fosse trattata della cosa più importante del mondo, ma non distoglieva lo sguardo dall’immagine che lo specchio stava riflettendo di fronte a lei: il suo Primo Ministro e la ragazzina, momentaneamente al sicuro dai servitori di Rosaspina.
E la seconda chiave li aveva guidati sino a quel passaggio.
Posò piano il pettine sulla toeletta, sistemandosi meglio sulla poltroncina e afferrandone i braccioli con le unghie laccate di rosso. Le cose stavano prendendo una piega che non aveva decisamente previsto. Era convinta che sarebbe stato sufficiente l’intervento del Primo Ministro per liberarsi delle due ragazzine, e invece non era stato così. Doveva confessare di essersi sentita adirata con lui per aver mancato il bersaglio, ma alla fine si era detta che, se non altro, ora le due mocciose erano separate – e dunque, più deboli e vulnerabili – e, benché in genere qualunque cosa eseguita senza il suo esplicito consenso la infastidisse e contrariasse, non poteva negare di aver apprezzato molto lo spirito di iniziativa dell’uomo. Il suo piano aveva avuto successo: era riuscito a trovare una delle chiavi che conducevano alla Pietra.
Ora, doveva solo sperare che riuscisse a uscire vivo dal Castello di Rovi per consegnargliela. Se si fosse trattato di un altro luogo, avrebbe potuto impiegare la magia nera per prenderla di persona, ma si trattava del palazzo della principessa Rosaspina. Un luogo intoccabile, se volevi tenerti stretta un’alleata.
Uno spiffero all’esterno del palazzo penetrò violentemente attraverso le fessure della finestra chiusa, mentre il vento ululava e gemeva. La Regina Cattiva udì un curioso picchiettare, come il becco di un uccello contro del vetro. Abbandonò la visione offertale dallo specchio, alzandosi in piedi con grazia e tranquillità, come se avesse avuto a disposizione tutto il tempo del Regno delle Favole e di ogni altro mondo, e volse il capo in direzione della finestra. Proprio come aveva intuito, un corvo nero come la notte stava picchiettando il becco affilato contro il vetro, gracchiando e agitando le ali per mantenersi in volo. Senza che la Regina facesse alcunché, la finestra si spalancò, per poi richiudersi con un tonfo secco non appena l’uccello nero fu entrato.
Il corvo volò in cerchio per tutta la stanza, prima di planare e posarsi aggraziatamente sul pavimento della camera da letto, proprio di fronte al baldacchino. La Regina Cattiva rimase a osservarlo, calma e imperiosa, in attesa.
Un attimo dopo, il corvo aprì le ali, le quali cominciarono ad ampliarsi, divenendo sempre più grandi; le zambe si ingrossarono appena, allungandosi verso l’alto. In pochi istanti, la figura del corvo scomparve, tramutandosi in un corpo umano.
La Regina Cattiva rimase a guardare la trasformazione dell’animale in una donna alta e snella, vestita di un lungo abito nero e un mantello di piume corvine intorno alle spalle. Il bustino era stretto, aderente al corpo, mentre la gonna del vestito era ampia almeno quanto quella color rosso sangue indossata dalla sovrana. La donna indossava numerosi bracciali e anelli, quasi tutti in ferro e ricoperti di borchie e spuntoni affilati. I capelli biondi erano acconciati in un’elaborata pettinatura di trecce sottili avvolte intorno al capo, mettendo in risalto gli occhi scuri circondati da ombretto nero.
La Regina Cattiva non poté fare a meno di notare quanto, un tempo, fosse stata somigliante alla cugina rivale. La donna bionda sorrise, increspando appena le labbra.
- Buona sera, Grimilde - salutò, drizzando il capo.
La Regina si concesse qualche istante prima di rispondere, infine sollevò un angolo della bocca in un accenno di sorriso.
- Ti trovo molto bene, Carabosse - sussurrò.
- Carabosse è morta anni fa, e lo sai bene - il volto della donna s’indurì.- Il mio nome è Malefica.
 
***
 
Stava per avere un attacco di panico, ne era certa.
Anya sentì che le gambe le tremavano furiosamente, quasi non la reggevano in piedi. Si appoggiò con il dorso contro la parete alle sue spalle, ma a poco servì. Tremava come una foglia e, per quanto si sforzasse, non riusciva a respirare in modo normale e regolare, ma solo ad ansimare rumorosamente alla ricerca di ossigeno che sembrava sempre più insufficiente a ogni secondo che passava.
Alla fine, le gambe non la ressero per davvero, e Anya cadde in ginocchio, sentendo ancora di più il fiato mancarle. Gli arti le formicolavano, e non riusciva a smettere di respirare affannosamente. Stava andando in iperventilazione.
Le ritornò alla mente una frase che Vincent le aveva detto non molto tempo prima.
Credimi, non sempre la parola morto è sinonimo di inoffensivo, specialmente in questi tempi bui.
Dio, come avrebbe voluto ricordarsela al momento opportuno!
Ora che erano al sicuro e che il suo cervello stava finalmente elaborando ciò che era appena successo, il panico si stava sfogando in tutta la sua furia. I polmoni sembravano sul punto di sfondarle la cassa toracica.
- Calmati!- la voce di Vincent giunse molto vicina. Pur non potendolo vedere a causa del buio, Anya avvertì comunque la sua presenza al suo fianco, alla sua stessa altezza. Si era inginocchiato sul pavimento, realizzò.- Calmati, cerca di respirare…
Era una parola. Anya provò a inspirare profondamente, ma questo fu solo in grado di farla tossire, peggiorando la situazione. Il formicolio alle braccia e alle gambe era diventato insopportabile, le sembrava quasi che le stesse sottraendo ancora più ossigeno.
- Fai respiri piccoli…- le disse Vincent; le afferrò la mano che non stringeva la pietra, portandogliela al volto.- Tienila vicino alla bocca…
Anya ubbidì, tenendo premuta la propria mano contro la bocca e il naso. Cercò di regolarizzare insieme il proprio respiro e il battito cardiaco, ma ci vollero diversi minuti prima che si calmasse. Sentì che Vincent le aveva posato una mano sulla schiena, fra le scapole, forse per aiutarla a respirare meglio.
Pian piano, il formicolio svanì, e la ragazza riprese a respirare in modo regolare; ma tremava ancora, e si accorse di avere la fronte imperlata di sudore. Sentì che Vincent si era rialzato.
- Va meglio?
Anya annuì; stupidamente, si disse un attimo dopo, dato che con quel buio lui certamente non poteva averla vista. O forse sì?
Si assicurò che le gambe avessero smesso di tremare, quindi si rimise in piedi, barcollando un poco. Là dentro non si riusciva a vedere nulla: il buio era talmente intenso che neppure gli occhi avrebbero potuto abituarvisi. Anya non avrebbe neppure saputo dire come fosse fatta la stanza in cui si trovavano, che forma avesse. Di una cosa sola era sicura: là dentro non c’erano scheletri ambulanti. Se così fosse stato, pensava, a quest’ora non sarebbero stati ancora vivi. Qualunque cosa fosse successo, quella pietra li aveva guidati al sicuro.
Ma restavano comunque due problemi: come uscire da lì e come poter vedere qualcosa.
Le uniche fonti di luce, là dentro, erano il bagliore emanato dalla bellezza nella morte – sebbene di gran lunga affievolitosi rispetto a prima e comunque soffocato dalla stretta della sua mano – e gli occhi di Vincent. Anya lo squadrò di sottecchi: quegli occhi gialli erano l’unica cosa che riuscisse a farle percepire la presenza dell’uomo accanto a lei, ma nelle tenebre avevano un aspetto ancor più inquietante. Sembravano davvero le pupille di un lupo.
Le facevano impressione, e parecchia.
Avrebbe voluto chiedergli spiegazioni a riguardo, ma non voleva complicare ancora di più le cose. Un passo alla volta, si disse. Innanzitutto, dovevano trovare un modo per uscire da lì.
- Non vedo niente…- mormorò, debolmente.
- Beh, io sì - dichiarò Vincent.- Stai attenta. Resta lì dove sei. Ci sono delle scale qui di fronte, rischi di inciampare se non ci vedi…
- Delle scale?- fece eco Anya. - E…e dove portano?
- Non lo so. Verso il basso.
- Dovremmo scendere?
- Non abbiamo altra scelta. E poi, in ogni caso, l’uscita si trova al piano di sotto - Anya udì una specie di sibilo, da cui intuì che Vincent aveva riposto la spada allacciandola alla propria cintura. Un attimo dopo, avvertì la ruvidezza del guanto dell’uomo contro il palmo della propria mano. - Segui i miei passi. Vedrò io per tutti e due.
Anya annuì, sicura che stavolta lui l’avesse vista, benché lei non potesse ricambiare il favore. Mosse piano un passo, poi un altro. Trasalì quando la terra le mancò sotto i piedi, ma subito posò lo stivaletto un po’ più in basso, all’altezza del primo gradino. Barcollò, stringendo ancora di più le dita intorno alla mano di Vincent.
- Non avere fretta, d’accordo?- fece l’uomo, voltando il capo in modo che Anya si trovasse nuovamente faccia a faccia con quegli occhi da lupo. - Fai un passo alla volta, lentamente, o rischi di cadere. Intesi?
- Sì…- Anya cercò di adattarsi per quanto poteva a quei suggerimenti, ma le risultava parecchio difficile. Non avere fretta. Beh, lei invece di fretta ne aveva eccome. Fretta di uscire da lì, fretta di andarsene il più lontano possibile da quelle specie di zombie. Sperò vivamente che Vincent avesse ragione e quella scala conducesse verso il basso, magari a un’uscita.
- Cosa è successo?- chiese lui, d’un tratto, facendola sobbalzare.
- Che vuoi dire?
- La bellezza nella morte, il passaggio…è stata quella pietra ad aprirlo, vero?
- Sì…- ammise Anya, seguendo istintivamente il bagliore emanato dall’interno della sua mano. - Non so cosa sia successo, a dire il vero. Si è illuminata e…- non terminò la frase, sperando che fosse lui a colmare il vuoto. E le sue speranze vennero esaudite.
- A quanto pare non vedeva l’ora di essere portata fuori da qui - commentò Vincent, secco. Anya rimase un poco sconcertata.
- Ne parli come se avesse una volontà propria.
- La chiave, no. Ma i fratelli Grimm, loro sì. Vogliono ritornare…e lo faranno, stanne certa.
Quell’ultima frase la pronunciò più per se stesso che per lei. Giusto per ricordare a se stesso il motivo per cui aveva quasi rischiato di finire sbranato da dei non-morti, per non dimenticare che lui stava lavorando per la Regina e quale fosse l’obiettivo di quest’ultima. E poi, pensò, se i Grimm fossero tornati, anche lui avrebbe avuto un certo tornaconto.
Questo servì anche a riportargli alla mente il fatto che aveva un problema da risolvere, e anche bello grosso, un problema che in quel momento gli stava stringendo la mano mentre arrancava incespicando nel buio. Ora che avevano trovato una delle chiavi che conducevano alla Pietra del Male, quella ragazza non gli era più utile, in alcun modo. Che doveva fare con lei? La domanda era stupida, dato che sapeva benissimo la risposta: ciò che gli aveva ordinato la Regina. Ucciderla, squarciarle il petto, estrarne il suo cuore e portarlo alla sovrana su un piatto d’argento. Non era poi neanche così difficile, a pensarci bene.
Eppure, qualcosa nella sua testa gli suggeriva che non doveva farlo. Non sapeva bene che cosa fosse, ma era come una voce che gli diceva di aspettare ancora, che non era il momento. Vincent sperò con tutto il cuore che quella brutta avventura non stesse avendo il potere di rammollirlo: si era impietosito di fronte a lei già due volte, non era un buon segno.
Quella ragazza non era un essere umano, era solo una preda di caccia. E poi, maledizione!, lo aveva visto. Aveva visto i suoi occhi dopo il tramonto…
Decise di rimandare quella spinosa questione a quando fossero finalmente usciti da quel dannato castello. Prima doveva assicurarsi di arrivare vivo al di fuori di quelle pietre costruite in mezzo ai rovi; poi, ne era certo, alla luce del sole, senza più il rischio che il cadavere di una principessa cercasse di sbranarlo vivo, tutto gli sarebbe stato più chiaro. Avrebbe potuto ragionare a mente fredda e lucida, e decidere se ucciderla subito oppure rimandare l’esecuzione.
Continuarono a scendere le scale finché, in lontananza, di fronte a loro cominciò a farsi strada una luce, molto debole all’inizio, ma sempre più chiara a mano a mano che si avvicinavano. Anya si portò una mano all’altezza degli occhi quando la luce le colpì il volto, sbattendo le palpebre più volte per mettere a fuoco ciò che le stava di fronte. Ora, se non altro, riusciva a vedere, e la prima cosa che notò fu che gli occhi di Vincent erano ritornati di un colore normale.
Tuttavia, la luce era troppo opaca perché potesse essere già giorno, tantomeno perché quella che stava loro di fronte fosse finalmente la via d’uscita da quel castello degli orrori. Quasi a darle conferma di questo, appena varcarono la porta, la temperatura parve abbassarsi di qualche grado, e la raggiunse un odore acre, un misto di muffa e vino.
Quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, Anya vide che erano entrati in quella che doveva essere una grande cantina. L’atmosfera era fredda, e in fila accanto a ogni lato della grande camerata si trovavano delle grandi botti di legno. Qua e là erano ammucchiate almeno un centinaio di scatole, provviste che erano marcite a causa del tempo.
Cosa più importante, però, era che là dentro non c’era ombra di uno scheletro.
E, ancora più importante, proprio in fondo allo stanzone, vi erano alcuni gradini di pietra, e una porta socchiusa lasciava filtrare la luce della luna.
Anya si concesse un sospiro di sollievo, lasciando finalmente la mano di Vincent e superandolo di un paio di passi, senza staccare lo sguardo da quella porta. Avrebbe voluto correre verso di essa, spalancarla e gettarsi fuori da quel posto più veloce della luce, ma s’impose di non farsi prendere troppo dall’entusiasmo. Ne erano successe di tutti i colori, meglio non sfidare il destino, almeno finché non fosse stata a pochi passi dalla via d’uscita.
Si scambiò una rapida occhiata con Vincent.
- Vai avanti…- la esortò lui.- Io ti guardo le spalle…
La ragazza annuì, iniziando a percorrere la strada immaginaria che conduceva alla porta, un po’ barcollante. Vincent la seguì, misurando ogni passo. Quasi per istinto – istinto animale, nessun dubbio – la mano destra gli corse all’impugnatura della spada. Non gli pareva vero quanto stava accadendo: quella ragazza gli aveva davvero voltato le spalle. Dopo ciò che le aveva fatto, dopo tutto quel che era accaduto solo pochi minuti prima, lei ancora aveva il coraggio di concedersi un tale lusso, e fidarsi di quello che, alla prova dei fatti, era un perfetto sconosciuto?
Era ingenua, e parecchio; nonostante il suo carattere che sarebbe stato in grado di abbattere anche un reggimento di soldati – la sua strenua resistenza quando l’aveva catturata ne era una prova – peccava di ingenuità di fronte a una situazione talmente banale. Era spiazzante.
O forse no, si ritrovò a pensare.
Forse non era semplice ingenuità, quella. Era davvero possibile che si…fidasse di lui?
Il Primo Ministro scosse il capo, allontanando la mano dall’elsa della spada. Qualunque cosa fosse, aveva infranto una delle regole fondamentali della sopravvivenza. Mai voltare le spalle a un avversario, e lei lo aveva fatto. Quello sarebbe stato il momento perfetto, l’opportunità giusta per ucciderla…eppure, c’era qualcosa che lo frenava.
Una voce – somigliava in modo impressionante a quella di quel codardo del Cacciatore, ma in un certo senso gli ricordava molto la propria, quella che possedeva in un tempo lontano, quando ancora poteva concedersi il lusso della clemenza – continuava a ripetergli due parole: non ucciderla.
Prima che potesse domandarsi il perché la sua volontà e la coscienza che credeva di aver perso stessero facendo a pugni su quella questione, uno scricchiolio sinistro lo raggiunse di sorpresa alle spalle. Si voltò repentinamente, ma non abbastanza per schivare lo scheletro di quello che un tempo doveva essere stato un servo che, sbucato fuori da chissà dove, in un attimo gli fu addosso.
Vincent sfoderò la spada, cercando di colpirlo, ma il cadavere lo attaccò con una forza straordinaria, tale da fargli perdere l’equilibrio e cadere a terra. L’arma gli sfuggì di mano, cadendo rumorosamente sul pavimento.
Senza esitare, lo scheletro lo morse a una spalla, affondandogli i denti nella carne. Vincent urlò.
 
I denti affondano nella carne, strappando e lacerando. Urla, urla di dolore e di disperazione, perché anche se riuscisse a sopravvivere a quella belva sa che adesso il suo destino è segnato per sempre.
E quasi gli dispiace che non lo abbia sbranato, quando il Cacciatore e i suoi uomini abbattono l’animale colpendolo alle spalle. Se fosse stato ucciso, a quest’ora il tormento sarebbe già finito.
Ma lui è ancora vivo, e il suo castigo inizia adesso.
 
Anya si voltò appena in tempo per vedere Vincent soccombere sotto il peso di quel cadavere. Si lasciò sfuggire uno strillo, più per sorpresa che per puro spavento, ma s’impose di non fare la stupida proprio adesso. Aveva recitato la parte della patetica damigella in pericolo per tutto il tempo, ora era lui ad aver bisogno di aiuto.
Non pensò a nulla. Semplicemente, raccolse da terra la spada di Vincent il più in fretta che poté. L’afferrò saldamente, non sapendo bene che cosa avrebbe potuto fare. Si buttò, e colpì lo scheletro nel primo punto che le capitò a tiro, sulla colonna vertebrale.
Il colpo non fu sufficiente a tranciarlo in due, ma se non altro il cadavere sembrò lasciar perdere Vincent. Per concentrarsi su di lei.
Si rialzò in piedi, dandole addosso. Anya agitò la spada a mezz’aria sperando in qualcosa, magari di spaventarlo, ma quello non parve molto impressionato. Fece per saltarle addosso; la ragazza lanciò la spada in avanti, colpendolo alla cassa toracica. Stavolta, lo scheletro barcollò, fino a perdere l’equilibrio e finire a terra.
Anya rimase immobile, inerme e disarmata.
Non fare l’eroina! Esci di qui, di corsa!
La ragazza si voltò a guardare Vincent; l’uomo si era portato una mano alla spalla, che aveva iniziato a spillare uno strano liquido dal colore simile al sangue, ma in cui il rosso s’intervallava con il nero. Il volto era deformato in una smorfia di dolore.
Anya lo prese per un braccio, cercando di aiutarlo a rialzarsi. Vincent si rimise in piedi a fatica, ma non accennava a stare meglio, anzi. La ragazza lo trascinò di corsa verso la porta, correndo a perdifiato, sentendo che lo scheletro alle loro spalle si era rialzato.
Salirono in gradini in fretta, precipitandosi fuori. Anya si voltò, chiudendo velocemente la porta; c’era una trave abbandonata lì accanto, e la ragazza la utilizzò per bloccare l’uscita.
La porta iniziò a tremare sotto i colpi del cadavere, ma presto questo smise di cercare di sfondarla.
Solo a quel punto Anya poté tornare a respirare e a godersi l’euforia di essere finalmente fuori, di nuovo in mezzo a quella foresta di rovi, ma comunque sotto il cielo notturno, lontani dal pericolo.
Vincent si lasciò cadere nuovamente a terra, contorcendosi dal dolore. La ragazza gli si avvicinò in fretta, inginocchiandosi accanto a lui e cercando di guardare la ferita.
- No…!- protestò l’uomo quando lei gli scostò un lembo di stoffa della casacca, stracciato via dal morso di quel cadavere. Anya vide che la ferita era parecchio profonda, i denti del non-morto erano penetrati nella carne, che continuava a spillare quel liquido rosso e nero. Ma c’era dell’altro: appena più sopra, c’era una seconda ferita, anch’essa chiaramente un morso, rimarginatasi da tempo.
Vincent tossì, e dalla sua bocca uscì un fiotto di sangue.
Anya si sentì infinitamente impotente, ma prima che potesse pensare a qualcosa, dei passi affrettati li raggiunsero, e i due si ritrovarono di nuovo in presenza dei sei nani.
- Che siano maledetti i Grimm! Che diamine gli è successo?!- esclamò uno di loro.
- Avete trovato la chiave?- domandò Brontolo.
Anya annuì, accennando appena alla sua mano. Uno dei nani si avvicinò a Vincent, scrutando la sua ferita.
- E’ stato morso. Bisogna portarlo al campo - dichiarò.
Anya si chiese come avessero fatto a non notare lo strano colore delle iridi dell’uomo, ma non appena tornò a guardarlo ebbe subito una risposta: Vincent continuava a contorcersi dal dolore, ma teneva gli occhi serrati.
 
***
 
Lo specchio si oscurò, tornando a riflettere il volto bellissimo e privo di imperfezioni della Regina Cattiva. La donna rimase impassibile, ma sentì lo sguardo di Malefica su di sé.
- Cosa farai, adesso?- incalzò quest’ultima, dopo pochi minuti di silenzio. La Regina Cattiva si alzò dalla poltroncina con un sospiro; si sentiva un poco indolenzita, e questo l’infastidiva.
- Che intendi dire?- domandò.
- Li condurranno all’accampamento dei ribelli - precisò Malefica.- Hanno la polvere di fata. E’ per questo che ancora riescono a nascondersi. Respinge la magia nera, e inibisce le capacità del tuo specchio.
- E’ vero, ma dimentichi che il Primo Ministro è dalla nostra parte - disse la Regina Cattiva.- Penserà lui alla chiave e alla ragazzina. E, quando tornerà, sarà anche in grado di darci le coordinate esatte del nascondiglio dei ribelli. E’ un vantaggio, non credi?
Malefica ridusse le labbra a fessura, per niente convinta. Incrociò le braccia al petto, squadrano la Regina.
- Riponi molta fiducia in lui - constatò.- Non credi che sia un poco azzardato?
- E perché mai?
- E’ un ex rivoltoso. Quelli come lui andrebbero uccisi non appena vengono catturati.
Per tutta risposta, la Regina Cattiva gettò il capo all’indietro, lasciandosi andare a una fragorosa risata, quindi si sedette nuovamente sulla poltroncina, accavallando le gambe e poggiando i gomiti sui braccioli.
- Non ti smentisci mai, amica mia!- ridacchiò, ignorando l’espressione estremamente seria di Malefica.- Con una come te al mio fianco giorno e notte, non avrei più alcun problema di insubordinazione e negligenze. Sei sempre stata un tipo molto vendicativo, quello che hai fatto a tua cugina lo dimostra ampiamente…
- Mi ritengo prudente. E’ estremamente raro che l’abbandono della vecchia via sia sincero e definitivo, personalmente preferisco non correre rischi inutili.
- Dimentichi che il Primo Ministro ha deciso spontaneamente di schierarsi dalla mia parte, e che io ho fatto molto, per lui - ribatté la Regina.- E poi, sa bene cosa accadrebbe, se si azzardasse a tradirmi…
- Come vuoi. Non sarò certo io a interferire in questioni che non mi riguardano - concesse Malefica; iniziò a passeggiare per la stanza, con espressione grave.- In ogni caso, ora hanno trovato un’altra chiave.
- Sì, e non tarderemo a impossessarcene. Così come non la profezia non tarderà a parlare nuovamente.
- E l’altra?- incalzò Malefica, arrestandosi e puntando gli occhi scuri in quelli verdi della sovrana.- Che facciamo, con l’altra?
- L’altra, cosa? L’altra chiave o l’altra ragazzina?
- Entrambe. Ammettiamo pure che quell’uomo uccida la prima sorella e ci consegni la bellezza nella morte…Che cosa facciamo con la seconda? Ha trovato il sogno infranto, e non mi sembra che abbia qualcuno dei tuoi alle calcagna come invece dovrebbe!
- Sei nervosa, Malefica?- la Regina Cattiva sollevò lo sguardo sulla strega, accennando un sorrisetto.
- Dovresti esserlo anche tu - ribatté Malefica.- La Luna di Sangue si avvicina, abbiamo soltanto sei anime innocenti e l’Uomo Nero è stato sconfitto dallo stesso uomo di cui tu ti fidi così ciecamente…
- Sei troppo dura con lui. Sai bene cosa fa l’Uomo Nero, d’altronde doveva pur difendersi. E comunque, non preoccuparti: il nostro schiavo ha solo bisogno di rigenerarsi, presto potrà tornare al nostro servizio. Quanto alle vittime sacrificali…- ridacchiò.- Devo correggerti: ne abbiamo sette.
Malefica drizzò il capo, scrutando attentamente la sovrana. La Regina Cattiva sorrise quindi, con un elegante e lento gesto della mano, fece comparire nello specchio una nuova immagine.
La strega si avvicinò per poter vedere meglio: il riflesso mostrava ora l’interno di una celletta buia in cui la luce filtrava a malapena dall’unica finestrella bloccata con alcune sbarre, troppo in alto per poter essere raggiunta. Rannicchiata in un angolo, avvolta nell’ombra con le ginocchia strette al petto, c’era Lady Marian.
- Oh, giusto. Dimenticavo…- Malefica fece una smorfia.- Alla fine, è proprio lei?
- Sì, è lei.
- Ne sei certa? Occorre il sangue puro dei creatori, perché i Grimm stessi vengano risvegliati.
- Non ho dubbi. Non può essere che lei…
- E se fosse anche la Salvatrice?- azzardò Malefica.- Non è da escludere, devi ammetterlo. Se davvero nelle sue vene scorre lo stesso sangue che fu di Jacob e Wilhelm Grimm, allora potrebbe essere che…
- No - la bloccò la Regina Cattiva, con decisione.- No. La profezia parla chiaro. Sarà la progenie di un traditore a ergersi in difesa del Regno delle Favole contro i fratelli Grimm. Lady Marian è stata una traditrice, questo è vero, ma non possiamo sapere se anche suo padre lo fosse…
- Non ne abbiamo la certezza. Non ha memoria, ricordi?- insistette Malefica.- Non ha alcuna rimembranza di chi era prima di giungere qui, e aveva già otto anni quando la facesti diventare una delle tue dame di compagnia. Non possiamo sapere se…
- L’arrivo di quelle ragazze non è stato un caso!- ringhiò la Regina, irritata.- Mi aspettavo l’intervento di quei pidocchi del Dipartimento, quando ho fatto ammazzare Cappuccetto Rosso e la nonna. Ero sicura che sarebbero giunti. La mia spia non poteva tenere un segreto del genere a lungo. Ma con loro sono arrivate anche quelle due sorelle, e proprio quando il nostro piano sta per essere portato a termine. Il Fato non scherza mai, lo sai bene.
Malefica non replicò, reprimendo a stento la rabbia che quella risposta le aveva suscitato. Raccolse il mantello, voltando le spalle alla Regina e allontanandosi verso il baldacchino con un fruscio di gonne.
- E allora, quale delle due potrebbe essere?- chiese dopo poco.- Forse la maggiore. E’ riuscita a rimanere illesa dall’attacco di Rosaspina, ed è stata l’unica delle due ad aver trovato una delle chiavi senza che il Fato le tendesse una mano…
- Non trarrei conclusioni troppo affrettate, se fossi in te. Come ti ho detto, il Fato non scherza mai, e il fatto che siano giunte due ragazze invece di una sola non è certo un caso. Anche se hai ragione: è notevole quanto sia stata fortunata…- la sovrana sogghignò.- Tua cugina e i suoi sudditi hanno mietuto numerose vittime, e l’unico prima d’ora a esserne scampato ha avuto un tale onore solo per via dell’intimo rapporto che voi due avevate, tempo fa…
- Ti sarei infinitamente grata se tenessi a freno la lingua, riguardo al Principe Filippo - ringhiò Malefica, mentre il suo volto illividiva. La Regina Cattiva si voltò a guardarla, fintamente sorpresa.
- Ti ho forse punta sul vivo, cara?
- Semplicemente detesto perdermi in chiacchiere inutili quando abbiamo ben altri problemi da risolvere - sibilò la strega, dandole le spalle per non doverla guardare negli occhi. La sovrana sorrise, decidendo di punzecchiarla un altro po’.
- Perdonami. Ho solo supposto che ci fosse ancora del tenero fra di voi, dopo che tu l’hai salvato nonostante lui avesse percorso tutta quella strada solo per spezzare l’incantesimo che aveva colpito tua cugina Rosaspina…
- Non l’ho salvato io. Aveva della polvere di fata con sé, e questo lo sai.
- Vuoi dirmi che anche adesso tu non sai dove sia?
- E’ scomparso.
- L’ho sentito dire. Ma immaginavo che tu ne sapessi qualcosa.
- Io non c’entro niente con il fatto che Filippo sia sparito - dichiarò Malefica, fermamente, tornando a guardarla negli occhi. La Regina Cattiva inarcò un sopracciglio, come a dire che non credeva a una sola parola, quindi tornò nuovamente a guardare lo specchio, stavolta rincontrando la propria immagine.
- Comunque, ci resta un problema - dichiarò infine.- La Pietra del Male non basta per richiamare indietro i fratelli Grimm. Occorre un altro elemento, e questo Artù non ce lo concederà mai.
- Oh, certo. Quella - la voce di Malefica s’inasprì.- Immagino che Merlino la tenga bene al sicuro. Hai qualche notizia da Camelot?
- Non molte. So solo che dopo la morte di Re Uther le cose non hanno fatto che migliorare, sotto il comando di suo figlio. E’ un regno molto prospero.
- Pensi che Artù scenderà in battaglia, qualora i ribelli volessero tentare nuovamente di insorgere?
- Chi? Artù?- la Regina Cattiva si lasciò sfuggire un’altra risata.- Non dire sciocchezze! Artù non ha alcun motivo per voler scatenare una guerra contro di noi. Non ha il carattere irruento e bellicoso di suo padre, e poi ha tutto ciò che potrebbe desiderare: un regno prospero, degli amici leali, una bella famiglia…
- Ti riferisci alla regina plebea e alla loro mocciosa?- Malefica fece un gesto stizzito con una mano, a segnalare tutto il suo profondo disprezzo.- Forse hai ragione…ma non dimenticare che i Pendragon hanno contribuito in maniera decisiva alla disfatta dei Grimm, e Artù e Merlino sono in possesso di qualcosa di fondamentale per la riuscita del nostro piano. Se provassimo a sottrargliela, allora farebbero tutto ciò che è in loro potere per riaverla.
- Sì, questo è vero. Ma non è detto…- la sovrana sorrise.- Merlino è un mago potente, ma ormai è vecchio, non ha più molte forze. Quanto ad Artù…Sì, forse potrebbe darci delle noie, ma…non è detto.
- Cosa vuoi dire, Grimilde?
- Prova a pensarci: che succederebbe se, improvvisamente, Artù si ammalasse? O morisse?- una luce di furbizia brillò negli occhi verdi della donna.- Ginevra è la figlia di un mugnaio, e la principessa ha appena sedici anni. Nessuna delle due sarebbe in grado di governare Camelot, né tantomeno di combattere una guerra.
- E cosa proporresti di fare, per eliminarlo? Hai già provveduto a inviare qualcuno?
- Non ne ho avuto bisogno. C’è già qualcuno, a Camelot, che ha il nostro stesso obiettivo…
La Regina le rivolse un’occhiata eloquente, che Malefica comprese immediatamente. Le due donne si scambiarono un sorriso d’intesa, ma subito la strega tornò seria.
- E che mi dici della ragazzina?- incalzò.- Hai in mente qualcosa anche per lei?
- Farà molta meno strada di quanto non ne abbia fatta la sorella maggiore, puoi esserne certa - dichiarò la Regina Cattiva.- Il Cacciatore è libero, ma molto meno di quanto pensi. E’ ancora in mio potere, e alla prossima luna piena se ne accorgerà. E poi, si sta dirigendo alla volta di Salem, che non è il miglior posto dove nascondersi. Senza contare…- fece una smorfia.- Senza contare che, da quel che ho udito, anche Tremotino le sta alle calcagna.
- Tremotino?!- sbottò Malefica, incredula.- E tu vorresti mettere la nostra sorte in mano a Tremotino? Sai bene che se c’è qualcuno da temere, ora, quello è lui! E’ stato allievo di Merlino, è il mago oscuro più potente di questo mondo…
- …e nutre un profondo odio nei confronti delle forze del bene - concluse la Regina.- Non ho detto che voglio affidare la nostra sorte a lui. Ma potrebbe comunque fare il lavoro sporco al posto nostro e liberarsi della ragazza per noi.
- E non ti sei chiesta perché lo faccia?- ringhiò Malefica.- Ha già trovato una delle chiavi, ancora non sappiamo come strappargliela e vuole uccidere la Salvatrice! E’ evidente che voglia che i Grimm ritornino, eppure non ha voluto schierarsi dalla nostra parte.
- Ha sempre preferito lavorare da solo.
- Oppure ha qualcos’altro in mente!- ribatté la bionda.- Conosci Tremotino. Non fa mai niente per niente. E dobbiamo trovare il modo di strappargli la chiave!
- A questo penseremo…- disse la Regina Cattiva, al limite della sopportazione. Si alzò in piedi, andando incontro a Malefica.- Per ora, concentriamoci sui nostri obiettivi primari. Dobbiamo concentrare il nostro potere, impiegare tutta la magia oscura di cui disponiamo. Il momento è vicino, Malefica: presto i Grimm torneranno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Come molti di voi avevano intuito, il nuovo villain è Malefica. Non sono particolarmente soddisfatta di come l’ho resa, m’è venuta fuori un po’ moscetta, ma cercherò di fare meglio nei capitoli a venire. Mi farebbe molto piacere sapere che ne pensate riguardo a questo capitolo (che avrebbe dovuto essere pubblicato l’altra sera ma un virus mi ha fregato temporaneamente il computer, misera me!), dato che non mi ritengo molto brillante nel descrivere le scene di azione o combattimento. Dunque, come precisato, questo capitolo segna una sorta di frattura fra due parti: Anya da qui in avanti sarà relativamente tranquilla (anche se qualche momento di tensione non mancherà), mentre sarà sua sorella a farsi travolgere da ciò che sta succedendo nel mondo delle favole. Il prossimo capitolo s’intitolerà Red Hair Under the Sea e vedrà Gaston (il quale, con ciò che combinerà, inizierà ufficialmente la sua escalation verso il lato oscuro della forza :P *la scena si sposta sul Maestro Yoda che finisce a gambe per aria privo di sensi*, più Hadleigh e Jones sulla nave di Capitan Uncino, e l’entrata in scena di un altro nuovo personaggio e di Ariel. Il prossimo ancora vedrà invece Camelot con la famiglia Pendragon, mentre dal terzo in poi si passerà ad Elizabeth (anche se qualche intermezzo di lei ce lo avremo) e ad Anya e PM all’accampamento dei ribelli, e poi il quarto finalmente l’arrivo a Salem! XD.
Nel prossimo pubblicherò le immagini di Malefica, Ariel e del nuovo personaggio, mentre dal prossimo ancora avremo quelle di Artù, Merlino, Ginevra, Odette e Lancillotto…e dei nuovi personaggi, di cui uno, si è visto, sta dalla parte della Evil Queen e compagnia ;).
Ringrazio CheshireMad, Princess Vanilla, cleme_b, SognatriceAOcchiAperti, Mandie, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito e tutti voi che continuate a seguire questa storia :).
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 23
*** Red Hair Under the Sea, part I ***


Angolo Autrice: Vi devo avvisare prima che leggiate questo capitolo. Ci sarà l’introduzione di un nuovo personaggio il cui non lieto fine è parecchio…squallido. Me ne sono resa conto anche io mentre scrivevo, ma non ho voluto cambiarlo. Questo giusto per avvisarvi, anche se non credo ne rimarrete molto sconvolti: voglio dire, qui siamo tutti adulti e vaccinati e avrete capito già da tempo ormai che questa non è la classica favoletta per bambini. Se posso rassicurare, si risolverà per il meglio anche per il nuovo personaggio qui presentato. Giusto per essere chiari.
Altra cosa: ho dovuto ancora dividere il capitolo in due parti per via della lunghezza a mio parere eccessiva. Quindi, gli eventi che ho promesso nelle note della volta scorsa saranno posticipati di un capitolo.
E’ tutto. Buona lettura!
 
 
Red Hair Under the Sea, part I
 
Stava per morire.
La Fata Turchina questo lo sapeva già da tempo ma, ora che il momento della sua fine era quasi giunto, nonostante la paura aveva comunque trovato la forza di attendere e accogliere la morte con calma e dignità. Aveva trascorso le sue ultime ore nella propria capanna nel bosco, rassettando la casa per trascorrere il più velocemente possibile i minuti che la separavano dalla sua dipartita, mentre avvertiva l’aura vitale del suo assassino farsi sempre più vicina. Aveva rimesso tutti i propri averi in ordine, e si era assicurata che non restasse nella capanna altra traccia di magia se non quella insita nella propria persona: nei giorni precedenti si era premurata di consegnare tutta la polvere di fata che le era rimasta a coloro che avevano preso le redini della Ribellione dopo la scomparsa del Principe Filippo – anche se la parola scomparsa in questo caso era oltremodo appropriata, dal momento che la Fata Turchina sapeva benissimo dove fosse, e fosse anche l’unica a essere a conoscenza dei motivi della sua sparizione; ma il capo dei ribelli le aveva fatto promettere di non rivelare a nessuno il perché del suo viaggio in un momento tanto delicato per il Regno delle Favole, e lei non avrebbe mancato a un giuramento come una creatura oscura avrebbe fatto, nonostante temesse che, se la lontananza del principe si fosse protratta troppo a lungo, la Ribellione e tutti i suoi membri avrebbero potuto risentirne ancora di più di quanto non ne stessero risentendo ora.
Era un cruccio di cui non riusciva a liberarsi, ma non era neppure l’unico che aveva in quel momento, e le sue preoccupazioni per la salvezza di quel mondo e dei suoi abitanti erano così profonde e così gravi che poco le importava del fatto che la vita stesse per esserle sottratta.
La Fata Turchina adesso sedeva calma e composta su una seggiola accanto a un tavolo di grezza fattura nella propria capanna. Teneva gli occhi chiusi, cercando di mantenere quanto possibile la tranquillità per evitare che, quando la lama avesse trafitto il suo cuore, la magia che racchiudeva in sé non si sprigionasse nell’aria con troppa violenza. Sarebbe stato un guaio se loro si fossero impossessati anche solo di un granello del suo essere anche se, ne era consapevole, dopo la sua morte non sarebbe trascorso molto tempo prima che ogni traccia della sua magia svanisse insieme alla sua vita.
Questo era ciò che la preoccupava maggiormente: quando la Regina Cattiva aveva preso il potere, dodici anni prima, lei aveva subito compreso la malvagità che le albergava nel cuore, sebbene questa fosse tutt’altro che naturale e certamente instillata da qualcuno attraverso la magia oscura. In ogni caso, ciò che la sovrana stava cercando di fare e tutte le malefatte e gli atti sanguinari che aveva compiuto durante il suo regno erano abbastanza da indurla a schierarsi in prima linea affinché i creatori non fossero riportati in vita. La Regina Cattiva non si rendeva neppure conto di cosa avrebbe comportato il suo gesto; o forse sì, ma non le importava nulla di ciò che il ritorno dei fratelli Grimm avrebbe portato in quel mondo e negli altri confinanti, e avrebbe sfruttato il nuovo stato delle cose a proprio vantaggio.
Proprio, e di tutti coloro che avevano deciso di schierarsi dalla sua parte, che non erano affatto un numero esiguo. Sempre che, una volta riportati indietro, Jacob e Wilhelm avrebbero avuto clemenza degli alleati della Regina…
Era per questo che, quando il Principe Filippo aveva fondato un drappello di rivoltosi che poi si era esteso in modo tanto rapido da spaventare la stessa sovrana, la Fata Turchina non aveva esitato un attimo a schierarsi dalla sua parte, non appena egli glielo aveva domandato. Era una fata e come tale avrebbe dovuto aborrire guerre e battaglie; lei aveva sempre creduto che non esistesse alcuna buona ragione per spargere del sangue, colpevole o innocente che fosse, ma sapeva che il Principe Filippo aveva delle ottime motivazioni per dare avvio a una rivolta – era stato uno dei primi a essere colpito dalla magia oscura, sebbene inizialmente le intenzioni di Malefica fossero ben diverse da quelle della Regina Cattiva, e con lui ne avevano fatto le spese anche la principessa Rosaspina e il suo reame, nonché la bimba che avevano concepito insieme –, così come sapeva che, se Jacob e Wilhelm Grimm fossero veramente risorti, allora quella terra si sarebbe inevitabilmente trasformata in un eterno campo di battaglia. Ogni cosa sarebbe tornata indietro di secoli, il Regno delle Favole avrebbe vissuto una nuova epoca buia, e forse neppure una nuova guerra sarebbe bastata per riportare la pace.
Così, lei aveva iniziato a dare il suo contributo ai ribelli. Non sempre era informata nei dettagli delle azioni da loro compiute, ne percepiva le mosse e i piani solo attraverso la sua magia – agguati, omicidi, tradimenti, esecuzioni, anche se tutto ciò manteneva un macabro equilibrio fra i due fronti, quello della Ribellione e quello della Regina Cattiva –, ma donava loro la sua polvere di fata, e custodiva ogni traccia, ogni indizio che potesse ricondurre al completamento di quella profezia, sebbene essa fosse rimasta monca e muta per secoli, fino a che quelle due sorelle non erano giunte in quel mondo. La Fata Turchina aveva percepito la loro aura non appena avevano varcato la soglia che divideva il Regno delle Favole dal loro mondo, e non aveva potuto fare altro se non svolgere il suo compito e informarle di quanto sapeva. Le due ragazze si erano mostrate scettiche – la maggiore, soprattutto, non le era parsa molto propensa a darle ascolto –, ma lei sapeva che, volenti o nolenti, sarebbe toccato a loro risolvere la situazione. D’altronde, quando la profezia parlava della progenie di un traditore, non scherzava affatto. Richard Hadleigh l’aveva combinata grossa, dodici anni prima; aveva infranto una delle regole secolari che controllavano i rapporti fra due mondi e, sebbene avesse tradito il segreto senza l’intenzione di causare alcun danno a chicchessia, quello che aveva fatto era imperdonabile.
L’intera faccenda non aveva tardato a venire allo scoperto, e la notizia si era diffusa nell’intero Regno delle Favole con la stessa velocità del vento Zefiro…ed era stato dal giorno in cui Richard Hadleigh aveva svelato la verità sul Regno delle Favole alla moglie, che erano iniziati i guai.
Questo tutti lo sapevano e nessuno pareva intenzionato a dimenticarlo. La matrigna di Biancaneve era stata avvelenata alcuni mesi dopo, e la Regina Cattiva era salita al trono. La vicenda che vedeva coinvolto il non ancora capitano Hadleigh aveva fatto scalpore, e da allora tutti gli abitanti di quel mondo avevano veduto smorzarsi la fiducia che riponevano negli uomini del Dipartimento Favole. La Fata Turchina non poteva dire che avessero torto, anzi, lei stessa si era alquanto sorpresa che Richard Hadleigh non fosse stato punito per ciò che aveva fatto…ma, in fondo, chiunque sapeva che brav’uomo fosse il capitano Fraser e come fosse sempre stato incline a perdonare ogni cosa ai suoi sottoposti.
La Fata Turchina sospirò, ripensando all’ex capitano del Dipartimento Favole di New York. George Fraser era una brava persona e un bravo poliziotto, che per quella missione aveva dato la vita…letteralmente. E, con la sua scomparsa, era nato un nuovo mostro, ben più temibile della Regina Cattiva, anche se non quanto i fratelli Grimm.
Il fatto che a Fraser fosse succeduto il traditore era stato come uno schiaffo a tutti loro, ma era stato inevitabile: il capitano aveva lasciato scritto che il suo posto sarebbe dovuto passare ad Hadleigh, e così era stato. Questo, tuttavia, non aveva fatto altro che aumentare la diffidenza nei confronti del Dipartimento…tant’è vero che questo era stato informato solo cinque anni prima di quanto stava accadendo. E comunque, non era stato da New York che erano giunti i rinforzi: il procuratore Crawford era sempre stato abbastanza restio a dare ascolto a tutto ciò che veniva etichettato come emergenza, in quel mondo, sin dai tempi di Fraser. Gli agenti che erano corsi in loro aiuto provenivano da Los Angeles. Anche se le cose non sarebbero potute andare peggio; come se non avessero perso già abbastanza vite…
La Fata Turchina riaprì gli occhi, avvertendo l’aura del suo assassino farsi sempre più vicina. Ormai era quasi giunto il momento, era quasi in prossimità della capanna. Presto l’avrebbe trovata. Ma non aveva paura di morire; piuttosto, temeva ciò che la sua morte avrebbe potuto rappresentare per la Ribellione.
Avevano già perduto così tanto. Troppi erano caduti, in quei dodici anni, in un modo o nell’altro.
Biancaneve, violentata da un uomo che amava e condotta alla follia dal dolore.
Mammolo, ucciso dall’amica divenuta pazza.
La principessa Rosaspina, e la figlia che aveva avuto dal Principe Filippo – sparita nel nulla quand’era in fasce.
Lady Marian, uccisa dalla Regina Cattiva.
Vincent, che aveva voltato le spalle al Bene per seguire la via della malvagità.
Il Cacciatore, divenuto un uomo lupo, un mostro.
Cappuccetto Rosso e sua nonna.
Quel povero poliziotto che era rimasto ferito e che non avrebbe più potuto…E tantissimi altri…Lei sarebbe stata solo un’altra vittima, nulla più. L’idea di sciogliersi in inchiostro non la spaventava, così come non la spaventava la consapevolezza che la sua anima avrebbe presto raggiunto quelle di Cappuccetto Rosso e della nonna nelle tenebre. Ciò che la impauriva veramente era che, senza la magia e la polvere di fata, la Ribellione sarebbe stata ancora più svantaggiata.
Ma non poteva fare nulla. La sua vita stava per finire, e non poteva fare altro che accettarlo.
E sperare che, per lei come per tutte le altre vittime, ci fosse ancora una salvezza: che una di quelle due ragazze fosse veramente la Salvatrice a lungo attesa, e che la profezia si avverasse.
Fu la sua ultima speranza, quando avvertì che il suo assassino era ora là fuori, a pochi metri dalla capanna.
 
***
 
Gaston non sapeva quanto avevano camminato. Sapeva solo che, se non lo avessero ammazzato la fatica o lo stesso Navarre come aveva promesso di fare, allora ci avrebbe pensato la paura.
Il capitano e i suoi lo spintonarono fino a fargli raggiungere la sommità di una collina. Uno di loro gli aveva sussurrato ghignando, pochi minuti prima, la fantomatica prova che avrebbe deciso della sua vita era proprio oltre quella collina, e ora lui poteva vederla.
Ma non riusciva a pensare. Non aveva neppure idea di come avesse fatto a capitare in quel posto e di che razza di luogo fosse, quello. In ogni momento, non aveva riflettuto su nulla, aveva solo pensato a salvarsi la pelle e aveva agito con questo fine.
E anche adesso, senza opporre resistenza, si stava lasciando trascinare verso una piccola capanna che si ergeva solitaria nel folto del bosco.
 
***
 
C’era una donna, a bordo della Jolly Roger.
Questo Hadleigh ci aveva impiegato ben tre giorni di schiavitù – sì, perché a bordo di quella fottuta nave pirata lui e il suo collega non erano altro che schiavi! – prima di capirlo. A dirla tutta, all’inizio non aveva voluto, un po’ per noncuranza e un po’ per altre preoccupazioni, prestare attenzione ad alcune cose che rivelavano la presenza di qualcun altro a bordo, oltre a lui e a Jones e a quella ciurma di pirati poco più che adolescenti.
Sulla Jolly Roger c’era una donna. Una donna che viveva praticamente segregata da qualche parte all’interno della nave, probabilmente nella stiva o in una cabina isolata. E che – adesso ne aveva la certezza assoluta – veniva impiegata da quei pirati per fini così abietti che si rifiutava anche solo di pensarli.
Quel pomeriggio il cielo era nuvoloso, il mare leggermente agitato e tirava un vento abbastanza freddo, oltre che dannatamente forte. Hadleigh fece una smorfia nel sentirsi i capelli scompigliati, quindi afferrò più saldamente uno dei due spazzoloni che Spugna aveva consegnato a lui e a Jones quella mattina come tutte le altre, e prese a lavare il ponte con la solita furia.
Di fronte a lui, il suo collega stava compiendo la stessa attività, ma con meno foga e più rassegnazione, e continuava a scoccargli occhiate preoccupate. Il capitano si costrinse a ignorarlo, anche se in quel momento avrebbe voluto solo spaccargli la faccia. Una parte di lui si ripeteva che quello che stava succedendo non era colpa di Nathan – anzi, era stato anche più sveglio di lui: spaccarsi la schiena a lavare il ponte di una nave piratesca non era il massimo, ma molto probabilmente se non avesse avuto quell’idea loro due sarebbero già stati gettati in pasto al coccodrillo, come li minacciava spesso Capitan Uncino –, ma l’altra invece gli suggeriva di scaricare tutto il suo malumore su Jones.
Era colpa sua, se invece di cercare Anya ed Elizabeth, lavoravano gratis sulla Jolly Roger per salvarsi la pelle ed erano prigionieri di un gruppo di pirati, mentre le sue figlie si trovavano chissà dove, c’era un assassino a piede libero e Crawford faceva il bello e il cattivo tempo al Dipartimento Favole, facendoli passare tutt’e due per dei criminali. L’unica cosa che riusciva a tranquillizzarlo almeno un po’ era la dichiarazione di Capitan Uncino secondo la quale in breve avrebbero attraccato, sebbene non avesse specificato dove – non a loro, perlomeno. In ogni caso, rimanere su quella nave non lo avrebbe aiutato a trovare Anya e Liz, e avrebbe dovuto ingegnarsi per trovare un modo per allontanarsi da Uncino e dalla sua ciurma di ragazzini, e andarsene.
Per ora, comunque, non poteva fare altro che sperare che la Jolly Roger attraccasse presto e stringere i denti combattendo a suon di malumore e rispostacce ogni giorno che passava.
Lui e Jones erano praticamente dei servi, o dei mozzi: ogni maledetta mattina venivano svegliati con calci e spintoni e tirati su di peso da quel giaciglio di stracci su cui dormivano, nella camerata con gli altri pirati, quindi Spugna – il più vecchio su quella nave insieme a loro due ma, inaspettatamente, uno dei pochi che non ringhiava loro contro come facevano invece il capitano e gli altri pirati – gli dava in mano straccio e scopa, e da lì iniziava il loro lavoro. Uncino aveva ordinato di dar loro da mangiare solo ed esclusivamente se, a fine giornata, avesse trovato tutto di suo gradimento, quindi conveniva loro sgobbare se non volevano morire di fame o essere gettati in mare.
Era un lavoro denigrante, dato che quei pirati sembravano sguazzarci nella sporcizia e godevano immensamente nel vederli pulire il loro schifo. L’unico posto che era sempre abbastanza in ordine era la cabina del capitano, ma il resto era completamente incrostato di sale, sporco e unto, e l’atmosfera era sempre intrisa di un puzzo nauseabondo. Capitan Uncino si divertiva a insultarli e a minacciarli, e tutti gli altri non erano da meno, fatta eccezione per Spugna. Quando le sue figlie erano ancora piccole e guardavano insieme Peter Pan della Disney, Hadleigh aveva sempre tacitamente considerato Spugna come un povero inetto, ma ora quello a sentirsi solo un povero inetto era lui.
Insieme alla preoccupazione per le due ragazze e al malumore per quella situazione, sulle spalle gli pesavano anche i vent’anni trascorsi all’interno del Dipartimento Favole: avrebbe dovuto essere esperto, si ripeteva, eppure non era in grado di contrastare neppure una ciurma di pirati che avevano sì e no l’età di Anya e Liz.
Tutto questo non faceva altro che aumentare il malumore, e più il malumore cresceva, più lui diventava arrabbiato e preoccupato. Era un circolo vizioso.
- Il cielo si è rannuvolato - osservò Jones a un certo punto. Hadleigh fece finta di non averlo sentito, e continuò a strofinare il ponte con furia, tenendo lo sguardo fisso a terra.
Il suo collega non demorse.
- C’è anche parecchio vento, e il mare è mosso - continuò.- Pensi che pioverà?
- Sai quanto cazzo me ne frega della pioggia!- gridò Hadleigh, scaraventando a terra lo spazzolone.
- Ehi, vedi di darti una calmata!- lo rimbrottò Jones.- Se piove, il mare sarà ancora più agitato. Rischiamo una tempesta, lo vuoi capire? Se la nave cola a picco, andiamo giù anche noi! E’ questo che sto cercando di farti capire…
- E perché invece non cerchi di capire quando accidenti scenderemo da questa fottuta nave?!- ringhiò il capitano, senza accorgersi che gli sguardi di tutti si erano puntati su di loro, specialmente quello truce e infastidito di Uncino. Il capitano era accanto al timone, troppo in alto perché potesse udirli; ma li vedeva ancora meglio da quella posizione, e aveva notato che stavano litigando, invece di lavorare.
- Non lo so quando scenderemo! Ma cosa credi, che a me piaccia stare qui? Anche io non ne posso più, ma…
- …ma tanto non hai due persone che ami disperse chissà dove, vero? La mammina sta bene!
Hadleigh sputò fuori quelle parole prima di potersi trattenere, ma non se ne pentì. Era arrabbiato, l’idea di ferire qualcuno non lo spaventava minimamente. Jones mollò a sua volta lo spazzolone, e il capitano se lo ritrovò a pochi centimetri da volto ancora prima di potersene rendere conto. L’agente lo afferrò furiosamente per il bavero della camicia, strattonandolo.
- Non ti azzardare, sai!- urlò Nathan.- Non osare parlare di cose che non conosci, stronzo! Io sono nella merda per colpa tua e di quelle due ragazze, eppure sono qui che mi spacco la schiena per darti una mano, e tu sei solo capace di sputare giudizi senza sapere come stanno davvero le cose! Mi sono fatto sparare addosso per colpa tua, sono diventato un ricercato, mi sono fatto rapire dai pirati, ho salvato la pelle a tutt’e due e tu ancora mi insulti perché…
- Se crepo io crepi anche tu, lo sai questo?! Hai salvato la pelle a me solo perché c’eri anche tu in mezzo, e non è colpa mia se Crawford è un venduto!
- Ma è colpa tua se le tue figlie ora sono in chissà quale casino, ed è stata colpa tua dodici anni fa!
- Dodici anni fa non c’entra un cazzo!
- Ah, no? No, certo, tu hai sempre scaricato la colpa su quella povera pazza isterica di Christine, facevi tanto il disperato che sopportava a denti stretti una malata mentale per amore di due bambine piccole, ma ti sei mai chiesto come mai per poco non ha…
Hadleigh si divincolò quel tanto che bastava per afferrare una spalla del suo collega e dargli uno spintone; si sentiva il sangue alla testa, ed era sicuro che gli avrebbe gonfiato la faccia se quasi mezza ciurma non si fosse accalcata attorno a loro non appena era stato chiaro che stavano per mettersi le mani addosso. A dire il vero, la maggior parte era accorsa nella speranza di vederli accapigliarsi, ma Spugna si gettò in mezzo a loro, dividendoli a forza.
- Fatela finita!- biasciò, spintonandoli in modo da allontanarli l’uno dall’altro.
- Basta!- tuonò Capitan Uncino, lasciando il suo posto accanto al timoniere e scendendo le scale fino a raggiungere il ponte della nave. - Smettetela subito e tornate al lavoro!- si avvicinò a grandi passi ad Hadleigh, sollevando l’uncino fino al suo volto.- Se capita un’altra volta una scena simile voi due finite dritti sulla passerella in pasto al coccodrillo, sono stato chiaro?!- gridò.- Muovetevi, al lavoro, e per due giorni potete anche scordarvi di…
La minaccia venne interrotta bruscamente dal rumore di una porta che sbatteva. Uncino si voltò imitato istintivamente da Hadleigh, e presto anche Jones, Spugna e altri componenti della ciurma. La porta che si era appena spalancata era quella che, scendendo alcuni gradini, conduceva all’interno della Jolly Roger, alla stiva, alla cabina dei comandi, agli alloggi del capitano e degli altri pirati. Da essa uscì incespicando un ragazzetto che doveva avere circa diciassette o diciotto anni, trafelato e visibilmente innervosito, che si reggeva i pantaloni con una mano e aveva la camicia sbottonata sul petto.
- Schifosa puttana!- ringhiò, sputando a terra. I capelli lunghi e scompigliati gli coprivano parte del volto ma, quando rialzò il capo, Hadleigh e Jones poterono vedere che su una guancia aveva tre graffi sanguinanti. Alcuni componenti della ciurma strabuzzarono gli occhi, e dopo qualche istante iniziarono a levarsi in aria senza essere nascoste in alcun modo.
Uncino sospirò con fare esasperato, quindi squadrò il pirata da capo a piedi.
- Che diavolo ti è successo?- ringhiò.
Il ragazzo non rispose, ma sputò nuovamente per terra, pulendosi malamente il sangue dalla guancia.
- Allora?- incalzò Capitan Uncino.- Che cosa è successo?
- E’ stata quella sgualdrina!- sbottò il pirata.- Ha detto che stava male, che oggi non c’era per nessuno! Io le ho risposto di smetterla di dire stronzate, che lei era qui quando e come volevamo noi, ma quella troia si è girata e mi ha fatto questo!- indicò i tre graffi sulla faccia.
Hadleigh arretrò di un passo, improvvisamente certo che le sue supposizioni fossero esatte. Già da un giorno o due aveva iniziato a sospettare che ci fosse una donna a bordo, e ora ne aveva la certezza. Non era molto difficile da comprendere, ma la preoccupazione per Anya e Liz glielo avevano impedito: poi, però, aveva iniziato a mettere insieme dei piccoli tasselli di un puzzle che andava via via formandosi.
Quella era una ciurma di adolescenti, e non c’era da stupirsi se di tanto in tanto avessero bisogno di essere…soddisfatti. Spesso lui e Jones vedevano uno di loro entrare come una furia all’interno della nave e uscirne mezz’ora dopo con un’espressione ben più rasserenata, e di tanto in tanto avevano colto dei bisbigli riferiti a una certa quella là. In più, oltre alla cabina del capitano, ce n’era un’altra privata, in cui nessuno si azzardava mai a entrare, nemmeno loro quando dovevano pulire, e che restava sempre chiusa.
Ora, di fronte a quella scena, Hadleigh aveva una certezza assoluta: su quella nave c’era una donna.
- La gattina ha tirato fuori gli artigli, eh?- biascicò qualcuno, e subito il pirata iniziò a venire deriso con sguaiata ilarità. Capitan Uncino sembrò andare su tutte le furie, e fulminò alcuni uomini con uno sguardo si fuoco.
- Fate silenzio, cani!- urlò, fuori di sé. Immediatamente, tutti si zittirono, anche se alcuni non riuscirono a frenare alcune risatine. Uncino puntò lo sguardo infuriato sul pirata ferito. Timidamente, Spugna si schiarì la voce.
- Non è la prima volta che capita una cosa simile, capitano…- disse.- Quella sta iniziando a fare la ritrosa un po’ troppo spesso, e neanche le frustate sembrano funzionare più. Forse sarebbe il caso di sbarazzarci di lei e procurarci un’altra schiava a Tortuga…
- Sarebbe quello che si merita, ma dovranno passare mesi, prima di attraccare nuovamente a Tortuga, e questi ragazzi di tanto in tanto si meritano un premio - rispose Uncino, tranquillamente; un attimo dopo, tuttavia, la sua voce tornò dura.- Anche se dovrebbero essere trucidati, per non saper nemmeno gestire una puttana!- gridò. Inaspettatamente, si rivolse ad Hadleigh e Jones.- Voi!- si sfilò dalla cintura un pugnale, gettandolo a terra ai loro piedi.- Andate nella stiva, e vedete di convincere quella sgualdrina ad abbassare un po’ la cresta. Potete usare il pugnale, o qualcos’altro a vostro piacimento…- Uncino ghignò, imitato anche da altri.
- E se stesse veramente male?- azzardò Jones. In quei giorni si era limitato a ubbidire a Uncino senza fiatare, ma l’idea di scendere nella stiva e fare del male a una donna che con ogni probabilità era una prostituta non gli piaceva. La trovava una cosa squallida, costringere una donna a…Oh, cazzo. Ma…esistevano certe cose anche ? D’accordo, era una nave pirata quella, ma…restava pur sempre il Regno delle Favole, dopotutto.
C’era qualcosa che non andava…
- Quella non sta male, quella ha solo voglia di prendere delle nerbate!- ululò Capitan Uncino.- Muovetevi, forza!
Hadleigh sospirò, raccogliendo il coltello da terra e infilandolo in una tasca interna della giacca. Si faceva schifo anche solo per avere acconsentito a una cosa simile, ma se non altro ci aveva guadagnato un pugnale. Sperò davvero che Uncino se ne dimenticasse e potesse tenerlo; aveva ancora la pistola di Jones con sé, e la teneva nascosta sotto il cumulo di stracci che fungeva da giaciglio per la notte, ma un’arma in più avrebbe fatto comodo quando avessero dovuto andarsene da lì.
Lui e il suo collega si chiusero la porta alle spalle, con ancora le risatine dei pirati addosso. Hadleigh iniziò a scendere lentamente le scale che conducevano alla stiva; la tensione di poco prima si era un poco smorzata, ma non aveva ancora voglia di scambiare parola con Jones.
Fu lui invece a parlare per primo.
- Ehi, Rick…
Hadleigh si fermò a metà delle scale, ma non si voltò, né rispose. Jones si schiarì la voce.
- Sai, stavo pensando…
- Davvero? Notevole.
L’agente si costrinse a ingoiare il boccone amaro, ma non replicò.
- Stavo pensando…Ti sembra normale che ci sia una…una…
- E’ una nave pirata, Nathan. Non mi stupisce più di tanto.
- Siamo nel mondo delle favole, Rick. Hai mai sentito di una principessa che fa la vita?
- Fraser diceva sempre che ci sono cose che neppure noi sappiamo. Forse si riferiva a questo.
- E…e se fosse la ragazza che ho visto?
A quel punto, Hadleigh allargò le braccia con esasperazione, e si voltò a guardare Nathan negli occhi.
- Santo Dio, ancora con questa storia?!- sbottò.- Nate, io ti credo, ma…non potresti almeno provare a essere più chiaro? Hai detto di aver visto sbucare dal nulla dei capelli rossi, ma…
- L’ultima volta ho visto anche la faccia!- l’interruppe Jones.- Era una donna, mi ci gioco il posto.
- Quello te lo sei già giocato.
- Sai che intendo. Pensi che possa essere lei?
- Io penso…che l’aria di mare non ti faccia bene.
- E va bene, va bene! Me lo sto inventando, allora, ci ho dato dentro con il rum e ho avuto le allucinazioni!- sbottò Nathan, innervosito. Hadleigh sospirò di nuovo, e riprese a scendere le scale. Giunsero alla stiva, e subito il capitano si diresse verso una sorta di cabina improvvisata, una costruzione di legno tarlato e ricoperto di muffa. Esitò un poco quando si trovò vicino alla porta: la nave ondeggiava così tanto che lui e Jones faticavano a mantenere l’equilibrio.
A un’oscillazione un po’ più violenta, dall’interno della cabina provenne un singulto simile a un conato represso, quindi dei colpi di tosse. Hadleigh e Jones si scambiarono una rapida e incerta occhiata: nessuno dei due voleva aprire quella porta, ma la scelta era tra quello e finire in mare.
Il capitano bussò piano, e subito lo raggiunse un ringhio inviperito.
- Ancora tu?! Ho detto di andartene, sto male, hai capito?! Voi e il vostro maledetto oceano…
- Ehm…- Hadleigh ritrasse la mano, esitando un attimo.- Siamo…Ci ha inviati il capitano…
- Ditegli di mozzarsi anche l’altra mano, a quel maledetto! Ho detto che oggi io non lavoro, sto male, lo volete capire o no?
Il capitano rimase interdetto, e così anche il suo collega. Si scambiarono una rapida occhiata, perplessi; Hadleigh fece per parlare nuovamente, ma la porta di fronte a lui lo precedette, spalancandosi di botto.
Si ritrovarono di fronte una donna molto giovane, all’incirca ventuno o ventidue anni, con addosso una specie di vestaglia azzurra sporca e macchiata, mezza cascante. Era alta e abbastanza formosa, ma il colorito del suo volto era incredibilmente pallido e aveva gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, segno che stava veramente male. I capelli lunghi e lisci le ricadevano sulle spalle e sul dorso, e alcuni ciuffi le coprivano la faccia; nonostante questo, i due poliziotti poterono vedere che presentava dei tratti marcatamente orientali, fra cui spiccavano due occhi scuri dal taglio allungato.
- Levatevi dai piedi, tutti e due!- sputò fuori, guardandoli con rabbia mista a disprezzo e malcelato disgusto.- Avete sentito?! Non me ne importa niente delle frustate, ne ho già prese tante non ho paura di rovinarmi la schiena! Andate via!
Jones arretrò di un passo, e Hadleigh si rese conto di stare boccheggiando. La nave ondeggiò ancora, e la donna si portò rapidamente una mano alla bocca, trattenendo un conato. Si aggrappò allo stipite della porta, accasciandosi contro il legno. Chiuse gli occhi, respirando a fondo.
Il capitano esitò un attimo, quindi provò ad allungare una mano verso di lei.
- Ti…ti senti male?- azzardò.- Possiamo fare qualcosa per…
- E vattene!- strillò la donna, colpendogli il braccio con violenza per allontanarlo. Hadleigh emise un sibilo dolorante, prima di vedersi chiudere nuovamente la porta in faccia.
I due poliziotti rimasero in silenzio per diversi minuti, durante i quali sembrò che nessuno di loro osasse anche solo provare a muoversi. Jones si umettò le labbra con fare nervoso, mentre Hadleigh sentì di avere le mani sudate. Lentamente, si voltò in direzione del suo collega, scoccandogli un’occhiata che Nathan non tardò a comprendere: la scena a cui avevano assistito era stata…squallida. Non c’era altra parola per definirla. Patetica, triste, squallida.
Quella ragazza era una prostituta. Una prostituta su una nave pirata.
- Vi ha sistemati per le feste, eh?
La risata grassa di Spugna giunse con così poco preavviso da farli sobbalzare. L’uomo se ne stava a diversi metri da loro, fermo in piedi a metà delle scale, con le braccia incrociate al petto e un sorriso a metà fra il complice e il sornione.
Hadleigh si passò una mano sulla fronte e fra i capelli, affiancandosi al suo collega e guardando Spugna.
- Chi…chi è quella donna?- trovò la forza di chiedere. Sì, donna…, si corresse mentalmente un secondo dopo, con sarcasmo. Bambina, più che altro…
- Il suo nome è Hua Mulan, figlia di Hua Hu. Ma qui, la chiamiamo semplicemente Mulan, oppure la sgualdrinella - rise Spugna.
Jones strabuzzò gli occhi, sentendosi mancare.
- Mulan?!- fece eco, sconvolto, prima di potersi trattenere.- Che ci fa Mulan, qui?
- Perché? La conosci, forse?- Spugna piegò il capo di lato, squadrandolo.
- Ne ho…ne ho sentito parlare…- buttò lì Nathan, nel tentativo di mettere una toppa.
- Beh, non mi stupisce. Prima che il capitano la comprasse al mercato delle schiave, a Tortuga, la sua storia aveva fatto scandalo fra gli schifosi benpensanti.
- Che le è successo? Com’è finita qui?- incalzò Hadleigh.
- La ragazzina aveva manie di grandezza. Era figlia di un generale, sai, un uomo di valore, abile combattente e tutte quelle sciocchezze…Un bel giorno scoppiò una guerra, e quel grand’uomo dell’imperatore pensò bene di richiamarlo sul campo, anche se ormai era solo un vecchio storpio. Aveva due figli: la puttanella che hai appena visto e un lattante di pochi mesi. Lei non voleva che il paparino andasse in guerra perché sapeva per certo che sarebbe divenuto carne da macello, così una bella sera si è tagliata i capelli, ha indossato l’armatura, e ha ottenuto il consenso del padre per partecipare alla battaglia al suo posto con il nome del fratello. Ed era anche brava, sissignore!, tanto che a un certo punto l’hanno pure nominata generale, sempre credendo che lei fosse un uomo, badate bene. E’ riuscita a fregare tutti per un po’ di anni, fino a che un suo superiore non s’è messo in testa di darle in sposa sua figlia: lei ovviamente non poteva e non voleva, e inventava bugie su bugie per non acconsentire al matrimonio. Così, un giorno quello ha perso la pazienza e ha fatto irruzione in casa sua dove ha scoperto che il grande generale non era altro che una ragazzina che per anni li aveva presi tutti per i fondelli. Così l’ha fatta arrestare, condannare per tradimento e l’ha venduta al mercato delle schiave dove il capitano l’ha trovata e portata qui…
- Fate schifo…!- si lasciò sfuggire Jones, con rabbia, ma non abbastanza forte perché Spugna potesse udirlo. Hadleigh si sentì mancare la terra da sotto i piedi, tanto che per un attimo temette di stare per perdere l’equilibrio e finire in ginocchio sul pavimento. Spugna fece loro un gesto seccato, incitandoli a muoversi.
- Su, avanti! Ci avete provato e non è servito a nulla, ma non preoccupatevi: ci penserà il capitano a farla ragionare, lui sì che ci sa fare!- rise di nuovo.- Forza, ritornate sul ponte, adesso! Temo che ci sarà un bel po’ da fare…
Voltò loro le spalle, risalendo la scala verso la superficie. Richard mosse qualche passo, cercando di non barcollare, e soprattutto di pensare il meno possibile alla scena a cui aveva appena assistito. Provò l’impulso di tornare indietro e cercare di parlare ancora con Mulan, ma si disse che era meglio lasciar perdere, e si aggrappò al corrimano della scala per non cadere. Jones lo raggiunse rapidamente alle spalle.
- Rick, qui la situazione è più grave di quel che pensassimo - constatò.- Prima l’assassino di Cappuccetto Rosso e della nonna, ora questo…e le tue figlie sono scomparse. Non pensi che ci possa essere un collegamento fra…?
- Non lo so…- soffiò Hadleigh, salendo a fatica la scalinata. Non disse più nulla, ma in cuor suo sapeva che Nathan aveva ragione. C’era qualcosa che non andava, e di brutto.
Ritornarono sul ponte della nave. Il tempo era peggiorato: il cielo ora era scuro e interamente coperto da nuvole, il mare ancora più agitato, e qualche goccia di pioggia iniziò a cadere sui volti dei presenti.
L’attenzione di tutti era rivolta o al cielo o al mare, e nessuno si accorse della figura incappucciata avvolta in un mantello nero che se ne stava in disparte, seminascosta nell’ombra.
- Tempesta in arrivo - commentò Spugna.
Quasi a dargli ragione, un fulmine squarciò l’aria in lontananza, subito seguito dal rombo di un tuono.
- Tempesta, e si preannuncia anche parecchio violenta - disse Capitan Uncino.- Tenetevi pronti!- urlò, mentre la pioggia iniziava a cadere più forte, e le onde a scuotere la Jolly Roger in maniera sempre più pericolo.
Poco più in là, nella penombra, Tremotino sogghignò, nascondendo il volto sotto al cappuccio del mantello.
 
***
 
Una macchia rosso fuoco si allargò morbidamente appena al di sotto della superficie del mare, quindi una coda di pesce color verde smeraldo balzò fuori dall’acqua, sollevando spruzzi tutt’intorno. Infine, Ariel portò fuori dall’acqua la testa e le spalle, scostandosi dalla fronte la lunga chioma rossa. Nel fare ciò, indugiò deliberatamente con i palmi delle mani sul proprio volto, asciugandosi gli occhi dalle lacrime che si confondevano con le gocce d’acqua del mare e della pioggia. Se non fosse stato per gli zigomi gonfi e arrossati, nessuno avrebbe potuto dire che aveva pianto, ma anche se era sola Ariel non voleva che le tracce della litigata con suo padre rimanessero ancora sul suo viso.
Nonostante le sue precauzioni, re Nettuno l’aveva scoperta. Non aveva idea di come avesse fatto – anche se Ariel aveva il forte sospetto che ci fosse lo zampino di Aquata o Adella, o magari poteva anche essere stata Attina a fare la spia, lei e la sua lingua lunga! –, ma fatto stava che era venuto a conoscenza delle sue scampagnate in superficie. Suo padre odiava il mondo di sopra, come tutti ad Atlantide chiamavano la terra degli umani; no, più che odiarlo, lo temeva, di un timore paralizzante e ottuso: sin da quando erano piccolissime, aveva sempre proibito a lei e alle sue sorelle di salire in superficie, di avvicinarsi a un umano. Diceva che era per il loro bene, che gli uomini facevano cose indicibili a quelli come loro e al suo popolo dell’oceano, ma Ariel era convinta che fossero solo sciocchezze. Inevitabilmente, il pensiero le corse all’uomo con un uncino al posto della mano: un giovane così bello e così importante come un capitano poteva davvero essere così crudele come diceva suo padre? No, si rifiutava di crederlo.
E meno male che se n’era stata zitta e non aveva parlato a Nettuno di lui e della sua ciurma! Per il resto, era scappata da casa e aveva tutta l’intenzione di non tornarci fino a che il sole non fosse calato.
Ariel si guardò intorno, aprendosi in un largo sorriso di contentezza quando scorse a pochi metri da lei la nave con quello strano nome. Ma il sorriso le si smorzò immediatamente non appena si accorse che questa oscillava, spinta dalla furia della tempesta che stava sopraggiungendo.
Una tempesta che non aveva nulla di naturale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ecco qui. La parte interessate di questo capitolo verrà dopo, dato che la tempesta (scatenata da Tremotino?) porterà un cambiamento radicale a bordo della Jolly Roger. Mi aspetto fischi e insulti riguardo a Mulan, ma ehi!, non disperate, anche per lei le cose inizieranno a girare per il verso giusto…prima o poi. A proposito di lei: la sua storia non è basata sul classico Disney, bensì sulla vera e propria storia da cui esso è tratto. E’ uguale in tutto e per tutto, cambia solo il finale: il generale entra davvero in casa di Mulan e scopre che è una donna, ma invece di farla arrestare prova ancora più ammirazione per lei. Il suo non-happy ending l’ho deciso io, distorcendo i fatti il meno possibile.
Avevo promesso delle immagini, ed ecco qui quelle di Malefica, Ariel e Mulan.
 
Carabosse/Malefica (Charlize Theron)
http://1.bp.blogspot.com/-SE1NvC2H7Lk/T_4LxsP5sYI/AAAAAAAAAWU/oRB6lwxNGS0/s640/Snow-White-and-the-Huntsman_610.jpg
 
Ariel (Kirsten Dunst)
http://www.atomicpopcorn.net/wp-content/uploads/2009/06/kirsten-dunst-spider-man-3-228x300.jpg
 
Mulan (Kelly Hu)
http://www.hotflick.net/flicks/2009_The_Tournament/009TTR_Kelly_Hu_005.jpg
 
Ora, due paroline. In una recensione Princess Vanilla mi ha chiesto da che parte sta Uncino, se da quella della Regina o no: allora, si capirà meglio in seguito, ma sostanzialmente Uncino non sta da nessuna parte. Personalmente non ha alcun interesse a riportare indietro i Grimm, il suo obiettivo è completamente diverso da quello di tutti gli altri, anche se le sue azioni lo condurranno alla vicenda principale. Vedrai ;).
In risposta invece a LadyAndromeda: sinceramente non so quanti capitoli saranno (come vedi non voglio fare cose troppo lunghe e quindi spezzetto), ma posso solo dire a tutti che, dal momento che voglio tentare di pubblicarla, finirò questa storia prima della fine ufficiale, regalandovi un “capitolo bomba” prima dei colpi finali (che poi non sono la vera conclusione: avevo già annunciato una seconda parte).
Bene, è tutto. Ancora, non linciatemi per la faccenda di Mulan, per favore!
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e chi ha recensito ;).
A presto (molto presto!) con la seconda parte!
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 24
*** Red Hair Under the Sea, part II ***


Red Hair Under the Sea, part II
 
La Fata Turchina sussultò appena quando Navarre e uno dei suoi sfondarono la porta d’ingresso con pochi ma decisi colpi, tuttavia rimase calma, senza neppure alzarsi in piedi. Voltò appena il capo, seguendo più l’aura che avvertiva che il proprio sguardo.
Dunque, è lui.
Il suo assassino non era altro che un ragazzo. La fata lo guardò: era alto, robusto, biondo, con un volto piacente, e l’espressione tanto istupidita che non le fu difficile comprendere che, ancora, lui non sapeva nulla di ciò che stava per accadere. Pareva piuttosto stralunato, quasi inconsapevole, come se tutto ciò che stava accadendo intorno a lui non fosse niente più di un sogno confuso.
Povero ragazzo.
Navarre lo afferrò per un lembo della casacca, trascinandolo dentro la capanna quasi come se  Gaston fosse stato un sacco vuoto e inerme. Lui cercò di opporre una debole resistenza, ma a nulla servì. Dietro di loro, si fecero strada cinque uomini, tutti soldati di Navarre. Soldati della Regina.
La Fata Turchina si domandò se quel ragazzo sapesse veramente a cosa stava andando incontro, fra le grinfie di chi era capitato. Concluse di no.
Con un sospiro, si alzò in piedi, voltandosi verso i soldati.
- Sta’ attento, ragazzo…- bisbigliò il capitano a Gaston.- Questa donna è molto più potente di quanto sembri…
- Ti ho sentito, Navarre - lo rimbeccò la Fata Turchina, tranquillamente.- Non c’è bisogno che sprechi il fiato in avvertimenti. Non farò nulla. La magia bianca ha delle regole ben precise.
- E quali sarebbero, queste regole?- il tono del capitano voleva essere beffeggiatorio, ma l’espressione si manteneva sospettosa, guardinga.- Vuoi forse darmi a bere che non ti permette di difenderti?
- In effetti, è così. Ma posso rispondere a un attacco solo contro un mio pari. Le arti bianche non consentono l’omicidio, o che un essere umano venga ferito da parte di esse…
- Una bella fregatura, eh?- stavolta, il volto sfigurato di Navarre si distese in un ghigno che gli deformò ancora di più la metà della faccia deturpata dalla cicatrice. Sapeva che le creature fatate avevano l’obbligo di non mentire.
La Fata Turchina rimase impassibile, e drizzò il capo, guardandolo negli occhi.
- Anche se potessi o volessi oppormi, non mi sarebbe possibile. Il Fato ha già scritto il mio destino. Così come ha già scritto quello di questo povero ragazzo…Gaston, vero?
Gaston boccheggiò, apparendo ancora più stralunato.
Come accidenti fa a sapere come mi chiamo?! Chi glielo ha detto?
Mosse istintivamente un passo indietro, senza riuscire a smettere di fissare quella donna che si manteneva tranquilla e posata, come se niente la potesse in alcun modo sfiorare. Improvvisamente, iniziò a intuire di cosa si trattasse la prova a cui Navarre aveva accennato di sottoporlo, e cominciò a sudare freddo.
Quasi a voler dargli una conferma, il capitano gli piantò in mano l’impugnatura di un lungo e affilato coltello, stringendogli le dita intorno al manico per rafforzarne la presa. Lo spinse malamente in avanti, con un grugnito.
- Forza!- lo incitò, sbrigativamente.- Ammazzala.
Gaston si ritrovò faccia a faccia con la Fata Turchina, con il proprio volto a pochi centimetri dal suo. Ancora, lei non sembrava essere toccata da ciò che stava per succedere, dalle frasi di Navarre, dal fatto che lui impugnasse…
…impugnasse un coltello.
Gaston sentì che la presa intorno al manico era diventata umida e scivolosa. Iniziò a respirare affannosamente, sentendo il sangue rombare nelle orecchie. Si voltò, cercando disperatamente con lo sguardo Navarre, trovandolo impaziente e anche innervosito.
- C-che?- balbettò.- Come? Come?
- Hai sentito quello che ti ho detto, femminuccia - il capitano sputò a terra.- Questa sgualdrina è una creatura magica, e sono pronto a scommettere quello che vuoi che è lei che fornisce la polvere di fata a quei bastardi dei rivoltosi. Va tolta di mezzo. La Regina ne sarà molto compiaciuta…
- Ma…ma perché devo farlo io?- sbottò. La scena aveva un che di ridicolo, si rese conto, ma in quel momento si sarebbe anche messo a strisciare ai piedi di Navarre pur di non dover essere lui ad uccidere quella poveretta. L’etica non lo sfiorò neppure un attimo: se quella donna doveva morire, va bene, ma che non tirassero in mezzo lui.
Non aveva mai ammazzato nessuno. Certo, quando Mike Cartwright era finito in galera per aver procurato un trauma cranico a Jake Turner gli era sembrato che quello fosse stato un gesto da vero uomo, ma…fra il pensare di uccidere qualcuno e il farlo veramente c’era di mezzo un oceano.
Non era sicuro di farcela…
-Perché?- il volto sfregiato di Navarre si contrasse in una smorfia rabbiosa.- Perché, mollusco? Te l’ho già spiegato: mors tua, vita mea. Hai dimostrato di essere un soldato scadente e una pallida imitazione di guerriero*…Non ho nessun motivo per tenerti ancora in vita, a meno che tu non riveli di avere almeno le palle per essere un assassino. A te la scelta, Gaston: se ammazzi lei, tu resti in vita. Se non lo fai, ci penserò io a fare fuori entrambi.
- No!- la supplica uscì dalla gola di Gaston come un singulto, e un attimo dopo il ragazzo iniziò a singhiozzare. Tremava da capo a piedi, era completamente sudato e si sentiva sul punto di dare di stomaco.
La Fata Turchina, per contro, si manteneva seria e calma, di una calma che trasudava insieme risolutezza e rassegnazione dignitosa.
- No! No, vi prego!- singhiozzò Gaston.- Non fatemi fare questo…! Vi prego, tutto ma questo no…!
Navarre digrignò i denti, stufo di tutta quella sceneggiata. Lo afferrò per il collo della tunica, scuotendolo violentemente e gettandolo in avanti, più vicino alla Fata Turchina. Gaston prese a emettere dei singulti e dei mugolii isterici, fra le lacrime.
- Codardo!- ringhiò il capitano.- Vigliacco! Vali meno dello sterco! Non sei neanche in grado di ammazzare una donna che neppure si difende…!
- Codardo?- fece eco la Fata Turchina, alzando gli occhi su Navarre.- Codardo, dici, Navarre? Rispondimi: chi è più codardo? Il codardo o chi lo costringe a commettere un delitto al posto suo?
- Zitta tu!- abbaiò l’altro.- Fra poco non avrai più occasione di parlare. Tu e la tua fottuta magia bianca, non può neppure salvarti la pelle!- ghignò.
- Forse non hai capito - la Fata Turchina si avvicinò a lui e a Gaston.- La magia e le sue regole c’entrano ben poco. E’ il Fato che ha deciso che io debba morire oggi, così come ha già scritto il futuro di questo ragazzo…- inaspettatamente, guardò Gaston. Questi smise per un istante di singhiozzare, e alzò lo sguardo su di lei.
La Fata Turchina non sorrise, non pianse, ma neppure lo fissò con rabbia o rancore. Pareva piuttosto indifferente, come se tutto ciò non la riguardasse affatto.
-Gaston - chiamò.- Gaston, ascoltami: il Fato tiene le redini di questo mondo, è vero, ma ciò non significa che non possa essere contrastato. Esso agisce in base alle nostre scelte alle nostre azioni. Per me non c’è più speranza, ora, ma tu puoi ancora salvarti. Vedi…- la Fata Turchina esitò un attimo, apparentemente in difficoltà, ma poi si decise a proseguire. - Chi uccide un essere magico è destinato a portare un marchio. Immagino che questo il capitano Navarre non te l’abbia detto. E’ il marchio dell’infamia, poiché nessun essere fatato può essere ucciso senza che la mano che gli ha tolto la vita resti impunita. La magia di chi è stato vittima si disperderà nel nulla, ma una piccola parte di essa, quella che reca il segno del crimine che è stato compiuto, resterà per sempre come marchio su colui che l’ha perpetrato. Gaston…Ora tu mi ucciderai, perché così ha voluto il Fato, ma quando il marchio ti verrà impresso nella carne e nell’anima, starà a te decidere se accoglierlo o meno. Bada bene, sarà un’impresa difficoltosa, ma…
- Ora basta!- tuonò Navarre.- Smettila di parlare a vanvera! Stai zitta!
- E’ questo il tuo obiettivo, non è vero?- la Fata Turchina si rivolse nuovamente a lui, imperiosa.- Hai intenzione di aiutare la Regina a portare a termine il suo piano, vero? Intendi fare di questo poveretto il Vendicatore di cui parla la leggenda?
- Ma di che state…- boccheggiò Gaston, ma la fata non gli diede il tempo di terminare, e si chinò verso di lui, improvvisamente concitata.
- Gaston, ti prego di ascoltarmi: esiste una leggenda, una leggenda che profetizza il ritorno dei fratelli Grimm. Quando questi risorgeranno, a schierarsi con loro non saranno solo le forze del Male, ma anche un essere terribile. La leggenda narra di un Vendicatore giunto da una terra sconosciuta, che si è macchiato del crimine di una creatura magica guadagnandosi eternamente il marchio dell’infamia…Gaston, per me non c’è più speranza, ma quando il marchio comparirà, tu non devi assolutamente cedergli! Ne va della salvezza di questo mondo, del tuo, di te stesso! Devi cercare di opporti al Male con tutte le tue forze, non devi in alcun modo lasciare che…
- Ho detto basta!- sbraitò Navarre, fuori di sé. Afferrò nuovamente Gaston per il collo della casacca, ma stavolta sguainò la spada, e premette la punta della lama contro il dorso del ragazzo; questi sussultò, ricominciando a lacrimare, disperato.- Stammi bene a sentire: se non l’ammazzi adesso, io ammazzo te, qui e ora!- ruggì. Lo lasciò andare malamente.- Forza, adesso!
Gaston riprese a singhiozzare, e le spalle vennero scosse da fremiti. Alzò gli occhi annebbiati sulla Fata Turchina: questa lo guardava con tutta la compassione che si potesse provare.
Navarre strinse le dita intorno al polso del ragazzo, lo stesso della mano che impugnava il coltello.
-Avanti!- sibilò.
Gaston guardò nuovamente la Fata Turchina. Deglutì, incapace di smettere di piangere ma, al contempo, conscio che non esisteva altra soluzione se non quella.
Era la sua vita, o quella di una sconosciuta.
Mors tua, vita mea.
E lui voleva vivere. Voleva vivere disperatamente.
Non si accorse neppure se fosse stato lui ad affondare il colpo oppure Navarre a guidarlo, ma gli sembrò di vivere in un sogno quando la lama affondò nel ventre della Fata Turchina.
La fata emise un gemito soffocato, a metà fra il dolore e la sorpresa. Sgranò lievemente gli occhi quando Gaston ritrasse il coltello sanguinante, ancora in lacrime.
- Forza! Di nuovo!- lo incitò il capitano.
- No…
- Muoviti!
Gaston singhiozzò, quindi chiuse gli occhi e senza voler pensare più a nulla, e iniziò a colpire. Avvertiva la lama del coltello affondare nella carne della fata senza vedere né sentire nulla, neppure un grido di dolore, una supplica. L’unica cosa che udiva era il rombo del proprio sangue nelle orecchie.
- Ancora!- urlò Navarre.
Gaston aprì gli occhi, ma non smise di colpire. In un attimo si ritrovò in ginocchio accanto al corpo martoriato della Fata Turchina, completamente ricoperto di sangue talmente scuro che, in alcuni punti, pareva quasi nero.
Trasse un lungo sospiro quando finalmente smise di accanirsi su di lei, ma non smise di piangere. Guardò lo scempio che aveva compiuto, ora riverso a terra in un lago di sangue e inchiostro.
La Fata Turchina rantolò, sentendo la magia e le forze vitali abbandonarla.
- Ben fatto! Sapevo che non eri del tutto inutile!- esclamò Navarre, compiaciuto.
Gaston urlò istericamente, prendendosi il capo fra le mani e imbrattandosi i capelli biondi di sangue, continuando a singhiozzare senza freno, senza controllo.
La Fata Turchina roteò gli occhi ormai vitrei, fino a guardare il capitano.
- Hai poco da gioire, Navarre…- soffiò.- La leggenda non mente: quando la Salvatrice giungerà, i Grimm verranno spodestati…e tutte le loro vittime saranno riportate alla vita…
Nonostante tutto, a Gaston parve quasi innaturale che l’ultima parola di quella donna prima di morire fosse stata proprio vita.
Ma subito questo pensiero venne spazzato via quando, non appena la Fata Turchina ebbe chiuso per sempre gli occhi, il suo intero corpo martoriato si squagliò letteralmente in una pozza di inchiostro che andò a imbrattare tutto il pavimento della capanna.
Alcuni soldati arretrarono disgustati, ma Navarre rimase impassibile. Gaston si alzò velocemente dal pavimento, arretrando come di fronte a dell’acido muriatico. Aveva smesso di singhiozzare, e ora ciò che aveva fatto lo stava investendo in tutta la sua consapevolezza come un vento di morte, un vento che avviluppava e trascinava via.
Per un attimo, ebbe come la sensazione di non trovarsi più nemmeno in quella capanna, che tutto quel che era accaduto non fosse altro che una visione, una scena di un film o di un videogame in cui lui poteva spegnere la televisione o riporre il joystick quando voleva, senza alcuna conseguenza.
Ma non è così. Hai ammazzato una persona. Non si torna indietro.
Ripensò alla sensazione della lama che affondava nella carne, agli schizzi caldi di sangue che gli erano spruzzati sul volto, a come tutto quanto malgrado tutto fosse stato maledettamente facile.
Aveva avuto paura, e ora avrebbe dovuto provare rimorso, forse, colpa, ma…
Strano. Era tutto molto strano. Nonostante avesse appena ucciso una donna, non si sentiva colpevole, e nemmeno dispiaciuto.
Anzi, pensò, in fondo non era nemmeno così grave.
Impercettibilmente, Gaston sorrise.
 
***
 
Il rombo di un altro tuono risuonò nell’aria, più vicino, e subito venne seguito da altri. Il cielo divenne ancora più scuro, mentre la nave iniziò a ondeggiare meno stabilmente sull’acqua.
Tremotino si ritrasse ancora di più nella penombra, in un angolo vuoto e seminascosto dove nessuno, specialmente in quel momento, avrebbe potuto accorgersi di lui. Si avvolse ancora più strettamente nel mantello, e calò il cappuccio fino agli occhi. Sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto sghembo quando la Jolly Roger ondeggiò più forte; qualcuno si lasciò sfuggire un’esclamazione sgomenta.
Non male, pensò lo stregone. Ma si può fare di meglio…
Un secondo dopo, un’alta onda s’infranse violentemente contro un lato dello scafo, facendo imbarcare alla nave un po’ d’acqua. Il mare era sempre più agitato, il cielo completamente nero era illuminato solo dai lampi iridescenti. Cominciò a piovere a dirotto.
Una seconda onda si sollevò dalla superficie marina, così alta da dare l’impressione di voler inghiottire l’intera Jolly Roger e i suoi passeggeri. Stavolta fu la prua a venire colpita, e la punta della nave s’impennò pericolosamente, facendo imbarcare altra acqua.
Hadleigh arretrò, sentendo il ponte levatoio scivolare sotto la suola delle scarpe. Si aggrappò saldamente a una delle sartie della nave. Si accorse solo in quel momento di essere bagnato fradicio. Il vento gli sferzava i ciuffi della frangia di fronte agli occhi, facendogli schizzare gocce di pioggia sul volto. Jones si aggrappò a sua volta, inginocchiandosi sul ponte per reggersi meglio e non scivolare via.
- Che si fa quando c’è una tempesta?- urlò.
- Non lo so!- gridò Hadleigh di rimando.- Speri di uscirne vivo…
Una terza onda, ancora più alta delle precedenti, cozzò contro lo scafo, inondando metà del ponte della nave. Hadleigh vide diversi pirati cadere a terra, altri aggrapparsi all’albero maestro oppure alla balaustra di legno per non venire sbalzati in mare.
Capitan Uncino raggiunse a fatica la plancia di comando, completamente bagnato: aveva perduto il cappello e la casacca rossa era sbottonata sul petto, i capelli appiccicati al cranio, ma l’espressione, più che sgomenta o impaurita come quelle del resto della ciurma, era furiosa.
- Cosa state aspettando, branco di buoni a nulla?!- sbraitò.- Ammainate quelle vele! Ognuno ai posti di comando, allontaniamoci da qui!
Più o meno celermente, alcuni pirati presero ad arrampicarsi sugli alberi della nave, armeggiando con le funi per ammainare le vele. Hadleigh e Jones rimasero a guardare, stralunati, non sapendo bene cosa fare. Spugna li raggiunse incespicando; afferrò il capitano per il cappotto, piantandogli in mano una delle funi e facendo lo stesso con Nathan.
- Avanti, voi due! Datevi da fare!- abbaiò.
Richard dovette praticamente avvolgersi la fune intorno alle braccia perché questa non gli sgusciasse via dalle mani a causa del vento o, più importante, perché gli sbalzi della nave non lo facessero volare fuori bordo. Entrambi i poliziotti si scambiarono una rapida occhiata, quindi iniziarono a tirare le funi con quanta forza avevano, aiutando i pirati ad ammainare le vele.
Capitan Uncino si pose accanto al timoniere, guardando preoccupato il mare in tempesta: era come se qualcosa stesse intenzionalmente cercando di scatenare la furia della natura contro di loro.
 
***
 
Ariel si vide costretta ad arretrare un poco di fronte alla violenza di un’onda che la sospinse fino a quasi farle colpire gli scogli affilati alle sue spalle. Agitò la coda di pesce color smeraldo quanto più poteva per poter mantenere un poco di autocontrollo sul proprio corpo, ma a ogni minuto che passava trovava sempre più difficile far fronte alla furia del mare.
Annaspò, cercando di riguadagnare il terreno perduto, ma i flutti non facevano altro che colpirla in pieno viso e rallentare la sua avanzata. Aveva intuito che quella tempesta non avesse a che fare con la natura, ma ora le stava veramente sorgendo il dubbio che suo padre c’entrasse in quella storia: re Nettuno era un sovrano saggio che non scatenava la furia del mare per un nonnulla come una disubbidienza da parte delle sue figlie. Certo, se avesse saputo che lei saliva in superficie per spiare un umano molto probabilmente avrebbe fatto questo e altro, ma Ariel non aveva rivelato a nessuno il suo segreto, neppure alle sue sorelle, quindi non c’era modo che suo padre ne fosse a conoscenza.
Doveva esserci lo zampino di qualcun altro.
Ariel abbandonò il suo tentativo di combattere contro le onde, e si limitò a impiegare le proprie energie per mantenersi a galla, quanto più poteva con il capo fuori dall’acqua, ma anche quello ormai le riusciva parecchio difficile. Le balenò per la mente il pensiero di reimmergersi in acqua: lì sarebbe stata al sicuro, e sarebbe anche stata la scelta più intelligente da fare, ma non voleva. Teneva lo sguardo puntato sulla Jolly Roger distante alcune centinaia di metri da lei, che continuava a ondeggiare sulla superficie del mare senza mostrare di avere un minimo di stabilità o di controllo, completamente in balia della pioggia, del vento e delle onde.
E non riusciva a pensare cosa sarebbe potuto accadere se queste avessero avuto il sopravvento.
Inspirò a fondo e s’immerse completamente, iniziando a nuotare sott’acqua per avere meno ostacoli, avvicinandosi ancora di più alla nave.
 
***
 
Le vele erano state ammainate, e a Uncino per un attimo parve che la nave avesse riacquistato un poco di stabilità, ma subito si dovette ricredere. Anche se il vento non colpiva più le vele, sospingeva l’intera mole della Jolly Roger facendola ondeggiare ancora di più.
Il timoniere, accanto a lui, faticava a governare l’imbarcazione, investito dalla pioggia battente che stava facendo loro imbarcare sempre più acqua. Se continuavano così, realizzò Uncino, sarebbero certamente finiti a fondo, o si sarebbero capovolti.
La tempesta peggiorava, sempre di più. Era come se qualcuno la stesse guidando, la stesse scatenando contro di loro con l’unico obiettivo di ammazzarli tutti, fino all’ultimo.
Tremotino sollevò lo sguardo verso la plancia di comando, scorgendo il giovane capitano della nave aggrappato alla balausta mentre urlava qualcosa al timoniere. Aggrottò le sopracciglia, contrariato, e un attimo dopo un’altra onda investì la Jolly Roger.
Uncino fece appena in tempo a vederla che subito questa investì sia lui che il timoniere: entrambi scivolarono sul ponte, finendo contro la balausta opposta.
Il timoniere si accasciò a terra. Il timone iniziò a girare vorticosamente in senso antiorario, senza più alcun controllo, facendo inclinare la nave sempre di più.
Uncino tossì, ingoiando un fiotto d’acqua; sgranò gli occhi quando vide il vorticare impazzito del timone. Si rialzò da terra in preda al panico, raggiungendolo di corsa e cercando di fermarlo. Piantò l’uncino nel legno e afferrò il timone con l’altra mano con tutta la forza che aveva, cercando di raddrizzare la nave. Ci riuscì un poco, ma le onde erano sempre più alte e governare la Jolly Roger stava diventando impossibile.
Tremotino sollevò nuovamente lo sguardo, e stavolta fu con ira che guardò Uncino aggrappato al timone, ancora in piedi, ancora vivo.
- Non vuoi proprio morire, eh?- ringhiò.- Vediamo adesso…
Immediatamente, un’altra onda si sollevò verso la Jolly Roger. Era molto più alta, più grande, imponente delle altre, come se fosse stata una bocca pronta a spalancarsi e a divorarli tutti.
I pirati trattennero il fiato, pronti al nuovo impatto, mentre Uncino continuava a cercare di governare la nave. Hadleigh e Jones si aggrapparono ancora di più alle sartie.
Tremotino sorrise, mente l’onda si faceva sempre più grande.
E adesso…
L’onda si abbatté come una furia sulla Jolly Roger; i suoi passeggeri si aggrapparono a tutto ciò che riuscirono a trovare.
…andrai…
Capitan Uncino sollevò gli occhi, sgranandoli per lo sgomento. Ma fu solo un attimo, prima che la furia del mare si abbattesse su di lui.
…giù!
L’onda lo travolse.
Uncino fece appena in tempo a rendersi conto dell’impatto con l’acqua che lo strappava dalla presa al timone. Quando riuscì a comprendere qualcosa, era stato sbalzato fuori bordo, e in secondo avvenne un secondo impatto, quello con l’acqua del mare.
Tremotino rise.
Il timoniere si sollevò a fatica dal ponte, affacciandosi oltre la balaustra.
- Uomo in mare!- urlò, dando l’allarme.
- Chi?- gridò Spugna.- Chi è?
- Il capitano! Il capitano è stato sbalzato fuori bordo!
Tremotino si sporse appena per poter guardare le acque marine in cui Uncino era appena scomparso. Sogghignò, lasciando che il furore della tempesta si attenuasse un poco.
Salutami il coccodrillo…!
 
***
 
Uncino rischiò quasi di perdere i sensi quando finì sott’acqua. Rimase inerme per qualche istante, fluttuando sott’acqua come il cadavere di un annegato, lasciando che quell’improvvisa calma lo avvolgesse insieme ai flutti che gli si insinuavano fra le vesti e i capelli.
Si sentiva come addormentato, quasi morto, e fu solo quando la mancanza d’aria divenne insostenibile che riuscì a riscuotersi. Spalancò gli occhi, dimenandosi sott’acqua per risalire in superficie.
Cacciò fuori il capo di scatto, inspirando a fondo. La tempesta sembrava starsi attenuando, ma i flutti e le onde erano ancora violenti e molto alti, faticava a stare a galla.
Uncino si guardò intorno, in preda al panico: era stato sbalzato molto distante dalla posizione della sua nave, e ora era da solo in mezzo al mare in tempesta, e non avrebbe retto ancora a lungo.
Un flutto lo colpì in pieno volto, facendolo andare nuovamente a fondo. Uncino riemerse tossendo furiosamente, quando udì un rumore in lontananza.
Tic tac…tic tac…tic tac…
Il panico divenne puro e autentico terrore.
Uncino sobbalzò, vedendo la sagoma scura e minacciosa del coccodrillo nuotare sull’acqua a poca distanza da lui; certamente doveva averlo avvertito, doveva aver fiutato la sua carne.
Tic tac…tic tac…tic tac…
Il suono ossessivo dell’orologio che aveva ingoiato insieme alla sua mano si faceva sempre più vicino. Uncino cercò di nuotare lontano, disperatamente, ma prima che potesse farlo un’onda lo investì con violenza, facendolo finire di nuovo sott’acqua e scaraventandolo indietro, fino a farlo cozzare contro degli scogli affilati.
Il capitano della Jolly Roger sbatté violentemente il capo contro le rocce, e subito la vista gli si annebbiò. Tutto il mondo di fronte ai suoi occhi divenne buio. Rapidamente, il mare, le onde, la sagoma lontana della sua nave e anche quella del coccodrillo parvero scomparire.
Uncino si lasciò andare, avvertendo come ultima cosa il peso del suo corpo scivolare contro gli scogli e finire nuovamente sotto la superficie del mare in tempesta…e un paio di mani che lo afferravano saldamente.
 
***
 
Ariel annaspò, avvolgendo le braccia intorno alla vita del pirata e tirando con tutte le sue forze in modo da riportarlo in superficie. Il corpo inerte di Uncino ricadde mollemente contro di lei non appena la sirena lo strinse a sé in modo da rendere la presa ancora più salda.
Nuotò velocemente in superficie prima che fosse troppo tardi, fino a che il capo di entrambi non fu fuori dall’acqua.
- Ti ho preso!- esultò Ariel, pur sapendo che lui non poteva sentirla.
In quel momento, si sentì felice come non mai per non aver dato ascolto al buon senso e non essersene andata. Era rimasta a osservare la tempesta che si accaniva contro la Jolly Roger senza poter fare altro se non attendere con trepidazione che tutto quanto terminasse, quando aveva visto chiaramente uno degli umani venire sbalzato giù dalla nave e finire in acqua.
Sulle prime non aveva capito che quell’umano fosse il giovane capitano con un uncino al posto della mano, ma poi si era sentita morire quando l’aveva visto riemergere e annaspare alla ricerca di un appiglio, di una via di salvezza.
Aveva esitato non poco, domandandosi se fosse il caso di aiutarlo – benché non lo ammettesse nemmeno sotto tortura, tutte le paranoie di suo padre riguardanti il Mondo Di Sopra di tanto in tanto si facevano sentire anche con lei –, ma poi aveva rotto ogni indugio quando l’aveva visto tentare di fuggire terrorizzato dal coccodrillo – anche se non aveva compreso il perché, era un cucciolone così simpatico, certo, a volte un po’ brontolone, ma quando erano piccole giocava sempre con lei e le sue sorelle – e sbattere il capo contro gli scogli.
A quel punto aveva compreso che, se non l’avesse aiutato, sarebbe morto, e nel salvarlo aveva infranto in un colpo solo almeno un migliaio di regole paterne, ma beh, non poteva pretendere tutto dalla vita.
Ariel fece poggiare la nuca di Uncino contro la propria spalla, in modo da tenergli la testa fuori dall’acqua cosicché potesse respirare. Lo guardò: pareva estremamente indifeso, inerme…
La sirena non perse tempo e reggendolo con entrambe le braccia prese a nuotare in direzione della riva, mentre il mare prendeva a calmarsi.
Ancora, Ariel era certa che non si fosse trattato di un tifone qualsiasi, e nemmeno di uno di quelli scatenati da suo padre. Qualcun altro doveva averci messo la mano, e sicuramente con nessuna buona intenzione.
In ogni caso, non era quello il momento di pensarci.
Ringraziò mentalmente che le fosse toccato quel giovane snello e slanciato da salvare – se si fosse trattato del pesce palla umano, ad esempio, avrebbe avuto parecchie difficoltà in più – continuò a nuotare verso la riva reggendo Uncino fra le braccia e, quando la raggiunse, la tempesta era ormai passata, e il cielo aveva preso a rischiararsi. Ariel fece stendere il pirata sul bagnasciuga, ancora privo di sensi. Avrebbe voluto portarlo più in là, sulla sabbia bianca e asciutta, ma quella coda di pesce le impediva di allontanarsi troppo dall’acqua.
Lo fece distendere supino, togliendogli di dosso la casacca rossa in modo che si asciugasse più in fretta. Gli scostò alcune ciocche di capelli dagli occhi, notando con sollievo che respirava regolarmente.
Voltò il capo in direzione del mare: la Jolly Roger si stagliava in lontananza, non troppo vicino alla riva ma neppure troppo distante. Ariel si chiese se qualcuno si fosse già accorto che il capitano non era più a bordo, se lo stessero cercando oppure no.
Tornò a guardare Uncino.
Non aveva ancora ripreso conoscenza. Era addormentato sul bagnasciuga, come se fosse stato tranquillo e rilassato.
Faceva quasi tenerezza a vederlo così.
Ariel si morse il labbro inferiore per trattenere un sorrisetto, ma non riusciva a smettere di guardarlo. Si chiese quanti anni avesse, certo, pensò, non doveva essere più che ventenne. L’aveva spiato tante volte di nascosto a bordo della sua nave, eppure non le era mai sembrato così…così…tenero come in quel momento.
Accostò il proprio volto a quello del pirata, sperando che non si svegliasse proprio ora.
E se gli dessi un bacio? No, non posso, sarebbe indicibile! E’ un umano…sì, ma in fondo chi lo verrebbe mai a sapere?
Stava giusto iniziando a vergognarsi di se stessa per questi pensieri, quando Uncino cominciò a svegliarsi. Il pirata sbatté a fatica le palpebre, lasciandosi sfuggire un mugolio dalle labbra prima di mettere a fuoco l’immagine che gli stava di fronte.
Era in controluce, e la sua vista era annebbiata, quindi non riusciva a distinguere molto bene ciò che stava guardando. Ancora intontito, gli parve di vedere un volto femminile a forma di cuore incorniciato da una chioma di capelli rossi, e dei grandi e vispi occhi azzurri.
Ma, in quel momento, quegli stessi occhi gli sembrarono castani, così come anche i boccoli della ragazza.
Wendy…, riuscì ad articolare nella sua mente, senza quasi rendersene conto.
Ariel scattò all’indietro non appena si accorse che era sveglio, e subito si tuffò di nuovo in mare, più veloce del vento, e nuotò in direzione degli scogli.
 
***
 
Trascorsero diversi minuti prima che Uncino riuscisse a riprendersi del tutto. Il pirata sbuffò, quindi prese a tossire violentemente, sputando un fiotto d’acqua. Cercando di riprendere a respirare regolarmente, si mise a sedere malamente sul bagnasciuga, ancora frastornato e grondante d’acqua.
Si passò una mano fra i capelli per cercare di raccapezzarsi. Ricordava bene ciò che era successo: la tempesta, la nave, lui che veniva sbalzato in acqua, il coccodrillo…e poi, più niente.
Doveva aver sbattuto la testa, almeno così deduceva dal dolore alla nuca che provava in quel momento. Ma non riusciva proprio a comprendere come fosse riuscito ad arrivare fino a riva. Era stata la corrente a trasportarlo, forse? Poteva anche essere…Eppure era strano…Per un attimo, avrebbe potuto giurare di aver visto una donna, di fronte a lui…
Che fosse davvero Wendy? No, impossibile…Wendy è morta, lo sai bene.
Decise di mettere da parte quei pensieri, e si rialzò a fatica, sentendo gli abiti zuppi appiccicati al suo corpo. Tuttavia, grazie alla pressione contro una coscia, si ricordò anche di avere con sé la propria pistola.
La sfoderò, gettando uno sguardo di fronte a sé: la Jolly Roger era lontana, ma non così tanto da non poterlo vedere.
Tolse la sicura alla pistola, quindi sollevò un braccio e sparò due colpi in aria.
Pochi istanti dopo, vide la nave invertire la propria rotta e dirigersi nella sua direzione.
Sorrise, in attesa che quei bifolchi lo raggiungessero; ma nel frattempo, con la coda dell’occhio vide la propria casacca rosso fiammante abbandonata sulla sabbia accanto a lui. Uncino aggrottò le sopracciglia, pensoso: ricordava di avere addosso la casacca, quando era stato sbalzato fuori bordo, ma non rimembrava di essersela tolta, né di averla perduta durante il naufragio.
Qualcuno doveva aver provveduto a sfilargliela di dosso…
Allora non stavo sognando. C’era davvero una donna, qui.
 
***
 
Tremotino incrociò le braccia al petto, innervosito.
La nave era finalmente giunta a riprendere il suo capitano, ma lui l’aveva lasciata nel momento esatto in cui aveva fatto cessare la tempesta, sicuro di essere riuscito a togliersi di torno il caro James Hook.
Invece il bastardo era ancora vivo, lui aveva sprecato magia inutilmente e non aveva risolto nessuno dei suoi problemi…tutto per colpa di una sirena dal cuore tenero.
Tremotino si costrinse a reprimere l’impulso di andare dalla suddetta sirenetta e prenderla per il collo, dicendosi che, in fondo, avrebbe sempre potuto volgere la questione a proprio vantaggio.
La piccola salvatrice era la figlia minore di re Nettuno, l’aveva riconosciuta; una principessa del mare, in pratica. Una principessa del mare che era stata sul punto di sbaciucchiarsi il pirata privo di sensi.
Sorrise.
Sì, certamente un giorno o l’altro avrebbe potuto cavare fuori qualcosa da lei.
Ma non in quel momento, s’impose.
Aveva altre faccende da sbrigare, e parecchio urgenti. Sarebbe tornato sulla Jolly Roger, certamente – Uncino stava minacciando di rivelarsi un grosso problema, con quel che aveva intenzione di fare; andava eliminato e poi, non doveva dimenticare che su quella nave c’era anche il padre della Salvatrice –, ma ora aveva un altro affare da portare a termine.
Un affare che si era trascinato troppo a lungo, pensò con una punta di rabbia, voltandosi e iniziando ad allontanarsi. Troppo a lungo, ben sedici anni, o forse di più. Un accordo con una piccola, insipida, insignificante figlia di un mugnaio che grazie a lui era diventata regina, e che ingratamente gli aveva rifiutato un pagamento.
Un accordo che era stato mandato a monte da quel vecchio pazzo di Merlino.
Un accordo che aveva tutta l’intenzione di concludere, e che gli avrebbe consegnato, se non la Pietra del Male, l’altro oggetto di fondamentale importanza per riportare in vita i fratelli Grimm.
Guardati le spalle, regina Ginevra…Tremotino sta tornando a Camelot!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*citazione leggermente modificata dal film Disney Pocahontas, il Governatore Radcliffe a Thomas.
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti! Finalmente ce l’ho fatta ad aggiornare…Beh, spero che questo capitolo non vi abbia delusi. Molti di voi avevano già intuito cosa sarebbe accaduto, ma ho comunque aperto delle altre porte che spero v’incuriosiscano abbastanza da voler continuare a seguire questa vicenda ;). Dunque, ringrazio _EllaZaZa_, per aver recensito e per aver segnalato all’amministrazione questa storia per l’inserimento nelle scelte del sito, e SognatriceAocchiAperti, Jessica21, Princess Vanilla, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito :).
Dunque, ora, prendendo spudoratamente spunto da Jessica21, mi piacerebbe stilare una “lista di preferenze” sui personaggi. Chi preferite fra: Anya, Elizabeth, Vincent, la Regina Cattiva, Malefica, Rosaspina, Tremotino, Hadleigh, Jones, Uncino, Biancaneve, Gretel, il Cacciatore, Cenerentola, Ariel, Uncino, Gaston?
Verrà aggiornata a mano a mano che entreranno in scena nuovi personaggi ;).
Ora, il prossimo capitolo sarà incentrato interamente su Camelot e, a questo proposito, vi avevo promesso delle immagini dei nuovi personaggi. Eccole qui:
 
Artù (Eric Bana)
http://i1.ytimg.com/vi/Y8hisp6xElo/hqdefault.jpg
 
Ginevra (Emily Blunt)
http://www.wearysloth.com/Gallery/ActorsB/53821-29116.jpg
 
Odette (Keira Knightley)
http://img335.imageshack.us/img335/7798/keira7ok.jpg
 
Merlino (Donald Sutherland)
http://1.bp.blogspot.com/_lweymjmz4GY/S8N0QV3-w8I/AAAAAAAAPD8/5wjd4aPpbkk/s320/26485_383640335889_353578620889_3731194_1614547_n.jpg
 
Lancillotto (Richard Armitage)
http://richardarmitagecentral.co.uk/RichardArmitageCentral/IMAGES/guyphotoessay/guy1_framed.jpg
 
Galvano (Sean Bean)
http://community.sephora.com/t5/image/serverpage/image-id/62751iCBF1579A63C6D3D1/image-size/original?v=mpbl-1&px=-1
 
Morgana (Lara Pulver)
http://relationworld.com/adrama/files/2010/02/Lara-Pulver.jpg
 
Mordred (Tom Hiddleston)
http://media.tumblr.com/tumblr_m3z4i3i0aX1qcqk83.gif
 
Odile (Emmy Rossum)
http://image.toutlecine.com/photos/p/o/s/poseidon-2006-38-g.jpg
 
Altra cosa. Ho creato un gruppo facebook dedicato a questa storia, dove si possono trovare spoiler, spezzoni di nuovi capitoli, immagini, ecc. Se siete interessati, vi lascio qui il link:
 
 https://www.facebook.com/groups/200738133455063/

Se qualcuno voless iscriversi e avesse dei problemi con la pagina, mi invii un messaggio sulla mia casella di posta qui su EFP con il nome con cui è registrato su fb: ci penserò io ad aggiungerlo :).
Ciao a tutti, al prossimo capitolo!
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 25
*** The Black Swan ***


The Black Swan
 
Ginevra sospirò, sistemando lo specchio della toeletta che si era lievemente inclinato, rimanendo in ascolto finché non udì i passi delle sue dame di compagnia attenuarsi a poco a poco fino a scomparire nei meandri del corridoio. Le aveva congedate più presto del solito, quel giorno, guadagnandosi delle occhiate esterrefatte da tutte, specialmente da Morgana, la più anziana e la più fedele di loro.
Tutte l’avevano fissata con sgomento quando aveva chiesto loro di andarsene, e alla regina un poco dispiaceva per averle trattate con così malagrazia, ma davvero avvertiva il bisogno di stare da sola per qualche minuto, prima di tornare a gestire gli affari di stato insieme a suo marito.
Quel giorno si sentiva malinconica, quasi svuotata di ogni allegria, e sapeva bene a cos’era dovuta quella sensazione: quello era il giorno in cui aveva dovuto smettere definitivamente il lutto.
Quella mattina, quando le serve e le damigelle erano giunte nella sua stanza da letto per svegliarla, anziché il sobrio e triste abito nero dalla gonna ampia e le maniche strette che per sei mesi aveva indossato con un velo di pizzo dello stesso colore calato sul volto, Ginevra si era vista porgere da Morgana un vestito di seta viola scuro, con la gonna stretta e le maniche a sbuffo, leggermente scollato, oltre a tutti i pochi gioielli che da sei mesi teneva riposti nel portagioie.
Aveva lasciato che l’aiutassero a vestirsi senza lasciar trapelare nulla riguardo al suo malessere, ma in cuor suo si sentiva come se stesse compiendo un atto infamante, un affronto alla memoria di tutti i suoi cari. Nonostante tutto ciò che avrebbe comportato, Ginevra avrebbe voluto mantenere il lutto ancora per qualche mese, se fosse stato sufficiente per farle sentire meno la mancanza della zia.
Sei mesi prima, zia Mallory era morta, e con lei se n’era andato tutto ciò che restava della sua famiglia.
Ginevra sapeva che sarebbe dovuta morire, d’altronde era malata da tanto tempo, ma era stato comunque un dolore immane vedere andarsene quella donna che, per lei, era stata forse più importante di sua madre. Zia Mallory si era spenta di notte, nel sonno, semplicemente, quasi in contrasto con il trambusto e la sensazione che era stata tutta la sua vita.
Fino agli ultimi giorni della sua malattia, la zia non aveva fatto altro che ridere e scherzare con tutti coloro che l’accudivano, prendendo bonariamente in giro la nipote chiamandola mia regina e vostra grazia.
Ginevra non aveva mai dimenticato ciò che le aveva detto quel giorno in cui era stata prelevata dai soldati di re Uther: zia Mallory aveva sempre dichiarato la sua diffidenza nei confronti della casa reale e dei benestanti in generale, ed era stata l’unica persona della sua famiglia ad essere rimasta coerente con le proprie opinioni fino alla fine.
Quando Ginevra aveva sposato Artù ed era divenuta la nuova regina di Camelot, zia Mallory non le aveva tolto il saluto come aveva temuto, né l’aveva giudicata male come molti altri avevano fatto; ma aveva sempre dichiarato fermamente che sarebbe morta nella sua catapecchia in periferia dov’era nata e vissuta, e così era stato, tanto da rifiutarsi di essere trasportata a corte anche quando aveva compreso che per lei era venuto il momento di lasciare quella terra.
Zia Mallory era stata l’unica a essersi dimostrata sincera nel suo affetto verso di lei, senza mai cercare di estorcerle qualche privilegio o forma di ricchezza grazie alla sua nuova posizione…a differenza di quanto aveva fatto il resto della sua famiglia.
Naturalmente, quando aveva sposato Artù, Ginevra era stata ben felice di poter fare finalmente qualcosa per i genitori e i fratelli, ma visto il modo in cui l’avevano ripagata, aveva compreso troppo tardi che tutti loro si erano solo approfittati di lei.
Il giorno seguente le nozze, Ginevra aveva invitato Harold e Josephine a trasferirsi a corte, e loro non se l’erano fatto ripetere due volte. Sua madre era morta da circa due anni, e sino al momento in cui era spirata non aveva fatto altro che rinnegare le proprie origini.
Josephine si era installata nella reggia di Camelot come se questa fosse stata casa sua da sempre, e aveva calato un velo di silenzio sul proprio passato. Per anni, Ginevra l’aveva vista trasformarsi da una timida madre di famiglia e moglie devota a una despota che non indossava altro se non abiti di seta e gioielli preziosi, impartendo ordini a una servitù che lei definiva pigra e indolente, nonostante sua figlia le avesse ripetuto spesso che i domestici erano loro pari e andavano trattati con rispetto – senza contare che, in mezzo alle sguattere che Josephine riempiva di angherie, la regina aveva riconosciuto anche un paio di vicine di casa e un’amica d’infanzia di sua madre.
Josephine era arrivata al punto da non voler più nemmeno parlare con la sorella. Quando Mallory veniva a trovare lei e Ginevra – le uniche volte in cui la zia varcava i cancelli della reggia, insieme a quelle in cui si recava in visita alla figlia di sua nipote –, sua madre inventava mille scuse e mille malesseri pur di non incontrarla, e tutte le volte in cui la regina usciva dal palazzo per portare la piccola Odette nella loro vecchia casa di periferia per farla giocare un po’ con gli zii, le urlava dietro che non era cosa buona che la bambina trascorresse del tempo in compagnia di quella gentaglia. Zia Mallory aveva mangiato la foglia quasi immediatamente, ma aveva fatto finta di nulla fino alla fine, sino a che sua sorella non si era spenta a causa della stessa malattia che di lì a poco avrebbe colpito anche lei.
Quanto a suo padre, non poteva dire che le cose fossero andate meglio.
Come si era aspettata, Harold aveva venduto il mulino e aveva dato sfogo a tutto il suo gozzovigliare lì alla reggia. Ginevra in fondo sapeva a cosa stava andando incontro dandogli libero accesso al palazzo reale, ma aveva comunque sopportato a denti stretti la vista di suo padre che sperperava il denaro di Artù in vino o per correre dietro alle cortigiane.
Suo marito aveva tollerato la cosa per diverso tempo, ma quando Harold aveva iniziato a pretendere sempre più denaro, lui gli aveva detto che doveva calmarsi e mettere la testa a posto, oppure prendere la porta e andarsene. Suo padre aveva scelto la seconda opzione, ed era sparito senza lasciare traccia.
Ginevra aveva sperato che almeno i suoi fratelli non l’abbandonassero, ma così non era stato: i due maschi si erano sposati con ricche ereditiere e avevano preso il volo e Betty, una volta ottenuta una cospicua dote dalla sorella, aveva sposato un fannullone con cui era fuggita.
E ora che anche zia Mallory non c’era più, Ginevra si sentiva come persa nel nulla. Certo, amava suo marito e Artù le era sempre stato vicino, e aveva una figlia che adorava, ma…
…beh, non poteva dire che Odette fosse una principessa modello.
La regina si prese il capo fra le mani, trattenendosi dallo scoppiare a piangere. Si sentiva una maledetta ingrata a pensare una cosa simile quando mille donne avrebbero dato qualsiasi cosa per essere fortunate come lei con la sola preoccupazione di avere una figlia un po’ ribelle, ma ultimamente gestire Odette stava diventando un vero problema.
Spesso Ginevra rimproverava sé stessa – se solo avesse avuto più polso nell’educarla invece di dargliele tutte vinte, se solo fosse stata una nobildonna di nascita anziché la primogenita di un mugnaio che non era neppure in grado di insegnare le buone maniere a sua figlia… –, ma quando vedeva Odette alzare le spalle anche di fronte alla voce imperiosa di Artù, si rendeva conto che il carattere di quella ragazza era come un mare in tempesta: impossibile da domare.
Odette aveva tutto ciò che si potesse desiderare, eppure sembrava sempre insoddisfatta della sua vita.
Era intelligente, ma erano più le volte in cui i precettori venivano a lamentarsi del suo assenteismo e della sua maleducazione, che quelle in cui si presentava a lezione.
Era bella, eppure provava un dubbio gusto nel vestirsi come una stracciona.
Aveva ricevuto un’ottima educazione, ma nonostante questo Ginevra tremava ogni volta che sua figlia apriva la bocca in presenza di estranei e…
…e poi, ormai aveva sedici anni. E nessuna intenzione di pensare a prendere marito, almeno per ora.
Ginevra sospirò nuovamente, prendendo in mano la spazzola e iniziando a sciogliere i nodi dei suoi lunghi capelli castani. Anche quella vista le ricordò sua figlia: sia lei che Artù avevano i capelli scuri, e invece Odette era venuta fuori con una chioma biondo scuro. Per il resto, recava i tratti di entrambi o di qualcuno della loro famiglia: gli occhi del padre, il naso di zia Mallory, il suo mento, le mani di Josephine…e il caratteraccio di re Uther.
Già, anche la stramaledetta abitudine di sua figlia di dire sempre tutto ciò che le passava per la testa non aiutava sicuramente, e non solo durante le riunioni e le cene diplomatiche, ma anche quando nelle vicinanze c’era un qualche rampollo che avrebbe potuto fare al caso suo.
Anche se per ora Odette fuggiva come il vento al solo sentir pronunciare la parola matrimonio, Ginevra sapeva che, presto o tardi, sua figlia avrebbe dovuto sposarsi, e assolutamente con un uomo nobile che fosse in grado di governare Camelot quando fosse stato il momento – anche se a questo la regina cercava di pensare il meno possibile, tanto più che ultimamente Artù non era stato troppo bene.
Occorreva che qualcuno, un giorno, salisse al trono di Camelot, e non poteva essere che il marito di Odette. Lei era l’unica erede, e una donna non poteva governare, non secondo le leggi di quel regno e poi, bastava ripensare alla matrigna di Biancaneve per comprendere il perché.
Ginevra aveva trentaquattro anni, ormai, e aveva ricevuto in dono solo Odette. Non avrebbe avuto altri figli, lo sentiva…e in fondo, pensava spesso, forse era meglio così.
Di nuovo, la regina di Camelot si rabbuiò.
Il ricordo di quanto era accaduto più di sedici anni prima ancora la tormentava, e Ginevra era sicura che avrebbe trovato pace solo quando fosse stata sottoterra.
Merlino le aveva assicurato di aver risolto ogni cosa, ma non le aveva fornito alcuna certezza. Lui stesso aveva dichiarato che quello stregone, Tremotino, era molto potente e che bisognava essere molto cauti con lui.
Sebbene Merlino avesse salvato lei e sua figlia, Ginevra aveva vissuto i primi due anni della vita di Odette nel terrore che Tremotino potesse ricomparire all’improvviso, magari materializzandosi dal nulla come aveva sempre fatto durante i loro unici due incontri, sentendosi mancare il respiro tutte le volte che pensava a cosa sarebbe potuto succedere se un giorno fosse entrata nella nursery e avesse scorto il suo volto affilato chino sulla culla della bambina.
Il timore che potesse tornare, che in qualche modo fosse riuscito a sviare le precauzioni di Merlino così da trovare un pretesto per portare via Odette, non la faceva dormire la notte. Letteralmente: Ginevra aveva trascorso intere nottate insonni rigirandosi nel letto e finendo sempre con lo sgusciare via dalla stanza in silenzio per non svegliare suo marito, e correre alla stanza dove dormiva sua figlia per controllare che Odette fosse ancora lì, addormentata nella sua culla.
Né lei né Merlino avevano mai rivelato nulla ad Artù, ma di certo Ginevra si era accorta che alcuni suoi comportamenti alquanto strani dovevano averlo insospettito, fatto intuirgli qualcosa. Durante la giornata, la regina non lasciava mai da sola sua figlia, tanto da insistere affinché fosse lei stessa ad allattarla al seno, e non le balie. La teneva sempre in braccio, anche quando Odette aveva ormai quasi tre anni e sapeva camminare da sola; a malapena la lasciava giocare con i figli della servitù, per paura che qualche monello la inducesse ad allontanarsi troppo dalle mura del palazzo reale.
La notte, Ginevra aveva preteso che ci fosse sempre una balia o una governante a vegliare su Odette mentre dormiva. Una volta che aveva scoperto la guardiana di turno a sonnecchiare con il volto poggiato contro il palmo della mano aveva dato di matto, minacciando addirittura di farla rinchiudere – lei che, stando alle parole di suo marito, avrebbe risparmiato anche gli assassini e i traditori.
Artù le aveva chiesto più e più volte a cosa fosse dovuto quel suo comportamento, e Ginevra aveva sempre risposto in modo evasivo, attribuendo il tutto a un po’ di stanchezza o a naturale ansia materna.
Poi, dopo diversi anni in cui non era accaduto nulla e Odette aveva iniziato a crescere, la regina di Camelot si era un poco tranquillizzata, ma la paura rimaneva. Senza contare che sua figlia non gradiva affatto la campana di cristallo in cui i suoi genitori volevano che vivesse.
Sia lei che Artù avevano più volte cercato di farle capire che, se non poteva varcare i cancelli del palazzo reale, scendere in strada con le persone comuni o allontanarsi dalle sue stanze da sola, c’era un motivo più che valido: era la principessa di Camelot, l’unica discendente diretta al trono che, un giorno, avrebbe assistito suo marito nel governo del regno come sua madre stava facendo con suo padre.
Erano precauzioni, nulla di più.
Ma naturalmente la testa di roccia di sua figlia questo si rifiutava di comprenderlo, così come Odette non aveva alcuna intenzione di sottostare alle regole che loro avevano imposto.
Anche se, pensò Ginevra, negli ultimi tempi pareva essere migliorata. Erano due settimane che si comportava bene e non aveva neppure sbuffato troppo alla notizia del ballo in maschera che si sarebbe tenuto alla reggia di lì a tre giorni. Sua figlia non aveva mai sopportato i balli e certamente aveva compreso il doppio fine di quella festa – non era stupida, sapeva benissimo che lei e Artù miravano a farle conoscere qualche buon partito. Né Ginevra né suo marito avevano intenzione di spingerla fra le braccia di un uomo che lei non avesse approvato, naturalmente, ma nel frattempo era bene che Odette iniziasse a farsi un’idea di come avrebbe dovuto essere il suo futuro marito.
In ogni caso, erano due settimane che non dava loro alcun problema.
Alcuni educati colpi contro il legno della porta interruppero il flusso dei suoi pensieri. Ginevra si voltò appena, sistemandosi le pieghe dell’abito.
- Avanti - concesse, e un attimo dopo la porta si aprì, rivelando la figura della sua dama di compagnia più fidata: Morgana.
Ginevra le sorrise istintivamente.
Morgana aveva quarant’anni, solo sei più di lei, ed era stata la prima persona con cui aveva stretto amicizia dopo aver sposato Artù, fatta eccezione per Merlino. All’epoca, ricordò, non era una dama di compagnia, bensì una cortigiana: in molti dicevano che fosse stata la favorita di re Uther.
Le aveva raccontato che aveva iniziato a praticare quel mestiere dopo la scomparsa del suo povero marito, caduto in battaglia, che l’aveva lasciata vedova giovanissima e con due figli a carico.
Ginevra aveva provato pietà per lei, e aveva deciso di aiutarla: ne aveva fatto la sua dama di compagnia in modo che smettesse di essere l’oggetto del piacere di chicchessia, e su richiesta della stessa Morgana aveva fatto in modo che Artù integrasse suo figlio Mordred fra i Cavalieri della Tavola Rotonda – un ordine creato proprio da suo marito. Lo stesso aveva fatto con sua figlia minore, trovandole un posto di lavoro lì a palazzo.
A vederla adesso, Morgana non aveva più nemmeno l’aria della cortigiana: era una donna piccola di statura e magrolina, eppure molto affascinante e carismatica, con lineamenti seri e fini e lunghi capelli castani che portava sempre raccolti in una crocchia, oppure sciolti sulle spalle.
Morgana le rivolse una riverenza, senza guardarla negli occhi.
- Mia regina, ho ritenuto opportuno informarvi: la principessa è di nuovo scappata.
Ginevra chiuse gli occhi, inspirando a fondo.
Come non detto.
 
***
 
Odette ridacchiò, sollevando l’orlo della gonna del suo abito color indaco in modo da poter agevolare i propri movimenti. Allungò un braccio e afferrò uno dei rami della grossa quercia che sorgeva giusto accanto alla muraglia di cinta che delimitava il confine fra il palazzo reale e l’intera capitale di Camelot. Tenendo sollevato l’orlo con una mano, si arrampicò agilmente come aveva fatto tante altre volte, fino a raggiungere il punto più alto della quercia che le permettesse sia di potersi appollaiare su un ramo robusto senza correre il rischio di cadere sia di poter scorgere a proprio piacimento ciò che si trovava al di là della muraglia di pietra che circondava il castello.
Udì in lontananza il rintocco del campanile della città che suonava mezzogiorno, e con un rapido calcolo mentale riuscì a dichiarare ben tre ore in cui era riuscita ad eludere sua madre, suo padre, quella noiosa di Odile, le guardie, i cavalieri, i servitori e tutti coloro che in quel momento la stavano cercando come dei disperati in tutti i posti più ovvi e scontati del castello.
Odette sospirò, puntando i piedi avvolti in delle scarpette di velluto leggere contro due rami ai lati opposti della quercia, divaricando le gambe. Lasciò andare l’orlo della gonna, alzando le braccia in aria e aggrappandosi saldamente a un ramo sopra la sua testa. Si diede la spinta piegando le ginocchia, e si sollevò da terra, dondolandosi a mezz’aria con le braccia fino a che non riuscì a mettersi seduta sul ramo più spesso e più resistente che riuscì a trovare. Avrebbe voluto mettersi a cavalcioni, ma la gonna del vestito era troppo stretta e glielo impediva.
Odette inspirò a pieni polmoni, soddisfatta di se stessa, sistemandosi meglio in modo da essere più comoda: si passò una mano fra i capelli biondi e scompigliati a causa dell’arrampicata e di quelle ore trascorse a giocare a nascondino fuggendo da tutti. La principessa puntò i suoi occhi grigi in direzione della città: la muraglia che circondava il castello se superata dava accesso a un’ampia distesa di terra ed erba, senza alcun tipo di abitazione ma che, andando più in là, iniziava a far incontrare pian piano qualche casupola isolata, finché queste ultime non aumentavano in numero e in vicinanza, dando vita a una vera e propria cittadina. Perfino da lì, Odette poteva sentire il lontano brusio delle persone.
La principessa rimase a scrutare l’orizzonte, dondolando le gambe penzoloni nel vuoto. Non era mai stata in città. A dire il vero, non era mai stata in nessun posto che fosse più lontano di quella quercia ai confini del giardino del palazzo. Sua madre, il re suo padre, le dame di corte, i servitori e tutti coloro che conosceva sostenevano che fosse una cosa normale, ma in cuor suo Odette sapeva che non era così. Non c’era niente di normale nel vivere da reclusi; lei non aveva mai messo piede fuori dal palazzo a parte quando era molto piccola e sua madre l’accompagnava a casa degli zii. Poi, con la malattia della sua prozia, quelle visite erano state annullate, e lei all’epoca era ancora troppo piccola per poter avere alcun ricordo di come fosse il mondo oltre quelle mura.
Era…triste. Sì, proprio così: era molto triste.
E la faceva sentire arrabbiata. Odette si corrucciò: più rimaneva a guardare, più le veniva voglia di scendere da quella quercia, prendere armi e bagagli e correre immediatamente fuori dal portone d’ingresso, sgusciando via facendosi strada fra le guardie attonite e precipitandosi a perdifiato lungo quella distesa di terra ed erba fino a raggiungere la città. E una volta arrivata…beh, avrebbe fatto ciò che sapeva che sir Galvano facesse ogni volta che lasciava il castello: sarebbe entrata nella bettola più sudicia e malfamata della periferia e avrebbe iniziato a scolarsi un boccale di grog dietro l’altro, ridendo senza preoccuparsi di contenersi e scherzando con contadini e braccianti, stando alzata fino a tarda sera, magari andando a qualche festa popolana e danzando tutta la notte intorno al fuoco con una ghirlanda di fiori sul capo, come la sua vecchia balia le raccontava sempre che facevano le ragazze durante la festa di fine estate.
E poi…non sarebbe più tornata al castello. Non subito, almeno. Avrebbe scritto ai suoi regali genitori di non preoccuparsi, che sarebbe stata bene; dopodiché avrebbe indossato abiti da uomo, si sarebbe tagliata i capelli e sarebbe balzata sul cavallo che avrebbe rubato a Lancillotto – gli sarebbe stato solo bene! – e sarebbe partita alla volta di qualche avventura, proprio come aveva fatto una donna di un paese molto lontano da loro, che era perfino divenuta un generale dell’esercito e la cui storia era giunta sino a Camelot. Avrebbe affrontato draghi, visitato luoghi lontani e poi…e poi…
…e poi stava fantasticando di nuovo. Più facile a dirsi che a farsi, principessina.
Odette sbuffò, chiudendo gli occhi e gettando il capo all’indietro, godendosi i pochi raggi di sole che filtravano attraverso le fronde della quercia. Se solo le sue fantasie fossero state reali, a quest’ora sarebbe stata chissà dove, invece che ancora lì a Camelot, intrappolata in quelle quattro mura, con sua madre che le piagnucolava dietro implorandola di non comportarsi come il garzone di un macellaio, e quella lagna di Odile che non faceva altro che cinguettare quanto fosse fortunata a poter partecipare a…a quel ballo in maschera che si sarebbe tenuto al castello…si sarebbe tenuto al castello…fra meno di tre giorni!
Quel pensiero bastò per gettarla nello sconforto più nero. Odette gemette, appoggiando il dorso contro il tronco della quercia e sollevando le gambe in modo da distenderle sul ramo sopra il quale era seduta; in quel preciso istante udì riecheggiare nella sua testa la voce di Lancillotto che le urlava di stare attenta a non cadere – voce che si affrettò a zittire: era già fastidioso sentirla dal vivo, non aveva bisogno che quel bacchettone la perseguitasse anche nell’immaginazione.
Il ballo. Se n’era pressoché dimenticata. O meglio: aveva volutamente rimosso quel pensiero, l’aveva allontanato dalla sua testa per tutto il tempo in cui nessuno l’annoiava con le prove del suo abito.
In genere, quando suo padre decideva di tenere qualche festa o ricevimento – ringraziando la buona sorte poteva contarle sulle dita delle mani quelle occasioni, dato che Artù non era il tipo per queste cose, e sua moglie meno che mai –, Odette pestava i piedi e inventava qualsiasi scusa per non andarci, ma stavolta – non sapeva neppure lei il perché – aveva finto di acconsentire con entusiasmo per non far soffrire sua madre, anche se continuare a tenere la maschera si stava rivelando parecchio difficile, tanto che più volte nei giorni precedenti era stata sul punto di sbottare.
Non aveva per niente voglia di andarci, eppure allo stesso tempo sapeva di non avere via di scampo. Era una delle tante cose a cui una principessa non poteva sfuggire.
Non le erano mai piaciuti, i balli. Non le piaceva stare sveglia fino a tardi con addosso abiti scomodi, dovendo inchinarsi e sorridere a persone che non aveva mai visto in vita sua mentre crollava dal sonno, non le piaceva avere addosso lo sguardo giudicante di tutti, non le piaceva doversi subire le ramanzine di suo padre il giorno dopo perché aveva sbagliato di un particolare. Non le piaceva ballare; aveva preso lezioni di danza sin da quando era piccolissima, ma per quanto si esercitasse non riusciva a coordinare i movimenti e finiva sempre con il pestare i piedi al proprio cavaliere. Aveva provato a fare pratica una volta con sir Galvano e innumerevoli con Odile, e tutt’e due avevano ceduto dopo dieci minuti. Era un pericolo per se stessa e per gli altri, sulla pista da ballo.
E soprattutto, non le piaceva il fatto che tutta quella farsa fosse stata organizzata solo ed esclusivamente con l’intento di trovarle l’ennesimo damerino come potenziale futuro marito.
Odette questo lo sapeva, e forse era ciò che la irritava di più. Non si sentiva pronta per il matrimonio. Aveva sedici anni, diamine! Non voleva vivere per un uomo, portare in grembo i suoi figli, subire i dolori del parto, vedere il suo corpo sformarsi a causa delle troppe gravidanze, crescere dei bambini urlanti mentre quello sconosciuto di suo marito governava al posto suo e mandava in malora il regno di suo padre. Poco importava se sua madre era poco più vecchia di lei quando si era sposata: Odette non ne voleva sapere di nozze e vita matrimoniale, non per il momento. Per di più, tutte le storie della generazione della sua famiglia riguardanti i matrimoni erano tutto meno che rassicuranti: quello dei suoi genitori era stato straordinariamente e inaspettatamente felice – a dispetto di tutti coloro che avevano storto il naso quando Artù aveva scelto di sposare la figlia di un mugnaio –, ma non era stato sempre così per chiunque. Suo nonno, ad esempio, aveva tradito con altre donne la madre di suo padre fino a che lei non era morta – di crepacuore, come sostenevano molti –, arrivando fino al punto di crescere a corte anche uno dei suoi tanti bastardi, tale Principe Filippo, che aveva causato alla famiglia Pendragon diversi problemi.
No, decisamente non era pronta per il matrimonio e solo il pensiero che i suoi genitori stessero cercando di combinargliene uno la faceva innervosire. Ma più ancora di questo, Odette non sopportava l’idea che loro la ritenessero così incapace da doverle affibbiare un marito per poterle garantire la successione al trono. Non si fidavano abbastanza di lei per credere che sarebbe stata una buona regina, quando fosse giunto il momento.
Era una cosa che non poteva tollerare.
- Principessa!
Odette sobbalzò, e fu quasi sul punto di cadere dal ramo su cui era appollaiata. Si drizzò a sedere, all’erta come fosse stata una sentinella in attesa dell’arrivo dei nemici. Conosceva quella scena a memoria: lei spariva per un po’ di tempo e subito si diffondeva il panico fra tutti gli abitanti del castello, che si riversavano in ogni dove per cercarla. In genere, tutti la chiamavano con l’appellativo di principessa Odette, ma durante le sue fughe erano voci di donna che lo gridavano a squarciagola.
Invece, stavolta, la voce era una sola, per di più chiaramente maschile e abbastanza pacata. Anzi, sembrava quasi che stesse cercando di soffocare una risata.
- Principessa Odette! Ancora a giocare a nascondino alla vostra età?!
Odette rise sotto i baffi, accovacciandosi fra i rami e nascondendosi meglio in mezzo alle fronde. Aveva riconosciuto la voce. Guardò in basso, cercando di scorgere oltre le foglie della quercia: proprio sotto di lei, guardandosi intorno a metà fra il guardingo e il divertito, c’era sir Galvano.
- Andiamo! Lo so che siete qui!- chiamò.- Venite fuori! Vostra madre sta iniziando a preoccuparsi!
La principessa soffocò una risata, e si nascose ancora di più. Galvano si arrestò proprio ai piedi della quercia, incrociando le braccia al petto.
- Avanti! Non vorrete che vi venga a prendere?
- Non pensi che sarebbe il caso di smetterla di giocare, adesso?!
La voce divertita di sir Galvano venne affiancata da un’altra, anch’essa maschile, ma più giovanile oltreché secca e perentoria, e decisamente irritata. Odette smise di ridacchiare e alzò gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire uno sbuffo esasperato.
No, dannazione, pensò. C’è anche lui.
- Lancillotto, ti vuoi rilassare?!- lo rimbrottò bonariamente Galvano, ancora ignaro della presenza di Odette nascosta fra le fronde.- E’ da un’ora che non fai altro che borbottare. La principessa si è solo nascosta, come al solito.
- Sto solo dicendo che potremmo trovarla più in fretta, se tu la smettessi di metterti al suo livello!
Sotto di lei, Odette vide che sir Galvano era stato raggiunto da sir Lancillotto. Quest’ultimo, a differenza dell’altro cavaliere, non indossava la regolare casacca azzurra recante una croce bianca sul petto; bensì era abbigliato completamente di nero, dalla testa ai piedi. Non che la cosa la stupisse troppo: Lancillotto si vestiva come tutti gli altri Cavalieri della Tavola Rotonda solo quando questi erano convocati al cospetto di suo padre, oppure durante le occasioni formali. Odette non aveva mai compreso perché si ostinasse a fare così, lui che andava tanto fiero del suo ruolo.
- Mettermi al suo livello, dici?- domandò Galvano, con la voce carica di – finto – stupore.- Che intendi dire?
- Tutte le volte che scappa è come se tu la volessi incoraggiare. Ti comporti come se il suo atteggiamento fosse normale!
- Ma è normale! Andiamo, amico mio, ha solo sedici anni. Tu non hai mai avvertito il bisogno di allontanarti dalla vita di corte?
- Io so qual è il mio dovere, e scappare sarebbe da vigliacchi.
- Non pensi di stare esagerando, adesso? Si tratta di una semplice marachella, nulla più.
- Una marachella che potrebbe costare caro a tutti e due. Hai idea di cosa potrebbe farci il re, se la principessa si facesse male?
- Cosa vuoi che le capiti, finché resta entro le mura? E’ giovane, si sarà sentita sotto pressione…
- …io invece dico che è solo una bambina viziata.
- Bambina viziata?!
I due cavalieri sobbalzarono, e un secondo dopo Lancillotto venne colpito sul capo da una ghianda che Odette aveva colto e lanciato nella sua direzione non appena aveva udito quel commento. La principessa si aggrappò con entrambe le mani a un ramo, e balzò giù dalla quercia atterrando proprio in mezzo ai due. Puntò lo sguardo furioso su Lancillotto.
- Suppongo che ora avrete il coraggio di ripetere quanto avete appena affermato!- ringhiò, con palese atteggiamento di sfida.
Galvano scoppiò a ridere.
- Se non ti conoscessi meglio, amico mio, direi che il tuo era solo uno stratagemma per farla uscire allo scoperto…!
Odette arrossì violentemente, conscia di essere stata colta in fallo. Lancillotto si massaggiò il capo con una mano, borbottando qualcosa che nessuno dei suoi due interlocutori riuscì a decifrare.
- Bene, dopo tre ore di lunga e faticosa ricerca, vi abbiamo trovata, principessa Odette - Galvano sorrise, squadrandola da capo a piedi. Odette si rese conto solo in quel momento di avere i capelli arruffati e l’abito sporco di erba e resina.- Tutto il castello vi sta cercando, lo sapete?
- Vostra madre era preoccupata - s’intromise Lancillotto ma, se in fondo Galvano faticava a trattenere un sorrisetto, lui invece era più serio che mai.- Avete idea di cos’avete combinato?!
Odette sbuffò, dandogli le spalle.
- Non sono più padrona di andare dove voglio, adesso?- chiese, rivolta a sir Galvano.- Chi ha fatto la spia, stavolta? Scommetto che è stata Odile! Quell’impicciona non sa mai tenere la bocca chiusa…!
- Non scaricate tutta la colpa su quella poveretta - l’ammonì il cavaliere, muovendo un passo nella sua direzione.- Se Odile ha fatto o detto qualcosa è stato solo perché teme per voi…
- …e per quello che il re potrebbe farle per colpa vostra!- aggiunse Lancillotto, senza nemmeno curarsi di abbassare la voce. Odette si voltò nuovamente verso di lui, stizzita.
- Ero convinta che quella fosse una vostra preoccupazione - lo rimbeccò.
- Certo che lo è. Non ho nessuna intenzione di finire nei guai per colpa vostra e dei vostri capricci!
- Ma come vi permettete?!- Odette marciò verso di lui, con tutta l’intenzione di dirgli ciò che pensava di lui e della sua ridicola ossessione per il proprio dovere, ma venne bloccata da sir Galvano. Anzi, forse sarebbe stato meglio dire che fu intrappolata da sir Galvano: il cavaliere la sollevò di peso su di una spalla, in modo che il busto di Odette fosse in direzione della sua schiena e le gambe penzoloni contro il petto dell’uomo.
- Cosa preferite? Volete scendere e tornare nelle vostre stanze utilizzando le vostre gambe, o devo riportarvi al cospetto di vostra madre in questo modo?
- Ehi, no!- Odette iniziò a ridere a crepapelle.- Questo non è per niente cavalleresco da parte vostra!
- Sopravvivrò…
Odette si dimenò, cercando di liberarsi fra le risate. Per contro, Lancillotto guardò il suo amico come se stesse compiendo chissà quale blasfemia.
- Cosa diamine stai facendo?!- lo riprese.- Non puoi fare così! E’ una reale, se vi vedesse qualcuno…
- Cos’avete, sir Lancillotto? Siete geloso, forse?- lo beffeggiò Odette, continuando a ridere.
Il cavaliere fece per rispondere, e dalla sua espressione si sarebbe trattato di una risposta oltremodo brusca e rabbiosa, ma l’arrivo di una quarta persona glielo impedì.
Tutti e tre si voltarono non appena udirono dei passi frettolosi avvicinarsi. Il sorriso di Odette scomparve, e Galvano la mise giù. Lancillotto rimase impassibile.
Si avvicinò di corsa una ragazza molto magra e dal colorito pallido, poco più grande della principessa, con grandi e dolci occhi scuri e una cascata di capelli castani e ricci. Indossava un vestito semplice, con una camicia bianca troppo larga per lei e una lunga gonna marroncina un po’ spiegazzata.
- Principessa Odette!- esclamò.- Vi…vi stiamo cercando da ore!
- Lo so, Odile…- Odette si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo alla vista della svenevole servetta. Ogni volta era la stessa storia: vi stiamo cercando da ore, principessa, dov’eravate finita?
Sembrava un’ebete.
Odile si avvicinò ansimando a causa della corsa. Si ravvivò malamente i capelli, nel tentativo di darsi un contegno. Lancillotto inarcò un sopracciglio, scoccandole un’occhiata di sufficienza.
Non era bella, e di certo il fatto che fosse una serva non aiutava; il viso aveva una forma ovale, e sarebbe stato anche grazioso se non fosse stato per quel pallore che la faceva apparire perennemente malaticcia, ma soprattutto per via di quell’espressione che sembrava esserle stata permanentemente scolpita sulla faccia: smarrita, quasi istupidita, sempre con quegli occhioni castani spalancati come se tutto il mondo intorno a lei fosse qualcosa di magico e sconosciuto. Odile aveva la perenne aria di una che è appena cascata dalle nuvole, e non appena le si faceva notare qualcosa – non necessariamente una mancanza, anche una semplice piega del vestito – pareva precipitare nello sconforto più nero, e iniziava ad affannarsi per risolvere il problema…il più delle volte peggiorando la situazione.
Era maldestra, questo non lo poteva negare nessuno ma – Lancillotto questo doveva concederglielo – non avrebbe fatto male a una mosca. Odile lavorava dalla mattina alla sera: grazie all’aiuto da parte della regina Ginevra alla sua famiglia, era divenuta la dama di compagnia personale della principessa, ma Odette era un tipo solitario e a volte anche un po’ scontroso, così quando non stava insieme a lei per aiutarla a vestirsi o assisterla durante le lezioni con i precettori, Odile dava una mano agli altri domestici in cucina o in giardino. Purtroppo il suo carattere la faceva spesso diventare bersaglio di alcuni scherzi che, tuttavia, si rivelavano sempre bonari e innocenti.
In ogni caso, lei per tutti non era altro se non la piccola Odile.
- L’avete trovata voi?- pigolò la ragazza, puntando lo sguardo su Lancillotto. Galvano inarcò un sopracciglio, abbozzando un sorrisetto; Odette si schiarì nervosamente la voce.
- Odile, non sono un oggetto. Non ho bisogno di essere trovata.
La servetta arrossì violentemente, e smise di scostarsi i riccioli che le cascavano continuamente sugli occhi.
- Io…ehm…certo, certo…naturalmente, principessa, io non avevo nessuna intenzione di…
- L’abbiamo capito cosa volevi dire, Odile, non ti affannare - Lancillotto le rivolse un sorriso che aveva metà del bonario e metà dello scherno.- In ogni caso…sì, l’abbiamo ritrovata noi.
Per tutta risposta, Odile gli rivolse un gran sorriso, avvampando ancora di più. Lancillotto guardò altrove, mentre Odette inarcò un sopracciglio e sir Galvano soffocò una risata.
- Ehm…Odile, non dovresti tornare al lavoro?- le chiese infine quest’ultimo.
- Io…a dire il vero, sir Galvano, la regina ha ordinato espressamente che la principessa venisse condotta da lei, quando fosse stata…ehm…quando l’avessimo…
- Ho capito!- Odette sbuffò, gettandosi all’indietro la chioma bionda.- Avanti, andiamo da mia madre, così potrà sgridarmi anche oggi e porremo fine a questa buffonata…
- Non dovreste parlare della regina in questo modo!- obiettò Odile.- E’ vostra madre ed era in pensiero, sono certa che…
- E falla finita, Odile!
 
***
 
- Posso parlarti di una questione, amico?
- Di che si tratta?
- Del fatto che, a mio parere, dovresti provare a essere più gentile…
- A chi ti riferisci?
- Beh, al mondo intero in generale…e alla piccola Odile in particolare.
A quella precisazione, Lancillotto smise bruscamente di camminare a fianco di Galvano, e si arrestò a guardarlo, sinceramente sorpreso. Non era raro che il suo amico gli facesse la morale, ma era la prima volta che tirava in mezzo la servetta.
- Odile?- fece eco Lancillotto.- Che cosa c’entra Odile?
- Andiamo, la tratti sempre come se fosse un cagnolino - Galvano riprese a camminare lungo uno dei tanti corridoi della reggia. Erano trascorse diverse ore dall’incidente intercorso con la principessa Odette, e il sole stava iniziando a tramontare all’orizzonte. Entrambi avevano trascorso la giornata impegnati nei rispettivi compiti, ma quella sera il re aveva convocato dodici dei suoi cavalieri a cena: Galvano e Lancillotto sapevano che non c’era un motivo particolare. Non era raro che Artù volesse trascorrere la sera in compagnia della sua famiglia e dei suoi cavalieri più fedeli, e spesso si rivelavano delle occasioni piacevoli…ma non quella sera. Sia sir Galvano che sir Lancillotto lo sapevano: c’erano tutte le carte in regola perché la serata trascorresse immersa nella tensione. Innanzitutto, le grida della regina e della principessa erano state udite in tutto il castello per due ore filate dopo il ritrovamento di Odette; in secondo luogo, ultimamente il re non era stato bene: loro non conoscevano i dettagli della sua malattia, ma stando alle voci che circolavano si diceva che si trattasse di una lieve febbre e un po’ di debolezza. Nulla di grave, all’apparenza, ma per ora nessun medico era riuscito a comprendere a cosa fosse dovuto quel malessere.
In pratica, un’atmosfera per niente rilassata; senza contare che quasi certamente sarebbero stati presenti anche Morgana, la protetta della regina, e suo figlio. E, se sir Galvano tendeva a non dare troppo peso alla cosa, Lancillotto aveva sempre faticato a tollerare Mordred e sua madre.
Tutti sapevano che Morgana, a suo tempo, era stata una cortigiana, e che Mordred, divenuto cavaliere solo grazie alla benevolenza della regina e all’influenza di sua madre su di essa, era più insidioso di un serpente: sino a quel momento non era mai riuscito a coglierlo sul fatto, ma Lancillotto non si fidava di lui. Mordred aveva un comportamento strano, sempre a bisbigliare al vicino invece di parlare ad alta voce, a fare commenti ambigui, a lasciare sempre i discorsi provocatori in sospeso come a voler sfidare l’interlocutore. Una serpe, ecco che cos’era, secondo Lancillotto; e sua madre non era da meno, sempre a lodare chiunque con le sue moine, ma nel frattempo perennemente a sussurrare chissà cosa nell’orecchio della regina.
A Lancillotto non piaceva quel genere di persone: poteva anche darsi che avessero le migliori intenzioni, ma non ne potevi avere la certezza. Mordred amava macchinare alle spalle altrui, piuttosto che parlare apertamente e cercare di collaborare per risolvere un problema. Era lontano dagli ideali cavallereschi con cui lui era cresciuto e che rispettava tutt’ora: Lancillotto forse era stato più sfortunato di Mordred, dato che aveva trascorso i primi dodici anni della sua vita vivendo in una povera catapecchia ai bordi della capitale fino a che non aveva trovato lavoro come sguattero al castello. Ma a differenza sua, il suo ruolo di cavaliere se l’era guadagnato con fatica e sacrificio, non grazie ai favori dei regnanti e di una madre dalla dubbia moralità. E forse a Mordred neppure sarebbe importato qualcosa di essere un cavaliere, se questa sua posizione non gli avesse fornito dei privilegi.
Lancillotto era diverso da lui. Era diverso, e mai avrebbe messo in gioco il proprio ruolo per tessere delle trame di corte come Mordred e Morgana. O per correre dietro alle gonne di una ragazzina.
- Io non la tratto come un cane - si difese, tenendo lo sguardo puntato di fronte a sé.- Io nutro il massimo rispetto nei confronti di Odile. E’ lei che con il suo comportamento permette alle persone di prendersi gioco di lei.
- Il suo comportamento?- ripeté Galvano.- Lancillotto, stiamo parlando della piccola Odile, ricordi? Molto probabilmente lei non si accorge neppure delle risatine che gli altri servitori si fanno alle sue spalle, o del fatto che…
- E’ un poco fastidiosa a volte, lo ammetto…- Lancillotto lo guardò.- Ma non sono mai stato brusco né offensivo e, se talvolta sono distaccato con lei, è solo per non illuderla.
- Ah, allora te ne sei accorto anche tu!- Galvano rise, estraendo da una tasca della casacca una piccola fiaschetta d’idromele sotto lo sguardo esterrefatto del compagno.- Allora, come ci si sente a essere l’amato della piccola Odile?- ghignò, buttando giù un generoso sorso di alcool.
Lancillotto gli strappò malamente la fiaschetta di mano, guardandolo con aria di rimprovero.
- Non dovresti bere quando sei in servizio.
- Non cambiare discorso. E restituiscimi la fiaschetta, l’ho pagata un occhio della testa!
Il cavaliere, per tutta risposta, si allontanò da lui di un passo, e si assicurò la fiaschetta semivuota alla cintura intorno alla casacca, nascondendola con il mantello. Tornò a guardare Galvano.
- Riesci a immaginare che cosa potrebbe succedere se qualcuno ci scoprisse con dell’idromele?
- La cosa più terribile che mi viene in mente è una ramanzina. Non ti accuseranno di certo di tradimento per una piccolezza simile…!
- Forse no, ma non ho intenzione di farmi rovinare la reputazione per colpa tua!
Lancillotto sospirò. Aveva trent’anni, e Galvano invece quarantacinque; erano amici da tanto tempo, loro due, eppure spesso si sentiva lui quello più anziano e maturo.
Non si poteva dire che Galvano fosse un cavaliere di seconda categoria o una cattiva persona, tutt’altro: era forse il migliore di tutti loro ed aveva un animo buono, ma nonostante l’età aveva sempre dichiarato di non voler rinunciare anche a quel poco di piacevole che la vita ti offriva. Era molto più espansivo di lui e si faceva molti meno problemi quando si trattava di parlare con familiarità anche alla regina o alla principessa – l’episodio di quella mattina ne era un esempio. E, sebbene Lancillotto sapesse che dietro a tutta quella giovialità si nascondesse qualcosa di più profondo, un dolore che Galvano mai avrebbe lasciato trapelare, spesso si sentiva in dovere di riportarlo all’ordine.
- Riuscirò comunque a procurarmene un’altra, stanne certo!- promise Galvano.- E, per tornare al punto…Non serve che tu ti affanni per non illudere Odile. S’illuderebbe benissimo da sola. Lo sta già facendo.
- Qualcuno dovrebbe parlarle - osservò Lancillotto, pensoso.
- Puoi farlo tu - ammiccò il compagno.
- No, non credo proprio.
- Cos’è che ti spaventa? Odile in fondo è innocua - Galvano si aprì in una gran risata.
- Mi spaventano le malelingue. L’etica dei cavalieri non prevede una cosa simile. Se si venisse a sapere sarei rovinato per sempre…
- Perché una servetta s’è invaghita di te?
- Deve smetterla. Deve cercare di darsi un contegno, o finirà per gettare fango addosso anche a se stessa.
- E’ mai possibile che sia solo il tuo ruolo e la tua reputazione a importarti?!- sbottò sir Galvano.- Non capisci che c’è solo da ridere, in questa faccenda? La piccola Odile innamorata di un cavaliere! Anche il re si farebbe delle grasse risate, se lo venisse a sapere…
- Alle mie spalle, certamente.
- Sai, potresti anche prendere in considerazione l’idea - Galvano ammiccò.- Hai trent’anni, lei diciannove. Molte persone si sposano alla vostra età…
- Non ho tempo per il matrimonio, tantomeno se le nozze in questione venissero celebrate con Odile.
- Sarebbe la volta buona in cui Mordred ti prenderebbe in simpatia.
- Questo è un altro motivo per cui voglio che Odile la smetta di rendersi ridicola.
- Spera solo che la madre della ragazza non ti somministri qualche intruglio per farti innamorare di sua figlia…Non sto insinuando che sia una strega, ma…
- Non avresti torto, sebbene credo che i filtri d’amore non facciano parte delle sue capacità.
- Credi davvero che la madre di Odile sia una strega?
- Non lo so. Certo è che non mi fido di lei, e delle streghe ancor meno…
- Anche Merlino pratica la magia.
- La magia di Merlino è bianca, mentre è raro trovare una strega che non domini le arti oscure…
- Quindi, mi stai dicendo che non metteresti mai la tua vita nelle mani di una strega?
- Per niente.
- E nelle mani di sua figlia?
Lancillotto non rispose, preferendo che la conversazione si spegnesse senza concludersi propriamente. Non perché le chiacchiere di Galvano riguardanti Odile lo stessero turbando – per lui quella ragazza non rappresentava niente –, ma perché la piega che aveva preso il discorso stava diventando oltremodo pericolosa per tutti. Non aveva idea se la madre di Odile fosse una strega…ma se così fosse stato, allora tutti loro avrebbero fatto meglio a guardarsi le spalle.
 
***
 
Stava per sbottare.
Odette sbuffò senza farsi notare, scivolando ancora di più sulla sedia. Non si stupì del fatto che nessuno le dicesse di assumere una posizione più composta: se fossero stati solo loro tre, lei e i suoi genitori, di sicuro non avrebbero mancato di rimproverarla, ma c’erano anche altre persone e non stava bene iniziare una scenata di fronte a tutti. E poi, suo padre era arrabbiato con lei.
Le parlava il meno possibile, quando era arrabbiato.
Erano in pochi, intorno a quel tavolo, e non c’era nulla di quell’allegria e festosità che caratterizzava i banchetti. Non che l’atmosfera fosse tesa – se si escludeva il fatto che sua madre tendeva a non incontrare il suo sguardo –, ma era chiaro che si trattasse di una cena fra pochi intimi. Odette piantò maleducatamente un gomito sul tavolo, appoggiando una guancia contro il mento e mescolando svogliata la propria minestra. Morgana teneva praticamente da sola la conversazione, e si rivolgeva specialmente a sua madre, parlandole a bassa voce, in maniere confidenziale quasi fossero state due amiche di vecchia data: Ginevra sembrava apprezzare la conversazione, e rispondeva con un sorriso proponendo a sua volta altri argomenti. Quando non erano annoiati dalle chiacchiere di Morgana, Artù si permetteva di alzare un po’ di più la voce per rivolgersi a Merlino, Galvano, Lancillotto, Mordred e i pochi altri cavalieri presenti. Parlavano tranquillamente, ma gli argomenti che sfioravano riguardavano tutti la politica del governo, amministrazioni dei terreni e cose simili, di cui Odette non capiva nulla; avrebbe voluto poter parlare un po’ con Merlino – l’anziano mago era praticamente uno di famiglia e l’aveva sempre incuriosita con i suoi racconti di magia, sebbene avesse sempre respinto le sue infinite richieste di diventare la sua apprendista; e, agli occhi di Odette, aveva il grande merito di non trattarla come una bambina sciocca e capricciosa né di considerarla una perfetta incapace come invece facevano i suoi genitori –, ma non poteva farlo.
In primo luogo perché Merlino era seduto a diversi posti di distanza da lei, e per parlargli la principessa avrebbe dovuto alzare la voce così da farsi notare da tutti – non esattamente un’idea brillante, visto e considerato che aveva appena litigato con sua madre. E poi, quella sera la sfortuna l’aveva colpita ben due volte facendola capitare seduta proprio accanto a Mordred.
In quel momento, non le sarebbe potuta capitare disgrazia peggiore.
A Odette lui non piaceva, e non ne aveva mai fatto mistero con nessuno, sebbene suo padre le avesse sempre ripetuto che non avrebbe potuto trovare alleati e amici migliori dei cavalieri. Forse era anche vero, ma ciò non toglieva che stentasse a fidarsi del figlio di Morgana. E aveva le sue buone ragioni.
Non solo con lui non c’era mai stato il rapporto di complicità e fiducia che vigeva con Galvano e con la maggior parte degli altri cavalieri – e anche con Lancillotto, sì –, ma accanto a lui Odette aveva sempre avvertito una sorta di campanellino d’allarme, proprio come quelli che sua madre impiegava per chiamare le serve nella sua stanza.
Era un ragazzo ancora giovane, anche più di Lancillotto – doveva avere circa venticinque anni, se non di meno; aveva un colorito pallido, un volto allungato incorniciato da una chioma di capelli neri e lisci che gli arrivavano sino alle spalle. Gli occhi grigi avevano una forma allungata, e in essi era sempre presente una sorta di brillio perverso, una luce che sembrava volerti dire stai attenta, io sono qui e posso farti tutto ciò che voglio. Nulla di rassicurante, poco ma sicuro.
Odette gli lanciò solo un’occhiata di sottecchi, sospirando di sollievo quando lo scoprì impegnato a rispondere a una domanda di sua madre; abbassò lo sguardo, ingoiando due o tre cucchiaiate di minestra, quando…
…qualcuno la stava toccando da sotto il tavolo. Più precisamente, qualcuno stava strusciando una gamba contro il suo ginocchio approfittando della tovaglia che copriva il misfatto. Odette smise di mangiare di botto, tanto che Ginevra le lanciò una rapida e indagatoria occhiata, e poco ci mancò che la minestra le andasse di traverso. Sgranò gli occhi, a metà fra il sorpreso e lo sconcertato.
Si chiese per un attimo se non fosse stata solo un’impressione, ma subito ogni suo dubbio venne fugato: qualcuno stava veramente strusciando una gamba contro la sua coscia, in barba a ogni forma di decenza e di rispetto.
E Odette aveva l’assoluta certezza dell’identità di questo qualcuno.
Si drizzò sulla sedia, scoccando non vista un’occhiataccia a Mordred. Il cavaliere intercettò il suo sguardo ma, invece di smettere immediatamente d’infastidirla e assumere un’espressione di pentita vergogna, le rispose con un sogghigno e non accennò a cessare le sue molestie. Odette s’impose di mantenere la calma, e accavallò le gambe in modo da sottrarsi al suo tocco ben poco gradito.
- E…quale vestito indosserete in occasione del ballo in maschera, Vostra Altezza?- cinguettò all’improvviso Morgana, rivolgendosi a lei. Odette ringraziò mentalmente che avesse pronunciato la domanda con dovizia di particolari, dal momento che non aveva ascoltato una parola della conversazione.
- Odette sarà un cigno bianco - sua madre rispose per lei.- Abbiamo fatto preparare un abito apposta per lei. E’ meraviglioso…
 
CONTINUA…
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Il capitolo che avete letto l’ho praticamente già scritto tutto e ho calcolato che venivano fuori ben 37 pagine! Per questo motivo ho deciso di dividerlo. Non fraintendetemi, forse penserete che ci sto prendendo gusto ma vi assicuro che ODIO spezzettare i capitoli; tuttavia, a volte ritengo opportuno farlo perché troppe pagine scritte possono annoiare chi legge. In ogni caso, pubblicherò il seguito di The Black Swan la settimana prossima, in modo di arrivare a marzo con il ritorno sulle scene di Anya e Liz. Il capitolo per intero comprende la suddetta parte (di “presentazione” diciamo) più la parte del ballo in maschera e dell’intervento di Tremotino (che, faccio un piccolo spoiler, qui non combinerà gran che, ma approfitterà della nuova situazione creata dal ballo per intervenire). La prossima parte riprenderà direttamente dall’ultima frase di Ginevra. Ringrazio x_LucyW, Jessica21, SognatriceAocchiAperti, _EllaZaZa_, Gaia_neve_, Princess Vanilla e Sylphs per aver recensito :).
A presto (MOLTO presto :).
Beauty

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Capitolo 26
*** The Black Swan - Odile's Plan ***


The Black Swan – Odile’s Plan
 
La principessa alzò gli occhi al cielo.
Sì, come no…meraviglioso, certo…
Inutile dire che era stata sua madre a scegliere quel travestimento. Odette avrebbe voluto vestirsi come uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda – aveva anche già organizzato tutto, e sir Lionel che fra tutti era il più magro si era persino offerto di prestarle la sua casacca blu con ricamata la croce bianca; le era sembrata una bella idea, che le avrebbe permesso di distinguersi in mezzo a tutto quello stormo di damine imbellettate e incipriate, e sarebbe anche stata originale.
Ma naturalmente quando ne aveva parlato ai suoi genitori l’effetto era stato lo stesso che avrebbe ottenuto con una delle sue fughe. Ginevra si era messa le mani nei capelli e le aveva detto che mai e poi mai una principessa avrebbe fatto una cosa simile e che lei, Odette, non si sarebbe azzardata a fare il suo ingresso nella sala da ballo conciata in quel modo fino a che fosse stata in grado di impedirglielo. La reazione di suo padre fu di gran lunga più pacata, ma di fatto aveva ricevuto un rifiuto anche da parte sua: Artù le aveva spiegato che non sarebbe stato decoroso da parte sua presentarsi mascherata in quel modo, senza contare che molti avrebbero potuto scambiare uno scherzo innocente per una vera e propria beffa ai danni dei cavalieri – non poteva accadere una cosa simile, dato che essi erano legati a un serio e profondo codice d’onore che imponeva loro di porre il bene del regno e dei suoi sudditi prima che del proprio; erano una categoria molto rispettata e ammirata a Camelot, dunque non era proprio il caso che lei e la sua mania di protagonismo mettessero a repentaglio la loro reputazione.
Odette non aveva replicato solo perché Artù era convalescente e ancora debole, ma in condizioni differenti non avrebbe esitato a rispondergli per le rime. In ogni caso, le parole di suo padre erano state sufficienti per porre fine alla discussione, e in capo a cinque minuti Ginevra aveva già fatto chiamare sarte e domestiche e ordinato loro di cucire alla principessa un vestito su misura.
Odette non aveva neppure avuto modo di mettere bocca nella questione. Perlomeno, se proprio non poteva fare come voleva lei per amor della rispettabilità, sarebbe stato giusto che le lasciassero la possibilità di trovare un compromesso fra i suoi gusti e il suo status. Non c’era stato verso. Ginevra aveva stabilito tutto senza consultarla, e alla fine si era ritrovata con quell’affare tutto pizzi e fronzoli in mano, affare che sarebbe stato il suo costume per il ballo in maschera.
Alla richiesta da parte di Odette di spiegazioni su una tale scelta, sua madre aveva risposto che il cigno bianco era perfetto per lei, bionda, bella, regale, snella e aggraziata.
Sul bionda, snella e regale, la principessa non aveva nulla da dire…ma dove diamine li aveva presi sua madre quel bella e quell’aggraziata?
In ogni caso, la sostanza cambiava di ben poco: cigno bianco doveva essere, e cigno bianco sarebbe stata.
…Mordred non si era dato per vinto. Ora si era azzardato perfino a scivolare sulla sedia in modo da poter colmare la distanza che la principessa aveva creato fra di loro accavallando le gambe. Odette sussultò, infastidita, non appena avvertì il ginocchio del cavaliere sfiorare il proprio. Provò a spostare ancora le gambe, ma non avrebbe potuto sottrarsi in eterno standosene seduta.
Avrebbe anche potuto scattare in piedi e denunciare a gran voce quello che stava succedendo, ma Mordred avrebbe sempre potuto negare. C’era quella maledetta tovaglia a coprire i suoi misfatti, e sarebbe stata la sua parola contro quella del cavaliere. E, visto quello che lei combinava pressoché ogni giorno, non ci sarebbe stato da stupirsi se Artù e Ginevra avessero creduto al figlio di Morgana, invece che a lei.
Pregò che la smettesse.
Sir Galvano, seduto accanto a Merlino, quasi di fronte a lei, parve accorgersi che qualcosa non andava, e smise di mangiare, sollevando lo sguardo. Lancillotto l’imitò, anche se non riuscì a comprendere immediatamente a cosa fosse dovuto il comportamento del cavaliere.
Chi invece aveva capito tutto era Merlino. Il mago fulminò Mordred con un’occhiata truce, imponendogli silenziosamente di smetterla. Tuttavia, questi replicò con un sorrisetto sghembo.
Odette prese ad agitarsi nervosamente sulla seggiola.
A quel punto, anche ad Artù fu chiaro che qualcosa non andava. Ma sia sir Galvano che sir Lancillotto stavano guardando lei, Mordred appariva più rilassato che mai e lei continuava ad agitarsi come se avesse avuto una combriccola di goblin che saltellava sul suo grembo.
- Odette, che ti succede?- domandò il re, inarcando le sopracciglia.- Ti senti bene?
- Io…- no, non sto bene! Questo idiota continua a infastidirmi!.- Sì, certamente, padre. Sto bene.
- Sei sicura?
- Sì…
Ora tutti i presenti tenevano lo sguardo puntato su di lei. Odette si accorse che Mordred aveva smesso di colpo di tormentarla; pensò che ciò fosse dovuto al rischio di venire scoperto, ma poi intercettò lo scambio di sguardi che stava intercorrendo fra lui e sua madre: Morgana fingeva di essere concentrata sul suo piatto, ma continuava a fulminarlo di sottecchi con sguardi di fuoco.
Era l’unica ad aver compreso cosa stesse succedendo in realtà insieme a Merlino, ma era ovvio che non dicesse nulla: si trattava di suo figlio, in fin dei conti, era naturale che non volesse che gli fosse gettata addosso infamia.
Odette inspirò a fondo, cercando di rilassarsi. Artù le scoccò un’occhiata sospettosa, ma non disse nulla, e riprese a parlare con sir Galvano. Mordred non l’infastidì più, ma né Ginevra né Morgana avevano terminato la loro conversazione.
- Desideravo parlarti di tua figlia, Morgana - disse la regina.
- Cos’ha combinato quella disgraziata?- la donna si mise sulla difensiva.- Qualunque cosa sia accaduta, Vostra Maestà, vi posso giurare che…
- Non ti agitare, Morgana. Non è successo nulla. Tua figlia è una ragazza deliziosa - Ginevra sorrise.- Volevo parlarti di lei proprio a proposito del ballo. Ha diciannove anni e lavora tutto il giorno senza mai fermarsi. Tu e Mordred parteciperete, ma se anche tua figlia desidera venire, ti prego di dirle che saremo ben lieti di averla con noi.
Morgana si rilassò, e il suo volto non più giovane e un poco segnato dalla sua vita passata si distese, aprendosi in un leggero sorriso.
- Vi ringrazio, Vostra Maestà, siete infinitamente gentile, ma mi vedo costretta a rifiutare. Mia figlia non è certo il genere di ragazza abituata a queste occasioni. Non è mai stata a un ballo in vita sua.
- Beh, questa sarebbe un’ottima occasione per iniziare…- insistette Ginevra.- Ha diciannove anni e non è ancora sposata. Magari, se partecipasse, potrebbe conoscere qualche giovane che fa al caso suo…
- Ancora mille grazie, Vostra Maestà, ma devo declinare. Voi siete molto buona, ma conoscete mia figlia: è goffa, per nulla attraente, e pressoché priva di qualsiasi virtù che gli uomini ricercano in una donna, senza contare che non sa danzare. E poi…- Morgana sogghignò e si rivolse a Odette.- Come tutti ben sappiamo, questa serata è in onore della principessa. Spetta a lei avere l’attenzione di tutti i gentiluomini su di sé, dico bene?
- Non è nelle mie priorità - replicò Odette, pentendosene un secondo dopo. Ammutolì, mordendosi la lingua, ma ormai era troppo tardi. Con la coda dell’occhio, vide che suo padre aveva preso a fissarla insistentemente, e che sua madre aveva iniziato a illividire per la rabbia.
Morgana sbatté più volte le palpebre, perplessa.
- C-come avete detto, Vostra Altezza?- domandò.
Odette prese un lungo e profondo respiro. Si era messa nei guai da sola, lei e la sua dannata boccaccia. Perché non stava mai zitta?! Ormai non avrebbe più potuto cavarsene fuori…e forse, nemmeno lo voleva. Ne aveva abbastanza di fingere.
Beh, pensò, ora che sei in ballo, Odette, tanto vale che cominci a ballare.
- Intendo dire che non rientra nei miei obiettivi avere su di me l’attenzione di tutti i partecipanti uomini del ballo - spiegò, nel modo più pacato e risoluto che le riuscì, ma poteva avvertire la tensione montare fra se stessa e i suoi genitori.- Ho ben altro a cui pensare, in questo momento.
- Vostra Altezza mi perdonerà se ho inavvertitamente pronunciato qualcosa che non intendevo - si scusò Morgana.- Stavo solo constatando che per voi questa sarà l’occasione per poter scegliere un marito, ecco tutto. E la vostra modestia vi fa onore…
- Al contrario, Morgana, non hai detto nulla di sbagliato - Odette bloccò sul nascere l’ennesimo tentativo di adulazione della donna che, ne era certa, se stavolta fosse andato in porto le avrebbe dato il voltastomaco.- Stavo semplicemente mettendo in chiaro che né tu né nessun altro dobbiate aspettarvi che io scelga un marito dopo averlo visto solo una sera…
- Odette…- sibilò minacciosamente Ginevra, intimandole con lo sguardo di stare zitta, ma la principessa fece finta di nulla. Era sempre così: poteva anche fingere che tutto andasse bene per un certo periodo, ma presto o tardi la verità sarebbe venuta a galla. Ormai era scatenata, e non aveva alcuna possibilità di fermarsi, neppure se l’avesse voluto.
- Temo di non capire…- Morgana azzardò un altro dei suoi sorrisi melliflui, ma era chiaro come il sole che faticasse a far fronte a una situazione in cui un paio di moine e una frasetta dolce non bastavano a chetare gli animi.
- Credo di essermi spiegata sufficientemente bene - ormai Odette avvertiva su di sé lo sguardo di tutti, in particolare quelli di sir Galvano e di sir Lancillotto. E di Merlino, ma a differenza loro lui sembrava più uno spettatore interessato ma emotivamente distaccato di un torneo.- I miei genitori hanno organizzato questo ballo nella speranza di affibbiarmi un qualche damerino danaroso e di nobili natali perché mi considerano troppo stupida per poter sopravvivere senza un marito, ma come è già accaduto altre volte, ho messo in chiaro che non ho alcuna intenzione di scegliere uno di quegli idioti solo per renderli felici.
- Odette, bada a come parli!- l’ammonì sua madre; la regina ora era completamente livida di rabbia e, Odette avrebbe potuto giurarlo, moriva dalla voglia di darle un ceffone. Ma non si sarebbe mai azzardata a farlo, non in presenza di ospiti. Questo le diede maggiore coraggio.
- Non ho detto nulla di male - ribatté, ostentando innocenza.- A meno che dire la verità non sia considerato un male.
- Odette, ora basta!- ordinò Ginevra.- Smettila. Sai che quello che stai dicendo non è assolutamente vero…
- Io so solo che volete impormi la vostra volontà senza chiedermi nulla!
- Lo stiamo facendo per te!- la regina si alzò in piedi fra lo sgomento di tutti.- Sai che prima o poi ti dovrai sposare, nessuno t’impone di scegliere ora, ma…
- Ma, cosa?- Odette le lanciò uno sguardo di sfida.- Non tutte sono fortunate come lo siete stata voi, madre!
- Odette, questo non te lo permetto!- tuonò improvvisamente Artù, che per tutto il tempo era rimasto in silenzio ad assistere al diverbio. Sulle prime appariva come una delle solite discussioni inutili fra sua moglie e sua figlia, ma dopo quell’allusione non aveva intenzione di farla passare liscia a Odette.- Stai parlando con tua madre, è bene che le porti rispetto!
- E voi, a me, di rispetto ne portate?- ringhiò la principessa.- E’ rispetto quello che mi state facendo da anni? E’ rispetto farmi vivere come una reclusa, impedirmi di vivere la mia vita per poi scaricarmi sulle spalle del primo di passaggio?
- Noi vogliamo solo il tuo bene, lo sai…- mormorò Ginevra, colpita sul vivo.
- E il mio bene sarebbe lasciarmi marcire in queste dannate quattro mura?!- Odette imitò il gesto di sua madre, e scattò in piedi a sua volta.- Non ve ne importa niente di me! Per sedici anni non avete fatto altro che rovinarmi la vita!
- Odette…- iniziò Artù.
- Mio signore, forse sarebbe opportuno…- provò a intromettersi Lancillotto, ma il re lo fulminò con lo sguardo.
- Questi sono affari di famiglia, sir Lancillotto, non v’immischiate!- lo redarguì Artù, al che il cavaliere ammutolì e volse lo sguardo altrove. Odette vide che era impallidito dalla rabbia.
- Odette, non credere che questo tuo comportamento resterà…- Artù s’interruppe di colpo, e sbiancò in volto, cominciando a tossire furiosamente. Il re si portò una mano alla bocca nel tentativo di frenare i colpi di tosse, ma a nulla servì; anzi, questi aumentarono e si fecero sempre più forti, brevi e secchi come l’ascia di un boia che mozza di netto la testa di un condannato. Artù si accasciò sulla sedia, scosso dai colpi di tosse e dai tremori.
- Vostra Maestà!- Merlino si alzò repentinamente in piedi, raggiungendo il sovrano.
- Artù!- esclamò Ginevra, precipitandosi verso suo marito. Un attimo dopo, tutti i presenti la imitarono, accompagnati da mormorii sgomenti. Morgana si portò le mani al volto con espressione sconvolta. Galvano disse che forse era opportuno chiamare il medico di corte, ma dopo poco Artù parve calmarsi. Il colpi di tosse diminuirono in numero e in intensità, fino a divenire sporadici; ma il re era pallido come un cencio, e tremava. Ginevra gli massaggiò le spalle con aria preoccupata, cercando di aiutarlo a calmarsi.
Odette non si era mossa. Era rimasta immobile in piedi al suo posto, assistendo alla crisi di suo padre senza dire o pensare nulla, come se un incantesimo l’avesse congelata. Boccheggiò, muovendo timidamente un passo verso Artù.
- Padre…- mormorò con un fil di voce, cercando di avvicinarsi, di toccarlo, ma non appena ci provò sua madre le rivolse uno sguardo talmente feroce da farla arretrare.
- Tu per stasera hai finito!- ringhiò Ginevra, senza allontanarsi da suo marito.- Razza di egoista! Sapevi che tuo padre stava male, e guarda che cos’hai combinato!
- Io…io non volevo…- pigolò la principessa. Si accorse che le stava pizzicando il naso, segno inconfutabile che le lacrime erano dietro l’angolo.- Padre…madre…mi dispiace tanto, io…
- Vai in camera tua!- ordinò Ginevra.- Esci da questa stanza, immediatamente!
Odette non rispose, rimanendo a fissare ancora per qualche istante suo padre che stava iniziando a riprendersi. Il pizzicore al naso era aumentato. Si voltò, cercando di trattenersi dal correre mentre si avviava verso la porta, cosa che le costò uno sforzo immane.
Una volta raggiunta la porta sgusciò fuori con rapidità, richiudendosi i battenti alle spalle. Mosse qualche passo nel corridoio deserto, e il rumore dei tacchi delle sue scarpe contro il pavimento rimbombò sui muri di pietra. Odette raggiunse una colonna poco distante, aggrappandovisi e lasciandosi scivolare contro la parete fino a ritrovarsi seduta sul pavimento.
Si sfregò con forza il volto per debellare quel pizzicore al naso, inspirando profondamente.
Non l’aveva fatto apposta. Davvero. Mai e poi mai avrebbe voluto far star male suo padre, ma quando aveva iniziato a litigare con Ginevra era stato come se il mondo intorno a loro due fosse scomparso. C’erano solo lei e sua madre, un rancore mal sopito, e nulla più. Il suo risentimento era stato in grado perfino di farle dimenticare il malessere che aveva colpito Artù negli ultimi giorni.
Odette si portò le ginocchia al petto, abbracciandosi le gambe. Avrebbe voluto piangere, di certo l’avrebbe aiutata a sfogarsi, ma si sarebbe sentita ancora più egoista.
Rimase seduta in quella posizione senza pensare a nulla per un tempo che le parve infinito, e a riportarla alla realtà fu il rumore della porta della sala da pranzo che si apriva e si richiudeva un attimo dopo. Odette sollevò appena il capo quando l’udì. E’ mia madre che viene a darmi una strigliata, pensò istintivamente, e ne era talmente sicura che si stupì non poco di ritrovarsi di fronte Merlino.
Odette alzò lo sguardo su di lui, perplessa. Il vecchio mago aveva un’espressione seria ma allo stesso tempo calma e composta, non esattamente quella di chi è intenzionato a farti una lavata di capo. Anzi, per un attimo la principessa fu quasi certa che stesse sorridendo.
La regola avrebbe voluto che lei si alzasse immediatamente – a dirla tutta, la regola non avrebbe nemmeno previsto che lei si sedesse per terra nel bel mezzo del corridoio come un gatto domestico –, ma in quel momento Odette non ci pensò; e fu ancora più stupefatta quando Merlino si chinò verso di lei e le tese una mano, aiutandola a rialzarsi.
La principessa non lo guardò negli occhi, ripulendo il proprio abito dalla polvere per prendere tempo.
Fu il mago a parlare per primo.
- Come vi sentite?- le domandò, con pacata gentilezza.
- Non sono andata in camera mia come mi ha ordinato mia madre, ma penso che lo farò presto- replicò amaramente Odette, stringendosi nelle spalle. Merlino sospirò, incrociando le braccia al petto, facendo sparire le proprie mani rugose e affusolate sotto le ampie maniche della tunica nera con il cappuccio che indossava.
- Non prendetevela per ciò che ha detto la regina. Lei vi vuole bene, principessa…
- Non volevo far star male mio padre - disse Odette, mordendosi il labbro inferiore.- Ve lo giuro, Merlino, non avevo alcuna intenzione di…
- Lo so - l’interruppe il mago.- Lo so, principessa. Ma, se posso permettermi di darvi un consiglio, è bene che voi e i vostri genitori, in particolar modo vostra madre, riusciate a trovare un punto d’incontro. La vita è già abbastanza complicata, e litigi e incomprensioni sono naturali fra le persone, specialmente all’interno di una famiglia, e spesso si rivelano anche utili; ma, se sono troppi e soprattutto ingiustificati, la rendono ancora più difficile.
- E’ che a volte mi sembra di essere una prigioniera in casa mia!- sbuffò Odette, allargando le braccia con fare esasperato.- Non posso uscire dalla mia stanza da sola, non posso vestirmi come voglio, non sono libera nelle mie azioni, e tutte le volte che apro la bocca è come se si scatenasse una tempesta. Non sono mai nemmeno uscita dalle mura del castello!
- Tutto ciò che posso dirvi in merito, principessa, è che i vostri genitori, specialmente la regina, non si comportano in questo modo senza una motivazione - Merlino sospirò nuovamente.- Vorrei aiutarvi, ma non so proprio come fare…
- Beh, io invece lo saprei - Odette incrociò le braccia al petto, scoccandogli un’occhiata accusatoria.- Se mi permetteste d’imparare la magia da voi, forse le cose migliorerebbero.
- I problemi non si risolvono con la magia, principessa.
- D’accordo. Ma se non altro, potrebbe aiutarmi - insistette Odette.- E’ da quand’ero bambina che vi chiedo di diventare la vostra apprendista, e voi continuate a rifiutare. Ditemi la verità: anche voi mi considerate una bambinetta stupida e incapace come i miei genitori?
- Nessuno qui ha mai pensato una cosa simile di voi, Vostra Altezza; e, per quanto riguarda il farvi diventare la mia apprendista, ho sempre avuto i miei buoni motivi per negarvelo.
- Riguarda il mio status, per caso?
- Il fatto che io continui a rifiutarmi di insegnarvi la magia, non ha nulla a che fare con voi o la vostra appartenenza alla famiglia reale. Ho fatto voto di non prendere più alcun apprendista molto tempo fa…
- Perché?
Merlino parve essere non poco turbato da quella domanda, e non le rispose. Odette si avvicinò a lui di un passo, guardandolo negli occhi.
- Avete promesso di rispondere sinceramente a ogni mia domanda, Merlino. Tenete fede alla vostra promessa, adesso.
Il mago sospirò, annuendo mestamente.
- Avete ragione. Ve l’ho promesso…- fece una pausa, come se stesse cercando le parole adatte.- In vita mia ho avuto solo due apprendisti, ed entrambi mi furono sottratti dalle forze oscure. Le tenebre strapparono via la vita del primo, mentre il secondo si lasciò sedurre dalla magia nera. Non voglio che una cosa simile accada di nuovo…
- C’era una connessione fra di loro? Intendo dire…ecco…l’Oscurità colpì entrambi, sebbene in modo diverso, ma…proprio per questo mi chiedo se ci fosse qualcosa che li unisse, come un vincolo o…
- Un vincolo?- fece eco Merlino.- Oh sì, principessa. Un vincolo molto più stretto di quanto si possa immaginare…
- Che cosa…
Odette non poté terminare la frase, dal momento che un rumore di passi e di sedie spostate accompagnato da un mesto vociare iniziò a provenire da oltre i battenti serrati della sala da pranzo, segno che suo padre si era ripreso e che la cena stava per concludersi prima del tempo.
Sua madre le aveva ordinato espressamente di recarsi nelle sue stanze, e lei era ancora lì. Senza scorta, peraltro, anche se molto probabilmente con quel che era successo Ginevra dovesse essersene dimenticata. Odette fece una rapida riverenza a Merlino, accompagnata da un’occhiata eloquente che il mago comprese al volo, e si allontanò in fretta, svoltando l’angolo. Non aveva voglia di farsi rimproverare ancora da sua madre…ma ciò non significava che aveva intenzione di obbedirle.
Non sarebbe andata in camera sua, non per il momento. Quella sera aveva combinato parecchi disastri, e non si riferiva solo all’aver fatto star male Artù. A quel punto, sentiva di dovere delle scuse anche a un certo bacchettone di sua conoscenza…
 
***
 
Suo marito sembrava essersi ripreso ma, sebbene per tutto il tragitto che lo separava dalle sue stanze non avesse fatto altro che cercare di rassicurare lei, le guardie e i cavalieri che lo accompagnavano, era ancora molto pallido e qualche sporadico colpo di tosse si faceva ancora sentire. Ginevra aveva ordinato alle guardie e ai domestici che il re fosse lasciato riposare, e aveva fatto chiamare il medico di corte: questi aveva rassicurato i due sovrani dicendo che si trattava solo di un piccolo malore, che non c’era nulla per cui inquietarsi, e se n’era andato raccomandando tanto riposo e tranquillità. Dopo le sue parole, Ginevra si era un poco tranquillizzata, e anche Artù sembrava stare meglio, tanto che in capo a un paio d’ore si era addormentato, ringraziando tutti quanti per l’aiuto e il supporto. Quel tesoro di Morgana era stata così gentile da preparargli perfino una tisana per dormire.
Ginevra trovò il coraggio di allontanarsi da suo marito solo a notte fonda, facendosi riaccompagnare nella propria camera da letto da un drappello di dame assonnate almeno quanto lei. Morgana e altre due serve l’aiutarono a spogliarsi e a indossare la camicia da notte di seta bianca; la sua protetta le aveva persino pettinato i capelli e glieli aveva acconciati in una treccia per la notte, offrendosi di restare ancora un poco con lei se l’avesse desiderato, ma la regina di Camelot l’aveva congedata quasi subito. Non voleva abusare della gentilezza di Morgana, né sottrarle ore di sonno preziose. E poi, aveva bisogno di stare sola. Di riflettere. Crollava dal sonno, ma sapeva che il ricordo di quel che era accaduto quella sera le avrebbe impedito di riposare.
Ormai Odette stava diventando ingestibile. Ginevra non sapeva proprio più cosa fare con lei: da sempre, sin da quando sua figlia era poco più che una lattante, aveva sempre intuito che il rapporto che la legava a suo padre era molto più saldo e affettuoso di quello che aveva con lei, e aveva accettato la cosa con muta rassegnazione. Sapeva che in parte era colpa sua, che forse, se fosse stata una madre meno oppressiva, Odette sarebbe potuta crescere con un modo più sereno nel rapportarsi con lei. Ma ormai quel che era fatto era fatto, anche se Ginevra non era disposta a tollerare un comportamento come quello che aveva esibito poche ore prima.
Qualche piccola ribellione poteva sopportarla; poteva passare sopra a risposte impertinenti, comportamenti maleducati, e anche al rancore che sua figlia nutriva nei suoi confronti. Ma stavolta Odette aveva esagerato, era arrivata al punto da far star male suo padre pur essendo a conoscenza delle sue condizioni di salute.
L’indomani stesso avrebbe provveduto a…
- Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà…
Quella cantilena querula e ossessiva proruppe nella stanza così inaspettatamente che Ginevra sobbalzò, aggrappandosi ai braccioli della poltroncina su cui era seduta e conficcando le unghie nell’imbottitura tanto da lacerarla. La regina boccheggiò, sentendo che il cuore aveva spiccato un balzo nel suo sterno fino a raggiungere la gola. Si guardò intorno freneticamente: la porta era chiusa, le imposte sbarrate. Non c’era modo che qualcuno fosse entrato.
Ginevra continuò a far dardeggiare lo sguardo tutt’intorno, con il cuore che batteva a mille e il respiro affannoso. Non c’era nessuno. E ora tutto era immerso nel silenzio.
La regina tirò un lungo sospiro, allentando la presa intorno ai braccioli. Forse l’aveva immaginato, pensò. Sì, certamente era stato così: con tutto quel che era accaduto, Artù, Odette, non ci sarebbe stato da stupirsi se…
- Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà…
Di nuovo, all’improvviso, quella specie di filastrocca risuonò fra le pareti della stanza, stavolta più chiara, più nitida, più forte. Ginevra si sentì invadere dal panico, e si alzò precipitosamente in piedi, aggrappandosi con le mani al bordo della toeletta. Fece nuovamente dardeggiare lo sguardo per la stanza, ma non vide nulla: ma stavolta ne era certa, sapeva di non stare sognando, sentiva di non essere sola.
E le era bastato risentire quella voce una volta sola per ricordarsela, a distanza di sedici anni.
Iniziò a sudare freddo, a respirare affannosamente.
No…no, per favore…No, ti prego, vattene…
Serrò le palpebre istintivamente, quasi come se non vedendo nulla potesse anche non udire, potesse scacciare la presenza oscura e sinistra che si trovava in quel momento nella stanza insieme a lei. Era stupido e inutile, ma non le restava altro.
- …lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio!
- No!- lo strillo le uscì dalla bocca tanto acuto quanto disperato; Ginevra spalancò gli occhi, iniziando ad affannarsi nella stanza, freneticamente. Era pallida, madida di sudore, tremava e aveva lo sguardo spiritato: sembrava fosse stata colta dalla follia.
Spalancò le ante del guardaroba e tirò via alcuni vestiti per controllare che non ci fosse nascosto qualcuno dietro, ma non trovò nessuno. Sollevò le lenzuola e guardò sotto al letto, ma anche lì non c’era nessuno. Ginevra si precipitò verso la porta e girò la chiave nella serratura, quindi vi si appoggiò contro, con gli occhi febbricitanti e spalancati a scrutare la stanza vuota.
Chiamare le guardie, suo marito…sarebbe stato tutto inutile. L’avrebbero presa per pazza. In quel momento, le sembrava che neppure l’aiuto di Merlino sarebbe servito a qualcosa.
C’erano solo loro due. Lei e quel…quel…quel mostro.
- Dove sei?- soffiò con un filo di voce.
Per tutta risposta, una risatina maligna rimbombò contro le pareti, originando un eco che parve non estinguersi mai. Ginevra si sentì invadere dal terrore, e credette di stare per morire quando la voce di Tremotino risuonò nella stanza, stavolta non più strascicata e cantilenante, ma chiara e minacciosamente reale.
- Hai sentito la mia mancanza, Ginevra figlia del mugnaio?
- No!- questa volta l’urlo della regina fu ancora più acuto, ancora più disperato; si mise le mani nei capelli, si graffiò il volto con furia lasciandosi cadere in ginocchio e iniziando a singhiozzare furiosamente, scossa da tremiti.- No! No, ti prego, no!
Un’altra risata giunse in risposta alle sue suppliche. Ginevra gridò, un grido sordo di paura mista a pura e gelida disperazione, quella disperazione che non ti permette neppure di reagire, di pensare, di vedere una via d’uscita. Perché una via d’uscita non esisteva: lui era tornato, e lei era precipitata di nuovo in quell’incubo, l’incubo che l’aveva tormentata quando era solo una sposa diciassettenne e incinta, l’incubo che l’aveva perseguitata per ben sedici anni facendola vivere nel terrore di risvegliarsi un giorno e scoprire che quello stesso brutto sogno fosse la realtà.
E quell’incubo adesso era tornato, e si era rivelato spaventosamente reale…e con la stessa crudeltà della realtà, avrebbe inghiottito nel buio tutto ciò che restava di buono e luminoso.
- Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà! Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio…- la cantilena era ricominciata, terribile e ossessiva, e Ginevra gridò ancora più forte.
- No! No, ti prego! Ti prego, basta!- implorò fra le lacrime.
- Tremotino io mi chiamo, ma la regina non lo sa…
- No! Basta!
- …il mio nome mai indovinerà, e la principessa mia sarà…
- Maledetto!- gridò Ginevra al vuoto, con furia disumana.- Maledetto! Che tu sia maledetto!
Un’altra risata. Ormai la regina non poteva fare altro se non singhiozzare istericamente, senza freno. La sua mente riusciva ad articolare solo due parole: è tornato.
- Va’ via! Maledetto! Vattene via!
- Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà…Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio…Tremotino io mi chiamo, ma la regina non lo sa…Il mio nome mai indovinerà, e la principessa mia sarà…
Ginevra svenne.
 
***
 
Odile consumò in cucina la sua minestra di porri come ogni sera, prima di scendere agli alloggi dei domestici per raggiungere la propria stanza. Grazie all’interesse della regina Ginevra per la sua famiglia, aveva avuto la fortuna di poter avere una camera tutta sua e, anche se quelle di sua madre e di suo fratello erano molto più comode e lussuose, non se ne lamentava. Preferiva stare un po’ scomoda, ma quantomeno il più al riparo possibile dagli scherzi e dalle canzonature degli altri domestici e degli altri servi, che invece avevano a disposizione due camerate, una per le donne e l’altra per gli uomini, dove dormivano tutti insieme.
La maggior parte di loro doveva già essere a letto da un pezzo, ma per lei quella sera non era ancora il momento di dormire. Era scesa nella sua camera solo per togliersi il grembiule e darsi una sistemata: quella sera la principessa era dovuta stare alzata più tardi del solito come sempre accadeva in occasione di feste o banchetti, e lei doveva prima recarsi nelle sue stanze per aiutarla a prepararsi per la notte, prima di potersi riposare a sua volta.
Odile aprì piano la porta della camera e vi sgusciò dentro attenta a non fare rumore per non svegliare gli altri servi. Una volta era accaduto che uno dei garzoni si svegliasse perché lei aveva fatto cadere inavvertitamente una scodella di ferro sul pavimento. Lei non se n’era nemmeno accorta e lui si era rimesso a dormire quasi subito, ma la mattina seguente era entrato in cucina come una furia e le aveva rovesciato in testa il bicchiere di latte che stava bevendo, dicendole di stare più attenta la prossima volta. Non le andava di ripetere un’esperienza simile.
La cameretta era stretta e angusta, e semibuia. Odile accese una candela e la pose sul tavolo contro il muro. Il restante spazio era sufficiente appena per un letto, una seggiola, un catino dove si lavava tutte le mattine e una cassapanca appena sotto l’unica finestrella, in cui teneva riposti tutti i suoi abiti. Là dentro ci si muoveva appena: la regina aveva proposto più volte di fargliene avere una un po’ più grande, ma sua madre si era sempre opposta dicendo che una fanciulla onesta deve sempre imparare ad essere modesta e umile. Come no.
Odile si sfilò rapidamente le vecchie scarpette logore e si slacciò il grembiule da intorno alla vita, stendendolo sul letto. Prese a piegarlo con accuratezza, quando un insolito sibilo attirò la sua attenzione. Odile si guardò intorno per capire cosa fosse e da dove provenisse, per nulla allarmata, ma trasalì quando vide qualcosa muoversi sotto le coperte, a pochi centimetri dalla sua mano.
Si ritrasse di scatto, ma tenne lo sguardo fisso sul letto. Non aveva visto male: qualcosa si stava muovendo sul materasso, nascosto dalle lenzuola e dall’unica coperta. E stava emettendo lo stesso sibilo che aveva udito poco prima.
Odile deglutì, afferrando le lenzuola con le punte delle dita e tirandole via di scatto. Sgranò gli occhi: sul materasso, raggomitolato sulla propria coda, c’era un serpente. Il rettile fischiava e si agitava come se stesse per attaccare, e fece sibilare la lingua biforcuta.
Odile lanciò uno strillo acuto, allontanandosi velocemente dal letto e correndo in direzione della porta. La spalancò e si precipitò fuori nel corridoio senza guardare, andando immediatamente a sbattere contro qualcuno.
- Odile!- esclamò una voce maschile, in parte sorpresa e in parte irritata. La servetta credette di essere sul punto di cadere a terra, ma due braccia forti la sostennero.
- Odile, ma che stai combinando?!
La ragazza alzò lo sguardo, riconoscendo sir Lancillotto nell’uomo che aveva appena urtato. Il cavaliere la stava squadrando accigliato, confuso e insieme anche un poco esasperato. Indossava la divisa dei Cavalieri della Tavola Rotonda, segno che doveva essere reduce da qualche evento importante. Odile si aggrappò a essa come una naufraga si aggrappa a un’asse di legno che può mantenerla a galla, e prese a guardare ora Lancillotto ora la porta spalancata della sua stanza.
- Un serpente!- gridò, in preda al panico.
- Che cosa? Ma che stai…
- Un serpente!- ripeté Odile, ancora avvinghiata a lui.- C’è un serpente nel mio letto!
- Un serpente?
In quel preciso istante, il rettile strisciò velocemente fuori dalla camera, passando di fronte a entrambi prima di sparire in fondo al corridoio. Odile lanciò un gridolino, aggrappandosi a una spalla di Lancillotto, il quale sbuffò, un po’ infastidito.
- Odile, non era niente!- borbottò, cercando al contempo di calmarla e di staccarsela di dosso.
- Era là!- ansimò la servetta.- Il serpente! Era nel mio letto!
- Era solo una biscia, Odile.
Quelle parole ebbero lo stesso effetto di una secchiata di acqua gelida in una nevosa mattinata d’inverno. Era solo una biscia, Odile. Solo una biscia. Solo una maledetta, schifosa biscia.
- Una…una biscia?- boccheggiò la ragazza, stralunata e incredula.
- Sì, una biscia - ripeté Lancillotto, inarcando un sopracciglio.- E’ un serpente delle campagne, dei fossi e degli stagni. Non è velenoso, né pericoloso in alcun modo. Una biscia è assolutamente innocua, a meno che tu non sia un grillo o una rana.
L’ultima frase recava tracce di malcelata acidità. Odile boccheggiò, cercando di metabolizzare ciò che Lancillotto le aveva appena detto; quindi, avvampò furiosamente, sentendosi una perfetta idiota. Si era messa a strillare e a dare di matto per una biscia. Una dannata biscia.
Era solo una biscia, Odile. Sei veramente una povera stupida, Odile.
Si staccò da Lancillotto, allontanandosi da lui di un passo, e chinò il capo, vergognosa. Avrebbe voluto morire all’istante. Il cavaliere non disse nulla, ma si lisciò le pieghe della manica della tunica a cui lei si era avvinghiata.
- Perdonatemi…- pigolò la ragazza, con le guance rosse come mele mature.
- Non è nulla - replicò Lancillotto, senza alcuna sfumatura nel tono della voce. Questo fu forse la goccia che fece traboccare il vaso: a Odile fu chiaro che la credeva una sciocca paurosa, e questo le bruciava. Senza pensare, si lasciò sfuggire dagli occhi alcune lacrime di frustrazione, asciugandole rabbiosamente.
- Sono stati loro!- ringhiò; i riccioli castani le erano finiti di nuovo di fronte agli occhi.- E’ uno dei loro scherzi! Sono pronta a giurare che sono stati i garzoni dello stalliere a mettere quel serpente nel mio letto!
- Hai paura dei serpenti?
Odile annuì.
- E’ da quando sono nata che quei maledetti non fanno che tormentarmi!- singhiozzò.- Prima il sale nel latte, poi lo sgambetto mentre porto l’acqua dal pozzo, e ora anche una biscia nel letto! L’idea gliel’ha data mio fratello, ne sono sicura…!
- Domani parlerò io con lui.
Quella promessa buttata lì all’improvviso fu in grado di far cessare immediatamente i suoi singhiozzi. Odile sgranò gli occhi, sollevando il capo per poter guardare meglio Lancillotto: il cavaliere teneva lo sguardo puntato sul luogo in cui era scomparso il serpente, pensieroso. Per un attimo Odile si chiese se avesse davvero avuto intenzione di dire quello che lei aveva appena sentito, ma subito ogni suo dubbio venne fugato. Lancillotto era un cavaliere…e i cavalieri mantengono sempre la parola data.
Come spesso le accadeva, si ritrovò a fantasticare nella sua mente, a immaginarsi scene in cui Lancillotto andava da suo fratello, lo prendeva per il bavero della casacca e lo minacciava di chissà quali sofferenze se solo si fosse azzardato a farle ancora del male. Arrossì nuovamente, e stavolta fu molto più piacevole.
- Lo farete davvero?- domandò speranzosa, sperando di non aver compreso male.
- Se questo potrà aiutarti, sì - confermò Lancillotto.
Odile si aprì in un largo sorriso, avvampando ancora di più. Avvertì come una brezza calda e confortante attorno al suo cuore, e sperò di non svenire per l’emozione. Non era mai capitato che sir Lancillotto facesse qualcosa per lei.
- Come…come mai eravate da queste parti?- domandò, nel tentativo di prolungare la conversazione. Pessima scelta della domanda. Il cavaliere si voltò a guardarla, accigliato.
- La mia stanza è poco più avanti - rispose con naturalezza, al che Odile si diede nuovamente della stupida. Con tutto quel che era successo, aveva dimenticato che la camera di sir Lancillotto era completamente isolata rispetto a quella degli altri cavalieri.
Quella era una delle tante cose che lo rendeva diverso dagli altri. La maggior parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda erano nobili che, quando non venivano convocati a corte per qualche questione importante, trascorrevano il loro tempo a casa propria, nei loro castelli e manieri, vicino ai loro possedimenti. Solo dodici di loro – i più fedeli al re – avevano degli appartamenti privati all’interno della reggia, e fra di essi vi erano anche sir Galvano e sir Lancillotto. Ma, se il primo come gli altri dieci possedeva delle camere eleganti e comode, il secondo aveva sempre preferito dormire nella stanzetta in cui aveva trascorso la sua ultima sera da scudiero, la veglia d’armi prima dell’investitura e della nomina a cavaliere. Questa si trovava nei pressi degli alloggi dei domestici – anche se era un poco più distanziata da essi, dal momento che sir Lancillotto apparteneva a uno status superiore, in quanto cavaliere –, ma per il resto somigliava in tutto e per tutto alla stanza di un monaco: piccola e stretta, con le pareti di pietra, arredata con solo un letto, un catino e una cassapanca.
In molti si chiedevano perché diamine un cavaliere, con tutti i privilegi che poteva avere, avesse deciso di dormire in un luogo simile. Così, una volta Odile – all’epoca doveva avere circa quindici anni, non di più – aveva preso il coraggio a due mani e glielo aveva chiesto. Lui le aveva risposto che fino all’età di dodici anni aveva dormito su un pagliericcio umido, e in seguito su un letto di legno durante il periodo come scudiero; in un letto comodo, su un materasso e con dei cuscini non sarebbe mai riuscito a riposare. E poi, aveva aggiunto, essere cavaliere voleva dire farsi difensore del popolo e dei più deboli, e mettere il loro bene prima del proprio: ciò di cui poteva fare a meno, preferiva darlo a chi ne aveva veramente bisogno. Lui stava bene così.
A Odile era sembrato un comportamento molto nobile, ed era andato ad aggiungersi alla lista dei pregi che lei ritrovava costantemente in Lancillotto.
Provò a dire qualcos’altro, magari di più intelligente, ma l’arrivo di una terza persona glielo impedì.
Sia Lancillotto sia Odile strabuzzarono gli occhi quando si videro venire incontro la principessa. La servetta per il fatto che la figlia dei sovrani non era mai scesa negli alloggi dei domestici; il cavaliere perché…
- Che ci fate qui senza scorta?- l’apostrofò.
- Mia madre se ne deve essere dimenticata, e vedete di non scocciare almeno stavolta che sono venuta da voi con intenzioni pacifiche - Odette si piantò le mani sui fianchi.- Oh! Ciao, Odile…
- Vostra Altezza - la servetta fece una riverenza un po’ impacciata.- Stavo giusto venendo da voi.
- Perché?
- Beh, per…per aiutarvi a prepararvi per la notte…
- Non ho tre anni, Odile, posso farlo da sola.
- La regina vostra madre insiste, Altezza.
- A questo proposito…lo sa che siete qui?- Lancillotto incrociò le braccia al petto.
- E va bene!- Odette sbuffò.- Odile, va’ pure a prepararti, mi raggiungerai dopo. Io sistemo un paio di cose con sir Lancillotto e mi levo di torno.
Odile esitò un attimo, quindi annuì rapidamente ma di malavoglia, e rientrò nella sua stanza. Finse di chiudersi la porta alle spalle, ma lasciò semiaperto uno spiraglio per poter sbirciare all’esterno. Premette una guancia contro il legno, rimanendo in ascolto.
Odette imitò il gesto del cavaliere incrociando le braccia al petto e guardandolo negli occhi.
- Sono venuta a chiedervi scusa - dichiarò orgogliosamente.
- E per che cosa?- Lancillotto si schernì.- Per avermi messo in difficoltà di fronte a vostro padre? O per avermi fatto umiliare pubblicamente dal re?
- Ho…combinato un po’ di pasticci, stasera - la principessa si umettò nervosamente le labbra.- Domanderò scusa anche a sir Galvano, ma ho preferito parlare prima con voi perché…
- …perché sapete che una minima mancanza potrebbe rispedirmi nel fango dove sono nato?
Odette si corrucciò, punta sul vivo.
- Sapete benissimo che mio padre è un uomo clemente, e che in ogni caso un rimprovero banale come quello di questa sera non sarebbe sufficiente a farvi degradare. E poi, siete ossessivo: non siete voi l’unico cavaliere non nobile, siete a conoscenza di questo?
- Sono a conoscenza di tutti i sacrifici che ho fatto per arrivare fino a qui, e del fatto che voi non potrete mai immaginare nulla di tutto ciò - ribatté Lancillotto.- In ogni caso, accetto le vostre scuse.
Odette si aprì in un sorriso compiaciuto.
- Credevo avreste opposto più resistenza…
- Io di norma non amo portare avanti discussioni futili su questioni altrettanto inutili.
- Vorrei che fosse lo stesso anche con mia madre…- sospirò la principessa.- Non sarà altrettanto facile scusarmi con lei. Se le cose vanno bene, mi terrà il muso per una settimana…
- Parlate come una contadina - constatò Lancillotto, prendendola sottobraccio.- Venite, vi riaccompagno nelle vostre stanze. Non voglio passare dei guai perché voi ve ne andate in giro da sola nel cuore della notte…
- Rimanete sempre un bacchettone…- Odette fece un sorrisetto.- Ma di tanto in tanto risultate un po’ meno noioso.
Lancillotto non rispose, e insieme si allontanarono lungo il corridoio.
Non vista, Odile richiuse piano la porta, vi si appoggiò contro e scoppiò a piangere.
 
***
 
Non appena mise piede nella stanza, la prima cosa che Mordred ricevette fu un sonoro schiaffo da parte di sua madre, ma non si lasciò sfuggire né una parola né un gemito di dolore. Sapeva perfettamente a che cosa era dovuto.
- Idiota!- sputò rabbiosamente Morgana.- Razza di imbecille! Non capisci niente! Sei senza cervello, proprio come tua sorella! Mesi e mesi di lavoro e tu con la tua stupidità stavi per mandare tutto in malora!
- Non se n’è accorto nessuno, madre - tentò di difendersi Mordred, massaggiandosi la guancia offesa.- Non è la fine del mondo. La principessina starà zitta…
- Lo spero per te che starà zitta!- strillò la donna, inviperita. Aveva sciolto i capelli, e ora questi le ricadevano in ciocche disordinate e spettinate sulle spalle, sul collo e sugli occhi, e il volto era arrossato e contratto in una smorfia rabbiosa. Sembra proprio una strega, pensò Mordred.- Se qualcuno ci scopre tu non solo puoi dire addio alla carica di cavaliere, ma anche all’unica possibilità che hai per diventare re!
- Se andiamo avanti di questo passo, lo diventerò solo quando sarò un vecchio decrepito!- ribatté il cavaliere.- Quanto deve durare questa messinscena della malattia, prima che Artù si decida finalmente a crepare? Non possiamo ucciderlo subito e basta?
- Allora non capisci proprio niente!- Morgana lo guardò.- Qual è il tuo piano? Tendergli un agguato alle spalle e tagliargli la gola? Pugnalarlo nel sonno? Se facessimo di testa tua immediatamente sarebbe chiaro che c’è un regicida a Camelot. Ginevra sarà anche la figlia di un plebeo, ma non è stupida: lei e Merlino chiuderebbero subito le porte della reggia, nessuno potrebbe uscire, e non ci vorrà molto prima che i sospetti si estendano anche a noi.
- Non è detto che ci scoprano. Ci saranno almeno cinquecento persone che abitano qui, senza contare quelle che entrano ed escono tutti i giorni. E poi, io e te siamo nelle grazie della regina…nessuno sospetterebbe mai di noi…
- Non ho nessuna intenzione di mettere a repentaglio la missione che la Regina Cattiva mi ha affidato solo perché tu non hai la pazienza di aspettare - dichiarò Morgana.- Lei ne sarebbe oltremodo contrariata. E poi, è importante che Artù muoia senza troppo clamore. Deve essere qualcosa in qualche modo di preannunciato, e cosa meglio di una malattia misteriosa? Ginevra non potrà accusare nessuno della sua morte, e in tal modo le acque si manterranno calme. Così la Regina avrà modo di ottenere ciò che cerca, e quando la guerra scoppierà, la regina e sua figlia saranno impreparate. Camelot cadrà rapidamente, e nessuno, nemmeno i cavalieri potranno fare qualcosa per fermare il disastro…
- Spero solo che la Regina Cattiva non decida di raderlo al suolo completamente - disse Mordred, con pungente sarcasmo.- Non ho molto interesse nel governare un regno che non esiste più.
- Non devi preoccuparti di questo - Morgana si diresse verso la finestra, sistemandosi i capelli. Sembrava essersi un poco calmata, ma il volto rimaneva contratto.- Te l’ho detto, l’unica cosa che devi fare è attendere e pazientare. La Regina Cattiva ci ha promesso questo regno, ricordi? Quando Artù sarà morto, resterà solo Merlino da togliere di mezzo, e presto i Grimm ritorneranno. Dopodiché, nulla ti impedirà di diventare il nuovo re di Camelot.
- Lo spero - disse Mordred, con una smorfia d’incertezza.- Ma perché la Regina non si libera da sé di Artù? E poi, cos’è che brama tanto e che non riesce a ottenere?
- Questo non me l’ha spiegato. Quanto ad Artù…lei sa che Ginevra ha fiducia in me, e che ho una grande dimestichezza con i veleni. Io sono la persona più indicata per questo compito.
- Non ti senti mai in colpa? Nei confronti di Ginevra, intendo - la provocò suo figlio.
- E perché mai dovrei?
- Beh, dopo tutto quello che ha fatto per te devi esserle pure un poco grata. Non mi verrai a dire che ti piaceva prostituirti…! - ghignò Mordred.
- Bada a come parli, figlio ingrato che non sei altro!- Morgana si rivoltò come una vipera.- Vuoi diventare re, o no? E allora la prima cosa che devi imparare è che in questa vita la lealtà e la compassione sono solo le armi dei perdenti!
Mordred non rispose, indietreggiando di un passo. Scoccò un’occhiata di sottecchi a sua madre, con aria truce. Morgana si gettò indietro una ciocca di capelli, passandosi i palmi aperti sul volto come per calmarsi. Mordred pensò che un tempo doveva essere stata una bella donna, ma adesso alcune lievi rughe stavano iniziando a spuntare sulla sua pelle, raggrinzendola. Fra pochi anni, si sarebbe tramutata in una vecchia orrenda e decrepita.
- Dopo che ho perso tuo padre sono scesa a tantissimi compromessi, e solo per poterti vedere un giorno sul trono di Camelot. Ginevra è stata solo un’altra pedina nella scacchiera, importante, certo, ma come tutte le altre sostituibile. Impara a pensare a te stesso, figlio mio, o non farai mai strada nella vita.
Mordred non disse nulla. Rimase a osservare sua madre mentre si avviava verso un cofanetto che teneva sempre chiuso a chiave, in bella vista sopra la sua toeletta. Estrasse dalla tasca dell’abito una piccola chiavetta d’oro e la girò nella serratura.
Quando aprì il cofanetto, ciò che Mordred vide furono decine e decine di piccole fiale, molto simili a quelle che le dame utilizzavano per contenere i loro profumi, e all’apparenza sembravano proprio quello: profumi e unguenti colorati e sgargianti, riposti ordinatamente in una scatola. Ma sapeva che non era così: sua madre non poteva essere definita una vera e propria strega; certo, era in grado di far levitare alcuni oggetti e di tramutare qualcuno in un animale, se lo desiderava, ma non ne sapeva più di una comune fattucchiera. Più che una strega, Morgana era un’erborista: era in grado di compiere qualsiasi cosa con solo poche gocce di uno dei suoi intrugli, dal guarire un malessere, al far fiorire una pianta, fino a causare la morte di un uomo.
E il suo cavallo di battaglia erano proprio i veleni. Morgana li preparava personalmente, spendendovi anche molte ore o giorni interi fino a che non ne era completamente soddisfatta. Li distillava a partire da alcune erbe che raccoglieva di notte, a volte ortiche, ma spesso anche oppio e cicuta, e riusciva a creare filtri che erano in grado di uccidere con un solo sorso.  
- Stasera a cena ho versato dell’altro veleno nel boccale di Artù senza che se accorgesse, e ne ho aggiunta qualche goccia nella tisana che gli ho portato. Anche se volessi smettere ora, per lui non ci sarebbe più nulla da fare. Dobbiamo solo avere pazienza, Mordred…
 
***
 
Odette era distesa sul suo letto in una posizione ben poco principesca, fissando il soffitto del baldacchino senza pensare a nulla. La sua mente era sgombra, e stava cercando di mantenerla tale fino all’indomani, quando avrebbe inevitabilmente dovuto affrontare sua madre con tutte le conseguenze del caso. Si riscosse solo quando qualcuno bussò alla porta, e si sollevò sul materasso puntellandosi sui gomiti.
- Avanti…
Odile entrò lentamente nella stanza, dando le spalle alla principessa per chiudere la porta e nel contempo asciugarsi i residui di lacrime che le erano rimasti. Aveva pianto ininterrottamente per quasi mezz’ora, e adesso aveva gli occhi gonfi e arrossati, ma sperava comunque che Odette non se ne accorgesse. Fece una riverenza, tenendo il capo chino e nascosto dai riccioli.
- Sono venuta per aiutarvi a prepararvi per la notte, Vostra Altezza…
- Sì, lo so…- Odette sospirò, alzandosi dal letto di malavoglia.- Forza, facciamo in fretta, così io posso andarmene a letto e tu pure…
Si posizionò di fronte allo specchio e allargò le braccia, in modo che Odile potesse slacciarle il corsetto. La servetta iniziò ad armeggiare con i lacci, sempre tenendo il capo chino. Odette la squadrò dallo specchio.
- Odile, hai per caso pianto?
- Che? No, principessa, io…Credo che mi stia venendo un po’ di raffreddore.
Odette non replicò, ma si lasciò sfuggire un altro sospiro.
- Stasera ho litigato con mia madre - mormorò dopo qualche minuto, quando ormai il corsetto era già stato slacciato; in genere non si confidava con Odile, ma quella sera sentiva l’inspiegabile bisogno di farlo.
- Ho sentito alcune cameriere che ne parlavano - disse la servetta, tirando su con il naso.- Sono cose che possono succedere…- buttò lì, anche se non ne era molto convinta, dato quel che doveva passare ogni giorno con la sua, di madre.
- Vorrei solo che riuscisse a capirmi un po’ di più…- fece la principessa.- Non mi lascia respirare. Sta facendo di tutto per affibbiarmi un marito, e ha anche scelto il mio abito per il ballo…
- Io lo trovo molto bello…
- Ma andiamo! Bello? Quella palandrana?
Odile seguì lo sguardo di Odette che le indicava il proprio vestito per il ballo in maschera, sistemato in un angolo della stanza. Ormai se ne stava lì da più di un mese, esposto su di una stampella dal momento in cui le sarte di corte avevano terminato di confezionarlo. La servetta non poteva fare a meno di osservarlo ogni volta che entrava nella camera della principessa, e ogni volta ne rimaneva affascinata: si trattava di un vestito confezionato interamente in seta, bianco come la neve con alcune sottili linee di stoffa argentate che luccicavano alla luce, dalla gonna stretta e leggermente scollato, che avrebbe certamente messo in risalto le forme di colei che avrebbe avuto la fortuna di indossarlo. Le maniche erano a sbuffo, e intorno alla vita una fascia dello stesso colore che accentuava ancora di più i fianchi ma sempre mantenendo una linea delicata e casta, senza scadere nella volgarità. A esso erano stati abbinati un paio di guanti bianchi, e una collana di perle con una coroncina di brillanti. E naturalmente, una maschera bianca dai bordi argentati.
Odette sarebbe stata un cigno bianco, così aveva detto la regina.
Ogni volta che Odile vedeva quell’abito doveva fare uno sforzo immane per non toccarlo, ma ancora più dura era trattenersi quando sentiva la principessa criticarlo. Negli anni, Odile aveva imparato che era facile disprezzare quando si poteva avere tutto; lei avrebbe firmato con il sangue per poter indossare un abito del genere anche solo per una sera. Per poter essere Odette solo per una sera.
Il ricordo della scena a cui aveva assistito poco prima la pugnalò improvvisamente, e Odile si sentì sul punto di scoppiare di nuovo a piangere.
La principessa sia avvicinò al vestito, squadrandolo con sufficienza.
- Non riesco a credere che a qualcuno possa davvero piacere una cosa simile. Forse solo a mia madre…
- Io lo trovo splendido. Siete molto fortunata a poterlo indossare al ballo.
- Credimi, Odile, piuttosto che indossare quest’affare e andare a quel maledetto ballo preferirei vestirmi da uomo e rifugiarmi in qualche taverna…
- Potreste farlo.
A quelle parole, Odette si voltò a guardarla con gli occhi sgranati. Odile stessa si rese conto in quel momento che a parlare non era stata lei; o piuttosto, non era stata la sua testa, la sua razionalità. Si era lasciata sfuggire una frase che veniva dritta dritta dal cuore. Da tutta l’invidia e la gelosia che covava in quel momento.
Lancillotto…
- Cos’hai detto?
- Penso che potreste farlo - ripeté Odile, cercando di mantenere la voce ferma e di mostrarsi sicura di sé. Ormai aveva parlato, e non aveva più senso tornare indietro; e, forse, non voleva neppure farlo. Un’idea pazza, folle, assurda aveva iniziato a farsi strada nella sua mente, ma forse proprio perché era così folle risultava anche tanto eccitante, eccitante come lo erano solo le cose proibite.- Andare in città. Nessuno vi obbliga a partecipare al ballo, se non lo desiderate.
- Ti prego di perdonarmi, ma devo dissentire: mia madre mi obbliga. E poi, Odile, lo sai benissimo che non posso andare in città. Di’ un po’, per caso sir Galvano ti ha coinvolta in una delle sue bevute?
- No, Vostra Altezza - replicò la servetta, ignorando il sarcasmo.- Io…stavo solo pensando che non sempre dobbiamo sottostare a delle regole…- stava per dirlo. Oh sì, stava davvero per dirlo.- Potreste disubbidire e andare in città.
- E mi spieghi come potrei fare?
Odette era scettica, era palese. Odile non demorse, e cercò di mostrarsi ancora più sicura di sé. Ora non era più solo un’idea vaga e astratta: era un piano ben congeniato, progettato d’impulso in pochissimo tempo, ma che avrebbe funzionato a meraviglia se fosse andato in porto. E Odile non aveva alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire quell’occasione.
Fatti da parte, principessa.
- Il pomeriggio del ballo dovreste trascorrerlo interamente in questa stanza, con me, a prepararvi - spiegò.- Nessuno vi vedrebbe per diverso tempo, e la festa senza dubbio sarà già iniziata da almeno due o tre ore prima del vostro arrivo. Io sarei l’unica a sapere la verità, quindi…se voleste…potreste arrivare al ballo un po’ più tardi e prima andare in città di nascosto…
- Dici davvero?
Il volto di Odette si era illuminato, e anche gli occhi di Odile ebbero uno scintillio. Ci stava cascando, poco ma sicuro. Annuì con vigore.
- Nella mia stanza ho degli abiti smessi di mio fratello che vi starebbero a pennello. Posso portarveli, e farvi uscire di nascosto dagli alloggi della servitù. Poi, dopo un paio d’ore dall’inizio della festa ritornerete, indosserete l’abito e vi presenterete al ballo come se nulla fosse…E, se qualcuno chiederà di voi, penserò io a coprirvi le spalle…
- Faresti questo per me?
Odile annuì nuovamente, certa di averla in pugno. Sapeva che vedere la città era ciò che la principessa desiderava di più, e ora le stava offrendo quella possibilità su un piatto d’argento. Aveva come la sensazione che loro due fossero come delle amiche che progettano una marachella; Odile aveva sempre desiderato essere amica della principessa come sua madre lo era della regina, ma si era sempre trovata di fronte a un muro. Fino ad ora, che le tornava utile; ma il suo aiuto non era disinteressato.
Anche lei avrebbe avuto un tornaconto.
Odette le gettò le braccia al collo.
- Oh, Odile! Grazie, grazie, grazie!
La servetta non rispose, ma sorrise.
Si aprano le danze!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Per una volta sono davvero riuscita a essere puntuale come un orologio svizzero. Dal prossimo capitolo vedremo il cigno nero in azione ;). Lo so che qui il PoV di Odile è molto ridotto e sembra che abbia preso una decisione così alla cavolo, ma nel prossimo ci sarà una parte descrittiva dedicata solo a lei che spiegherà meglio un bel po’ di cose. Dopo l’ultimo capitolo sul cigno nero torneremo ad Anya ed Elizabeth con un bel po’ di Vinya. Siete felici? :D. Ah, e alla fine del prossimo capitolo ci sarà anche un piccolo accenno della Tremeth (Tremotino/Elizabeth, ship gentilmente coniata e concessa da Jessica21) che verrà…;).
Ringrazio x_LucyW, _EllaZaZa_, SognatriceAocchiAperti, Jessica21, LadyAndromeda (ora sto recuperando le recensioni che devo a Jessica21, ma appena finisco passo da te, giuro!) e Sylphs per aver recensito :).
Ciao a tutti, al prossimo capitolo!
Un bacio,
Beauty
 
P. S. La cantilena di Tremotino è un mix fra quello che ho inventato io e la filastrocca nella fiaba originale. Così, giusto per precisare ;).

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Capitolo 27
*** The Black Swan - The Ball ***


The Black Swan – The Ball
 
Quella notte, Odile non chiuse occhio, rimanendo per ore ed ore distesa nel suo letto a fissare il buio. Si era coricata sentendosi molto nervosa, ma non appena si era tirata le lenzuola fino alle spalle un’improvvisa e lucida calma si era impossessata della sua mente. Non era stata una notte agitata, affatto; non c’era stato nulla a che vedere con il girarsi e rigirarsi all’infinito fra le coperte come un’anima in pena. Piuttosto, Odile aveva impiegato le ore notturne per mettere a punto i dettagli del suo piano, con una freddezza così lucida e priva di emozioni che per un attimo la spaventò. Non si era mai riconosciuta in quei sentimenti, ma ora che la sua mente aveva partorito quell’idea aveva tutta l’intenzione di portarla a termine. Costasse quel che costasse.
La principessa si era fatta ingannare con molta più facilità di quanto avesse previsto, ma questo non era altro che un bene. Odette moriva dalla voglia di fuggire dalla prigione dorata che sua madre le aveva costruito intorno, almeno quasi quanto lei voleva rifarsi di tutte le angherie che aveva dovuto sopportare negli anni. Forse, pensava Odile, era stato proprio quello a darle quell’idea, a spingerla ad agire…quello, insieme alla vista di Lancillotto insieme alla principessa.
Tutti gli anni pregni di Odile la stracciona, di sciocca servetta e di ehi, facciamo uno scherzo a Odile si erano ribellati nel suo animo, e ora gridavano vendetta.
Ma doveva essere cauta. Sapeva che quello che stava progettando di fare, se scoperto, non sarebbe stato etichettato come una semplice marachella. Odette forse avrebbe passato dei guai seri, ma lei era una principessa e non le poteva capitare nulla di troppo grave…Odile, invece, era una serva, e come tale non sarebbe importato a nessuno se le fosse accaduto qualcosa. E poi, la posta in gioco era molto alta: quella era l’unica occasione che aveva per far comprendere i suoi sentimenti all’uomo che amava sin da quando era una ragazzina.
Doveva progettare tutto con attenzione ed essere prudente nelle sue mosse. Avrebbe aiutato Odette a uscire dalla reggia prima del ballo: lei e la principessa avevano discusso a lungo del come e del quando. Il momento migliore era stato stabilito come quello del crepuscolo, quando la notte era ormai vicina e le ombre si allungavano sulla terra in modo da creare molti angoli bui in cui nascondersi. Odette aveva dichiarato che la via migliore per raggiungere l’esterno era passare per il cortile; c’era una vecchia quercia che sorgeva proprio vicino alle mura, aveva detto; ci si era arrampicata molte volte, e con un paio di pantaloni da uomo non le sarebbe stato difficile raggiungere il muro di cinta e scavalcarlo. Ma non poteva raggiungere il cortile passando attraverso i corridoi, aveva aggiunto, erano pieni di guardie o comunque di persone che l’avrebbero sicuramente riconosciuta. Alla domanda di Odile su come intendesse fare, la principessa aveva risposto prontamente che sarebbe passata dal balcone della sua camera da letto; che stesse tranquilla, ci avrebbe pensato lei a trovare il modo.
Odile lo sperava vivamente. Non voleva che una ragazzina sprovveduta mandasse all’aria il suo piano.
Supponendo che Odette riuscisse veramente a raggiungere l’esterno senza venire scoperta, da quel momento fino a mezzanotte precisa – lei e la principessa avevano stabilito che quello fosse l’orario più indicato per ritornare, non posso stare via tutta la sera, mia madre un poco di ritardo lo accetterà, ma se non mi facessi vedere mi verrebbe sicuramente a cercare, aveva detto Odette – sarebbe stato a lei portare avanti la mascherata. La principessa credeva davvero che Odile le avrebbe coperto le spalle, limitandosi a raccontare qualche bugia per giustificare il suo ritardo…non immaginava neanche lontanamente che aveva intenzione di sostituirsi a lei.
Già, era proprio quello che Odile aveva progettato, sin dal primo momento. Stavolta non era disposta a stare in disparte, a guardare da lontano una vita che lei non avrebbe mai vissuto. Per anni aveva sopportato la povertà, le canzonature e il disprezzo delle uniche due persone che in realtà avrebbero dovuto amarla, sognando i bei vestiti della principessa e amando Lancillotto da lontano.
E ora che l’aveva visto insieme a Odette, era stato come se anche quell’ultima speranza fosse andata in fumo, e non le restasse più niente in una vita che da quel momento si sarebbe trascinata stancamente, alzandosi tutte le mattine alla stessa ora, lavorando nelle cucine, sopportando canzonature e angherie, ingrassando, diventando sempre più vecchia e brutta con il trascorrere degli anni, fino a che non fosse divenuta anziana e sola, morendo senza aver compiuto nulla degno di nota nella sua esistenza.
Non aveva intenzione di lasciare che tutto questo accadesse, non senza provare almeno ad impedirlo.
Quella era la sua serata, la sua occasione per dimostrare a tutti, a sua madre, a suo fratello e a lui, ciò che valeva. Era una possibilità che le era stata offerta su un piatto d’argento, e non se la sarebbe lasciata scappare per nulla al mondo.
Restavano tuttavia ancora alcuni problemi da risolvere, primo fra tutti quello dell’abito.
La prima idea di Odile era stata quella di rubare quello cucito appositamente per Odette, ma riflettendoci meglio si era resa conto che non sarebbe stata una mossa intelligente. Tanto per cominciare, lei era più alta di qualche centimetro della principessa, e con ogni probabilità il vestito da cigno bianco le sarebbe stato stretto. E poi, c’era il problema del fisico: lei e Odette avevano all’incirca la stessa corporatura esile, ma certo i loro volti non erano somiglianti…e poi, Odile aveva i capelli ricci e scuri, la principessa lisci e biondi. Avrebbe dovuto trovare un modo per nascondere questi dettagli.
Odile pensò e ripensò a un modo per risolvere il problema, e la soluzione arrivò solo alle prime luci dell’alba.
La servetta si alzò molto prima rispetto al solito e, dopo che si fu sciacquata il viso nel catino, ancora in camicia da notte zampettò verso la cassapanca, aprendola e iniziando a rovistarvi dentro, scostando abiti e grembiuli. Alla fine, estrasse l’unico vestito buono che avesse mai posseduto, un regalo della regina Ginevra, che aveva indossato sì e no un paio di volte in alcune delle poche occasioni importanti a cui aveva partecipato: si trattava di un modello dal taglio morbido che a malapena lasciava intravedere le forme, di seta nera, con lunghe maniche svasate e il colletto alto fino alla gola. Era un bel vestito, almeno per quello a cui poteva aspirare una serva, ma di certo non era niente di principesco né tantomeno adatto a un ballo in maschera.
Ma Odile aveva pensato anche a quello, e una semplice piccolezza non sarebbe stata sufficiente a fermarla.
 
***
 
Ci fu un gran trambusto, quando quella mattina la regina venne trovata distesa sul pavimento della sua stanza priva di sensi, ma nel momento in cui si risvegliò il primo pensiero di Ginevra non fu per la propria salute, ma per quella di sua figlia. Rifiutò ogni tisana che Morgana le offrì, ogni cura e ogni richiesta di chiamare il medico di corte, parlando solo per dare disposizioni affinché suo marito non venisse informato dell’accaduto. Artù stava ancora male, e poi non voleva che eventuali domande indiscrete mettessero a repentaglio il segreto che aveva custodito per ben sedici anni.
Non restò a letto molto a lungo, andando contro sia ai consigli delle proprie dame di compagnia sia alla sua spossatezza. Fece chiamare i cavalieri e il capitano delle guardie, ordinando che venissero raddoppiate le misure di sicurezza e schierate più sentinelle intorno alle mura, raccomandandosi in particolare che si facesse molta attenzione la sera del ballo. Rispose alle richieste di spiegazione adducendo scuse banali sull’importanza della serata che, tuttavia, grazie alla sua posizione di regina consorte, non vennero contestate.
Non aveva sognato. Quella che aveva udito la notte precedente era la voce di Tremotino. Forse sperava di averla spaventata, e per un attimo c’era anche riuscito. Ma non aveva intenzione di cedergli nuovamente: si trattava di sua figlia, adesso, e lei non avrebbe permesso che la portasse via.
 
***
 
Mancavano meno di due giorni alla sera del ballo in maschera, e sia Odile sia Odette avevano instaurato un rigido regime che avrebbero necessariamente dovuto rispettare, se volevano che il progetto andasse in porto.
La principessa aveva tracciato una minuziosa mappa del castello, non dimenticando di annotare neppure una delle vie d’uscita primarie e secondarie, nonché tutti i pochi passaggi segreti di cui era a conoscenza. Aveva sfruttato le ore di lezione con i suoi precettori – le uniche in cui le era permesso di lasciare la propria stanza, dato che Ginevra, per punirla, le aveva ordinato di non uscire fino alla sera del ballo – per poter tranquillamente osservare i corridoi a proprio piacimento. Aveva compilato una lista in cui erano segnati i nomi delle sentinelle e dei domestici con accanto i rispettivi turni di guardia e di lavoro, calcolando minuziosamente ogni lasso di tempo in cui la tal porta sarebbe rimasta incustodita o il talaltro corridoio lasciato completamente deserto. Pensò anche ai cavalieri, domandandosi se avessero rappresentato un problema, ma subito si rispose di no: sarebbero stati tutti al ballo, senza alcun dubbio, e lei non aveva nessuna intenzione di entrare in quella sala prima di mezzanotte. Un po’ le dispiaceva doverli ingannare, specialmente sir Galvano e sir Lancillotto, ma s’impose di rimanere fredda e lucida, concentrata sul suo obiettivo. Fece in modo di assicurarsi in precedenza di quali vie d’uscita e d’entrata sarebbero rimaste chiuse a chiave e quali invece no, e progettò un piano di fuga preciso al minimo secondo, un piano che sarebbe dovuto essere rispettato in maniera ferrea se non voleva farsi scoprire. Doveva confessare di sentirsi un poco delusa: quella sarebbe stata la sua prima serata in sedici anni che avrebbe trascorso in completa libertà, in cui avrebbe potuto fare tutto ciò che voleva senza che nessuno la rimproverasse o cercasse d’impedirglielo, e le toccava comportarsi come una ladra e stare sempre attenta a ogni cosa per non farsi scoprire. Ma cercò di non lasciarsi abbattere: era ciò che desiderava da anni, stava a lei saper usare la testa e sfruttare la situazione al meglio. E magari, si disse, quando suo padre fosse stato meglio, avrebbe potuto raccontargli di quella sua avventura fuori dal palazzo, ponendogli di fronte agli occhi la prova vivente – lei stessa, sana e salva – che il mondo non era quel luogo infido che sua madre temeva tanto.
Tutto questo avrebbe anche potuto avere dei risvolti interessanti e oltremodo vantaggiosi, se si fosse giocata bene le sue carte…
Odile, da parte sua, aveva stabilito per se stessa degli orari ancora più ferrei. Aveva ridotto al minimo indispensabile le ore di sonno, alzandosi ben due ore prima dell’alba e si coricava più tardi del solito. Dopo i pasti, invece di rimanere ad ascoltare le chiacchiere delle cameriere in cucina, si precipitava immediatamente nella sua camera, e così faceva a ogni pausa che le era concessa dal lavoro, trascorrendo lì tutto il tempo che aveva a disposizione prima di tornare ai propri doveri.
Tutte quelle ore sottratte al riposo erano finalizzate solo a cucirsi un abito adatto per il ballo.
Odile si armò di forbici, ago e filo, e si accanì sul suo unico vestito buono, quel sacco di seta nera che le era sempre stato così male.
Tanto per cominciare, ne modificò la forma: praticò un lungo taglio sulla stoffa del dorso, dal collo fino a metà schiena, quindi ricucì lo strappo in modo da ridurre i centimetri di seta che rendevano il vestito troppo largo e, quando se lo provò, fu ben felice di constatare che ora la sua linea e le sue forme erano perfettamente evidenziate. Ma non era ancora abbastanza.
Rimosse le lunghe maniche svasate; la sua intenzione sarebbe stata quella di modificarle per trasformarle in delle corte maniche a sbuffo, ma la seta non era la stoffa adatta per una simile operazione, così si accontentò di lasciare le braccia nude, con solo due sottili spalline a coprirle le clavicole pallide e magre. Utilizzò invece la stoffa in eccesso per cucire un paio di guanti lunghi fino ai gomiti. Il colletto alto non le piaceva, dunque tracciò la linea per una scollatura un po’ più ampia e rimosse anche quella parte di stoffa in eccesso.
Il risultato, quando finalmente poté indossare il suo nuovo abito, fu un grado di sorprendere anche lei.
Quando si specchiò nella superficie infranta dell’unico specchio che possedeva, per un attimo Odile era senza fiato. Era come se lei stessa, in quel momento, fosse completamente scomparsa, e il riflesso le stesse mostrando l’immagine di una sconosciuta che aveva il suo volto, ma il cui corpo era lo stesso di una sensuale e provocante cortigiana, così poco pudico e inneggiante alla lussuria che Odile ne ebbe quasi paura. La gonna stretta e il bustino aderente mettevano in risalto la sua forma, la carnagione pallida era in sublime contrasto con il nero della seta del vestito. Aveva un poco esagerato nel tracciare la scollatura, e l’aveva fatta più profonda di quanto non avesse voluto, ma ora non poteva dire che le dispiacesse.
Odile si aprì in un sorriso di contentezza alla vista di quella se stessa così lontana e sconosciuta, e fu proprio il riflesso di quel sorriso ancora così ingenuo e infantile a riportarla alla realtà. L’abito le avrebbe forse fatto guadagnare qualche punto, ma nessuno l’avrebbe mai scambiata per la principessa Odette, se non avesse dato al tutto un tocco di qualità, l’ingrediente mancante per la pozione perfetta.
Guardò il suo volto riflesso, quel suo stupido sguardo bovino e istupidito, quelle sue dannate spalle ricurve, i riccioli che le ricadevano sugli occhi. Inspirò a fondo e raddrizzò le spalle – non poté fare a meno di notare che in quel modo la scollatura era ancora più evidente…bene – quindi afferrò un fermaglio posato sulla cassapanca. Si pettinò all’indietro i riccioli castani, raccogliendoli sul capo e fermandoli in un morbido chignon. In quel modo, pensò, alle luci delle candele e delle stelle, sarebbe stato più difficile capire che lei aveva i capelli scuri e non biondi. Si guardò nuovamente: così andava decisamente meglio.
Indossò la maschera che lei stessa aveva confezionato – nera anch’essa, e i cui bordi s’increspavano come a formare delle immaginarie ali di cigno – e, per la prima volta, anche il suo sorriso parve quello di un’altra. A Odile parve veramente di essere un’altra, di essersi tramutata in una donna diversa, di aver assunto un’identità che, pur non essendo sua, era sempre stata lì, presente, addormentata in chissà quale angolo recondito della sua anima, e che le piaceva.
Quella sarebbe stata la sera del ballo. Mancavano ormai poche ore all’inizio della serata, e lei avrebbe fatto il suo ingresso nel grande salone scrutata da occhi che mai l’avevano guardata come l’avrebbero osservata ora, ora che la piccola Odile era scomparsa e al suo posto era arrivata questa nuova Odile, alla quale la fiducia della principessa in persona aveva aperto la porta.
Quel pensiero fu in grado di instillarle per un secondo una sorta di dispiacere, ma subito la rabbia e la voglia di vendetta e di rivalsa tornarono a prevalere. Odette era stata stupida, si era fidata di lei come un’ingenua, senza sapere che in quel mondo nessuno donava qualcosa senza aspettarsi un compenso, o avere un secondo fine.
Goditi la tua sera di libertà, ragazzina. Non saprai nemmeno che cosa avrai perso, quando tornerai…
Odette aveva tutto, lei niente; Odette era una principessa, lei una sguattera figlia di una cortigiana; Odette era bella, lei era insignificante e stupida; Odette aveva una madre che l’amava, e lei…
Lei non era nessuno, era povera e sola…Perché Odette doveva avere anche lui, l’unica cosa che desiderava, l’uomo di cui era innamorata?
Bastò quest’ultimo pensiero per farle dimenticare tutto il senso di colpa che l’aveva attanagliata fino a poco prima. Posò lo sguardo sull’abito che avrebbe indossato quella sera, e sorrise. Odette era un bellissimo cigno, uno splendido cigno bianco…ma quella sera, a danzare sarebbe stato il cigno nero.
 
***
 
- Malefica?
- Sì, Grimilde?- fece la strega non appena si sentì interpellata, avvicinandosi alla Regina Cattiva; quest’ultima le sorrise, seduta comodamente di fronte al suo specchio.
- Dimmi…quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui hai partecipato a un ballo?- le domandò.
- Non ho mai amato queste sciocchezze - rispose duramente Malefica, incrociando le braccia al petto.
- Oh, beh, questa potrebbe essere un’occasione per rivalutare la tua opinione…- la Regina Cattiva le rivolse un sorriso sornione che la strega non ricambiò, continuando a rimanere seria, le sopracciglia aggrottate.- Vieni, avvicinati. C’è qualcosa, a Camelot, che merita di essere preso in considerazione…
- Morgana ha per caso un problema con i suoi ridicoli veleni?
- No, fortunatamente no. Ma questa serata sarà sicuramente speciale…- la Regina Cattiva le indicò una poltrona poco distante.- Prego, accomodati. Sarei lieta se assistessi insieme a me agli eventi di questa sera…
Malefica non accettò la poltrona che la Regina Cattiva le stava offrendo, ma rimase in piedi alle spalle della sovrana, guardando lo specchio.
 
***
 
Era quasi ora. Odile sussultò al suono di un orologio a pendolo che batteva le otto e mezza. Il ballo sarebbe iniziato ufficialmente alle nove, e già l’atmosfera era carica di fermento e aspettative. Aveva trascorso tutto il pomeriggio nella camera della principessa con la scusa di aiutarla a prepararsi, non facendo entrare nessuno fuorché la regina Ginevra. Quella mattina, non vista, aveva nascosto sotto il baldacchino la sacca con all’interno gli abiti maschili di suo fratello…ma non solo. All’insaputa di Odette, sotto al letto vi era un’altra sacca, contenente il vestito del cigno nero.
La principessa sospirò, lanciando un’occhiata ansiosa alla pendola, quindi iniziò ad armeggiare con i bottoni d’argento sulla schiena dell’abito da cigno bianco. Aveva dovuto indossarlo per fugare ogni sospetto, dal momento che sua madre era entrata in camera sua per ben cinque volte quel pomeriggio, dicendo di voler vedere come le stava il vestito. Non le era sembrata più molto arrabbiata, anche se non aveva revocato il suo divieto di uscire dalla sua stanza. Pareva piuttosto…preoccupata.
Odette non si era lasciata sfuggire le occhiate di sottecchi che Ginevra le aveva lanciato in continuazione, quel giorno, come per assicurarsi che lei fosse ancora lì, presente e sotto il suo controllo. Come se temesse che lei potesse scomparire da un momento all’altro…o scappare di casa…
- Aiutami!- fece, rivolta a Odile, la quale si affrettò a raggiungerla e a sfilarle di dosso l’abito da cigno bianco. Era la prima volta che glielo vedeva addosso, e avvertì una stretta al cuore quando la principessa si liberò di quella meraviglia con uno sbuffo infastidito, gettando la stoffa pregiata lontano da sé.
- Non pensate che vostra madre possa ritornare un’ultima volta?- domandò la servetta, mordendosi il labbro inferiore. Non poteva darlo a vedere, ma l’atteggiamento di Ginevra l’inquietava.
- No, a quest’ora sarà andata a prepararsi, e poi mi ripete sempre che un sovrano deve essere in anticipo in occasioni come queste…- sospirò Odette, ma dal suo sguardo si evinceva che nemmeno lei era tranquilla. Puntò gli occhi grigi in quelli di Odile.- Secondo te sospetta qualcosa?
- Non…non penso…- balbettò la servetta. Sperava con tutto il cuore di no, o sarebbero stati dolori, per entrambe ma soprattutto per lei.- Come può? Siamo state attente, non c’è modo che lo scopra…
- Va bene. Hai portato i vestiti?
Odile annuì, recuperando la sacca da sotto il letto. Quegli abiti risalivano a quando suo fratello aveva quindici anni, ma Odette restava comunque una ragazza, e aveva i suoi dubbi che le sarebbero stati a pennello come aveva promesso. La calzamaglia era sorprendentemente della sua misura, ma la camicia era decisamente troppo larga, e la principessa fu costretta ad arrotolare le maniche e a stringere più del dovuto la cintura intorno alla vita. Gli stivali erano anch’essi grandi, ma tutto sommato le stavano.
Odette si gettò il mantello nero sulle spalle, e si tirò il cappuccio sul capo, sorridendo soddisfatta quando ebbe finito di vestirsi. Sebbene quelli fossero gli abiti di una delle persone più odiose che avesse mai incontrato in vita sua, in quel momento le sembravano più belli di qualunque abito da sera.
Aveva sognato quel momento per anni, e ora finalmente era arrivato.
- Bene, Odile. Ti ringrazio - Odette guardò l’orologio. Mancavano solo cinque minuti alle nove.- Beh, direi che è ora!- commentò allegramente.- Sei sicura di riuscire a cavartela? Io tornerò poco prima di mezzanotte…
- Sì, certo, Vostra Altezza. Ma…- Odile esitò.- Come farete a uscire da questa stanza senza attraversare i corridoi?
Odette le rispose con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, e prese a disfare le lenzuola, annodandole una con l’altra.
- Un classico, no?- ammiccò allegramente.- Mi calo giù con queste, raggiungo terra, tu le tiri di nuovo su e rifai il letto, e per tornare uso una delle porte laterali.
- Come credete.
Odette finì di annodare tutte le lenzuola, quindi legò l’estremità di quella lunga treccia a una delle colonne che sostenevano la balaustra di pietra del terrazzo, gettando le altre giù verso il giardino fino a quasi far toccare terra. Scavalcò la balaustra, sedendosi a cavalcioni su di essa mentre afferrava un capo delle lenzuola.
- Non posso credere a quello che sto per fare!- esclamò con contentezza, aggrappandosi alla balaustra e iniziando a calarsi giù.- Dammi una mano, Odile…!
La servetta si avvicinò, e afferrò un’estremità delle lenzuola in modo da reggerla meglio. Odette le scoccò un’ultima occhiata, quindi afferrò più saldamente quella corda improvvisata e lasciò la presa alla balaustra, di fatto abbandonando l’unico sostegno sicuro che aveva. Si ritrovò a penzolare nel vuoto. La principessa deglutì nervosamente, ringraziando che la sua stanza non fosse poi così lontana dal pianterreno come altre torri del castello, o sarebbero stati dolori. Incrociò le gambe e fece in modo di avvolgersi le lenzuola intorno a un polpaccio, iniziando a calarsi piano verso il basso, quasi lasciandosi scivolare lungo quella treccia di stoffa.
Odile, inginocchiata sul terrazzo, aumentò la presa intorno alle lenzuola.
Odette continuò a calarsi senza intoppi e, quando fu a un paio di metri da terra, si sentì abbastanza sicura da lasciare la presa e compiere un balzo fino al giardino. Sbagliò a calcolare la distanza e, invece di atterrare in piedi come aveva previsto, finì distesa supina sull’erba, emettendo un sonoro uff! che fece spaventare Odile. La servetta si alzò in piedi, e si sporse dal terrazzo per vedere meglio.
- Vi siete fatta male?- domandò, cercando di non alzare troppo la voce per paura che le scoprissero. Nella sua mente avevano iniziato a farsi strada terrificanti immagini del suo piano che andava a monte e di lei che veniva cacciata dal palazzo reale per aver aiutato la principessa in quell’improvvisata e temporanea fuga, tutto per colpa di una ragazzina imprudente!
- No, sto bene…- bofonchiò Odette, tirandosi su a fatica. Si rimise in piedi barcollando, liberandosi il mantello dai fili d’erba.- Va bene, Odile…io vado - annunciò, prima di voltarsi e iniziare a correre furtivamente in direzione delle mura.
La servetta rimase a guardarla fino a che non scomparve nella notte, quindi rientrò, prendendo a disfare la corda di lenzuola. Doveva sbrigarsi. Il ballo sarebbe cominciato di lì a poco, e il cigno nero era impaziente di spiccare il volo.
 
***
 
Odette percorse tutto il tragitto che la separava dalla quercia camminando rasente la parete del castello, attenta a non invadere nessuno spazio luminoso creato dalle stelle e dallo spicchio di luna che abitavano il cielo quella notte. Scivolò silenziosamente lungo i muri di pietra, sempre tenendosi il cappuccio calato sul capo e tendendo l’orecchio al minimo rumore. Quando udì i passi di due sentinelle che si stavano avvicinando in coppia nella sua direzione, si appiattì contro la parete e trattenne il respiro, ma fortunatamente i soldati tirarono dritto e non si accorsero di lei.
La principessa continuò a percorrere lentamente tutto il tragitto rimanendo nell’ombra e, quando vide la quercia su cui si arrampicava sempre sin da bambina, abbandonò il rifugio sicuro offertole dal buio e prese a correre a perdifiato verso l’albero. Lo scalò senza fatica, anzi, molto meno del solito ora che indossava una calzamaglia e non un vestito. Si resse con attenzione al ramo più robusto e più vicino alle mura di cinta e, quando le raggiunse, vi si sedette a cavalcioni prima di scavalcarle completamente e atterrare fuori dai confini del palazzo, stavolta in piedi, accovacciata sull’erba come una ranocchia.
Odette sollevò lo sguardo, incontrando la distesa d’erba che, pochi metri più in là, lasciava spazio alla città. Sorrise, e iniziò a incamminarsi verso di essa quasi correndo, con le guance rosee per quella sensazione di libertà mai provata prima.
 
***
 
Ginevra trasse un profondo respiro, poggiando il dorso contro lo schienale del trono mentre cercava di tranquillizzarsi – o perlomeno, di dare l’impressione che fosse tranquilla. In quanto regina consorte, a lei non era d’obbligo mascherarsi quella sera, ma per non apparire completamente fuori luogo aveva comunque indossato una maschera dello stesso color viola del suo abito da sera tempestato di brillanti, maschera che si era tolta ben presto, e che ora penzolava stancamente sulla punta delle sue dita. Ginevra sospirò, facendo vagare lo sguardo attento lungo il salone già colmo di invitati, alla ricerca non solo di sua figlia, ma anche di qualunque cosa che desse anche la minima idea di essere strana e fuori luogo. Non ne trovò, ma non smise di scrutare la sala.
Quella sera il salone da ballo del palazzo era splendente, interamente decorato con pendenti di cristallo che dal soffitto sovrastavano l’intero pavimento tirato a lucido. La tenue luce delle stelle e della luna filtrava attraverso i vetri delle ampie finestre e creavano riflessi splendenti con le fiammelle dei candelabri e dei soprammobili d’argento, nonché con le stoffe lucide dei vestiti delle dame che facevano frusciare e roteare gli orli delle gonne mentre danzavano. La musica aveva iniziato a suonare già da un pezzo, e subito quasi tutti avevano cominciato a ballare.
Lei no; in quanto figlia di un mugnaio, anche da giovane non era mai stata in grado di compiere dei passi di danza che non fossero quelli dei balli popolari e, anche da appena sposata, non aveva amato troppo ballare, sebbene farlo con suo marito fosse sempre un piacere. Ma ormai era invecchiata, e doveva mostrarsi seria e composta.
Ginevra volse lievemente il capo per sbirciare suo marito seduto accanto a lei: Artù era ancora molto pallido, ma in compenso sembrava si sentisse un po’ meglio. Gli aveva proposto di non presentarsi, quella sera, di rimanere a letto e riposarsi, ci avrebbe pensato lei a mandare avanti la cosa, ma non aveva voluto sentire ragioni: desiderava vedere sua figlia in abito da sera, le aveva risposto.
Ora se ne stava seduto, ma la regina era certa che, se anche avesse voluto alzarsi in piedi, le gambe non lo avrebbero retto. Eppure, nonostante la lieve febbre che ancora permaneva, Artù sorrideva. Ginevra si rese conto di quanto entrambi fossero cambiati negli anni, invecchiati: suo marito ora portava i capelli più corti e la barba leggermente più lunga di quando era giovane, e intorno ai suoi occhi era già comparsa qualche ruga; lei, invece, sentiva di aver perso parte della sua vitalità, nonché delle sua bellezza che pure non era mai stata un granché – nemmeno lontanamente comparabile a quella di Odette – e quella sera doveva assomigliare a uno straccio a causa di tutte quelle preoccupazioni.
Ginevra fece dardeggiare lo sguardo al portone che dava accesso alla sala da ballo: quattro guardie erano schierate sull’attenti al di fuori di esso, e altre due all’interno. In più, al ballo erano presenti anche i cavalieri, il che era una garanzia non da poco.
I suoi ordini erano stati rispettati.
Istintivamente, Ginevra allungò una mano alla ricerca di quella di suo marito, e la strinse fra le proprie dita.
- Dov’è Odette? Non riesco a vederla - fece Artù, sporgendosi un poco dal trono alla ricerca della principessa.
- E’ di nuovo in ritardo - sibilò Ginevra fra i denti. Non solo quello che era successo poche sere prima, ci si metteva anche quell’immatura di sua figlia a complicare ancora di più le cose!.- Sono quasi le nove e mezzo, e stanno tutti aspettando lei. Se entro dieci minuti non si fa vedere, parola mia la vado a prendere per i capelli…!
- Non esagerare. Starà finendo di prepararsi, e poi c’è Odile con lei…- provò a dire Artù, ma Ginevra non si sentì comunque tranquilla. Si voltò di lato e chiamò Morgana, in piedi a pochi passi dalla scalinata che sopraelevava i due troni elevandoli un poco rispetto al resto della sala da ballo.
La donna si avvicinò celermente: indossava un abito da pavonessa, un tripudio di piume colorate che non facevano altro che ballonzolare a destra e a sinistra colpendo in viso chiunque avesse la sfortuna di passarle accanto. Prima, quando l’aveva vista, Artù aveva soffocato una risata e aveva chiesto a sua moglie quanti poveri polli avessero dovuto morire per far sembrare la sua protetta così ridicola, e Ginevra da parte sua l’aveva zittito dicendogli di non essere maligno, ma a sua volta aveva dovuto trattenersi dal lasciarsi sfuggire una risatina.
Morgana si avvicinò, facendo una riverenza.
- Sì, Vostra Maestà?
- Morgana…tua figlia stasera dovrebbe essere con Odette, vero?- domandò Ginevra.
- Suppongo di sì, Maestà.
- E sai per caso dove sono finite tutt’e due?
- Immagino…immagino che siano nella stanza della principessa. Sua Altezza Reale non avrà ancora terminato di vestirsi. Una così bella fanciulla, e con un abito così elaborato e raffinato…e poi la mia Odile è una ragazza molto scrupolosa, vorrà certamente che sia perfetta…
Ginevra fissò il vuoto per un istante, pensierosa; quindi annuì, ringraziando Morgana e dicendole che, se lo desiderava, poteva tornare alla festa, augurandole di divertirsi. La donna ubbidì, corrucciata.
Raggiunse in fretta suo figlio, in piedi di fronte a un pilastro a pochi metri da lei. Mordred quella sera non indossava alcuna maschera – sarebbe stato sconveniente dato il suo ruolo – così come tutti gli altri cavalieri presenti, ma indossava la casacca azzurra con una croce bianca sul petto, e scrutava la sala gremita con aria profondamente annoiata. Si riscosse quando vide sua madre venire verso di lui.
- Qualche problema?
- Non lo so ancora - borbottò Morgana ponendosi accanto a lui con espressione corrucciata.- La principessa Odette non si è fatta vedere.
- E allora? Starà facendo i capricci come al solito.
- Tua sorella dovrebbe essere lì con lei - sibilò la donna.- Non vorrei che quella scema abbia combinato qualche…
- Guardate!
Morgana seguì lo sguardo di suo figlio mentre Mordred le indicava qualcosa dall’altra parte della stanza. La donna si sollevò sulle punte per poter vedere meglio al di sopra delle teste di tutti gli invitati, anch’essi voltatisi a guardare la nuova arrivata.
Si trattava di una donna all’apparenza giovane – Morgana non sarebbe stata in grado di dirlo con esattezza, data la distanza – vestita con un lungo e attillato abito nero che risplendeva alle luci del salone, i capelli acconciati sopra il capo e una maschera anch’essa nera i cui bordi ricordavano la forma di un paio d’ali.
Era un cigno, realizzò Morgana. Quella ragazza era un cigno nero.
 
***
 
Odette raggiunse le prime casupole relativamente in fretta, non ci aveva impiegato neppure mezz’ora ad attraversare la pianura da quando aveva scavalcato le mura del castello. Il campanile in lontananza batté le nove e mezzo, e la principessa calcolò che le restavano ancora un paio d’ore da spendere come voleva, prima di recarsi a quel tedioso ballo.
Rallentò il passo, e si calò ancora di più il cappuccio sul capo, schiacciandosi i capelli biondi sotto la stoffa grezza, e si addentrò nella città, percorrendo la via principale. Una leggera brezza aveva iniziato a soffiare, facendole aderire ancora di più gli abiti di Mordred al corpo, ma non era un semplice venticello notturno. L’aria era frizzante, fredda, fredda in un modo che a Odette non parve naturale, ma non ci badò troppo e continuò a camminare. Ora le case si erano fatte più numerose, una addossata all’altra, interrotte solo da alcuni vicoli stretti e semibui che s’insinuavano fra le costruzioni di legno e pietra. C’erano poche persone, data l’ora tarda, e Odette non sapeva se esserne dispiaciuta o rincuorata: dispiaciuta, perché era la sua prima notte di libertà e non incontrare un’anima per tutto il tempo sarebbe stato davvero triste; rincuorata, perché in quel modo erano anche minori le possibilità di venire riconosciuta. Certo, razionalmente sapeva che non c’era grande pericolo, dal momento che nessuno o quasi l’aveva mai vista in volto se non quando era poco più che una lattante, ma la principessa si sentiva raggelare ogni volta che qualche carrettiere o contadino di ritorno dai campi incrociava il suo cammino e sollevava lo sguardo su di lei. Sarebbe bastato veramente poco perché qualcuno urlasse la principessa Odette è in città! e mandasse tutto quanto nel fango. Per precauzione, preferì non abbassare il cappuccio, e continuare a esplorare in solitudine.
Sebbene fosse notte e quindi le strade pressoché deserte, Odette non riusciva a staccare gli occhi da qualunque cosa vedesse. Tutto, in quella città, era nuovo per lei: dalle persone, agli abiti, ai suoni e perfino a quell’odore misto di pane caldo, sudore, terra ed erba che non la smetteva di mandarla su di giri. Si fermò per un attimo, indecisa sul da farsi: non avrebbe combinato molto continuando a vagare da sola fino a mezzanotte. Era conscia del fatto di non essere più al castello, con sua madre sempre intorno, le guardie e i cavalieri a proteggerla, e che chiunque avrebbe potuto aggredirla per rubarle del denaro che non possedeva, o per farle del male. Per di più, lei era stata talmente stupida da non portarsi dietro neppure un pugnale per difendersi! E poi…e poi, voleva incontrare delle persone. Voleva vedere com’era veramente il mondo al di fuori dalle mura.
Doveva trovare un modo.
Proseguì ancora per qualche metro, fino a che non udì alcuni rumori e delle voci provenire da un edificio più grande degli altri, accompagnate dalla musica di quelli che identificò come un tamburello e una fisarmonica. Dal suo interno proveniva una luce più forte che dalle finestre delle altre case. Odette si fermò di fronte alla porta di essa, sopra la quale era affissa un’insegna.
Il Leone d’Oro.
Odette non aveva mai udito quel nome in vita sua, ma non era sciocca, e quell’edificio le ricordava troppo bene tutte le descrizioni delle locande che aveva letto nei libri o di cui parlava sempre sir Galvano. Salì i pochi gradini che la separavano dalla porta, quindi spinse i battenti, scivolando all’interno.
Rimase un attimo immobile sulla soglia, incerta sul da farsi: aveva temuto che qualcuno la riconoscesse, o che tutti si voltassero puntando lo sguardo su di lei come accadeva sempre quando entrava in una stanza – sia che fosse puntuale o meno, e sia che i suoi abiti fossero puliti o sporchi di terra. Invece, nessuno parve fare caso a lei, se non quello che identificò come il locandiere, un uomo calvo, alto e allampanato, con due baffoni scuri e un grembiule bianco che se ne stava in piedi dietro al bancone lucidando un bicchiere, e che le rivolse una breve occhiata prima di tornare al proprio lavoro.
Odette mosse qualche passo verso uno degli sgabelli posti di fronte al banco, guardandosi intorno. L’ambiente era molto meno ampio di quanto l’esterno avesse lasciato intuire, l’aria viziata e densa di uno sgradevole odore di alcool e sudore e del fumo emanato dalle candele accese. I tavoli erano tutti ingombri, occupati da omaccioni tozzi e vestiti in modo trasandato, che giocavano a carte o che – la maggior parte di loro, a dire il vero – pur essendo completamente ubriachi non la smettevano di tracannare grog e di fare battute oscene ad alta voce.
Odette accelerò il passo, raggiungendo uno degli sgabelli liberi e sedendocisi sopra in tutta fretta. Stava cominciando a pentirsi di essere entrata là dentro. Chi poteva saperlo, magari più avanti c’era un’altra locanda…
- Cosa bevi, ragazzo?- l’apostrofò il barista.
- Uh? Eh?- fece Odette, stralunata, alzando lo sguardo su di lui.
- Ti ho chiesto che cosa vuoi che ti serva…- ripeté l’uomo accigliato.
Odette abbassò il capo, umettandosi le labbra.
Crede che io sia un maschio, realizzò, e la cosa le infuse un senso di compiacimento. Aveva sempre sognato di vestirsi da uomo e passare come un prode guerriero.
- Ehm…io…- balbettò, schiarendosi la voce in modo da prendere tempo e al contempo cercare di somigliare ancora di più a un ragazzo.- Io prendo…dell’assenzio - buttò lì il primo nome che ricordò aver sentito pronunciare da sir Galvano. Non aveva idea di quale fosse il sapore dell’assenzio, ma d’altra parte non conosceva neppure quello del rum, del grog e dell’idromele, quindi tanto valeva provare, no?
Il barista si voltò verso lo scaffale ricolmo di bottiglie e, quando tornò a guardarla, le piantò di fronte un boccale stracolmo di un liquido verde scuro che non aveva niente di rassicurante. Odette borbottò qualche parola di ringraziamento poi, quando l’uomo non fece più caso a lei, si sporse in avanti e annusò brevemente il contenuto del boccale. Odorava di dolciastro, come se fosse stato alcool e menta concentrati. Odette sollevò titubante il bicchiere, e bevve un piccolo sorso di assenzio.
Fu come se le avessero fatto ingoiare del fuoco liquido.
L’assenzio le fece bruciare la gola e il petto, invadendole i polmoni. Odette allontanò il boccale da sé, versandone metà del contenuto sul bancone, e prese a tossire furiosamente, gli occhi iniziarono a lacrimarle e divenne rossa in viso.
E stavolta questo fu sufficiente a far voltare tutti nella sua direzione.
- Ehi, ragazzino, hai intenzione di crepare qui?- gridò qualcuno, suscitando qualche sguaiata risata; nel contempo, Odette sentì qualcuno – forse il barista – che le batteva una mano sul dorso.
- Su, forza, respira!- la incitò l’uomo.- Non sei abituato a bere, eh?
- No…- soffiò la principessa con voce strozzata. Aveva smesso di tossire, ma la sensazione che un drago avesse appena vomitato delle fiamme nella sua gola non se n’era andata.
- Non avresti dovuto iniziare con qualcosa di così forte. L’assenzio è fuoco puro…
- L’ho notato…
- Vieni, ti porto qualcosa di un po’ più leggero. Che ne dici di un bel whiskey, eh?
- Oppure mandalo direttamente a ficcare la testa nell’abbeveratoio per le vacche!- urlò qualcun altro, e subito ci furono altre risate. Odette ringhiò a chiunque fosse stato a parlare, raddrizzando il capo. Avrebbe voluto prendere per la collottola chi l’aveva insultata, ma s’impose di mantenere il sangue freddo. Il barista le tolse di fronte il boccale d’assenzio e lo sostituì con uno di whiskey.
Odette rimase a fissarlo per qualche minuto. Non aveva più voglia di bere, sebbene le avessero assicurato che quello fosse molto meno forte dell’assenzio. Per di più, il suo tempo di libertà stava per scadere, e questo le infondeva parecchia tristezza: si era figurata quell’avventura in tutt’altro modo, e adesso aveva quasi la sensazione di aver gettato via un’occasione irripetibile.
- Ma non dire idiozie!- sbraitò qualcuno alle sue spalle. Odette si riscosse, voltandosi appena per vedere chi aveva parlato. Era stato un uomo, probabilmente un boscaiolo, seduto a un tavolo con altri quattro.
- Non sto dicendo idiozie - ribatté un altro.- Me l’ha detto Gunter, ieri sera. Ha incontrato dei pastori che venivano dal Nord. Dicono che laggiù ha iniziato a cadere la neve, e che tutto quanto si è gelato. Che gli alberi sono morti e gli animali hanno lasciato la foresta…proprio come al tempo dei fratelli Grimm, ricordate?
- I fratelli Grimm?- fece un terzo.- Andiamo, non puoi essere serio!
- Su queste cose non si scherza, Thomas!- lo rimbrottò il primo che aveva parlato. Odette si sporse per poter sentire meglio, interessata.
- Io infatti non sto scherzando - disse Thomas.- E’ proprio come racconta la leggenda. Quando i fratelli Grimm risorgeranno, a far loro da ambasciatore sarà il Grande Inverno…
- Saranno stati dei ciarlatani. I Pendragon hanno sconfitto i quei due bastardi secoli fa!- Odette rabbrividì nell’udire il nome della propria famiglia, ma non smise di ascoltare.- Piuttosto…- fece il boscaiolo.- Che notizie dal Nord?
- Non buone. Gli orchi hanno saccheggiato e distrutto diversi villaggi, e in uno di questi…mi pare che si chiami Salem…beh, stanno succedendo cose strane. E’ stata arrestata una donna, mi hanno detto. La levatrice del paese, figlia di un mercante decaduto…
- Una strega?
- Suppongo di sì. L’hanno condannata a morte, dovrebbe essere giustiziata da qui a pochi giorni…
 
***
 
Ginevra si sporse dal trono, sgranando gli occhi.
Gli invitati s’inchinarono uno a uno alla nuova arrivata.
- Odette…- boccheggiò la regina.
- Hai visto che alla fine si è presentata?- ammiccò Artù.
- Ma…ma…- Ginevra parve essere estremamente confusa.- Quello non è il suo vestito!
- E allora? Conosci nostra figlia…evidentemente non le piaceva e lo ha cambiato. Comunque, trovo che le stia molto bene…
- No, c’è qualcosa che non va - dichiarò Ginevra, facendo per alzarsi in piedi. Artù la trattenne, stringendo le dita intorno alla mano della moglie.
- Siediti…- sussurrò, accarezzandole il dorso della mano con il pollice. La regina inspirò a fondo, abbandonandosi contro lo schienale. Artù le rivolse un piccolo sorriso.- Andrà tutto bene, intesi? Odette ha solo cambiato abito, nulla di più. Io mi fido di nostra figlia, vedrai che non accadrà nulla…
- Va bene…- Ginevra cercò di rilassarsi, ma non ci riuscì come avrebbe voluto. Da lontano, quella sembrava veramente Odette, solo con un altro abito. Ma c’era uno strano tarlo che continuava ad assillarla, e non era la solita paura di una delle bravate di sua figlia.
Odile trattenne il fiato non appena fece il suo ingresso nella sala da ballo, e credette di essere sul punto di svenire quando tutti gli invitati si voltarono nella sua direzione. Nessuno le staccava gli occhi di dosso, e per un momento la servetta temette che l’avessero riconosciuta, che avessero compreso che non era la principessa Odette ma, quando alcuni degli ospiti iniziarono a inchinarsi, si tranquillizzò.
Non l’avevano scoperta. Espirò lentamente, muovendo un passo all’interno del salone in mezzo alle due file di nobili che si erano formate al suo ingresso, sorridendo appena. Istintivamente avrebbe voluto rispondere agli inchini con una riverenza, ma si ricordò che non sarebbe stato un comportamento da principessa.
Dopo poco, la musica ricominciò a suonare, e gli invitati a ballare. Inaspettatamente, Odile si vide tendere una mano da uno dei nobili presenti, un ballerino di mezza età elegantemente vestito che si esibì in un profondo inchino.
- Sua Altezza desidera concedermi l’onore del suo primo ballo di questa sera?
Odile schiuse le labbra, trasalendo un poco. Non si aspettava nulla del genere – il suo obiettivo era un altro, e non lo aveva dimenticato –, tuttavia replicò con un sorriso e accettò la mano. Non ebbe il coraggio di rispondere per paura che il suo cavaliere comprendesse che quella non era la voce della principessa.
L’uomo – Odile comprese dallo stemma cucito sulla sua casacca che si trattava di un duca – la condusse poco più in là, quasi al centro del salone, e le posò una mano in vita, dando avvio alla danza. Il cigno nero si lasciò trasportare, trovando molto semplice compiere quei passi sinuosi al ritmo della musica. Era brava a ballare, anche se non aveva preso delle vere e proprie lezioni come Odette, ma quando era piccola e la sua famiglia viveva ancora nell’agiatezza, Morgana le aveva insegnato qualche passo personalmente. Posò una mano sulla spalla del suo cavaliere e intrecciò le proprie dita nella destra di lui, e ben presto fu lei a condurre il ballo. Il duca fece una piccola battuta su questo punto, che Odile non udì ma alla quale rispose con un sorriso di cortesia, senza smettere di ballare ma, soprattutto, di sfruttare ogni giravolta e cambio di coppie per cercare con lo sguardo l’unica persona che le interessava veramente in mezzo a tutta quella calca.
Ancora seduti sui due troni, il re e la regina di Camelot si scambiarono un’occhiata, soddisfatta da una parte e incerta dall’altra.
- Per ora sta andando bene, non trovi?- disse Artù.
- Sì…- soffiò Ginevra, mordendosi l’interno di una guancia.- Sembra di sì…
- Cosa c’è? Ti preoccupa la scelta del cavaliere?- il re ridacchiò.- In effetti, è un po’ vecchiotto per Odette, ma stanno solo ballando, credo sia il caso di aspettare prima di ordinare il corredo di nozze…
- A te non pare…diversa?- Ginevra si umettò le labbra.- Voglio dire sembra quasi…un’altra.
Quella stana sensazione non era sparita, anzi, vedendo ballare il cigno nero non aveva fatto altro che acuirsi. Sapeva che Odette non era mai stata una ballerina provetta, ma anche la possibilità di un improvviso miglioramento non giustificava ciò che vedeva: sua figlia non stava semplicemente ballando, era come se ogni suo passo e movimento fosse finalizzato a provocare non solo il suo cavaliere, ma anche chi le stava intorno, come se il suo unico obiettivo fosse quello di sedurre.
Non era un comportamento da Odette, di questo non aveva dubbi.
- Ammetto che anche a me sembri un po’ strana, ma forse è per via del vestito…- mormorò Artù, e a Ginevra non sfuggì il fatto che avesse aggrottato le sopracciglia.- Non mi ero mai reso conto che a Odette piacesse il nero.
- No, nemmeno io…
- La rende più pallida - osservò il re, massaggiandosi il mento con una mano.- E i capelli sembrano più scuri…ma potrei anche sbagliarmi, d’altronde li ha raccolti e le luci creano delle strane sfumature.
Ginevra annuì, ma in cuor suo non ne era per niente convinta. Gettò un’altra occhiata prima alle guardie e poi al resto della sala. Sembrava andasse tutto bene.
Il primo ballo terminò, e subito i musicisti attaccarono con una nuova melodia. Il duca s’inchinò le baciò la mano di Odile in segno di commiato. Il cigno nero tentò di guardarsi intorno alla ricerca di Lancillotto, ma subito un altro ballerino s’inchinò di fronte a lei, domandandole il prossimo ballo.
Odile non poté fare altro che accettare, e diede avvio alla prossima danza, senza smettere di osservare tutti gli altri ballerini.
D’un tratto, lo sguardo le cadde su due figure in piedi di fronte a un pilastro e trasalì, ringraziando con tutto il cuore che un attimo dopo i passi della danza l’avessero costretta ad allontanarsi da loro, tornando seminascosta fra gli altri ospiti.
- Avete visto?- fece Mordred, rivolto a sua madre.
- Che cosa?
- Non avete visto come ci ha guardati?- insistette il cavaliere.- Sembrava quasi spaventata.
- Forse è a causa della tua bravata di tre sere fa!- sputò Morgana, velenosa, ma Mordred non ci badò. Tornò a scrutare la pista da ballo alla ricerca del cigno nero e, quando la rivide, stavolta fra le braccia di un ballerino più giovane, il volto affilato gli si aprì in un sogghigno.
- Madre…- chiamò, con gli occhi che brillavano.
- Che cosa c’è?
- Credo di aver capito il perché il cigno nero sia tanto nervoso…
- Ma che cosa vai blaterando?!
- Guardate meglio…
Morgana digrignò i denti, facendo ciò che le diceva suo figlio. Tornò a guardare il cigno nero ma, proprio quando stava nuovamente per rivoltarsi verso Mordred e dirgli che non vedeva niente, l’evidenza dei fatti le saltò di fronte agli occhi, e l’espressione della donna fu di puro sconvolgimento.
- Beh? Avete capito che cosa intendevo?- ridacchiò Mordred.
- Non…non ci posso credere!- Morgana si mise le mani nei capelli.- Quella puttana! Che cosa sta combinando?! Oh, ma brutta…brutta sgualdrina, questa me la paga…! Giuro su tutto ciò che ho che le strapperò quei dannati capelli con le mie mani…! Siamo rovinati! Per colpa sua la regina ci…io l’ammazzo quella dannata…
- Madre, state diventando isterica - commentò il cavaliere, tranquillamente.
- Oh, sta’ zitto!- ringhiò la donna, facendo per irrompere al centro del salone con tutta l’intenzione di riempire sua figlia di schiaffi, ma la musica cessò improvvisamente, e la calca causata dal cambio delle coppie la costrinse ad arretrare.
Odile si allontanò velocemente dal proprio cavaliere, vedendosi costretta ad accettare la proposta di un altro ballerino poiché la musica era ricominciata ma, si ripromise, sarebbe stato l’ultimo ballo indesiderato. Aveva finalmente scorto chi cercava.
Lancillotto indossava, come tutti i Cavalieri della Tavola Rotonda presenti quella sera, la solita divisa azzurra con una croce bianca, e per tutto il tempo non aveva fatto altro che rimanersene in disparte, appoggiato a una colonna un po’ in penombra. Quel genere di feste non gli erano mai piaciute, neppure quando era uno scudiero; mentre tutti i suoi compagni non speravano altro di poter partecipare a un ballo a palazzo, un giorno, lui preferiva di gran lunga rimanere in cortile a esercitarsi o nella sua stanza a leggere. Doveva essere presente per una questione di decoro e perché il re che lui doveva servire e proteggere si trovava lì, ma quando capitava trascorreva tutto il tempo in disparte sperando che quel supplizio terminasse presto. All’inizio alcune dame lo avevano guardato da lontano nella speranza che le invitasse a ballare, ma col tempo anche loro avevano smesso di farsi illusioni. Il re gli aveva chiesto diverse volte se non pensasse a sposarsi, ma Lancillotto aveva sempre dichiarato di non avere tempo per il matrimonio. Non sopportava le donne in generale. Certo, era sempre pronto a dare una mano a qualunque di loro avesse bisogno del suo aiuto, ma sposarne una era tutta un’altra storia. Nella sua vita aveva solo incontrato bambine capricciose come la principessa, donne subdole come Morgana o damine svenevoli come sua figlia. Non si sentiva in grado di sopportare una come loro fino alla fine dei suoi giorni.
Sollevò lo sguardo non appena si accorse che Galvano si stava dirigendo nella sua direzione armato – neanche a dirlo – di una fiaschetta di grog da cui trasse un abbondante sorso, in barba a qualunque forma di etichetta e galateo di cui, per altro, non era mai importato molto a nessuno dei due.
- E’ sempre un piacere vederti così allegro e spensierato!- fece il suo amico con pesante ironia, battendogli una mano su una spalla. Lancillotto sbuffò, volgendo lo sguardo altrove.
- Vedo che hai già dato fondo alle scorte di idromele e di grog di Sua Maestà - commentò.
- Ti aspettavi il contrario, forse?
- No, in effetti no.
- Quante povere fanciulle hai già fatto piangere con la tua indifferenza stasera?- Galvano si appoggiò alla colonna accanto a lui, scrutando la sala da ballo.- Oh, no! Dimenticavo…ormai sanno che con te è una causa persa.
Lancillotto non rispose, e tornò a fissare la sala da ballo. Di fronte a lui, un giovane conte aveva appena condotto la principessa Odette in una giravolta. A differenza della maggior parte dei presenti, il cavaliere non era rimasto troppo incantato dall’entrata della figlia dei sovrani. Quello che l’aveva sbigottito era stato forse l’abito scelto, ma conoscendo il carattere ribelle della principessa si era detto che non doveva stupirsene troppo. Ma ora che la vedeva volteggiare fra le braccia di tutti quei ballerini, aveva la forte sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. Galvano gli aveva raccontato di tutti i tentativi che Odette faceva insieme a lui per migliorarsi nella danza, e di come questi si concludessero immancabilmente in miseria. Invece, ora sembrava una perfetta ballerina, e anche il suo atteggiamento pareva…diverso.
- Cosa stai guardando?- fece Galvano.
- Nulla…
- Bugiardo. Perché stai fissando la principessa?
- Non ti sembra che sia strana, stasera?
- Magari ha deciso di mettere la testa a posto e smettere di ribellarsi.
- Non è solo questo. Sembra anche più pallida, e i capelli…- Lancillotto aggrottò le sopracciglia, guardandola meglio. Sì, decisamente c’era qualcosa di strano…e poco dopo, quando la musica cessò, lo capì. E si sentì invadere prima dal panico, e poi dalla rabbia.
- Ehi…- chiamò Galvano, posandogli una mano su una spalla.- Lancillotto, che cos’hai?
- Guardala…- sibilò il cavaliere, accennando al cigno nero che aveva iniziato a dirigersi velocemente nella loro direzione.- Non la vedi?
- Io…
- Non è la principessa!- sussurrò Lancillotto, nervosamente.- Galvano, non l’hai riconosciuta? E’ Odile!
- Odile?!- il cavaliere strabuzzò gli occhi.- La nostra Odile?!
- Sì, la piccola Odile, proprio lei!
- E…e dov’è la principessa?
Se anche Lancillotto avesse potuto rispondere, l’arrivo del cigno nero glielo impedì. Odile si avvicinò a loro sfoderando il migliore sorriso che possedesse; ormai si sentiva abbastanza sicura di sé, le pareva che niente potesse andare storto.
Galvano boccheggiò, ancora più sconvolto quando, invece di vedere il suo amico lanciarsi in un’invettiva contro la servetta, Lancillotto s’inchinò profondamente al cospetto di Odile.
- Vostra Altezza…- salutò.
Odile fece una riverenza, e Lancillotto pensò che, se anche non si fosse accorto prima del trucco, quel gesto l’avrebbe smascherata da sé. La vera Odette avrebbe sbuffato e replicato al suo saluto con una battuta ironica, dal momento che né con lui né con Galvano si era mai profusa in salamelecchi.
- State molto bene stasera, sir Lancillotto…- disse Odile; la voce le uscì un po’ stridula a causa dell’emozione. Lancillotto sfoderò un sorrisetto sghembo.
- Vi ringrazio, anche se potrei dire lo stesso di voi. Siete splendida…- detto questo, le prese una mano e ne baciò il dorso, gesto che non aveva mai compiuto con nessuna donna. Anche se non poteva vederlo, sapeva che sir Galvano, alle sue spalle, doveva essere sconvolto: avrebbe voluto dargli delle spiegazioni, ma non poteva. Aveva in mente un’idea tutta sua, che avrebbe forse fatto comprendere alla piccola servetta che cosa stava combinando con quel gesto. Non sapeva dove fosse la principessa, ma qualunque cosa fosse accaduta, se non la risolvevano immediatamente, con ogni probabilità il re avrebbe incolpato lui e gli altri cavalieri per non esservi stati attenti. Non poteva permetterselo.
Odile arrossì vistosamente, ridacchiando.
La musica era ricominciata. Lancillotto ammiccò, offrendole il braccio.
- Posso avere l’onore del prossimo ballo?- domandò.
Il cuore di Odile fece un balzo nel petto.
- Oh, sì, certamente!- trillò, affrettandosi a prenderlo sottobraccio.- Con il vostro permesso, sir Galvano…
Il cavaliere non poté fare altro se non mantenere un’espressione ebete a quella retorica richiesta e, quando i due presero ad avviarsi al centro del salone, scoccò a sir Lancillotto uno sguardo a metà fra l’interrogativo e l’accusatorio. Questi gli fece cenno di tacere, e continuò la farsa.
Condusse Odile al centro della sala, e iniziarono a ballare.
Poco più lontano, Ginevra si sporse in avanti.
- Che sta facendo?- mormorò, attonita.
- Beh, danza con sir Lancillotto, mi pare di capire.
- Non è mai stata interessata a lui, né ai cavalieri!- la regina si alzò in piedi di scatto, cominciando a scendere i gradini. C’era qualcosa che non andava; ora non era più solo una sensazione, ne era certa. Aveva continuato ad osservare il cigno nero per tutta la sera, e piano piano si era accorta di una serie di particolari: i capelli più scuri; la carnagione più pallida; l’altezza lievemente superiore a quella di Odette, la disinvoltura del cigno nero…
Quella non è mia figlia…!
- Ginevra! Aspetta!- la regina si voltò: suo marito si era alzato dal trono, e ora stava cercando di raggiungerla. Barcollava leggermente, e Ginevra si affrettò a prendergli le mani fra le proprie per non farlo agitare.
- Voglio solo andare da lei…- disse, nel tentativo di tranquillizzarlo.
- Ginevra, tu…
- Solo per salutarla - insistette la regina.- Ti prego, Artù…
Il re esitò, ma si decise ad assecondare la moglie.
Nel salone, Odile era all’apice della felicità: Lancillotto si rivolgeva a lei e le sorrideva come mai aveva fatto in vita sua. Era certa di avergli fatto una buona impressione e, anche se per il momento la credeva la principessa Odette, era sicura che quando gli avesse rivelato la verità finalmente avrebbe capito che aveva fatto tutto questo per lui, che era lei la donna giusta, non quella ragazzina capricciosa.
La musica cessò. Il cigno nero rivolse un gran sorriso al cavaliere.
- Sono un po’ stanca - disse.- Vogliamo uscire un poco sulla terrazza? Penso che mi farebbe bene…
- Naturalmente…- continuando la sua farsa, Lancillotto condusse Odile sulla terrazza.
La ragazza si scostò nervosamente una ciocca di capelli dietro a un orecchio, umettandosi le labbra. Inspirò a fondo, guardando il cavaliere negli occhi. Lancillotto aveva delle iridi chiare, azzurre come il mare, e un bel volto: i tratti erano marcati, il mento e il naso un poco pronunciati e aveva i capelli scuri e un poco di barba. Era un bell’uomo, lo era sempre stato, e aveva anche un carattere profondamente gentile, nonostante i suoi modi un po’ burberi. Odile era sempre stata infatuata di lui, sin da bambina. Avrebbe voluto parlargli subito, dirgli immediatamente che lo amava, rivelargli la vera identità del cigno nero, ma…non ne aveva il coraggio. Temeva di togliersi la maschera, aveva paura di essere rifiutata.
Decise di andare subito al punto, senza ancora dirgli la verità.
- Sir Lancillotto…- boccheggiò.
- Sì, Vostra Altezza?
- Io…- Odile esitò un attimo, convincendosi che le parole sarebbero state superflue. Chiuse gli occhi e, sollevandosi sulle punte, avvicinò le proprie labbra a quelle del cavaliere.
- Bel tentativo, Odile!
La servetta non ebbe neppure il tempo di trasalire che Lancillotto le strappò via la maschera, e i suoi ricci castani si sciolsero, ricadendole sugli occhi. Odile sgranò gli occhi, confusa e sconvolta.
- Immaginavo che avessi messo in piedi tutta questa messinscena per un motivo!- disse Lancillotto, incrociando le braccia al petto.- Ti rendi conto di che cosa hai fatto?!
- No…no, io…- Odile sentì gli occhi riempirsi di lacrime.- Sir Lancillotto, vi prego, ascoltatemi…posso spiegarvi tutto…
- L’unica cosa che mi puoi spiegare è come ti è venuto in mente di compiere un gesto del genere!
- Vi prego…l’ho fatto solo perché io…
Odile fu interrotta dall’arrivo precipitoso di Ginevra, che irruppe sulla terrazza come una furia, seguita dal marito. La regina si portò le mani alla bocca non appena vide chi fosse in realtà il cigno nero, sconvolta. Dietro ai due sovrani giunse immediatamente anche sir Galvano, quindi, trafelati e scarmigliati, anche Morgana e suo figlio.
- Odile!- strillò la donna, con finto sgomenti.- Odile, che cos’hai fatto?!
- Io…madre, vi prego…- la servetta iniziò a singhiozzare.
- Che cosa…oh, Vostra Maestà, perdonatemi, io…
- Silenzio!- sbottò Ginevra, avvicinandosi a Odile a passo di carica e afferrandola per un braccio, stringendoglielo così tanto da farle male.- Che cos’hai fatto? Dov’è Odette? Dov’è mia figlia?
- Lei…lei voleva uscire…
- Che cosa?!
- Voleva andare fuori dalle mura del palazzo…- Odile scoppiò a piangere, rossa di vergogna.- Vi prego, Maestà, perdonatemi…io non volevo fare nulla di male, ve lo giuro…
- Fuori dal palazzo…- soffiò Artù. Si rivolse a sir Galvano.- Presto! Chiamate Merlino, le guardie, chiamate gli altri cavalieri! Dobbiamo trovarla, subito…!
Galvano annuì ma, prima di rientrare, incrociò lo sguardo di Lancillotto, scoccandogli un’occhiata di fuoco.
 
***
 
Odette smise di ascoltare ciò che stavano dicendo gli avventori dell’osteria non appena degli strani rumori metallici e delle voci affrettate iniziarono a provenire dall’esterno. Quasi tutti i presenti nella locanda interruppero ciò che stavano facendo per ascoltare quel che stava accadendo.
La principessa si sentì raggelare quando riconobbe quel trambusto come prodotto dell’azione delle guardie di suo padre. Si precipitò fuori dalla locanda di corsa, ignorando le urla del barista per il suo mancato pagamento.
Doveva essere accaduto qualcosa, realizzò. Non poteva essere che avesse fatto così tardi, era stata bene attenta a non perdere nessun rintocco del campanile. La prima cosa che le venne in mente fu che suo padre si fosse sentito male di nuovo, ma subito si disse che tutto quel trambusto non sarebbe stato giustificato. Mi hanno scoperta, pensò con orrore.
Quando raggiunse la strada trovò un pandemonio: Artù aveva sguinzagliato almeno una cinquantina di soldati, e ora questi stavano perlustrando ogni angolo della città, bussando alle porte delle case e interrogando le persone. Odette si avvolse ancora di più nel mantello: qualunque cosa fosse successa, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi riportare dai suoi genitori dai soldati, come una prigioniera.
S’insinuò in un vicolo laterale, non sapendo neppure bene dove portasse; tutto ciò a cui pensava era il non farsi prendere. Si appoggiò contro la parete sporca e umida di una delle case, trattenendo il respiro e sbirciando oltre l’ombra in cui si era nascosta. I soldati avevano occupato tutta la via principale; non c’era modo per lei di attraversarla senza correre il rischio pressoché certo di venire fermata, e non conosceva altra strada per raggiungere il castello.
Guardò il cielo, chiedendosi che diamine avrebbe potuto fare adesso, quando qualcuno le toccò gentilmente una spalla.
- Serve aiuto, principessa?
Odette fece per lanciare un grido, più per la sorpresa che per lo spavento, ma subito una mano giunse a tapparle la bocca.
- Shhht…- sussurrò la persona accanto a lei.- Attenta, mia cara, o rischi di attirare l’attenzione…
Odette ansimò, sentendo il cuore batterle più forte nel petto. Guardò alla propria sinistra, vedendo in faccia chi aveva appena parlato: si trattava di un uomo, ancora giovane – doveva avere all’incirca venticinque o ventisei anni – con i capelli castani e lunghi, raccolti in una coda, gli occhi neri e i lineamenti affilati. Era vestito completamente di nero, e anch’egli come lei aveva il cappuccio sollevato.
Le liberò la bocca in modo che potesse respirare meglio, senza smettere di guardarla. Odette vide che sogghignava.
- Non urlare…- le intimò, gentilmente.- Se lo fai, allora tutti i tuoi sforzi saranno vani e verrai catturata…
- Chi…- Odette deglutì, sentendosi la gola secca.- Chi…come sapete che…?
- Come so chi sei tu? Lo so e basta, semplicemente. L’importante è…cosa posso fare per te.
La principessa si staccò dalla parete, guardandolo negli occhi. Lo sconosciuto continuava a sogghignare, in una maniera che non le piaceva per niente. Le tese la mano.
- Posso avere l’onore di condurti a casa?
Odette rimase interdetta.
- A…a casa?- mormorò, incredula.
- Sì, a quel grande palazzo che tu chiami casa - lo sconosciuto ghignò.- O prigione a seconda dell’umore.
Odette aggrottò le sopracciglia, muovendo un passo all’indietro. Incrociò le braccia al petto, mordendosi il labbro inferiore.
- Non dovrei fidarmi degli sconosciuti…- borbottò.
- Scelta saggia, nessun dubbio. Di certo sarebbe una marachella in meno da aggiungere alla lista, quando tua madre scoprirà cosa hai fatto…
Vide che la principessa tentennava, e le tese nuovamente la mano.
- Posso darti la mia parola che io rispetto sempre gli accordi.
- Non saprei…
- Mettila così: se arrivi in tempo e non ti fai scoprire, non passerai dei guai.
Odette esitò ancora un poco, incerta.
- E…mi porterete a casa?- domandò.
- Certo. Conosco la strada meglio delle mie tasche - l’uomo ghignò, prendendole la mano.- Andiamo, cara, o la mammina si arrabbia!
Odette cercò di protestare, ma lo sconosciuto la tirò con sé, attraverso una serie di vicoli di cui lei non avrebbe mai neppure sospettato l’esistenza. Accelerò il passo per stargli dietro, senza lasciare la sua mano, ancora avvolta nel mantello. Le pareva quasi che il suo accompagnatore stesse ridendo sotto i baffi, e questo non le piaceva.
Stava per dirgli di lasciarla andare, quando vide che le case avevano iniziato a diradarsi e, in poco tempo, riconobbe la pianura che si apriva di fronte al castello. Si rilassò un poco, facendosi tirare verso le mura del palazzo. La stupì un poco che lo sconosciuto conoscesse anche la strada per la porta laterale da cui lei aveva previsto di entrare ma, quando vi giunsero, non riuscì a fare altro se non ringraziarlo.
- Di niente, carina - rispose l’uomo.- Ora è meglio che ti sbrighi a rientrare, se non vuoi mandare tutto in fumo…
- Avete ragione. Vi ringrazio di nuovo…- Odette sorrise, fermandosi un attimo prima di entrare.- Posso…posso conoscere il vostro nome?
- Io mi chiamo Tremotino, dolcezza, e, se mai avessi bisogno di me, mi troverai sempre a tua disposizione…- Tremotino fece un rapido inchino, quindi la incitò a entrare.- Su, su! Dentro, la mezzanotte è passata da un pezzo!
Odette ubbidì, lasciandosi l’uomo alle spalle e chiudendo i battenti della porta di servizio, quindi prese a correre lungo il corridoio buio, diretta alle sue stanze. Non sapeva ancora che cosa avrebbe raccontato ai suoi genitori ma forse, se si dava una mossa…
Svoltò l’angolo, e la sua corsa venne bloccata da due guardie. Odette arretrò, e il cappuccio le scivolò dalla testa, rivelando il suo volto. Boccheggiò, desiderando solo sprofondare.
- L’abbiamo trovata. Dite a sir Galvano di avvertire il re.
 
***
 
Odile non aveva ancora smesso di piangere, quando suo fratello le aprì la porta della stanza di Morgana. La servetta cercò di asciugarsi gli occhi, entrando lentamente nella camera. Morderd la squadrò da capo a piedi, senza dire nulla. La regina Ginevra l’aveva trattenuta per un’ora intera chiedendole di spiegarle tutto quanto: aveva dovuto raccontare del piano di Odette, ma era stata costretta a confessare che l’idea di sostituirsi alla principessa era stata interamente sua. Avrebbe voluto morire per la vergogna, ma fortunatamente i sovrani sembravano essere più occupati a cercare la loro figlia che dare peso alla sua bravata.
Ma l’umiliazione rimaneva. In quel momento, Odile ebbe la certezza di non essere più il cigno nero, di cui rimaneva solo un abito stropicciato che ancora aveva addosso, e di essere tornata la solita di prima, quella che era sempre stata.
Mordred chiuse la porta alle loro spalle con un colpo secco. La servetta alzò lo sguardo: sua madre era seduta su una poltroncina intenta a sfogliare uno spesso libro rilegato in pelle marrone, ma non appena la udì entrare chiuse il volume e si alzò in piedi, sempre tenendolo in mano.
Odile si sentì mancare il respiro quando vide Morgana avanzare verso di lei, seria come mai l’aveva vista in vita propria. Riprese a singhiozzare.
- Vi prego, madre, io non volevo…
Morgana non le diede il tempo di finire la frase, e la colpì violentemente a una tempia con il volume. Odile emise un gemito di dolore, finendo inginocchiata sul pavimento. Mordred parve essere turbato dalla violenza di quel gesto.
- Ma cosa fate?! Volete ucciderla?
- Zitto!- strillò Morgana, prima di tornare a rivolgere la propria attenzione alla figlia. La colpì un’altra volta sul capo con il volume, e stavolta Odile cominciò a singhiozzare.- Stupida!- un altro colpo; la servetta non si muoveva, piangeva e cercava di proteggersi tenendo le mani alzate sul capo.- Idiota!- Morgana scaraventò il libro dall’altra parte della stanza, e afferrò sua figlia per i capelli, strattonandola. La prese per il collo dell’abito, trascinandola violentemente sul pavimento.
Mordred assisteva alla scena immobile, prima un poco attonito, poi sempre più indifferente. Era abituato al fatto che sua madre picchiasse e maltrattasse Odile e, anche se a volte esagerava nel colpirla in modo troppo forte, era pur vero che non l’aveva mai ammazzata.
Odile gridò, cercando di divincolarsi. Morgana aprì una porticina che dava accesso a un piccolo spogliatoio, alto e stretto, e ce la spinse dentro. La servetta si ritrovò inginocchiata al buio, in uno spazio troppo piccolo anche per poter distendere le gambe. Sollevò gli occhi appannati dal pianto su sua madre: Morgana era in piedi sulla soglia dello spogliatoio, con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.
- Considerala la tua stanza per i prossimi tre giorni…- sibilò.
Odile si gettò in avanti.
- No, madre, vi prego…
Morgana chiuse la porta con un colpo secco, lasciando Odile al buio. Sentì i pugni di sua figlia battere disperatamente sul legno, e i suoi strilli che la imploravano.
- Madre, no! Vi prego, fatemi uscire! Madre, ve lo giuro, non volevo fare niente di male! Fatemi uscire, madre! Non volevo fare niente di male! Non volevo fare niente di male…
Per tutta risposta, Morgana girò la chiave nella serratura.
 
***
 
- Odette, quello che hai fatto è inaccettabile!- tuonò Artù, voltandole le spalle. La principessa si strinse nelle spalle. Le guardie l’avevano condotta immediatamente dai sovrani; indossava ancora gli abiti di Mordred, era stanca e spettinata. Sua madre non la guardava, seduta in un angolo, in disparte.
- Ho tollerato abbastanza i tuoi capricci, ma questa volta hai veramente passato il segno!- urlò il re, guardandola con una rabbia che Odette non aveva mai visto negli occhi di suo padre.- Mi hai deluso, Odette, e hai deluso anche tua madre…
- Non l’avrei fatto, se voi non mi aveste trattata come una prigioniera per anni!- ribatté la principessa.- Vi prego, padre, se solo voleste ascoltarmi…
- Ho ascoltato fin troppo!- la voce di Artù rimbombò sulle pareti. Il re raggiunse la moglie, sedendosi accanto a lei, ma non smise di fissare sua figlia.- Hai idea di quello che sarebbe potuto succedere? Di come ci saremmo sentiti io e tua madre se ti fosse accaduto qualcosa?
- Sarei stata di ritorno a mezzanotte, e avrei partecipato a quello stupido ballo…
- Non è questo il punto - Artù strinse una mano a pugno.- Quello che mi delude di più non è la tua bravata, Odette, è il fatto che tu non abbia ancora capito…- il re si alzò in piedi, andandole incontro.- Io e tua madre ti vogliamo bene, e abbiamo sempre fatto di tutto per te, l’unica cosa che desideravamo era quella di non perderti! Ma tu ora hai passato il segno…- le diede nuovamente le spalle.- Eravamo disposti a darti una possibilità, a lasciarti scegliere quello che sarebbe stato tuo marito e attendere fino a che non fossi pronta per sposarti, ma vedo che non sei in grado di stare da sola senza che qualcuno ti controlli…Hai gettato via la possibilità che ti avevamo dato, e non ho alcuna intenzione di concedertene un’altra…- Artù tese il braccio alla moglie, aiutandola ad alzarsi e iniziando ad avviarsi con lei verso la porta. Scoccò un’ultima occhiata a sua figlia.- Da domani farò in modo di sistemarti come si deve. Ti sposerai con chi sceglierò io e quando lo deciderò io. Hai finito di ribellarti, Odette…
- No!- gridò la principessa, un attimo prima che i sovrani uscissero dalla stanza, chiudendo la porta.
 
***
 
Galvano spintonò Lancillotto all’interno di quella stanza isolata e pressoché inutilizzata dei suoi appartamenti, digrignando i denti. Il cavaliere si voltò attonito verso il suo amico.
- Si può sapere che cos’hai?- gli chiese, inarcando un sopracciglio.- Perché mi hai portato qui?
- Voglio parlare - disse sir Galvano, ma dal suo tono di voce Lancillotto intuì che non aveva affatto in mente una conversazione pacifica. Incrociò le braccia al petto, guardandolo con severità.
- Potevi risparmiarti quella farsa.
- A cosa ti riferisci?
- Non prendermi per stupido, Lancillotto, sai bene a cosa mi riferisco!- ringhiò sir Galvano.- Ti rendi conto del modo meschino in cui ti sei comportato con Odile? L’hai umiliata, l’hai resa ridicola di fronte al re e alla sua famiglia, per di più senza un motivo!
- Un motivo lo avevo: Odile ha compiuto un gesto che…
- Qualunque cosa abbia fatto, il tuo comportamento non è giustificato - disse Galvano.- Sei tanto orgoglioso del tuo titolo di cavaliere, Lancillotto, e non nego che, se c’è qualcuno degno di portarlo qui, quello sei tu…ma non sai che cos’è il rispetto e, peggio ancora, hai giocato con i sentimenti di una poveretta che ti amava, e per che cosa?
- Non mi giudicare!- urlò Lancillotto.- Io non ho mancato di rispetto a nessuno, volevo solo far capire a Odile che quello che aveva fatto era…
- Avresti potuto farglielo comprendere in mille modi, ma non ingannandola ed esponendola alla pubblica umiliazione. Più del tuo comportamento, mi ha disgustato solo quello di Mordred, che non ha mosso un dito per difendere sua sorella - il cavaliere si avvicinò a lui.- Se quella povera anima di mia moglie fosse ancora viva e tu l’avessi trattata come hai trattato Odile stasera, ti posso assicurare che sarei passato sopra alla nostra amicizia e ti avrei infilzato da parte a parte!
- Non mi sarei mai permesso di insultare tua moglie, così come non ho insultato Odile! E’ lei che ha sbagliato, non io!
- Forse hai ragione, ma quello che è certo è che non sai cosa sia l’umiltà. T’importa solo della tua posizione, nulla più…- Galvano sospirò, allontanandosi di un passo da lui e guardandolo negli occhi.- Lancillotto…non voglio farti la morale, ma lascia che ti racconti una storia - disse, più calmo.- Quando ero ragazzo, mio padre mi narrava sempre la leggenda di giovane re, arrogante e superbo, ma talmente affascinante da risultare a chiunque amabile e gentile, nonostante avesse un cuore di pietra; i suoi modi ingannavano talmente tanto e nascondevano così bene la sua anima nera che un giorno la figlia di un funzionario di palazzo s’innamorò di lui. Egli la ingannò crudelmente, e quando si stancò di lei l’abbandonò senza alcun rimorso, tanto che la fanciulla non resse al dolore e all’umiliazione e si uccise gettandosi nelle acque gelide di un fiume…
- Perché mi stai raccontando questo?- lo interruppe Lancillotto.- Quello che è successo con Odile non ha nulla a che fare con…
- Ti prego, lasciami finire - Galvano prese un profondo respiro.- Il padre volle vendicare la morte della figlia, e offrì tutto ciò che possedeva a uno stregone affinché lanciasse sul re una terribile maledizione: questa lo trasformò in un essere talmente ripugnante che nessuno volle più averlo di fronte agli occhi, poiché non era solo il suo aspetto ora a essere orribile, ma anche il suo animo. Il re non trovò mai un modo per spezzare il sortilegio, e morì solo, abbandonato da tutti a causa della sua anima nera e del suo aspetto orribile e, dopo la morte, venne condannato a vagare per l’eternità nel regno dell’Oblio. Con questo sto cercando di dirti…- esitò un attimo, guardandolo negli occhi.- Sto cercando di dirti, Lancillotto, che non basta essere un cavaliere e adempiere il proprio dovere. Se aiuti un povero ma in cuor tuo lo disprezzi, allora è come se non avessi fatto assolutamente nulla per alleviare le sue sofferenze. Allo stesso modo, non sarai mai un vero cavaliere se non imparerai l’umiltà e il rispetto nei confronti degli altri, e ogni azione che tu compi avrà sempre un prezzo, nel bene e nel male…Spero che tu rifletta su questo…
Detto ciò, sir Galvano lo guardò un’ultima volta, prima di uscire dalla stanza.
 
***
 
Tremotino lasciò il castello di Camelot solo a tarda notte, ancora una volta soddisfatto di se stesso e del suo operato. Aveva sempre creduto che, se volevi che qualcosa fosse fatto per bene, allora dovevi farlo da solo. Aiutare la principessa Odette a tornare a casa era stata solo una presentazione, ma presto la ragazzina avrebbe avuto bisogno di lui. Oh sì, e parecchio. Ora che Artù aveva perso la pazienza per lei le cose si sarebbero complicate molto…anche se non poteva dire che il re avesse avuto torto…
(Io e tua madre ti vogliamo bene, e abbiamo sempre fatto di tutto per te, l’unica cosa che desideravamo era quella di non perderti!)
Si fermò di colpo, fissando il vuoto. Rimase immobile per diverso tempo, riflettendo su ciò che Artù aveva detto a sua figlia. Si accorse di stare respirando a fatica.
 
- Non mi lasci mai vivere la mia vita!
- Non è vero! E’ solo che ti voglio bene…!
- Ma insomma, che cosa vuoi?
- Solo quello che vogliono tutti i genitori…sapere che, quando escono, i loro figli torneranno a casa…
 
Aveva vissuto a sua volta quella scena a cui aveva appena assistito, quei conflitti, ed era stato troppo stupido per comprendere la verità fino a che non era stato troppo tardi.
(Non ripeterò il mio errore. Non stavolta)
Aveva visto Richard Hadleigh guardare preoccupato il punto in cui le due sorelle erano sparite l’ultima volta che erano stati tutti e tre insieme. Aveva visto il padre di Gretel abbandonare lei e suo fratello al loro destino, e quello di Ginevra sacrificare sua figlia per una bugia.
Aveva visto genitori sacrificarsi per i loro figli, e altri trasformare i medesimi in dei mostri solo per il loro egoismo.
(Magia, mia cara. Mai sentito parlarne?)
(Solo nei libri…)
Improvvisamente, Tremotino rivide quella ragazzina con degli occhi scuri curiosi e vivaci, che molto probabilmente erano rimasti nascosti da troppo tempo dietro a degli occhiali spessi, occhi che, pur nell’assurdità di quel mondo così diverso da quello da cui proveniva, avevano comunque la forza di credere.
Occhi che di lì a poco tempo si sarebbero spenti per sempre, mentre un padre prigioniero su una nave pirata li avrebbe cercati invano.
Tremotino venne scosso da un improvviso brivido e chiuse gli occhi, ignorando deliberatamente il motivo a cui quella sensazione di panico fosse dovuta. Si concentrò, inspirando a fondo.
Gretel…
La maledetta non rispondeva. Ritentò: fra maghi e streghe era possibile costruire un contatto mentale, era una delle lezioni che gli aveva impartito il vecchio Merlino, e lui lo aveva già fatto tante volte.
Gretel, chiamò di nuovo e stavolta la sentì. Percepì il suo stato d’animo, rendendosi conto che era infastidita, ma non vi badò.
Gretel, nuovo ordine, pensò chiaramente. Vai a Salem, ma non uccidere la ragazza. Portami solo il libro. Se puoi, consegnami anche lei…potrà sempre tornare utile. Ma non la uccidere…Hai capito bene? Non la uccidere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Questo capitolo è stato un parto, in tutti i sensi, ed è anche un bel po’ lungo. Spero che non vi siate annoiati…a questo proposito, vi pregherei di dirmi se pensate che questa storia stia diventando noiosa o se vi piace ancora. Vorrei saperlo, arrivati a questo punto.
Ringrazio VanEss13, Jessica21, Princess Vanilla, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito e tutti coloro che mi hanno aiutata a raggiungere quota ben 200 recensioni! Grazie a tutti, siete fantastici :)!!!!
Ora, due parole: la parte su Camelot non è ancora finita, ci sarà ancora un altro capitolo dedicato a questa parte, ma arriverà solo più avanti. Il prossimo, invece, vi avviso, si intitolerà Broken e sarà un po’ di mezzo, e il prossimo ancora invece vedrà l’arrivo a Salem da parte di Liz, Cenerentola e Cacciatore, con tutto ciò che questo comporterà :). Sono in arrivo dei nuovi personaggi e nuove storie…a questo proposito, la leggenda che Galvano racconta a Lancillotto l’ho inventata di sana pianta, ma certamente avrete notato alcune somiglianze con una certa fiaba…da ciò, immagino avrete anche intuito la favola di cui sarà protagonista quel pezzo di marmo di Lancillotto, che con il suo comportamento ha fatto irritare parecchia gente…;).
Detto questo, non mi resta che salutarvi e darvi appuntamento al prossimo capitolo, con la Vinya e il Golden Trio! XD
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 28
*** Broken ***


Broken
 
Per loro somma fortuna, il campo dei ribelli a cui i nani avevano promesso di condurli non era troppo lontano dal Castello di Rovi, cosicché Vincent non dovette percorrere troppa strada in quelle condizioni, ma anche quel breve tratto fu per lui una sofferenza. Uno dei nani aveva gettato ad Anya una pezza mezza stracciata affinché la utilizzasse per fermare il sangue; la ragazza l’aveva premuta sul morso il più accuratamente che aveva potuto, ma questa non solo si era subito inzuppata, ma non era neppure riuscita ad arginare quel fiotto di liquido rosso e nero che continuava a spillare copiosamente dalla spalla del Primo Ministro. Per un attimo aveva anche temuto che stesse per morire dissanguato nel bel mezzo di quella foresta, ma l’emorragia aveva iniziato lentamente e inspiegabilmente a diminuire a mano a mano che si erano avvicinati al campo dei ribelli, anche se non era del tutto cessata. Così come, evidentemente, non era cessato il dolore che il morso di quel cadavere aveva provocato.
Anya si era aspettata, se non un vero e proprio intervento di pronto soccorso, quantomeno delle cure e magari qualche sorta di antidolorifico – prendendo per buona la supposizione che in quel mondo esistesse qualcosa di simile a esso; invece, quando erano arrivati a destinazione, si era radunata intorno a loro una gran folla di gente, e tutto ciò che era stato fatto per Vincent era stato condurlo in una sorta di capanna di legno e abbandonarlo disteso su un pagliericcio con l’unico ausilio di un lenzuolo sporco che in capo a due minuti non aveva tardato a imbrattarsi anch’esso di sangue.
Il Primo Ministro aveva continuato a tenere gli occhi serrati per tutto il tempo, e Anya era sicura che non li avrebbe riaperti fino a che non ci fosse stato più nessuno intorno, o se non altro finché il sole non fosse sorto. Non aveva idea del perché non volesse che gli altri vedessero i suoi occhi – lui stesso le aveva intimato di non guardarlo, un attimo prima che venissero aggrediti da Rosaspina –, eppure il loro solo colore e le pupille a forma di fessura erano sufficienti a chiarire che qualcosa non andava.
Anya era rimasta parecchio scioccata dalla vista di quegli occhi, non lo negava, e ancora non era certa di essersi del tutto ripresa. In quel momento, tuttavia, non erano gli occhi di Vincent che la preoccupavano, ma lo stesso Vincent, che continuava a contorcersi per il dolore.
Teneva una mano premuta sulla spalla, all’altezza del morso che non la smetteva di sanguinare, i denti serrati e il volto contratto rivolto verso la parete di quella catapecchia in legno – Anya sospettava si trattasse di un’infermeria improvvisata o qualcosa di simile. Era madido di sudore, e la ragazza avrebbe potuto giurare che faticasse a respirare. Gli occhi serrati non facevano altro che dare ancora di più l’idea che stesse soffrendo, e parecchio.
- Vedrai che domani mattina starà meglio - disse una donna sulla settantina, piccola e rotonda, con i capelli acconciati in una crocchia, rivolta ad Anya. La ragazza si voltò a guardarla, sgranando gli occhi, quindi tornò a fissare Vincent.
- Domani mattina?!- ripeté, spostando lo sguardo dall’uno all’altra.- Domani mattina?! Ma porca puttana, non vedete che continua a perdere sangue?! Fate qualcosa!- strillò.
- E’ meglio se perde sangue…- borbottò Brontolo, in piedi accanto all’anziana signora.- Vuol dire che il corpo sta espellendo il veleno. Quando non ne rimarrà più, allora smetterà anche di sanguinare.
- Il veleno?
Quel cadavere che lo aveva morso l’aveva avvelenato. A dire il vero, per un atroce attimo Anya aveva temuto che Vincent stesse per trasformarsi in uno zombie, un po’ come in quei film horror apocalittici in cui la terra era stata invasa dai non-morti. Il fatto che in capo a un’ora non fosse ancora accaduto la rincuorava non poco, ma la parola veleno non suonava affatto rassicurante nella sua testa.
Quasi a darle ragione, in quel momento Vincent scattò seduto sul pagliericcio, tossendo un fiotto di sangue che andò a sporcare ancora di più il lenzuolo e quel letto improvvisato.
- Hai intenzione di finirla presto con questo schifo?!- ringhiò Brontolo, accennando alla chiazza rossa e nera formatasi sulla coperta. Vincent riprese a contorcersi, sempre tenendo gli occhi serrati.
- Ma non vedi che sta male, stronzo?!- gridò Anya, scandalizzata.- Insomma, non state lì a guardare! Dategli qualcosa…non so, un…un…una medicina, che ne so!, qualcosa che faccia passare il male…!
- Il dolore cesserà solo quando tutto il veleno sarà espulso - spiegò tranquillamente la donna. Si chinò sul pavimento, prendendo fra le mani una ciotola contenente dell’acqua e alcune pezzuole. Ne bagnò una, cercando di avvicinarla al volto di Vincent, ma lui si ritrasse di scatto, quasi come se temesse che volesse ferirlo.
- Uscite…!- ringhiò.- Uscite, non voglio il pubblico! Andate via, tutti!
- Ehi, ma chi ti credi di essere?- urlò Brontolo.- Non sei tu che comandi qui, hai capito?!
- E’ meglio fare come dice…- mormorò la donna, pacata. Guardò negli occhi il nano.- Brontolo, ha tutto il diritto di voler rimanere da solo, e d’altra parte noi non potremmo fare niente…
- Andate via, ho detto!
- Andiamo. Fuori!- incitò la donna, rivolta ai quattro nani che erano entrati e a un ragazzo che era presente lì con loro, un ventenne con i capelli color miele che aveva tutta l’aria di essere un boscaiolo o un cacciatore. Brontolo scoccò a Vincent uno sguardo furioso, ma ubbidì e insieme agli altri si diresse verso la tenda che delimitava il confine fra esterno e interno della capanna. L’anziana signora chiuse la fila, guardando Anya.
- E’ meglio se vieni anche tu, cara…- mormorò, prima di uscire a sua volta.
La ragazza finse deliberatamente di non aver sentito, e si inginocchiò accanto al pagliericcio su cui era malamente disteso Vincent. Rimase a fissarlo immobile e con le mani a mezz’aria, completamente ignara di ciò che dovesse fare. Avrebbe voluto aiutarlo, quantomeno fare qualcosa per alleviare il dolore, ma era sempre stata una frana come infermiera, e per di più si trovava in un mondo e in una situazione in cui tutto era diverso da ciò che era stata abituata a conoscere.
- Che fai ancora qui?- Vincent si era azzardato socchiudere appena gli occhi quando aveva compreso che tutti se n’erano andati, fatta eccezione per l’unica persona a cui non avrebbe più potuto nascondere la verità. O così almeno supponeva Anya. Deglutì: anche se a malapena, il bagliore giallo scuro delle iridi s’intravedeva perfettamente e risaltava ancora di più nel buio della capanna.
Anya si umettò nervosamente le labbra; prese coraggio e si avvicinò a lui, circondandogli piano il torace con le braccia nel tentativo di sistemarlo un po’ meglio su quel letto improvvisato sul quale era malamente disteso. L’uomo sbuffò in un misto di fastidio e di dolore.
- Che stai facendo?!- rantolò.- Lasciami andare, mi stai torturando, dannazione!
- Ho finito, ho finito…!- si affrettò a rispondere Anya.- E stai giù…!- sbuffò.
Vincent digrignò i denti, premendosi ancora di più una mano contro la ferita, e abbandonò il capo sul pagliericcio.
- Ragazza, quando ho detto di andare via ce l’avevo anche con te!
- Non mi fido di quello che dicono, un essere umano non può perdere così tanto sangue senza che…
- E invece hanno ragione, impicciona che non sei altro!- Vincent aveva smesso di contorcersi, ma tremava violentemente e aveva la fronte imperlata di sudore.- E’ veleno quello che ho in corpo, e l’unica cura è aspettare che l’effetto svanisca da solo! Evita di fare la compassionevole e vai a darti una sistemata, sei ridotta a uno straccio!
Anya ignorò la critica e fece per posargli una delle pezzuole bagnate sulla fronte, ma Vincent fu abbastanza veloce da strappargliela di mano.
- Faccio da me. Lascia qui l’acqua ed esci, faccio da solo…!
- Certo che non smetti di comportarti da bastardo neppure quando stai male!- ringhiò Anya, punta sul vivo. Che cavolo, lei stava solo cercando di dargli una mano, perché la doveva trattare come una benemerita rompiscatole anche in quel frangente?
Vincent si premette la pezzuola sulla bocca per soffocare un altro colpo di tosse. Chiuse gli occhi, inspirando a fondo, quindi ricominciò a tremare. Si voltò verso la parete, dandole le spalle.
Ad Anya parve quasi che si vergognasse a farsi vedere in quello stato.
- Per favore, esci…- soffiò il Primo Ministro, quasi implorando.
- Continui a perdere sangue, non è normale…
- Ho detto di uscire…!- Vincent provò a risponderle male un’altra volta, ma venne colto da un improvviso ascesso di tosse. Stavolta non sputò un fiotto di sangue, ma alcune goccioline rosse e nere colorarono la pezzuola che teneva ancora premuta sulla bocca. Iniziò a tremare ancora più forte.
- Il veleno sta cominciando a perdere intensità…- osservò, a mezza voce, quasi come se stesse parlando più a se stesso che a lei. Anya si scostò una ciocca di capelli dietro a un orecchio, allontanandosi un poco. Non sapeva cosa fare: da una parte le sembrava giusto rimanere – quando una persona stava male il peggio che le poteva capitare era di venire lasciata da sola a patire –, ma dall’altra si sentiva completamente inutile e di fatto non avrebbe potuto combinare niente. E poi, le aveva chiaramente detto che non la voleva, e più di una volta…però, diavolo!, continuava a tremare e non era sicura che tutto ciò fosse normale come stavano cercando di darle a bere…
- Esci - ripeté Vincent, con voce strascicata. Si voltò ancora di più verso la parete, di fatto escludendola da tutto ciò che lo riguardava. Anya sospirò, alzandosi in piedi.
- Come vuoi…- rispose rassegnata.- Lascio qui l’acqua, allora…
- Fai quello che ti pare, basta che te ne vai!- ringhiò l’uomo, improvvisamente di nuovo ostile.
Anya incrociò le braccia al petto, sicura che, se anche lui non la stava guardando, avrebbe certamente intuito che nella sua mente lo stava mandando all’inferno. Arricciò le labbra, mordendosi l’interno di una guancia.
- Va bene…- acconsentì.- Se ti servisse aiuto…
- Non mi servirà.
- …chiama. Imbecille - borbottò Anya, dandogli le spalle e iniziando ad avviarsi verso l’uscita. Vincent mugolò qualcosa, quindi biascicò un ehi! soffocato per richiamare la sua attenzione. La ragazza, pressoché giunta alla porta, voltò il capo infastidita.
- Che c’è, stai per morire?- chiese, acida.
- Grazie…- rantolò Vincent, e per un attimo Anya credette di aver capito male. Sbatté più volte le palpebre, perplessa. Magari, pensò, aveva la febbre e stava delirando.
- Che hai detto?
- Ho detto grazie…- ripeté l’uomo, chiaramente di malavoglia. Sembrava che pronunciare quella parola gli costasse parecchia fatica. Anya rimase interdetta, cercando di fare mente locale per comprendere a che cosa Vincent si stesse riferendo e, quando ci riuscì, un sorrisetto trionfante le si disegnò involontariamente sulle labbra. Si trattenne dal mettersi a saltellare dalla contentezza.
L’attacco di quello scheletro non era stato del tutto nocivo, almeno per lei.
- Non c’è di che…!- ghignò, uscendo dalla tenda mentre, alle sue spalle, Vincent borbottava una maledizione utilizzando quel linguaggio degno di un libro fantasy di quel mondo e che, se tradotto in gergo newyorkese, rasentava qualcosa di simile al mandarla a quel paese. Iniziò a tossire, stavolta più debolmente, ma ad Anya non sfuggì il fatto che altre goccioline di sangue fossero andate a imbrattare la pezzuola. Quella vista fu in grado di smorzare anche quel poco buon umore che aveva riacquistato, e le cancellò il sorrisetto trionfante che aveva assunto.
Lanciò un’ultima occhiata a Vincent prima di uscire definitivamente dalla tenda.
La lieve brezza notturna le sferzò appena sul volto, e le fece un gran bene. Anya chiuse gli occhi, sentendo le tempie pulsarle. Si scostò con una mano alcune ciocche di capelli che le erano finite di fronte agli occhi. Si sentiva stanca ma soprattutto sporca, con gli abiti e la pelle coperti di polvere e ragnatele.
- Non ti devi preoccupare - disse una voce femminile e gentile, al che Anya riaprì gli occhi. A parlare era stata l’anziana signora che fino a pochi minuti prima aveva assistito Vincent insieme a lei e ai nani. Di questi ultimi, si accorse, nei paraggi era rimasto solo Brontolo.- Vedrai che presto tuo marito starà meglio…- aggiunse la donna.
- Non è mio marito - puntualizzò Anya, guardandola negli occhi.- E non sono sicura che quello che dite sia vero. Un uomo non può perdere così tanto sangue senza perlomeno svenire o…
- Ne hai di cose da imparare, ragazzina - sputò Brontolo, diretto.- Il veleno dei non-morti non è letale per nessuno, e tuo marito, il tuo amico o chi diamine è non ha perso poi molto sangue. Dovrà restare a riposo per un po’, ma quanto sono veri i Grimm si riprenderà…
- Ha ragione - confermò la donna.- Sono sicura che il peggio sia già passato…
Anya non replicò ma nemmeno annuì, rimanendo a guardarli entrambi, seria. Istintivamente, si allontanò da loro di un passo. Brontolo le venne incontro.
- Comunque, abbiamo cose più serie di cui discutere - allungò una mano callosa verso di lei, il palmo aperto.- Ce l’hai quello che vi abbiamo chiesto?
Anya, incredibilmente, si ricordò solo in quel momento di avere ancora la bellezza nella morte stretta nella mano. Se n’era praticamente dimenticata in quelle poche ore in cui si era lasciata alle spalle il Castello di Rovi, ma aveva continuato a tenere le dita chiuse intorno a essa come guidata da un istinto protettivo. Annuì, e aprì il palmo per mostrare la pietra a Brontolo: ora non sembrava più nemmeno un oggetto magico come si era dimostrato essere durante l’attacco di Rosaspina, anzi, il bagliore si era completamente estinto e quella appariva come una semplice pietruzza rossa.
- Molto bene - il nano allungò una mano con il palmo aperto.- Consegnamela.
Sulle prime, la ragazza fece per ubbidire quasi meccanicamente, ma in capo a due secondi si riprese. Richiuse le dita intorno alla bellezza nella morte, serrando le mascelle e indietreggiando di un passo. Nascose il pugno in una delle tasche di quel che restava dei suoi jeans.
- Hai sentito quello che ti ho detto?- incalzò Brontolo.- Che ti prende, si può sapere? Dammi la chiave.
- No!- Anya indietreggiò ancora, scuotendo il capo con forza.- No, io non ti do proprio niente…!
- Che cosa?!- abbaiò Brontolo, mentre la donna anziana alle sue spalle si portava una mano alla bocca, gli occhi sgranati.- Come sarebbe a dire no? Ti ha dato di volta il cervello, ragazzina?
- Siete voi che avete il cervello bacato, non io!- replicò Anya con ferocia.- Io e Vincent ci siamo quasi fatti ammazzare per prendere questa fottuta pietra, ci avete spediti contro un’orda di cadaveri e adesso tutto quello che sapete fare è chiederci di darvi qualcosa che noi abbiamo preso?! Ma te lo scordi!- Anya strinse ancora più le dita intorno alla chiave.- Io non ti do niente. Tanto volenti o nolenti io e Vincent dovremo stare qui, no? Bene, allora non cambia nulla se la tengo io o tu…
- Cambia eccome, sgualdrinella!- ringhiò il nano, avvicinandosi a lei con fare minaccioso.- Tu non hai idea di cosa stai tenendo fra le dita! Non sai neppure a che cosa potrebbe portare quella chiave se cadesse nelle mani sbagliate…
- So che vi serve, e questo mi basta - replicò Anya.- Bene, anche a me serve. Ho perso mia sorella quasi tre giorni fa, e questa potrebbe aiutarmi a…
- Qui ognuno pensa per sé, e per quel che ne sappiamo la tua sorellina potrebbe anche essere morta! Non ho intenzione di correre dei rischi inutili per un capriccio, quindi ora vedi di…
- Brontolo…- sussurrò la donna, quasi implorando.- Brontolo, calmati…Forse è meglio se chiamiamo Kay, lui saprà risolvere la situazione…
- Non c’è niente da risolvere! E la gestisco io, non mi occorre l’ausilio di quel ragazzino che è stato appena svezzato!- ululò il nano di rimando.- Tu, vedi di darmi subito quella dannata chiave o giuro che ti…
Scattò in avanti per afferrarle il braccio, al che Anya si scansò, andando a sbattere contro qualcuno alle sue spalle. Si ritrasse istintivamente, voltandosi a guardare chi aveva urtato. Brontolo si era zittito.
Si trattava dello stesso ragazzo con i capelli color miele che aveva assistito Vincent insieme a lei e alla signora anziana. Ora, alla luce delle torce e delle stelle, riusciva a vederlo meglio: aveva tutta l’aria di un boscaiolo, ma sembrava più vecchio di quanto aveva giudicato a una prima occhiata – ventuno o ventidue anni. Ma forse quest’impressione era alimentata dalla barba chiara che portava leggera, anche se un po’ incolta.
- Kay…- sospirò la donna, con evidente sollievo.- Meno male, sei arrivato! Brontolo…
- State tranquilla, Madama Holle. Ho sentito tutto…- Kay abbozzò un sorriso, quindi tornò serio, guardando ora il nano ora Anya.- Vorrei solo sapere qual è il fulcro del problema…
- Nessun problema, Kay, qui me la vedo io - sputò Brontolo; la ragazza pensò che non doveva essere molto felice di essere stato ripreso.- Madamigella, qui, si rifiuta di darci la chiave. Non può tenerla lei, non…
- Brontolo - lo bloccò il ragazzo.- Brontolo, ho l’impressione che tu ti stia facendo salire il sangue alla testa per niente.
- Ah, no? Di’ un po’, ragazzino, come osi dirmi che…
- L’ha recuperata lei, vero?- aveva posto la domanda al nano, ma nel dirlo aveva guardato Anya. La ragazza chinò il capo brevemente, quindi annuì con decisione.
- Lui e quegli altri hanno minacciato me e…l’uomo che stava con me di ucciderci, se non fossimo entrati in quel castello e non avessimo…
- E’ vero quello che sta dicendo, Brontolo?- domandò Kay, senza lasciarla finire. Anya vide che la rivelazione l’aveva parecchio irritato, e si era incupito. Il nano sembrò in difficoltà.
- Erano caduti nella trappola - borbottò, a mo’ di giustificazione.
- Non è un buon motivo per minacciare di morte degli innocenti - ribatté Kay.
Brontolo emise un verso gutturale molto simile a un ruggito.
- Di che t’immischi, ragazzino?- latrò.- Ho il triplo della tua esperienza, so cosa fare e come farlo!
- Il Principe Filippo mi ha affidato il comando, quindi devi rispondere a me di tutto ciò che fai.
- Il Principe Filippo è solo un codardo che se l’è data a gambe alla prima difficoltà!
- Forse. Ma nel frattempo, cosa è giusto e cosa è sbagliato lo decido io - ribatté Kay, fermamente; Anya si sentì posare una mano su una spalla.- Questa ragazza ha rischiato la vita per prendere la chiave, dunque è giusto che anche lei prenda parte alla decisione su come utilizzarla. Senza contare… - si schiarì la voce.- Senza contare che prima di lei ben tre compagni hanno perso la vita, che le forze del Bene li abbiano in gloria. Poi, lei e suo marito sono riusciti a scampare all’attacco di Rosaspina e dei suoi sudditi…non pensi che questo voglia dire qualcosa, Brontolo?
Anya stava per insorgere per mettere in chiaro che Vincent non era suo marito, ma non appena comprese la voce le morì in gola. Kay aveva mangiato la foglia, o perlomeno ci era molto vicino. Aveva intuito che lei doveva essere…che cosa?!
Non lo sapeva neppure lei che cos’era. Sapeva solo che si chiamava Anya Christine Hadleigh, che era una cameriera e che aveva perso sua sorella. Tutta quella storia della Salvatrice non la riguardava, né riguardava Liz. Il fatto che la bellezza nella morte si fosse illuminata fra le sue dita e avesse guidato lei e Vincent in salvo…non sapeva che cosa volesse dire né voleva saperlo.
Kay la guardò, chinando il capo in segno di scuse.
- Vi chiedo perdono per il comportamento del mio amico…- mormorò; Anya vide con la coda dell’occhio che Brontolo aveva girato i tacchi e se n’era andato. Di fronte a loro restava solo la donna anziana.- Non intendeva essere brusco, è solo un po’ nervoso per quanto sta accadendo. State bene? Rosaspina vi ha ferita?
Anya scosse il capo in segno di diniego, evitando di guardarlo. Quel darle del voi e tutta quella galanteria la mettevano a disagio.
- Capisco che siate sconvolta, ma…se posso darvi un consiglio: la chiave è molto importante, è rischioso tenerla nelle tasche di quella…calzamaglia - Kay gettò un’occhiata oltremodo sconcertata ai suoi pantaloni stracciati.
- Sono jeans - disse Anya, laconica.
- Comunque…permettetemi almeno di fornivi qualcosa per tenerla al sicuro.
- Va bene.
- Madama Holle - Kay si rivolse nuovamente alla donna anziana.- Madama Holle, volete provvedere voi a questa ragazza…perdonatemi, non ho afferrato il nome…
- Certo, Kay, sta’ tranquillo…- assicurò Madama Holle, con il sorriso un poco ritrovato.- Chiederò a Riccioli d’Oro di prestarmi un vestito. Vieni, cara…
Madama Holle fece per prenderle la mano, ma Anya si ritrasse istintivamente; solo dopo si rese conto di essere stata maleducata, ma non vi badò troppo.
- Dove mi portate?- chiese, un po’ in apprensione. Sapeva che non era educato neppure un po’, ma dopo che le erano volati addosso Biancaneve impazzita, un licantropo e la Bella Addormentata in versione Warm Bodies riteneva di potersi permettere di essere quantomeno guardinga.
- Solo nella mia tenda - rispose Madama Holle.- Hai bisogno di un bagno e di vestiti integri. E ti darò anche qualcosa per contenere la chiave.
- A questo proposito…c’è bisogno che vi ricordi a cosa occorre?- incalzò Kay.
- No, lo so benissimo - rispose Anya. In realtà non era propriamente sicura, ma stava cercando di non vacillare.
- Allora, sapete anche quanto importante sia per noi. La terrete al sicuro fino al momento opportuno, vero?
- Certo.
Anya aveva cercato di fare la dura, ma si sentiva ancora restia ad andare con Madama Holle. Kay se ne accorse, e le sorrise.
- Non preoccupatevi. Non vi faremo del male. Non potremmo mai…
Quel brillio negli occhi del ragazzo fu sufficiente a convincerla che avesse compreso tutto. Inspirò a fondo, ancora incerta. La parola di uno sconosciuto era ben poca cosa, e per una come lei che era nata e cresciuta a New York ed era sempre stata circondata da falsi e bugiardi non valeva nulla come promessa. Ma d’altra parte, Vincent stava male, e lei non poteva andarsene da lì, non finché lui non si fosse sentito meglio.
Annuì, ancora titubante, seguendo Madama Holle. Le aveva promesso un bagno e non poteva esserne più felice, ma in cuor suo sentiva che non era giusto lasciare Vincent da solo.
Quasi leggendole nel pensiero, la donna le rivolse un sorriso rassicurante.
- Sta’ tranquilla, tesoro. Il tuo amico si riprenderà. Il veleno dei non-morti è doloroso, ma mai letale, e Kay avrà già provveduto affinché qualcuno resti al di fuori della porta, nel caso gli servisse aiuto. Vieni, ti faccio strada…
Anya ubbidì, seguendo Madama Holle lungo un percorso che si rivelò tutto sommato breve, ma sufficiente a fornirle una panoramica del luogo in cui si trovava. Quando era giunta al campo dei ribelli era troppo occupata a preoccuparsi per Vincent per dare un’occhiata in giro, ma ora poteva osservare tutto a suo piacimento: la sede della Ribellione sorgeva in una radura abbastanza grande, ma si estendeva anche ad alcuni metri al di là degli alberi. La maggior parte delle strutture erano tende di stoffa grezza, tenute su da pali di legno piantati nel terreno; c’erano solo tre edifici di legno, una delle quali era l’infermeria, o quella che avrebbe dovuto fungere da essa. Al centro dell’accampamento vi era un piccolo fuoco che stava dando gli ultimi guizzi.
Era pieno di gente. Anya si accorse che, sebbene molti di loro tirassero dritto quando l’incontravano, poi le scoccavano occhiate di sottecchi non appena lei passava oltre. Questo non fece altro che metterla a disagio ancora di più.
Si chiese brevemente come stesse Vincent, prima che Madama Holle la conducesse all’interno di una delle costruzioni in legno.
 
***
 
Elizabeth si raggomitolò su se stessa, fissando le scintille create dalle due pietre che il Cacciatore stava sfregando una contro l’altra, fino a che queste non produssero una fiammella che si legò alla legna che avevano raccolto e ammassato al centro di quel piccolo spazio fra gli alberi, creando un fuocherello che, anche se non troppo vistoso, fu quantomeno in grado di riscaldarli un poco.
Si strinse nella felpa, nascondendo le mani oltre l’orlo delle maniche: la temperatura si era abbassata di parecchi gradi, e l’aria era più fredda di quando era giunta lì.
Il Cacciatore sospirò, sedendosi accanto al fuoco, proprio di fronte a lei e a Cenerentola. Sorrise, ma si vedeva che non era tranquillo: Elizabeth lo aveva notato sin da quando aveva annunciato che era tempo di accamparsi. A lei era sembrato un po’ presto, dato che il sole non aveva neppure iniziato a calare, e anche Cenerentola, a giudicare dalla faccia che aveva fatto, doveva pensarla come lei; in ogni caso, nessuna delle due aveva obiettato, e avevano cominciato a raccogliere della legna da ardere.
Ora, vedeva Elizabeth, il Cacciatore continuava a scrutare il cielo nel quale il sole aveva preso lentamente a calare.
- Domani saremo a Salem - commentò tranquillamente – o almeno, all’apparenza sembrava tranquillo.
- Per fortuna…- soffiò Cenerentola.- Non ne posso più di camminare scalza e di mangiare briciole.
Elizabeth scoccò un’occhiata alle gambe della bionda: i suoi piedi erano ancora fasciati, ma le bende recavano tracce di sangue fresco. Rosso misto a nero.
Cenerentola prese fra le mani il fagotto in cui aveva avvolto i viveri alla loro partenza, aprendolo: ne estrasse dei pezzi di pane e un pezzo di formaggio stagionato, spezzandolo in tre e distribuendolo.
- Grazie…- mormorò il Cacciatore.
- Di niente…- Cenerentola sbuffò, distendendo le gambe di fronte a sé.- Incredibile…- bisbigliò, fissando il tronco di una quercia alla sua sinistra.
- Che cosa?
- Il fatto che fino a due giorni fa pensavo solo a come sopravvivere agli orchi e ora sono praticamente un membro dei ribelli - Cenerentola fece un sorriso che aveva un po’ dell’amaro.- Chi l’avrebbe mai immaginato che la mia scarpetta fosse una delle chiavi che conducevano ai fratelli Grimm…
- Ancora non so se ti ho fatto un favore o meno a piombarti in casa…- Elizabeth fece una risatina nervosa, addentando un pezzo di formaggio.
- Scherzi? Probabilmente a quest’ora sarei caduta nelle grinfie dei soldati, se non fossi arrivata tu…- Cenerentola guardò il Cacciatore, quindi arrossì.- E anche voi, naturalmente…- iniziò a guardarsi intorno, fino a che non incontrò il libro di favole che Elizabeth teneva sulle ginocchia, quasi fosse stato un neonato.
- A proposito…ha parlato ancora quell’affare?- s’informò.
- No…- la ragazza scosse il capo, quindi lo prese fra le mani e lo aprì sulle due pagine recanti una il triangolo inscritto nel cerchio con il sogno infranto e l’altra il testo monco della profezia.
- Bisogna avere pazienza - disse il Cacciatore.- La magia è potente, e ancora di più lo sono le profezie. Come ogni cosa dotata di forza, occorre tempo perché si sveli completamente.
A Elizabeth quella descrizione riportava alla mente le imprecazioni di sua sorella mentre cercava di far funzionare un cellulare all’ultimo modello, ma preferì non esternare questo pensiero, anche in virtù del fatto che né Cenerentola né il Cacciatore avevano idea di cosa fosse un cellulare. Prese invece a sfogliare attentamente le pagine del volume, soffermandosi su ognuna di esse: in quasi tutte l’inchiostro era sbiadito o quasi cancellato, e le parole si leggevano a malapena. Di tanto in tanto s’incontrava un’illustrazione, ma anche questa era o sbiadita oppure così strana che a malapena si comprendeva di che favola si trattasse.
Elizabeth sorpassò velocemente la fiaba di Cappuccetto Rosso, incontrando il titolo successivo: Hansel e Gretel. Il testo della favola era praticamente illeggibile, ma in compenso c’era un’illustrazione ad acquerello ben conservata: si trattava della classica casetta di marzapane dal cui comignolo usciva un fumo talmente nero e talmente denso da far paura. Accanto a essa non c’erano né due bambini né un’anziana fattucchiera come Elizabeth si sarebbe aspettata, bensì una giovane donna vestita di nero, con labbra rosse e carnose distese in un sorriso.
La ragazza sfogliò le pagine finché non giunse a un’altra favola: Cenerentola. Stando bene attenta a non lasciar intravedere nulla alla bionda, corse a leggere le ultime righe della storia.
 
“La povera Cenerentola attese e attese a lungo, restando giorni interi accanto alla porta d’ingresso nella speranza che il Principe Azzurro si ricordasse della splendida dama con cui aveva danzato e volesse cercarla. Aspettò per giorni, e i giorni divennero settimane, e le settimane mesi, e i mesi anni, ma nessuno si fece vedere, e Cenerentola presto perse la speranza, continuando la sua vita di sempre fra le angherie della matrigna e delle perfide sorellastre fino a che, un giorno, una pestilenza se le portò via. Ma Cenerentola non poté più essere felice, e da allora trascorse tutta la sua vita in quella casa, sola, senza amici e senza amore, finendo per morire vecchia e dimenticata da tutti, con la sola compagnia di quell’unica scarpetta di cristallo che le era rimasta”.
 
Era deprimente anche solo leggerlo, ma a completare il quadro ci si metteva un’illustrazione il cui acquerello era un poco colato, ma nella quale si distingueva ancora la sagoma di una fanciulla bionda seduta su uno sgabello, sola, con il volto nascosto nelle mani per celare il pianto.
Elizabeth rabbrividì, voltando velocemente la pagina. La storia che seguiva s’intitolava La figlia del mugnaio. Sulle prime, la ragazza non ricordò di averla mai letta, ma non appena scorse le righe iniziali l’intera favola le tornò alla mente: non era una delle sue preferite, anzi, il solo pensiero di quel folletto maligno rapitore di neonati l’inquietava parecchio, da bambina. Voltò la pagina, sobbalzando quando vide l’illustrazione della fiaba: si trattava della stanza dove la figlia del mugnaio era stata rinchiusa, una torre colma di paglia con un arcolaio in sottofondo. Ma non c’era la protagonista della storia: bensì, l’immagine mostrava Tremotino – sì, lui, quell’uomo che avevano incontrato lei e Anya – girato di spalle, con il mantello nero che svolazzava, il capo voltato di lato e il profilo affilato che sorrideva malignamente, appena in ombra come tutta la sua figura.
- Qualcosa non va?- domandò Cenerentola, sporgendosi verso di lei.
Elizabeth scosse il capo con forza, voltando velocemente altre tre o quattro pagine, fino a ritrovarsi a fissare un testo il cui inchiostro, sorprendentemente, non era né colato né deformato in modo da distorcere le parole scritte. Fu questo particolare che l’incuriosì, più che altro: infatti, in cima alla pagina non vi era il titolo di alcuna fiaba, nulla.
Elizabeth iniziò a scorrere alcune righe, aggottando le sopracciglia. Sia Cenerentola che il Cacciatore si sporsero verso di lei, vedendo che la ragazza aveva assunto un’espressione strana, quasi sgomenta.
- Qualcosa non va?- domandò l’uomo.
- No, è che…ehm…non lo so, non ne sono sicura…- Elizabeth si mordicchiò il labbro inferiore, porgendo al Cacciatore il libro di favole aperto sulla pagina che stava leggendo.- Forse è meglio se dai un’occhiata anche tu…
L’uomo prese il volume con titubanza, guardando ciò che gli aveva indicato. Le due ragazze lo videro assumere quella stessa espressione accigliata di quando aveva visto il testo monco della profezia; quindi, con un sorriso gentile ma tirato, restituì il libro ad Elizabeth.
- Potreste leggerlo voi per me?- chiese.
Cenerentola inarcò un sopracciglio, perplessa, mentre la ragazza riprendeva in mano il libro di favole, anche lei chiaramente sorpresa da quella richiesta. Non le dava fastidio, ma..non poteva leggerlo da solo? Perché le aveva posto una domanda simile?
- Va bene…- si schiarì la voce, cominciando a leggere.- Narra la leggenda che, centinaia di anni fa, vissero due fratelli, il cui cuore un tempo puro era stato corrotto dal dolore, dall’odio e dalla brama di potere di coloro che, invece di amarli, desideravano solo la grandezza. I due fratelli cominciarono a praticare le arti oscure, divenendo in poco tempo i più potenti stregoni di questo mondo e degli altri. Essi crearono con il solo aiuto di carta e inchiostro una terra che apparteneva solo a loro, popolata da abitanti a cui essi stessi avevano dato vita con il loro calamaio stregato e malefico. Ma i due fratelli non erano padri e regnanti amorevoli: essi avevano creato quel mondo e il suo popolo con il solo scopo di distruggerlo a poco a poco, vedendo soffrire la sua gente infliggendole atroci sofferenze, condannandola all’infelicità fino a che non riportavano i loro figli alla forma d’inchiostro da cui erano nati, precipitandoli nell’Oscurità Eterna. Quando la loro superbia si spinse così oltre da voler conquistare anche gli altri mondi, un’antica famiglia di regali natali mosse guerra contro di loro, alleandosi con tutte le creature create nei secoli dai due fratelli. I Pendragon, questo era il nome della famiglia, intrappolarono gli stregoni, i quali tuttavia riuscirono a impiegare le ultime energie per spargere fra i mondi esistenti tutte le chiavi necessarie a rendere possibile, un giorno, la loro liberazione. Una profezia scritta a metà annuncia che quel giorno giungerà con l’ambasciata del Grande Inverno e con l’avvento di un traditore e della sua progenie, la Salvatrice il cui compito sarà di impedire che la madre di un mai nato compia il rito, spargendo sangue innocente misto a quello rosso e sporco della discendenza dei due fratelli, così come era stato in passato. Solo allora le loro vittime potranno ritornare dalle tenebre in cui sono state precipitate. Beh…- gracchiò Elizabeth quando ebbe finito, sentendosi la gola secca e nel frattempo non riuscendo a deglutire.- E’…particolare – commentò, non trovando niente di meglio.
- E’ solo la leggenda che preannuncia il ritorno dei fratelli Grimm – disse Cenerentola; non era tranquilla, ma non sembrava nemmeno sconvolta come lo era Elizabeth.
- Io la trovo un po’…inquietante – la ragazza avvertì un altro brivido correrle lungo la colonna vertebrale. Richiuse il libro, guardando entrambi.
- Beh, lo è se pensi che sta per avverarsi…- Cenerentola ricambiò lo sguardo.- Ti riguarda direttamente: sei la Salvatrice.
- Non lo sono. Almeno, credo. C’è anche mia sorella che…ehm…- Elizabeth si guardò intorno, prendendo tempo. Tamburellò nervosamente sulla copertina del libro.- Io…comunque, non ho capito diverse cose, specialmente alla fine – buttò lì, nel tentativo di sembrare spavalda.- Tanto per cominciare, cos’è l’Oscurità Eterna?
- E’ un luogo senza spazio e senza tempo, dove regna la disperazione e l’oblio – rispose il Cacciatore, cupo.- E’ dove finivano tutti coloro che Jacob e Wilhelm Grimm decidevano di cancellare, di far sparire dalla faccia di questo mondo. E dove…- si bloccò. Le sue riflessioni si stavano insinuando fra le sue parole, e se non stava attento rischiava di rivelare la verità su Cappuccetto Rosso e la nonna: era che lui le aveva condannate a vagare in eterno, uccidendole. Inspirò a fondo, passandosi una mano fra i capelli.
- Okay…- mugolò Elizabeth, incerta se continuare a farsi del male psicologico continuando a porre domande, ma alla fine la curiosità prevalse.- E…qui parla della madre di un mai nato. Chi è?
- Questo nessuno lo sa. Ma immagino sia colei che più di tutti vuole il ritorno dei fratelli Grimm.
- La Regina Cattiva?- fece Cenerentola.- No, non è possibile. La Regina Cattiva non ha figli. O almeno, così dicono…
- Lo so, ma chi se non lei potrebbe esserlo? E’ la Regina Cattiva che vuole il ritorno di Jacob e Wilhelm.
- Ma qui dice che si tratta della madre di un mai nato – ripeté Elizabeth.- Come fa una donna a essere madre se non è nato nessun bambino?
- Un altro mistero – mormorò Cenerentola.- Profezie e leggende non sono mai chiare. Altrimenti, a quest’ora sapremmo con esattezza quali sono le chiavi e dove trovarle…
- E…qui ci sono una marea di altre cose che non si spiegano – la ragazza riaprì il libro sulla pagina dove era scritta la leggenda dei fratelli Grimm; le sembrava quasi di vivere un incubo.- Ad esempio, qui parla di odio, dolore, potere…che è successo? Io ho sempre saputo che erano due scrittori, che hanno raccolto e riscritto le storie della loro cultura…e qui invece salta fuori che erano due stregoni! Come sono diventati così? Che è successo? E qui, ancora, dice che per risvegliarli occorre…il sangue del loro sangue, se non ho capito male…ci sono altri esseri come loro qui in giro? Che so, dei figli, o…
- Queste sono domande a cui potremo dare risposa quando troveremo le chiavi, forse – il Cacciatore la guardò come a scusarsi.- Anche se non credo che certe storie debbano essere riportate alla luce.
- Io ho sempre preferito una brutta verità a una bella bugia - disse Cenerentola, e in cuor suo Elizabeth non poté fare altro se non darle ragione. Anche per lei era sempre stato così…o almeno, ci era stata costretta, a fare i conti con la realtà e ad abbandonare le fiabe.
Quando tua madre è una pazza isterica in grado solo di farti del male, il lieto fine lascia il tempo che trova, ammesso che ne trovi. Nel suo caso, non era successo.
- Anch’io, ma non dimenticate che abbiamo a che fare con Jacob e Wilhelm Grimm – ribatté il Cacciatore.- Ricordate i Tempi Bui, vero? Ricordate cosa accadeva? Io preferisco avere a che fare con loro il meno possibile, e impiegare le mie energie per trovare un modo per sconfiggerli. Poi, forse, un giorno noi o i ribelli riusciremo a comprendere cosa li ha trasformati nei due esseri di cui parla la leggenda…
- A proposito…è da quando vi ho incontrato che desidero chiedervelo - Cenerentola si sporse verso di lui.- Com’è la Ribellione? Siete…una specie di esercito, o…
- Esercito?- il Cacciatore fece uno sbuffo a metà fra l’amaro e il divertito.- Esercito? Io ci definirei piuttosto un manipolo di disperati che hanno tutto o niente da perdere…
- Non pensate di essere un po’ troppo duro con ciò che state facendo?- Cenerentola lo guardò.- Come avete detto voi stesso, è con Jacob e Wilhelm Grimm che abbiamo a che fare. Nessuno che non avesse coraggio si azzarderebbe mai a sfidarli, così come chi non credesse in ciò per cui combatte si metterebbe contro la Regina Cattiva…
- Mi sopravvalutate. Io ho assistito alla fondazione della Ribellione, e mi sono arruolato nelle sue fila solo perché questa è la mia terra, ed ero stanco di vederla rovinata da una tiranna. Senza contare che preferirei morire piuttosto che consegnare le persone a cui tengo nelle mani dei Grimm.
- Ma torneranno?- chiese Elizabeth con apprensione.- Voglio dire…c’è…c’è modo che tornino?
- C’è una leggenda che lo prevede, e la profezia non lascia scampo. Ma io sono fermamente convinto che siamo noi i primi a scrivere le nostre profezie. Se saremo più astuti e più veloci della Regina nel trovare le chiavi e la Pietra, allora forse può darsi che riusciremo a impedirglielo. E ora, vi chiedo perdono…- il Cacciatore si alzò in piedi, inaspettatamente, guadagnandosi delle occhiate interrogative da parte delle due ragazze.- Io vado a raccogliere dell’altra legna.
- Ma…ne abbiamo a sufficienza - provò a obiettare la bionda.
- Preferisco non rischiare. Di questi tempi, rimanere completamente all’oscurità non è sicuro. Non sei mai certo di cosa si celi nel buio della notte…- il Cacciatore rivolse loro un altro sorriso tirato, iniziando ad avviarsi verso l’interno della Foresta Incantata. Cenerentola fece per alzarsi in piedi.
- Allora veniamo con voi!
- No. Vi ringrazio, ma occorre qualcuno che resti qui a controllare il fuoco, ed è meglio se non vi separate. Piuttosto, vi consiglierei di provare a dormire: domattina saremo a Salem, ricordate?- il Cacciatore si allontanò.- Non preoccupatevi, ho il pugnale. Sarò di ritorno fra breve, voi dormite.
Nessuna delle due rispose, ed entrambe rimasero a guardarlo finché non sparì oltre gli alberi. Il sole era ormai quasi calato, e la notte era vicina. Cenerentola si strinse a Elizabeth.
- Secondo te abbiamo fatto bene a lasciarlo andare da solo?- domandò.
- No…- la ragazza posò il libro di favole sull’erba.- Ma non ha torto. Qualcuno doveva restare qui…- mormorò, sperando vivamente di non apparire come una codarda. Stava solo cercando la soluzione migliore e più razionale fra le possibili, tutto qui. Nemmeno lei avrebbe voluto lasciarlo andare da solo, ma conosceva talmente poco di quel mondo che ormai si affidava completamente a ciò che diceva il Cacciatore. Sperava solo di non essersi sbagliata, riguardo al lasciarlo fare di testa sua.
Cenerentola sbuffò, distendendosi sull’erba accanto a lei.
- No che non ha torto: domani saremo a Salem, e io sono stanca morta…- si portò un avambraccio all’altezza della fronte, coprendosi gli occhi.- Non voglio dormire, accidenti! Credo che dovremmo aspettarlo…
- Sì, anche io lo credo. Tu dormi pure…- le disse poi Elizabeth, gentilmente.- Sei stanca, si vede. Resto io sveglia ad aspettarlo.
- No, mi sentirei un’infame a lasciarti a fare la guardia da sola…- protestò la bionda, cercando di rimettersi a sedere, ma era chiaro che fosse stanca. Elizabeth ricordò che lei, fra di loro, era quella che più aveva faticato a mantenere il passo durante il giorno, quindi aveva un ragione in più per permetterle di riposare. Scosse il capo in segno di diniego.
- No, tranquilla. Ha detto che non ci metterà molto, per me va bene.
- No, io…
- Dormi pure, se c’è qualche problema ti chiamo…- insistette Elizabeth.
Cenerentola la guardò.
- Sei sicura? Voglio dire, non…
- Sicura. Vedrai che andrà bene.
La bionda le rivolse un’occhiata incerta, quindi si distese nuovamente sull’erba, girandosi su un fianco.
- Grazie, allora…- ridacchiò brevemente.- Sai, in cinque minuti sei riuscita a dire almeno dieci frasi che le mie sorellastre non mi hanno mai rivolto in tutta la vita…
Elizabeth non seppe cosa replicare, quindi tacque. Appoggiò il dorso contro un tronco di quercia, raggomitolandosi su se stessa. Cenerentola si mosse ancora un paio di volte per trovare una posizione comoda, quindi chiuse gli occhi, e in pochi minuti il respiro si fece più leggero, ed Elizabeth seppe che si era addormentata.
La ragazza sospirò, abbandonando il capo reclinato su una spalla, in attesa del ritorno del Cacciatore.
 
***
 
Anya era rimasta immobile e in silenzio all’interno di quella capanna per almeno un quarto d’ora, durante il quale Madama Holle – nome che non aveva mai udito prima, ma d’altra parte aveva quasi smesso di porsi domande a cui era consapevole di non saper dare una risposta – aveva riempito con dei secchi d’acqua calda una tinozza di legno posta al centro dell’edificio, le aveva portato dei teli di stoffa pesante e aveva sistemato accanto a quella vasca da bagno improvvisata dei vestiti puliti e piegati, e uno specchietto. Le sorrise con affabilità.
- Ecco, l’abito di Riccioli d’Oro dovrebbe fare al caso tuo. Domani chiederò a qualche altra ragazza di fornirmi un cambio…
- La ringrazio, signora, ma è proprio necessario?- chiese Anya, guardando la tinozza come se fosse stata riempita di magma liquido allo stato puro. Si sentiva sporca e impolverata, lo ammetteva, ma non le sembrava proprio il caso di fare un bagno , in quel preciso istante, in una catapecchia costruita in mezzo al nulla e con mezzi precari. A dire la verità, ancora non riusciva a spiegarsi cosa ci facesse ancora in quel luogo: patto dei nani o meno, lei non ci voleva stare, e in un’altra situazione sarebbe scappata via già da un pezzo. Ma da sola non avrebbe campato a lungo in quel posto, e Vincent non stava bene…le toccava fare buon viso a cattivo gioco, almeno finché lui non si fosse sentito meglio e – conoscendolo – non si fosse inventato qualcosa per uscire da quella situazione – perché Anya aveva la sensazione che neppure Vincent fosse troppo felice di essere al campo dei ribelli.
Sì, avrebbe fatto così…ma il bagno assolutamente no!
- Beh, decisamente sì…- Madama Holle ridacchiò.- E’ evidente che non ti sei ancora guardata allo specchio, tesoro, perché in questo caso non avresti esitato un attimo a tuffarti in quella tinozza! E poi, approfittane ora che ne hai la possibilità…non hai idea di quante donne qui vorrebbero essere al tuo posto, almeno per una volta! Questa è un’eccezione, sai? Di norma per lavarsi si va giù al fiume, a un centinaio di metri da qui…Ci sono dei turni per le donne e per gli uomini, te li illustrerò domattina. Oh, e ci facciamo anche il bucato…!
- Meraviglioso…- borbottò la ragazza, fra i denti, attenta a non farsi sentire.
- E poi, è un ordine di Kay - la frase suonava quasi come una minaccia, ma il tono di Madama Holle aveva tutto fuorché del minaccioso e anzi, il suo sorriso si allargò ancora di più.- Facciamo tutti come dice lui, qui, e non ce ne siamo mai pentiti…
- E’ il capo?- s’informò Anya.
- Oh, sì! Voglio dire, è diventato il capo dopo che il Principe Filippo se n’è andato. E’ stato lui a nominarlo come suo successore, nel caso gli fosse accaduto qualcosa…ma se anche così non fosse stato, credo che lo sarebbe diventato comunque. E’ molto giovane ma estremamente perspicace, sai? Ha solo ventidue anni, eppure è un ottimo stratega, sa risolvere gli enigmi più difficili…è stato lui a decifrare cosa fosse la bellezza nella morte e a trovare la sua ubicazione, te l’hanno detto? E non solo, è molto magnanimo e comprensivo…Ma non farti illusioni, cara: molte fanciulle qui avrebbero dato qualsiasi cosa pur di ricevere uno sguardo o un sorriso da parte sua, ma lui s’è lasciato dietro una scia di cuori infranti quando si è sposato…
Anya avrebbe voluto rispondere che non le era neppure passato per la testa di farsi un pensierino su Kay, ma le sembrava poco opportuno interrompere Madama Holle mentre tesseva le lodi del ragazzo. La donna le fece l’occhiolino, avviandosi al di fuori della tenda.
- Beh, tesoro, fai pure con comodo…chiamami, quando hai finito…
Anya rimase a guardarla finché non fu uscita, quindi incrociò le braccia al petto e prese a fissare la tinozza con palese sfida. Non voleva entrare, punto e stop. Sì, d’accordo, aveva un disperato bisogno di lavarsi, ma…era da una vita che non faceva un bagno. Dodici anni, per la precisione.
Cioè, naturalmente curava il proprio igiene personale come qualunque essere umano sano di mente, ma ringraziando il cielo il suo appartamento era fornito di una meravigliosa doccia dove potevi lavarti in maniera completa e rapida. Il problema era che da dodici anni a quella parte non era più stata a mollo in una vasca da bagno! Anzi, che ricordasse, suo padre non era più riuscito a farvi entrare né lei né Elizabeth da quando…
Sospirò, chinandosi appena per esaminare il vestito che Madama Holle le aveva portato in modo che potesse gettare via i suoi, ridotti a pezzi. Nel fare ciò, incrociò la propria immagine riflessa nello specchietto posato lì accanto, e per un attimo stentò a riconoscersi.
(E’ evidente che non ti sei ancora guardata allo specchio, tesoro, perché in questo caso non avresti esitato un attimo a tuffarti in quella tinozza!)
(Evita di fare la compassionevole e vai a darti una sistemata, sei ridotta a uno straccio!)
Aveva pensato che quelle frasi fossero state pronunciate così, giusto per indurla a fare ciò che le si chiedeva, ma ora capiva che né Madama Holle né Vincent avevano parlato tanto per dare aria alla bocca. Sgranò gli occhi: quella riflessa nello specchio era una megera con il volto smorto e annerito dalla polvere, l’espressione smarrita di un animaletto abbandonato sul ciglio della strada, i capelli sporchi e intrecciati con le ragnatele spettinati in maniera quasi grottesca.
Non sembrava neanche più lei.
Anya gemette, sbuffando infastidita mentre si aggrappava con entrambe le mani al bordo della tinozza. Quello era quasi un segno del destino, un segno del destino che le ordinava di entrare in acqua, ora e subito. Aveva un disperato bisogno di un bagno, non c’era scampo…
Serrò le mascelle, chiudendo gli occhi. Sapeva cosa la stava frenando, e non era di certo il luogo e il modo con cui era stata preparata la tinozza; lo sapeva che cos’era, lo sapeva da dodici anni ma, proprio ora che non poteva farne a meno, era venuto il momento di scrollarselo di dosso.
- Va’ all’inferno, mamma…!- augurò rivolta al soffitto, iniziando a sfilarsi la maglietta.- A meno che tu non ci sia già…
 
***
 
La Regina rimase a fissare la propria immagine riflessa nello specchio che aveva appena terminato di mostrare loro gli eventi avvenuti a Camelot la notte del ballo. Non si voltò, ma udì distintamente i passi di Malefica che rimbombavano nervosamente sul pavimento della stanza.
- A cosa stai pensando?
- A cosa vuoi che pensi?- sibilò la strega, acida.- Penso che se non ci diamo una mossa, per Tremotino sarà un gioco da bambini prendere il sopravvento e sbaragliarci. Neppure tu mi sei sembrata più così tranquilla, quando lo specchio ce lo ha mostrato!
- No, infatti. Ma non voglio farmi prendere dal panico, con la mente accecata dalla paura non si ragiona in modo lucido - dichiarò la Regina Cattiva.- Troveremo un modo per fermare anche lui, stanne certa. Ha molti più nemici di quanti amici possieda, ammesso e non concesso che esista qualcuno a cui importi veramente di lui. Presto o tardi, qualcuno si deciderà a ribellarsi a lui, ma nel frattempo…ricorda che noi e lui abbiamo lo stesso obiettivo, e ultimamente le sue mosse hanno preceduto le nostre, evitando di attirare sospetti su di noi.
- Ti stai riferendo a James Hook, non è vero? Non è neppure riuscito ad ammazzarlo!- ringhiò Malefica.
- Hai ragione, ma come ben sai Tremotino è pieno di risorse, e Capitan Uncino non è altro che un ragazzo. Sarà anche il comandante di un veliero, ma è talmente giovane che la sua impulsività lo guiderà inevitabilmente verso la disfatta.
- Purché questa non si estenda anche a noi - ribatté la strega.- Ciò che intende fare potrebbe far pendere la bilancia verso la parte del Bene, e non possiamo permetterci l’intervento di…
- Lo so. Per questo è necessario attendere - la Regina Cattiva si avvicinò a lei, posandole una mano su un braccio e sorridendole.- Sai meglio di me che tentare di fronteggiare Tremotino adesso sarebbe come firmare la nostra condanna a morte. Per questo motivo è opportuno attendere e cercare di sfruttare le sue mosse a nostro favore, quando non possiamo anticiparle. Non tarderà a tramare qualcos’altro per attentare alla vita di Capitan Uncino, e il giovane pirata ci è più utile da morto che da vivo.
- E che mi dici di quello che è successo con la figlia di Artù?- incalzò Malefica, allontanandosi di un passo in modo da annullare un contatto fisico che la stava infastidendo.- Il fatto che l’abbia avvicinata non è stato un evento fortuito: uno come Tremotino non può volere niente da quella bambina viziata. E’ ovvio che ha intenzione di usarla per raggiungere ciò che Merlino tiene così gelosamente custodito. Anche lui mira a impossessarsene…
- Ha solo trovato una via alternativa alla nostra. Non dimenticare che Morgana sta compiendo un ottimo lavoro…
- A proposito…come hai fatto a convincerla a passare dalla nostra parte?- Malefica inarcò un sopracciglio.- Cosa le hai promesso in cambio?
- Oh, nulla di cui ti debba angustiare. Diciamo che il ritorno dei fratelli Grimm ribalterà parecchie carte in tavola, e sono in molti quelli che vogliono approfittarne…- la Regina Cattiva si finse noncurante, ma subito si corrucciò, e la voce le si abbassò di diversi toni.- Purché riesca a gestire quella guastafeste di sua figlia. Ha quasi rischiato di mandare all’aria tutto quanto…
- Adesso non mi dirai che ti spaventa una servetta diciannovenne e spaurita!- esclamò Malefica, con evidente divertimento.- Sei stata tu stessa a invitarmi ad assistere alla sua entrata in scena, o sbaglio?
- La credevo un po’ più perspicace, in quanto figlia di Morgana.
- Non che Mordred sia molto più intelligente…In ogni caso, ritengo che il trattamento riservato da Morgana a sua figlia sia stato oltremodo villano - dichiarò la strega, al che la Regina Cattiva si voltò a guardarla, stupefatta.
- Che cosa?!- esclamò, per poi lasciarsi andare a una fragorosa risata.- Oh, amica mia, non credo alle mie orecchie! Comprendo che il tuo passato sia molto simile a quello di Odile, ma questo non vuol dire che tu debba prendere le difese di una…
- Non rivangare un passato che non ha alcun motivo per essere riportato alla luce, Grimilde - la freddò Malefica, con uno sguardo truce.- Non sto prendendo le difese di nessuno. Sto solo cercando di farti notare che la figlia di Morgana ha avuto grinta e spirito d’iniziativa. Quante serve conosci che hanno avuto il coraggio di sfidare le convenzioni, sostituirsi a una donna di sangue blu e spacciarsi per lei solo per volontà di rivincita, o per conquistare un amore?
- Nessuna, ma se così fosse, stai pur certa che non avrebbe vissuto per raccontarlo - rispose la Regina, palesemente annoiata.
- Io ritengo che Odile abbia carattere e una classe che la mocciosa dei Pendragon non possiederà mai neppure fra mille anni. Ha delle doti nascoste, tutto sta nel portarle allo scoperto…
- E intendi occupartene tu?
Malefica non rispose, ma sostenne a lungo lo sguardo ironico della Regina Cattiva, quindi prese a fissare la finestra chiusa della camera da letto, incrociando le braccia al petto.
- Si vedrà - rispose a bassa voce, guardando la notte che era calata sulla Foresta Incantata.- D’altronde, tutto è possibile. I tempi sono ancora lunghi, e avremo bisogno di alleati anche negli altri mondi, per raggiungere il nostro scopo. Odile potrebbe sempre tornare utile. A questo proposito…notizie dal Paese delle Meraviglie?
- Poche, e nessuna di piccola o grande rilevanza.
- E da Agrabah?
- Come al solito. Jafar ha un po’ di difficoltà a stabilire il nuovo ordine.
- Non si è dimenticato dell’accordo, vero?- ringhiò Malefica.
- Ma certo che no. Jafar mantiene sempre la sua parola.
- Meglio di quanto abbia dimostrato la propria fedeltà al Sultano, mi auguro.
- Non inquietarti. E’ tutto sotto controllo. Avremo tempo di conquistare tutti i mondi che vorrai, il Paese delle Meraviglie, il Regno di Oz…E, Malefica?
- Che cosa vuoi?
- Non ti sembra che sia un po’…ipocrita, da parte tua?- la Regina fece un sorrisetto divertito.- Intendo, critichi tanto Jafar, ma lui ha un’intera città da governare, mentre noi ancora dobbiamo sistemare due ragazzine appena svezzate…
- Era compito tuo occupartene, lo sai bene!- sibilò la strega.- Ma ora il tuo adorato Primo Ministro e la sorella maggiore sono in un luogo protetto dalla Polvere di Fata, inaccessibile anche al tuo specchio, e insisti affinché della minore si occupi Tremotino…
- Per l’appunto. Ma questo non ci autorizza a starcene con le mani in mano…
La Regina Cattiva si lasciò cadere seduta sulla poltrona con aria soddisfatta, mentre Malefica si voltava a guardarla, inarcando un sopracciglio.
- Che intendi dire?
- Beh, Malefica, non vedi?- la sovrana accennò alla notte buia e senza stelle che era calata sulla Foresta Incantata, ben visibile attraverso i vetri della finestra.- La notte è scesa, tutte le fiammelle e le candele sono state spente…anche la Salvatrice avrà bisogno di riposare, non è vero? Bene, io dico di augurarle la buona notte a modo nostro…- ghignò, sporgendosi un poco in avanti.- Tu, amica mia, sei sempre stata estremamente capace nel governare gli incantesimi del sonno…vuoi avere tu l’onore di garantire dei sogni d’oro alle nostre giovani eroine?
Malefica la guardò seria per qualche istante, quindi, lentamente, si aprì in un sorriso complice che fece risplendere il suo volto ancora giovane incorniciato dai capelli biondi.
Stese le mani in avanti, quindi aprì piano le braccia: nello stesso tempo, anche i vetri della finestra si aprirono, lasciando entrare una lieve brezza notturna. Malefica si avvicinò al davanzale, posandovi delicatamente le mani. Chiuse gli occhi, beandosi per un poco di quel lieve venticello, quindi li riaprì, e si portò il palmo aperto della destra all’altezza delle labbra.
- Buona notte, piccole care. Che possiate avere cento e uno incubi, stanotte…
Soffiò sulla punta delle dita, e da queste si sprigionò una nuvoletta di polvere nera che si disperse nell’aria, iniziando a viaggiare nella notte, sovrastando la Foresta Incantata.
 
***
 
Elizabeth fissava il fuoco, sentendosi le palpebre pesanti ma nel contempo cercando disperatamente di tenere gli occhi aperti. Era trascorsa almeno mezz’ora, e il Cacciatore non era ancora tornato: per un paio di volte era stata sul punto di alzarsi e andare a cercarlo, ma non avrebbe saputo dire da che parte si fosse diretto, e da sola in mezzo alla Foresta Incantata si sarebbe certamente persa…senza contare che Cenerentola stava dormendo di fianco a lei, e le aveva promesso di rimanere a fare la guardia e tenere acceso il fuoco.
Elizabeth gettò sopra a quest’ultimo due legnetti, più per tenersi sveglia che per vera necessità, quindi tornò ad abbandonarsi contro il tronco di quercia, con la testa che le doleva. Si sentiva così stanca…tanto stanca che le pareva quasi di veder danzare una strana polvere nera di fronte agli occhi…
Sbadigliò, rannicchiandosi su se stessa. Ormai le palpebre erano pesantissime, tenerle aperte diventava sempre più difficoltoso…la polvere nera non la smetteva di danzarle di fronte…
Gli occhi erano semichiusi, quando Elizabeth udì un rumore di passi attutiti avvicinarsi a lei e a Cenerentola, ma non ebbe la forza di guardare chi fosse.
- Ha funzionato. Stanno dormendo…
Con un immane sforzo riuscì a riconoscere quella voce come quella del Cacciatore, ma non fu in grado di spiegarsi che cosa volessero dire quelle parole. Le parve d’intravedere un paio di bagliori gialli nel buio, ma attribuì tutto alla stanchezza, quindi chiuse gli occhi e scivolò nel sonno.
 
***
 
I primi minuti immersa in acqua erano stati…snervanti.
Anya si era tenuta con le mani aggrappate al bordo per almeno i primi cinque minuti, e solo dopo e con parecchia riluttanza si era decisa a lasciare la presa e allungare le gambe sott’acqua; quest’ultima era calda al punto giusto, invitava a rilassarsi e la ragazza, anziché dare retta all’istinto che le suggeriva di lavarsi in fretta e furia e uscire immediatamente da lì, aveva deciso di provare almeno a tranquillizzarsi, per quel che le era concesso. Aveva poggiato la nuca contro il bordo della tinozza, inspirando ed espirando a fondo fino a che non aveva sentito i suoi muscoli distendersi almeno un poco.
Va tutto bene, lei non può più farti niente…Va tutto bene, va tutto bene, sei al sicuro…va tutto bene, va tutto bene…, aveva continuato a ripetersi quella specie di cantilena nella mente per un po’, e alla fine era parso funzionare, tanto che si era ritrovata a non pensare più a niente e a godersi la sensazione dell’acqua calda che lavava via la polvere e le ragnatele.
Fu solo quando udì qualcuno avvicinarsi alla tinozza che si riprese.
Socchiuse piano gli occhi per vedere chi fosse. Anya non avrebbe saputo dire per quanto tempo aveva tenuto gli occhi chiusi. Forse, nel tentativo di rilassarsi e di non pensare a quei brutti ricordi che l’assalivano ogni volta che optava per un bagno caldo invece di una doccia, si era anche addormentata.
Sussultò, spalancando gli occhi non appena vide chi le stava di fronte.
In un’altra situazione avrebbe iniziato a urlare insulti o quantomeno a cercare di coprirsi, ma in quel momento riusciva solo a fissare quegli occhi gialli e cattivi – occhi da lupo! – che la scrutavano dall’alto, oltre il bordo della tinozza.
- Vincent…- mormorò, stralunata.- Che…che cosa fai qui? Non dovresti essere…
Senza dire una parola, inaspettatamente, l’uomo le afferrò violentemente i capelli, strattonandoglieli all’altezza della radice. Anya emise un gemito di dolore, alzando le braccia sopra la testa e piantandogli le unghie nei polsi nel tentativo di farlo smettere.
- Ma che stai facendo?! Sei impazzito, per cas…- le parole le morirono in gola non appena vide l’acqua nella tinozza: non era più limpida e trasparente, ma…rossa. Di un rosso puro e acceso.
Era sangue.
Anya sollevò nuovamente lo sguardo. Il quale, in un attimo, si riempì di terrore.
Gli occhi gialli erano ancora lì, ma stavolta il volto non era quello di Vincent, bensì quello ancora giovane di una donna, il cui sorriso maligno era circondato da una chioma di lunghi capelli neri.
Anya boccheggiò, sentendosi raggelare.
- Mamma…- soffiò, con la voce incrinata.
Un secondo dopo, Christine Hadleigh aumentò la presa ai capelli di sua figlia, spingendola verso il basso. Anya si ritrovò in men che non si dica con la testa completamente sott’acqua.
Cercò di dibattersi nel tentativo di divincolarsi, ma Christine continuava a tenerle la testa sotto. Anya spalancò la bocca come per urlare, ma ciò che riuscì a fare fu solo ingoiare quell’acqua dal sapore metallico del sangue. Si aggrappò con le mani ai bordi della tinozza, facendo forza fino a che non riuscì a tirare il capo fuori fino al mento.
- Mamma, no!- strillò, quasi implorando, ma ebbe appena il tempo di prendere una boccata d’aria, prima che Christine la spingesse nuovamente sotto. Anya si dibatté con tutta la forza che aveva, sentendo il fiato venirle meno. Con uno sforzo immane, riuscì nuovamente a tirarsi su.
- Mamma, ti prego, basta!- neppure questa volta servì, e Christine la ricacciò di nuovo sott’acqua. Stavolta ce la tenne più a lungo, e Anya pensò davvero che sarebbe riuscita ad annegarla quando, improvvisamente, la presa intorno ai suoi capelli scomparve.
La ragazza spalancò gli occhi, riemergendo velocemente. Prese una lunga boccata d’aria, accasciandosi contro il bordo della tinozza e iniziando a tossire con furia, ma senza smettere di guardarsi intorno con gli occhi sgranati dal terrore. Nessuno. Non c’era nessuno, la stanza era completamente vuota: non c’era traccia né di Christine né di Vincent né di nessun altro.
I capelli le si erano appiccicati al volto e al cranio. Anya se li scostò con le mani che tremavano, senza smettere di guardarsi intorno. Inspirò a fondo nel vano tentativo di calmarsi, ma non riusciva a smettere di tremare.
Un incubo, realizzò con sollievo.
Era solo un incubo.
 
***
 
L’acqua è sporca di sangue. Lei non riesce a muoversi. Vorrebbe piangere, ma fatica anche a respirare. La corda gialla intorno ai polsi e alle caviglie le provoca un dolore lancinante, ma nessuno fa niente. Dov’è papà? Perché Anya non si muove più? E perché la mamma le sta facendo del male? Non ha fatto niente, è stata brava…
Il pavimento bagnato le da fastidio, ma non riesce a sollevarsi.
L’unica cosa che può fare è gridare di dolore mentre la lama affonda nella carne…
 
Elizabeth si svegliò emettendo un grido, prontamente soffocato quando la ragazza si piantò una mano sulla bocca, un gesto istintivo: le era capitato talmente tante volte di risvegliarsi urlando, che per paura di svegliare papà o Anya aveva imparato a soffocare i suoi strilli sul nascere.
Respirò affannosamente, guardandosi intorno, gli occhi spalancati nel buio: Cenerentola stava ancora dormendo, ma aveva cambiato posizione, ed ora era distesa supina. Il fuoco era ridotto ormai a poche braci che ancora spiccavano nell’oscurità ma che presto si sarebbero spente. Il Cacciatore era tornato, per fortuna, e dava loro le spalle, probabilmente anche lui doveva essere addormentato.
Elizabeth impiegò diversi secondi prima di riuscire a regolarizzare il battito cardiaco e il ritmo respiratorio, quindi cercò di rilassarsi un poco. Aveva avuto un incubo, ma non un incubo qualsiasi…l’incubo di un incubo reale.
Inspirò a fondo. Non le capitava più di fare simili sogni da anni, doveva aver smesso quando era circa una dodicenne. Da una parte ne era stata sollevata, ma dall’altra sentiva come di aver perso l’unica cosa che le ricordasse almeno un po’ quel che era accaduto.
Già, perché lei non aveva memoria di quanto era successo, quel giorno. La polizia, al tempo, aveva cercato di cavarle fuori qualcosa, e così anche gli assistenti sociali e tutto l’entourage di esperti ma, mentre sua sorella, seppur fra un pianto e l’altro, era riuscita a dire qualcosa di quanto fosse accaduto, lei non aveva fatto altro che scuotere il capo e dire che non ricordava nulla. I medici dissero che lo shock era stato talmente forte che la sua mente lo aveva rimosso.
Che fosse un bene o un male, questo Elizabeth non lo sapeva.
Istintivamente, si portò una mano sotto la maglietta, nello stesso punto che le doleva nel sogno. Il dolore era sparito, non c’era più da tanti anni, ma ciò non toglieva che la sua causa fosse ancora lì presente, incisa nella sua carne: una cicatrice all’altezza del fianco destro, profonda e larga quanto poteva esserlo il coltello che l’aveva inflitta, anche se non abbastanza da ucciderla. Una sua gemella era stampata sulla spalla sinistra.
I segni indelebili di ciò che lei aveva scordato.
Elizabeth sospirò, stendendosi sull’erba cercando di riprendere sonno, ma tutto ciò che poté fare fu rimanere a fissare il cielo nero senza stelle sopra le loro teste.
Adesso basta così, mamma…Lasciaci in pace…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Come vi avevo anticipato, questo capitolo è di mezzo, anche se ho aggiunto un po’ di cose ad arricchirlo, a cominciare dalla leggenda. Vi avviso, è solo un assaggio, dal momento che mi sentirò in dovere di descrivere la storia dei fratelli Grimm con dovizia di particolari e di flashback, quindi preparatevi :D. Questo spiegherà anche la faccenda della madre di un mai nato, del sangue dei Grimm, ecc.
In più abbiamo uno scorcio di quello che la cara Christine Hadleigh ha cercato di fare e, sebbene credo che sia tutto abbastanza chiaro, ci saranno ulteriori parti dedicate a questo. Ultima ma non ultima, l’entrata in scena di Kay e di Madama Holle (e di Riccioli d’Oro, che qui non compare ma per la quale ho in serbo un non lieto fine decisamente poco soft!). Madama Holle…allora, la sua favola è poco conosciuta, magari tutti voi ne avete già sentito parlare o l’avete letta, ma in caso contrario allego qui il link con il testo della fiaba.
 
http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/grimm/holle.htm
 
Il suo volto è quello di Maggie Smith.
 
Madama Holle (Maggie Smith):
 
http://files.zapster.it/zapster-media/multimedia/1200/1177/big/10.jpg
 
Kay, invece, appartiene alla fiaba La Regina delle Nevi by Andersen, che invece sono sicura conoscerete tutti. Il suo volto appartiene a Jamie Dornan.
 
Kay (Jamie Dornan):
 
http://media.tumblr.com/tumblr_lvwyo7s7ch1qctv31.jpg
 
Entrambi, soprattutto lui, torneranno in futuro. Passando alla Vinya…lo so che qui l’avvicinamento è ben misero, ma con il carattere di entrambi ci vuole tempo e pazienza, vedrete che dalla prossima volta le cose andranno meglio ;).
Ringrazio CoolIrresistibile1D, VanEss, Jessica21, x_LucyW e Sylphs per aver recensito :). Il prossimo capitolo s’intitolerà Witch Hunt in omaggio alla terza stagione di Once Upon a Time e vedrà l’arrivo di Liz e Co. a Salem e l’introduzione di ben QUATTRO nuovi personaggi, nonché il ritorno di quella bestia nera di Gretel ;).
Ciao a tutti!
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 29
*** Witch Hunt ***


Witch Hunt
 
Alla fine, quella notte Elizabeth riuscì a riprendere sonno, ma dormì poco e male, sia a causa della scomodità del prato su cui era distesa sia per via degli incubi che la tormentarono per tutto il tempo in cui rimaneva addormentata. Non sognò più nulla che avesse a che fare con Christine, ma ciò non tolse che il suo sonno fu alquanto agitato: sognò di essere sull’orlo di un precipizio e di non riuscire a rialzarsi, sognò di perdere l’autobus per andare a scuola e di restare sotto la pioggia, di perdere le chiavi di casa, e sognò anche – e fu quello che l’inquietò di più – di trovarsi inginocchiata di fronte a una lapide senza nome, in un giardino che non conosceva e, quando aveva alzato il capo, aveva visto un bambino che si reggeva in piedi con un bastone salutarla agitando una mano.
Fu l’ultimo che fece, prima di svegliarsi. Sia il Cacciatore che Cenerentola erano già alzati, e stavano parlando di qualcosa che Elizabeth, avendo preso il discorso a metà, non riuscì ad afferrare.
- Ah, ti sei svegliata!- esclamò la bionda, svolgendo la pezza di stoffa in cui erano conservati i viveri e passandole il solito pezzo di pane accompagnato dal formaggio.- Stavamo per chiamarti…
- Scusate…è molto tardi?- chiese Elizabeth, prendendo un piccolo morso di formaggio.
- No, il sole è appena sorto…- il Cacciatore spense le ultime braci che ardevano sul fuoco.- Ma ci conviene sbrigarci. Salem non è molto lontana, ma una volta arrivati lì dovremo avere il tempo per guardarci intorno, per decidere il da farsi…
- Non siete preoccupato?- domandò Cenerentola, alzando lo sguardo su di lui.- Voglio dire, avrete certamente sentito le voci che dicono che lì ci sia una strega…
- Sì, ne ho sentito parlare. Ma ho una vecchia amica in quel villaggio, da lei saremo al sicuro…E non ci fermeremo molto, giusto il tempo necessario per trovare qualche indizio.
Il pensiero che fossero finalmente giunti a Salem avrebbe dovuto farla sentire quantomeno sollevata. Anche se non era il suo obiettivo primario, si trattava pur sempre di una tappa, qualcosa che avrebbe dovuto indicare che la meta si stava avvicinando. Invece, quando Elizabeth udì quello scambio di battute fra Cenerentola e il Cacciatore, avvertì una strana sensazione all’altezza dello stomaco.
Il nome di quella località non le era nuovo. In terza media ci aveva perfino scritto una tesina, sulla caccia alle streghe in quell’omonima cittadina del Massachussets, anche se non ci aveva mai creduto propriamente. Ma quello era un mondo nuovo, con delle regole che non avevano nulla a che fare con quella che lei in genere definiva razionalità, per questo faticava a passar sopra alla notizia che, probabilmente, il villaggio dove si stavano dirigendo fosse il teatro delle malefatte di una strega. Perché se era vero – ed Elizabeth sperava con tutto il cuore che non lo fosse –, allora di certo non si trattava né di una diceria né dell’opera di qualche mitomane.
Quelle riflessioni furono delle nuove compagne di viaggio che la perseguitarono durante tutto il tragitto che li separava dal villaggio di Salem e, quando vi giunsero, la ragazza avvertì la morsa allo stomaco farsi ancora più tenace.
Salem somigliava molto a uno di quei paeselli sperduti fra le montagne di cui si leggeva sempre nei libri ambientati nel Medioevo. La pianta era a forma circolare, e al centro di quella che doveva essere la piazza principale sorgeva un pozzo di pietra a cui erano legati dei secchi per l’acqua e una carrucola. Le case erano costruite una contro l’altra, e solo qua e là alcuni stretti vicoli s’insinuavano fra le abitazioni fatte di legno con i tetti di paglia e fango secco; alcune avevano delle piccole verande che cascavano per il marciume, altre un cortiletto non più grande dell’abitacolo di un’automobile in cui beccavano tranquillamente alcuni polli. Il cielo era color grigio ferro, quella mattina, le nuvole ricoprivano interamente il sole e faceva ancora più freddo della notte precedente. Se non avesse saputo che non poteva essere così, Elizabeth avrebbe detto che aveva appena piovuto, dal momento che la terra sotto i loro piedi era ridotta a un ammasso di fanghiglia informe e scivolosa.
Regnava un silenzio innaturale.
Non c’era anima viva lì intorno, fatta eccezione per alcune galline e un porcellino legato a un palo di legno piantato nel terreno. Non c’erano persone, né uomini, né donne, né bambini, nemmeno un essere umano in giro per la piazza, e a giudicare da tutto quel silenzio si poteva indovinare che anche le case fossero vuote…o quasi. Elizabeth avrebbe potuto giurare di sentir delle finestre venire sbarrate al loro passaggio. Cenerentola si portò accanto al Cacciatore.
- Che succede?- domandò, guardandosi nervosamente intorno.- Perché non c’è nessuno? Dove sono tutti?
- Non lo so…- sibilò l’uomo. Anche lui si era ben presto messo sul chi va là.- E’ da tempo che non rimetto piede a Salem, ma da quel che ricordo è sempre stata una cittadina molto attiva…
- Dici che è opera della strega?- Elizabeth aveva un po’ paura di quella risposta, ma il Cacciatore non fece in tempo a fornirgliela, perché un rumore attirò l’attenzione di tutti e tre. Si trattava di una serie di colpi, inferti in maniera sonora e ritmica, con ogni probabilità doveva trattarsi di un martello sopra del cuoio o un materiale simile.
Il Cacciatore si arrestò sul posto, in ascolto. Individuò la direzione da cui proveniva il suono quasi subito e vi si diresse. Le due ragazze lo seguirono, tenendosi vicine. A Elizabeth sembrava di essere più al sicuro, stando in compagnia dei due.
Il rumore proveniva da una bottega, o almeno così si presentava: era un portico senza porte né finestre, illuminato da delle braci accese sistemate in un camino di pietra in un angolo. Una serie di attrezzi erano sparsi sul pavimento e su uno stretto tavolo, affiancati da una quantità di scarpe: stivali, per la maggior parte, ma anche scarpette femminili, tutte di fattura semplice come lo era il materiale di cui erano fatte. Il rumore era proprio quello di un martello, che in quel momento un uomo basso e corpulento, con radi capelli castani e una barba leggera, e un ventre che sporgeva mollemente sui pantaloni tenuti su con delle bretelle, stava battendo sulla suola di uno stivale.
Il Cacciatore sembrò essersi non poco rasserenato dalla vista di qualcuno, ma si mantenne comunque guardingo. Il calzolaio non aveva dato segno di essersi accorto di loro; Cenerentola provò timidamente a muovere un passo all’interno della bottega, ma si arrestò sulla soglia.
Alla fine, il Cacciatore si vide costretto a trovare un modo per palesare la loro presenza. Si schiarì educatamente la voce.
- Perdonate, signore…- esordì, al che il calzolaio alzò di scatto il capo. Elizabeth indietreggiò involontariamente di un passo: lo sguardo di quell’uomo era lo stesso di chi avrebbe voluto tutto tranne che vedere le loro facce.
- Chi siete?- sputò, abbandonando il suo lavoro.- Che fate qui?
- Siamo…siamo arrivati da poco - il Cacciatore aveva preso le redini della conversazione, e le due ragazze erano più che intenzionate a lasciarlo fare.- Ci chiedevamo se…
- Non ci piacciono gli stranieri, qui a Salem. Portano solo guai.
Il calzolaio riprese a fare ciò che stava facendo prima del loro arrivo, un chiaro segno che aveva intenzione di chiudere la conversazione. Il Cacciatore rimase a guardarlo ancora per qualche istante, quindi si guardò intorno, più per riflettere che per altro, ma lo sguardo gli cadde comunque su qualcosa di interessante: una piccola borsa ricolma di monete era gettata sotto un tavolo, nascosta nell’ombra in modo che non fosse notata, ma non abbastanza. Si schiarì nuovamente la voce.
- Voi…voi vendete anche stivali, oltre a fabbricarli?- domandò, ricordandosi di quanto aveva detto Cenerentola il giorno prima; la bionda non avrebbe proseguito ancora a lungo senza un paio di calzature, e quella era l’occasione buona per ottenere più cose contemporaneamente, se si muoveva abilmente.
- Sì; perché lo domandate?- grugnì il calzolaio, senza guardarlo.
- La mia…la mia amica ha bisogno di un paio di stivali - detto questo, il Cacciatore si scostò in modo che la figura di Cenerentola fosse completamente visibile.
- Non vendo scarpette per signore!
- Ha bisogno di calzature comode - insistette il Cacciatore.- Da viaggio. Qualcosa che le permetta di camminare in maniera agevole.
La bionda chinò appena il capo, puntando lo sguardo sulle pezze sporche e insanguinate che le avvolgevano i piedi, imitata dal calzolaio, che inarcò un sopracciglio. Si sentiva un po’ in imbarazzo, anche se non sapeva perché: il Cacciatore stava facendo tutto da solo, senza chiedere niente a nessuno, ma non si azzardava a contraddirlo. Lei avrebbe girato i tacchi non appena quell’uomo rozzo e scorbutico che le stava di fronte si era rivolto a loro in maniera così maleducata, ma forse il suo amico aveva qualcosa in mente. Meglio lasciarlo fare, si disse.
- Ce li avete i soldi per pagare?- biascicò il calzolaio.- Io non faccio la carità ai poveracci.
- Naturalmente. Vorremmo…- il Cacciatore fece vagare rapidamente lo sguardo per la bottega.- Quelli, se possibile - indicò un paio di stivali di cuoio marrone sistemati su una mensola alle spalle del calzolaio, e non li aveva scelti a caso.
L’uomo grugnì, iniziando ad avviarsi verso il luogo indicato dal Cacciatore; questi attese che l’altro si girasse, quindi si chinò rapidamente, raccogliendo in fretta e in silenzio la borsa di monete posta sotto il tavolo, e affrettandosi ad assicurarla alla cintura, ben nascosta sotto il cappotto. Ne estrasse alcuni pezzi di argento che tenne stretti a pugno.
Elizabeth e Cenerentola sgranarono gli occhi a quella vista, ma non dissero nulla; la bionda sollevò su di lui un paio di occhi scuri che brillavano per l’ammirazione.
Il calzolaio tornò indietro, reggendo in mano gli stivali indicatigli dal Cacciatore; li posò malamente sul tavolo, digrignando i denti.
- Provateli, diteci se vi stanno…- sussurrò il Cacciatore a Cenerentola.
- Sono cinque pezzi d’argento. E poi andatevene!- biascicò il calzolaio, ricevendo come pagamento il suo stesso denaro, mentre la bionda aveva afferrato gli stivali e se li stava provando.
- Dove sono tutti?- chiese il Cacciatore, ignorando deliberatamente l’ordine.- Non abbiamo incontrato nessuno, venendo qui…
- Chi possiede un briciolo d’intelligenza e di amor proprio ha pensato bene di rimanersene chiuso in casa; tutti gli altri idioti invece sono ammassati nella piazza principale da stamattina, per assistere all’esecuzione.
- Esecuzione?- fece eco l’uomo.- Chi è il condannato?
- Una puttana che è stata accusata di stregoneria - sputò il calzolaio con disgusto.- E’ da mesi che succedono cose strane, e alla fine l’hanno arrestata. Sapevo che era stata lei: è una straniera, è arrivata a Salem quando suo padre non ha più nemmeno avuto un paio di brache da mettersi addosso, e invece di trovarsi uno stolto che la mettesse incinta e la sposasse ha pensato bene di fare la presuntuosa e diventare la levatrice del paese, quella spocchiosa! Sapevo che portava guai, una donna come quella…
- Levatrice? Avete detto che è stata arrestata la levatrice?- di colpo, il Cacciatore sembrò vacillare, perdendo tutta la sua sicurezza. Elizabeth si avvicinò a lui di un passo per poterlo guardare in volto: era preoccupato, si vedeva chiaramente.
- Te l’ho detto, nella piazza principale, in attesa che la brucino o l’impicchino. Io spero che il boia e i giudici optino per la prima scelta. Una strega non merita altro che quello…
- Vi ringraziamo, signore - l’uomo fece un breve cenno con il capo in segno di saluto, quindi afferrò le due ragazze per gli avambracci e le trascinò fuori dalla bottega, sotto lo sguardo diffidente del proprietario. Cenerentola incespicò nei propri piedi ed emise un gemito di disappunto, ma non si oppose più di tanto a quello che stava facendo il Cacciatore.
- Ma che succede?- chiese Elizabeth con apprensione; era evidente che le parole del calzolaio dovevano aver turbato molto il suo accompagnatore, ma non riusciva a comprendere dove fosse il problema: lei stava iniziando solo ora a metabolizzare la notizia che la strega era stata catturata – anche se non sapeva se sentirsi sollevata per questo fatto oppure no, dato che la suddetta era stata condannata a morte –, ma qualcosa nella parola levatrice aveva colpito il Cacciatore.
- Chiedo scusa - l’uomo le lasciò entrambe, ma non rallentò il passo.- Devo…devo andare nella piazza principale…
- Per via della strega?- chiese Cenerentola, che ora sembrava camminare molto meglio grazie a quegli stivali.
- Sì. Io…ho un brutto presentimento.
Le due ragazze si scambiarono una rapida occhiata, quindi lo seguirono: il Cacciatore quasi non le aspettava più, ma dava l’impressione di conoscere molto bene le vie di Salem, dato che si muoveva con sicurezza svoltando angoli e percorrendo vicoli lunghi e stretti. Cenerentola afferrò una mano di Elizabeth, stringendola fra le dita, ed entrambe accelerarono il passo.
Ben presto iniziarono a incrociare alcune persone, per lo più adulte, vestite con abiti che Elizabeth aveva visto solo nei film ambientati nel Medioevo, scuri e un po’ cenciosi. Tutte passavano loro accanto velocemente, senza guardarli negli occhi, quasi non si fossero accorti di loro; ma procedevano speditamente, nella stessa loro direzione.
Il Cacciatore aggirò un paio di passanti, uscendo infine dalla stradina stretta in cui si erano insinuati, e ritrovandosi di fronte a una folla di persone. Le due ragazze lo raggiunsero, trafelate: a giudicare dalla forma circolare quella doveva essere la piazza principale di cui aveva parlato il calzolaio, e una massa di gente era stipata attorno a qualcosa che non riuscivano a scorgere. Il Cacciatore cercò di farsi strada fra la folla: ormai si curava molto poco di Cenerentola e di Elizabeth; quello che aveva detto il calzolaio aveva instillato in lui un atroce dubbio, e se i suoi sospetti erano fondati, allora non c’era tempo da perdere. Sempre che potesse ancora fare qualcosa…
Ignorò la protesa soffocata di un uomo che aveva appena urtato con una gomitata, e riuscì a portarsi fino al fulcro dell’attenzione di tutti: una piattaforma in legno sorgeva proprio al centro della piazza, sopraelevata rispetto al terreno e alla quale si accedeva mediante una scala a pioli; sopra la piattaforma vi era una trave piantata in verticale, agganciata alla quale c’era una corda: un cappio legato mollemente penzolava appena mosso dal vento. Il boia era un omaccione di almeno due metri, con la barba scura e la casacca sporca, e se ne stava in piedi accanto alla trave; poco più in là, anch’essi in piedi, c’erano tre uomini. Due di loro erano vestiti di nero, segno che dovevano essere il giudice e il borgomastro, mentre l’altro era molto giovane, appena ventenne, abbastanza alto, con i capelli castani tagliati molto corti, gli occhi scuri e un’espressione seria dipinta sul volto. Era abbigliato in modo molto strano, con un cappotto nero sulla casacca e i pantaloni marroni, che tuttavia non riusciva a nascondere il fatto che fosse armato: almeno tre coltelli erano assicurati alla cintura, mentre sulle spalla era sistemata una balestra.
Il Cacciatore cercò di avanzare ancora di più, sentendo che le due ragazze lo avevano raggiunto alle spalle. Elizabeth ricevette un’involontaria spintarella da qualcuno in mezzo alla folla, e fu costretta ad aggrapparsi al cappotto dell’uomo per mantenere l’equilibrio.
- Maledetta levatrice!- ringhiò sottovoce una donna di mezz’età proprio accanto a loro, con un foulard nero avvolto intorno al capo.- Dannata strega, merita di morire!
- Zitta!- la redarguì prontamente un uomo molto giovane, che stringeva a sé una ragazza che, Elizabeth notò, doveva essere poco più grande di lei, ma nonostante tutto reggeva fra le braccia un neonato avvolto in un copertina.- Zitta, non sai nemmeno di cosa stai parlando! La levatrice è innocente!
- Non ha mai fatto del male a nessuno!- aggiunse la giovane mamma.- Ha fatto nascere i miei due bambini, e anche quelli di tua nuora e tua figlia!
- Mia moglie sarebbe morta di parto se non ci fosse stata lei, e ha aiutato anche la figlia del macellaio a partorire, per ben cinque volte!- s’intromise un altro uomo.- Non la condanneranno, sarei pronto a scommettere la mia vita sulla sua innocenza!
- Non è una strega! E’ buona, dolce…scrive anche le lettere!- fece una terza donna.
- Per l’appunto! Una donna così non può che essere una strega!- insistette quella che aveva parlato per prima, risoluta.- Le sue sorelle erano delle sgualdrinelle che hanno fatto passare tutta Salem, suo padre un vecchio che si è giocato tutta la sua fortuna, e non sta bene che una donna legga e sappia scrivere! Invece di trovarsi un marito e starsene a casa a fare la calza quella se ne andava in giro a far nascere i figli delle altre! Che ne può sapere lei di cosa vuol dire partorire, quando non è nemmeno sposata?
- Liberatela!- una voce acuta si levò sopra le altre, ed Elizabeth si voltò nella direzione da cui era provenuta. A parlare era stata una ragazza poco meno che ventenne, con i capelli color castano chiaro, che si era sollevata sulle punte; notò che il suo ventre era leggermente arrotondato.- Lasciatela andare! E’ innocente!
Molte persone seguirono il suo esempio, e iniziarono a inneggiare alla liberazione della strega. Il giudice e il borgomastro parvero essere stupiti da quella reazione, e anche il boia sembrò vacillare; l’unico a rimanere impassibile fu il ragazzo con la balestra, che anzi ridusse gli occhi a fessura per il fastidio.
Il Cacciatore cercò di farsi ancora più strada fra la folla, e alla fine arrivò a vedere ciò che stava cercando: accanto al patibolo era posteggiato un carro, un carro molto strano. Infatti, a coprire ciò che sarebbe dovuto essere lo spazio vuoto, vi erano delle sbarre di ferro, delle sbarre che unendosi formavano una gabbia quadrata serrata da un lucchetto e da un catenaccio. Al suo interno, vi era la prigioniera.
Il Cacciatore sgranò gli occhi: si trattava di una ragazza che non doveva avere più di venticinque anni, con il volto ovale e grazioso, gli occhi scuri, e i lunghi capelli castani che le ricadevano sugli occhi; teneva le dita intrecciate alle sbarre e continuava a guardare verso i tre giudici, in particolare il ragazzo con la balestra. L’uomo boccheggiò, cercando di raggiungere la gabbia sorvegliata da due guardie, ma la folla stava iniziando ad infervorarsi. Ora le voci che inneggiavano alla liberazione della strega erano molto più alte e più numerose, sebbene alcuni ancora si ostinassero a chiederne la condanna a morte. Il borgomastro mosse qualche passo avanti sulla piattaforma, alzando le mani al cielo.
- Vi prego, amici miei…!- provò a urlare per calmare la folla.- Lo stiamo facendo per il bene vostro e di questa città. La levatrice è stata ritenuta colpevole di…
- Bugiardi!- gridò una donna dalla massa.- Bugiardi, non l’avete nemmeno ascoltata!
- Vi prego…
- Impiccatela!- strillò di rimando la donna con il foulard nero.- Impiccatela, è una strega! Ha ammazzato tutte quelle persone, ci porterà alla rovina! A morte! A morte!
- Non avete prove che sia stata lei!- gridò la ragazza che per prima aveva cominciato a chiedere la liberazione della levatrice.
- Ora basta! Portatela fuori, facciamola finita!- ordinò il ragazzo con la balestra. Il boia scese la scala velocemente, e aprì la gabbia. La prigioniera tentò di ritrarsi, ma l’uomo l’afferrò saldamente per unbraccio e la trascinò fuori quasi di peso. La giovane si ribellò dimenandosi, ma alla fine venne portata comunque sulla forca. Indossava un vestito azzurro un po’ stinto e con l’orlo stracciato. Il borgomastro e il giudice arretrarono un poco, ma il ragazzo con la balestra si avvicinò a lei: il boia la lasciò andare di colpo, e la prigioniera ricadde in ginocchio di fronte a lui. Si chinò, afferrandole i capelli dietro la nuca.
- Crepa!- sibilò la ragazza, digrignando i denti.
- Ce l’ho fatta, maledetta…!- ghignò l’altro, strattonandola.- Sono mesi che ti do la caccia! Hai finito di scagliare i tuoi malefici sulla povera gente!
Per tutta risposta, la prigioniera gli sputò in un occhio, approfittando del momento di distrazione per colpirlo violentemente a una spalla. Il boia giunse in aiuto del ragazzo, trattenendola per le braccia.
- Bastardo! Figlio di puttana! Maledetto, che i Grimm ti sbranino vivo!- continuò a gridare la ragazza, scalciando. Il giovane con la balestra arretrò, fissandola con odio, quindi tornò a rivolgersi al boia.
- Adesso basta! Impicchiamola, è quello che si merita questa strega che perseguita la brava gente!
A quell’annuncio la folla si fece ancora più nervosa, e le grida che chiedevano la liberazione della levatrice si fecero più alte e più insistenti. Il boia la sollevò di peso, trascinandola verso la corda; le imprigionò le mani dietro la schiena con una fune, quindi le avvolse il cappio intorno al collo.
La prigioniera continuava a dimenarsi, ma non sembrava impaurita, bensì furiosa: continuava a guardare il giovane con la balestra come se volesse ucciderlo.
- Figlio di puttana! Figlio di puttana! Non sai niente! Bastardo! Ba…
La scarica d’insulti venne interrotta da un sonoro schiaffo che il ragazzo le sferrò su una guancia.
- Taci, strega…!- sibilò. Lo schiaffo le aveva fatto voltare il capo di lato e i capelli le avevano coperto metà del volto. La prigioniera non disse più nulla, ma tornò a fissare il ragazzo e a digrignare i denti con rabbia. Lui si allontanò, dirigendosi verso il bordo del patibolo, dove la folla si era ammassata, sempre continuando a gridare. Ancora, le voci che accusavano la strega si confondevano con quelle che chiedevano di liberarla. La gente era agitata, si rischiava una sommossa.
- Signori, vi prego!- gridò il ragazzo.- Cittadini di Salem, ascoltatemi! Questa donna è stata riconosciuta colpevole del crimine di stregoneria, dovrà essere giustiziata in modo che il suo operato non…
- Colpevole?!
Elizabeth sussultò. Stavolta a levarsi sopra le altre era stata la voce del Cacciatore. L’uomo si avvicinò alla forca, aggrappandosi al bordo della piattaforma e puntando lo sguardo in quello del ragazzo. La prigioniera, con ancora il cappio legato intorno al collo, sgranò gli occhi.
- Colpevole, dite? Che cos’ha fatto?- incalzò il Cacciatore.
- E’ una strega, e la magia delle streghe è sempre oscura!- ribatté l’altro.- Deve morire, così che non possa più portare dolore e disperazione con le sue arti malefiche!
- Ma come fate a sapere che è una strega?- insistette l’uomo.
- Molte persone a Salem sono scomparse, e i figli di due donne che avevano partorito sono stati trovati senza vita nelle loro culle! Questa sgualdrina malefica li aveva fatti venire alla luce, e poi si è macchiata d’infanticidio!
- E’ la levatrice del paese, è naturale che li abbia fatti nascere lei…- rispose il Cacciatore, facendosi più vicino alla forca.- L’avete vista praticare la magia nera? E’ stata colta sul fatto? Ha confessato?
Erano domande retoriche, volte a provare l’innocenza della prigioniera; ebbero l’effetto di aizzare ancora di più la folla.
- Quei bambini erano malati, e la madre di uno dei due aveva la malattia dello zucchero!- strillò un uomo fra le altre persone.
- E che mi dite della moglie del fabbro?- chiese il ragazzo.- Lei e il suo piccolo dovevano morire, e invece si sono salvati dopo che questa strega è stata a casa loro!
- E da quando è un crimine salvare la vita di qualcuno?- ringhiò il Cacciatore.- La state accusando ingiustamente!
La folla si scaldò ancora di più, tanto che il giudice e il borgomastro arretrarono. Elizabeth ormai era sicura che, se fossero andati avanti di quel passo, presto si sarebbe scatenata una sommossa. Il ragazzo con la balestra digrignò i denti e voltò le spalle al Cacciatore, marciando verso il boia.
- Impiccatela!- ordinò, e quella parola non fu altro che benzina su una fiamma. Si levò un boato di protesta dalla folla, tanto che il borgomastro gettò verso di essa un’occhiata preoccupata: le persone sembravano sul punto di scagliarsi contro la folla. Si avvicinò a grandi passi al ragazzo con la balestra, posandogli la mano sulla spalla.
- Vi prego, ascoltate…- disse.- Non possiamo impiccarla, non senza prove.
- Le abbiamo, le prove!- protestò l’altro; la frase del borgomastro pareva averlo sconvolto.- Venti persone sono sparite nel nulla, due neonati sono morti inspiegabilmente, due persone si sono salvate quando erano condannate, questa sgualdrina vive isolata da tutti, sa leggere e scrivere, non è sposata…
- Lo so, ma non è sufficiente…- il borgomastro si fece più vicino a lui, sussurrando.- La prigioniera è la levatrice del paese, molte persone si fidano di lei…anch’io come voi credo che sia una strega, ma se la impiccassimo senza delle prove schiaccianti che la accusino di praticare malefici, con ogni probabilità io mi troverei di fronte a un malcontento che rischierebbe di sfociare in qualcosa più grande di noi…
- Dunque, mi state dicendo che rimarrà impunita?! Che ho sprecato tutti questi mesi per vedere una strega continuare a praticare le arti oscure?! Io ho votato la mia vita a dare la caccia a quelle come lei, e non tollero che…
- Si tratta solo di aspettare - insistette il borgomastro.- Come avete detto voi, non è sposata e sa leggere, e questo è già un punto a suo sfavore. Da quando lei e la sua famiglia sono giunti a Salem si è sempre comportata in modo strano…La terremo d’occhio, sarà solo questione di tempo, ma è inevitabile che si tradisca. Restate ancora qui, il vostro aiuto è stato prezioso ma abbiamo ancora bisogno di voi…
Il ragazzo avrebbe voluto replicare, ma il borgomastro l’ignorò, voltandosi verso la folla.
- E’ deciso. La condanna a morte sarà rimandata a data da definirsi. La prigioniera può ritenersi momentaneamente assolta dalle accuse.
Si levò un grido di approvazione, ma in mezzo al quale spuntavano ancora delle protese sulla decisione finale. Il ragazzo con la balestra rimase sgomento, senza dire nulla.
Elizabeth vide il Cacciatore sorridere lievemente prima di raggiungere di nuovo lei e Cenerentola. La bionda gli rivolse un’occhiata perplessa che lui non vide, ancora concentrato sulla ragazza in piedi sopra la forca. La folla iniziò lentamente a disperdersi, fino a diradarsi del tutto. L’uomo che fino a quel momento aveva sostenuto strenuamente la colpevolezza della presunta strega si voltò, allontanandosi dal patibolo a capo chino; il boia sciolse i nodi che imprigionavano i polsi della ragazza e questa, non appena si fu liberata dal cappio, si volse a guardare verso di loro, con gli occhi che brillavano e un sorriso dolce. Elizabeth pensò che si trattasse di un semplice sorriso di gratitudine, ma subito venne smentita quando la giovane balzò giù dalla piattaforma e corse loro incontro.
Il Cacciatore l’accolse con un caldo e sincero abbraccio, stringendola a sé fino a quasi sollevarla da terra.
- Belle!- esclamò.- Come sono felice di vederti!
Elizabeth sgranò gli occhi. La levatrice circondò le spalle del Cacciatore con le braccia, stringendolo a sé. Intorno a loro non era rimasto nessuno, fatta eccezione per la ragazza incinta che per prima aveva chiesto la liberazione della strega.
- Ma che ci fai qui?!- esclamò Belle, quando finalmente il Cacciatore la lasciò andare, permettendole di rimettere i piedi a terra.- Sono mesi che non abbiamo più tue notizie!
- Avresti preferito che non venissi?- l’uomo ammiccò.- Mi sei sembrata un po’ in difficoltà, o sbaglio?
Belle annuì con un poco di amarezza, ma mantenne il sorriso, e tornò ad abbracciarlo brevemente.
- Grazie…- mormorò.- Ti prendi sempre cura di me…
Elizabeth vide che Cenerentola si stava mordendo l’interno di una guancia, rimanendosene in disparte, in silenzio. Il Cacciatore si scostò appena da Belle.
- Che cosa ti è successo?- le chiese.- Perché sei stata accusata di stregoneria? Chi era quell’uomo?
- E’…una lunga storia…- soffiò la ragazza.- E anche io ho un bel po’ di domande da farti - ghignò.- Ci conviene andare via da qui…in un posto più sicuro…- solo in quel momento parve accorgersi di Elizabeth e di Cenerentola.- Oh! Sono…amiche tue?
- Sì!- confermò la bionda, senza sorridere. Belle si avvicinò a entrambe, tendendo la mano.
- Piacere di conoscervi…io mi chiamo Belle.
- Elizabeth…
- Cenerentola - di nuovo sul volto della bionda comparve quella smorfia di fastidio nel pronunciare il proprio nome, ma la levatrice non sembrò notarlo. La ragazza incinta se ne restava in disparte, quasi in imbarazzo. Belle si voltò verso di lei, facendole segno di avvicinarsi.
- Gerda!- esclamò il Cacciatore, e lo sguardo gli corse istintivamente verso il ventre arrotondato della ragazza.- Beh…congratulazioni.
Gerda fece un sorrisetto di gratitudine, prima di salutare tutti quanti, un po’ timidamente. Belle le prese una mano.
- Venite. Vi accompagno a casa mia…Dobbiamo parlare.
 
***
 
Gretel aveva varcato le porte di Salem da qualche minuto quando aveva iniziato a udire alcune chiacchiere riguardanti la levatrice del paese, ma non vi fece caso. Stava ribollendo di rabbia: Tremotino aveva stabilito con lei un contatto mentale poche ore prima, e quello che le aveva detto era stato in grado di farla andare su tutte le furie. Lei gli doveva un favore, da questo non poteva scampare, ma per che cosa l’aveva presa? Per un oggetto? Per una bambolina da poter muovere e far parlare a proprio piacere? Stava rischiando grosso andando a Salem, e lui tutt’a un tratto decideva che no, quella ragazzina non la voleva più morta e che lei doveva solo procurargli uno sciocco libro?
Beh, lei non aveva permesso mai a nessuno di darle ordini, e anche se non le avrebbe fatto alcuna differenza avere quella ragazza viva o morta…una piccola ripicca ci poteva anche stare.
Sorrise sotto il cappuccio, imponendosi di avere pazienza ancora qualche ora, fino a che non fosse calato il buio. Mezzanotte era l’ora delle streghe, vero?
 
***
 
Cenerentola non spiccicò parola per tutto il tratto che li separava dalla piazza principale alla casa di Belle. Questa era davvero isolata rispetto al resto di Salem, ma il tragitto non fu troppo lungo; tuttavia, la bionda rimase imbronciata e silenziosa per tutto il tempo. Elizabeth pensò che non aveva nemmeno ringraziato il Cacciatore per gli stivali; l’uomo, da parte sua, sembrava impaziente di giungere a casa della levatrice. Era chiaro che dovessero parlare di qualcosa d’importante. Gerda, da parte sua, se ne restava in disparte, quasi intimidita, e di tanto in tanto si sfiorava il ventre con la punta delle dita.
Alla fine, giunsero a destinazione: la casa di Belle non aveva nulla a che fare con le abitazioni di legno e paglia che sorgevano al villaggio, bensì era una costruzione in pietra, a due piani, una tipica residenza di campagna. Non vi era alcuna staccionata o qualcosa di simile per delimitare il cortile, ma questo aveva l’erba che arrivava alle loro ginocchia, e sulla fiancata laterale della casa sorgeva un piccolo orto malandato e con ben poche verdure mature. Dei rovi rampicanti sorgevano accanto alla porta d’ingresso; il tetto era spiovente, e alcune tegole erano smosse. Doveva essere stata una residenza molto bella, un tempo, ma ora era ridotta a un rudere.
Belle fece loro strada, guidandoli verso la porta d’ingresso. Il Cacciatore si scostò un poco per permettere a Gerda di passare in maniere più agevole, gesto che costrinse Elizabeth a fermarsi accanto a lui. Mentre era in piedi, sentì qualcosa strusciarsi contro le sue gambe. Sussultò, balzando all’indietro e piantando lo sguardo a terra.
Un gatto dal pelo grigio striato stava facendo le fusa, strusciandosi contro i suoi jeans. La ragazza fece un sorrisetto, chinandosi ad accarezzare il micio dietro le orecchie.
- E’ il tuo gatto?- chiese, rivolta a Belle.
- A dire il vero, è il gatto di tutti, qui a Salem - le rispose l’altra, accarezzandolo a sua volta sul dorso.- Credo che il suo padrone lo abbia abbandonato, così ogni tanto quando viene qui gli do da mangiare…aspetta ancora un attimo, fra poco esco e ti do una scodella di latte…- sussurrò rivolta al micio, prima di fare cenno agli altri di entrare.
L’ambiente del primo piano era molto buio, e di gran lunga più stretto di quanto l’esterno lasciasse intendere. L’atrio era piccolo, e dava accesso a una scala. Belle si rivolse prima al Cacciatore, poi a Gerda.
- Per favore, fai tu gli onori di casa?- le domandò.- Noi dobbiamo sistemare alcune cose…
- Non vi dispiace, vero?- chiese il Cacciatore rivolto alle due ragazze.- Ci metterò solo un minuto.
- No, andate pure - rispose Cenerentola, e di nuovo a Elizabeth parve molto acida.
L’uomo seguì Belle al piano di sopra. La levatrice lo guidò in una stanzetta che non era una camera da letto ma neppure un tinello; anzi, pareva quasi una camera inutilizzata, in cui erano state ammassate cianfrusaglie a caso, ma quando la levatrice chiuse la porta dietro di sé il Cacciatore poté vedere che non era così: la stanza era piccola ma relativamente spoglia, con solo un paio di seggiole e un tavolo posto contro la parete su cui erano posati dei libri e alcune pergamene con un calamaio.
Belle si sedette, scostandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Come stai?- gli chiese, e nella sua voce c’era un’apprensione che poco prima era riuscita a mascherare.- Non sappiamo più niente né di te né della Ribellione da mesi. Io e Gerda abbiamo…- si umettò nervosamente le labbra.- Io e Gerda abbiamo saputo di Vincent…di quello che ha fatto…e di Lady Marian. Avete trovato il corpo, almeno?
- Non ce n’è stato bisogno, ringraziando le forze del Bene - il Cacciatore si sedette a sua volta, con un sorriso forzato.- Lady Marian non è morta, Belle. Lo credevamo, quando Vincent ha tradito, ma a quanto pare la Regina Cattiva non l’ha uccisa…
- Beh, questa è una buona notizia…- soffiò la levatrice.- Come avete fatto a sapere che non era morta?
- Lo so solo io, per il momento. L’ho vista. Era rinchiusa in una delle celle nelle segrete del palazzo. Ho provato a liberarla, ma la porta era incantata…non ci sono riuscito.
- Che?!- Belle strabuzzò gli occhi.- Sei stato nelle segrete della Regina Cattiva? Cosa ci facevi lì?
- E’ una lunga storia…comunque ora sono qui - rispose il Cacciatore, evasivo.- Per tornare a Lady Marian, mi ha detto che la Regina Cattiva vuole qualcosa da lei, ma non sa cosa.
- Era naturale…- borbottò Belle, pensosa.- Lady Marian di fatto era una spia nel palazzo, la Regina Cattiva non avrebbe esitato a ucciderla, se non avesse voluto ottenere qualcosa…magari sapere l’ubicazione del campo dei ribelli?- azzardò.
Il Cacciatore scosse il capo in segno di diniego.
- Quella è un’informazione che ha già ottenuto da Vincent. E’ diventato il suo Primo Ministro, le è ancora più fedele di Navarre, adesso. Ha rivelato tutto, per questo siamo stati scoperti…abbiamo dovuto scappare, i soldati ci hanno dispersi, ma quelli fra noi che non sono morti sono riusciti a organizzarsi.
- Vincent…- Belle strinse le dita a pugno.- Non avrei mai pensato che sarebbe diventato così.
- Nemmeno io. Lo credevo un amico…
- Già. Ma la colpa è nostra: avremmo dovuto impedirgli di andarsene. Avremmo dovuto iniziare a sospettare qualcosa quando ha ferito quel poliziotto…- la levatrice lo guardò negli occhi.- A proposito, si è più saputo niente di lui? E la Ribellione, dov’è adesso?
- No, non abbiamo più avuto sue notizie. L’unica cosa che so riguardo alla Ribellione è che l’ultima volta i ragazzi si erano stabiliti presso il Castello di Rovi, ma non ho idea di quale fosse il motivo.
- Quindi…mi pare di capire che tu non sia stato in contatto con nessuno, negli ultimi tempi.
La voce di Belle era pregna di delusione. Il Cacciatore scosse nuovamente il capo, tristemente.
- E’ da mesi, ormai, che non vedo più nessuno. Sto cercando di raggiungerli, dovrei ripartire domattina…ma dimmi di te - si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia.- Non hai più visto nessuno?
- No. Sono un po’ preoccupata, a dire il vero…prima Cappuccetto Rosso si occupava di portare i messaggi e le notizie, ma sono settimane che non si fa più vedere.
Il Cacciatore chinò il capo, torcendosi le mani. Inspirò a fondo, quindi tornò a guardare Belle negli occhi.
- Cappuccetto Rosso è morta - quelle parole risuonarono sulle pareti con un effetto strano, quasi non gli sembrò vero che fosse stato proprio lui a pronunciarle. Belle scattò in piedi, palesemente sconvolta.
- Che cosa?! Morta? Come…quando…
- Lei, e anche la nonna - aggiunse il Cacciatore, sentendo una stretta al cuore.
- E’ stata…è stata la Regina Cattiva, vero?- Belle sembrava faticare parecchio per metabolizzare la notizia.- Le ha uccise, non è così?
- Sì, sono state uccise. Da…un mostro, inviato dalla Regina.
- Siano maledetti i Grimm…- Belle ridusse le labbra a fessura, iniziando a passeggiare nervosamente per la stanza.- Quella schifosa…! L’ha fatto per interrompere i contatti, lo so! Sapeva che Cappuccetto Rosso si occupava di portare i messaggi, è per questo che ha ucciso lei e la nonna…maledetta, aveva solo tredici anni…!
- Le avevo detto di non farlo!- soffiò il Cacciatore, con malcelata disperazione nella voce.- Le avevo detto di non arruolarsi nelle file dei ribelli…era una bambina, le avevo detto che era pericoloso…se solo fossi stato più attento…
(Se solo non fossi un mostro sanguniario…)
Belle lo guardò, sgomenta. Si avvicinò a lui, prendendogli le mani.
- Non è stata colpa tua - cercò di rassicurarlo.- Ma la Regina la pagherà. Pagherà per la vita di Cappuccetto Rosso e per tutte le altre che ci ha sottratto. Sai dove…- inspirò a fondo, cercando di calmarsi; ora più che mai avevano bisogno di essere lucidi, entrambi.- Sai dove sono Robin Hood e i suoi uomini? E il Principe Filippo?
- No, non sappiamo più nulla di loro da quando Vincent ha tradito.
- E Kay?
Il Cacciatore la guardò, allontanandosi da lei di un passo. Negli occhi di Belle c’era una flebile speranza, una speranza che, giocoforza, lui avrebbe dovuto uccidere.
- No, nulla - l’uomo vide il bagliore negli occhi della levatrice morire velocemente.- Non è…non è qui a Salem? Voglio dire, sua moglie è…
- E’ partito tre mesi fa, e ora che Cappuccetto Rosso è morta ricevere i messaggi è sempre più difficile - disse Belle.- Gerda non fa che piangere dalla mattina alla sera, si rimprovera di non essere andata con lui.
- E’ meglio che non lo abbia fatto. La Foresta Incantata e il campo dei ribelli non sono il luogo migliore nelle sue condizioni. Da quanto tempo è incinta?
- E’ quasi al quinto mese. E Kay le ha detto esattamente queste parole, prima di andarsene: la Ribellione non è il luogo adatto per una donna incinta, ma nemmeno Salem lo è, se non resta tranquilla e a riposo. E’ molto triste, sempre preoccupata, e non le fa bene…
- Perché Kay non è rimasto? Avremmo capito se…
- Lo conosci. Sai com’è fatto. Per quanto ami sua moglie…beh, da quando ha saputo di stare per diventare padre non ha più voluto sentire ragioni. Per settimane non ha fatto altro che ripetere che non avrebbe mai permesso che la Regina Cattiva o i fratelli Grimm facessero del male alla sua famiglia. Diceva che suo figlio meritava di vivere in un mondo migliore di questo, e che era suo dovere combattere per fare in modo che fosse così. Gerda lo ha implorato di rimanere, ma lui è partito raccomandandosi con me di prendersi cura di sua moglie.
- Sei tu che ti occupi di lei?
- Sì. Lei ora abita da me. Sai, quando è rimasta incinta avevamo già deciso che mi sarei trasferita a casa sua e di Kay quando fossero mancati un paio di mesi al parto, per assisterla. Ma poi…beh, Kay è partito e lei non era nelle condizioni di stare da sola, così è venuta qui. La seguo giorno per giorno, cerco di fare del mio meglio, ma come ti ho detto è molto difficile. Mangia molto poco, le manca suo marito, ed è sempre in ansia. Per di più, Gerda è molto delicata, ha un fisico esile, poco adatto a concepire bambini…cerco di fare il possibile, ma il parto non si preannuncia molto semplice.
- Sembri preoccupata…
- Lo sono. Gerda è mia amica, le voglio bene. E poi…beh, ti sembrerà egoistico, da parte mia, ma se le dovesse succedere qualcosa non solo ne soffrirei, ma quel bastardo di Hansel coglierebbe al volo l’occasione per farmi condannare di nuovo.
- Chi è Hansel?
- Un cacciatore di streghe. L’uomo che hai visto oggi in piazza, quello che mi ha fatta arrestare.
Belle si rabbuiò, tornando a sedersi; prese a sfogliare distrattamente le pagine di un libro, senza leggere nulla, corrucciata. Il Cacciatore incrociò le braccia al petto, guardandola.
- Che cosa è successo, me lo vuoi spiegare?
- C’è poco da dire. La gente di questo paese è talmente ottusa che non riesce a vedere la realtà delle cose…E’ da tempo ormai che le persone continuano a sparire nel nulla. Prima è scomparso MacKenzie, l’ubriacone della città, ma nessuno ci ha fatto caso, sai, pensavano tutti che fosse caduto in un burrone a causa del troppo vino…Ma poi dopo di lui ne sono scomparsi altri. Prima il fratello del borgomastro, poi la sarta…Intere famiglie. Il panettiere con sua moglie…il pescivendolo e…il cenciaiolo e sua moglie con i loro cinque bambini, anche loro. Nessuno si è mai posto il problema del fatto che in tempi bui come questi la Foresta Incantata non sia un luogo sicuro, che l’Uomo Nero sia stato liberato…Hanno tutti paura della propria ombra; ben pochi accettano che i fratelli Grimm stiano per tornare, e hanno scelto la soluzione più semplice: a Salem c’era una strega, e bisognava scovarla.
- Ma perché dovevi essere proprio tu?- incalzò il Cacciatore.- Belle, tu sei la levatrice del villaggio…hai fatto nascere decine di bambini, e poi sei una dei pochi qui che sanno leggere e scrivere, e ti occupi di trascrivere le lettere sotto dettatura. La gente si fida di te…
- Non fa alcuna differenza. Quando hai paura non guardi più in faccia a nessuno…Così, quando il borgomastro ha richiesto l’aiuto di quel cacciatore di streghe, Hansel, e lui mi ha accusata, tutto quello che avevo fatto è scomparso. E’ stato facile incolpare me: ben pochi accettano che una donna legga e sia in grado di pensare, e in questo villaggio se desideri qualcosa in più di avere un marito, dargli dei figli, servirgli tre pasti al giorno e pulirgli la cenere da sotto le scarpe, allora sei pazza. Quando mio padre ha perso il suo denaro e ci siamo trasferiti qui, tutti si aspettavano che me ne andassi in giro a mendicare con un velo nero sul volto, o cercassi qualcuno che mi sposasse per uscire dalla miseria, come facevano le mie sorelle. Beh, io invece non ho fatto né l’una né l’altra cosa. Mi sono data da fare, invece di piangermi addosso mi sono impiegata come levatrice, e a questi ipocriti è andato bene, fino a che sono stata utile…
- Ho sentito che c’erano stati dei problemi con dei bambini…- mormorò il Cacciatore, con voce incolore.
- Tutte bugie, solo delle scuse per incolparmi. E’ vero, ho fatto nascere quei bambini, ma non è stata colpa mia se sono morti. Uno era il figlio di un alcolizzato, il padre picchiava la moglie a sangue, e il bimbo è nato prematuro: sono riuscita a salvare la madre, ma per il piccolo non ho potuto fare niente. Purtroppo a questo mondo simili cose succedono, ma non è stata colpa mia. E per l’altro neonato è stato uguale: la madre aveva…la malattia dello zucchero, e non me l’aveva detto. Per donne come lei è molto rischioso avere dei figli, e infatti nessuno dei due ce l’ha fatta. Io ce l’ho messa tutta, ma non sono riuscita a salvarli. E poi, quando si è saputa questa cosa, quell’oca di Sandie Norton è andata in giro a raccontare che avevo fatto un sortilegio sulla moglie del fabbro e sul suo bambino…maledetta bugiarda! Che ne sa lei di cosa ho fatto?! Volevo solo evitare che altre due persone mi morissero fra le braccia, così ho…ho dato a entrambi…delle erbe.
- Che genere di erbe?
- Erbe curative. Le raccolgo di notte, nella Foresta Incantata…
Al Cacciatore fu chiaro che a Belle non andava di approfondire quell’argomento, così non insistette. C’era amarezza nella voce della levatrice, amarezza e rabbia. In un certo senso, la capiva: conosceva Belle da diversi anni e, anche se non bene come Lady Marian o Cappuccetto Rosso, abbastanza per comprenderne il carattere. La ragazza era un tipo energico, ben poco incline a lasciarsi andare ai piagnistei; nella sua vita aveva ricevuto diversi colpi bassi, e aveva reagito a tutti…e nonostante tutto ciò che aveva fatto per quel villaggio, la sua gente l’aveva messa alla sbarra, pronta a farla uccidere. Il Cacciatore sapeva che, più per quelli che si potevano considerare incidenti del mestiere, Belle aveva pagato per il fatto di non aver mai seguito la corrente, in vita sua: aveva venticinque anni, e non era sposata; già questo era sufficiente per marchiarla come diversa dalle altre donne. Leggeva molto, pensava con la sua testa, esprimeva sempre il proprio pensiero, con il suo lavoro manteneva il padre e…
- I tuoi fratelli?- domandò, da una parte per cambiare argomento e dall’altra perché non aveva loro notizie da tempo; Belle non era stata l’unica ad arruolarsi fra i ribelli, nella sua famiglia. Anzi, era stato proprio grazie ai suoi tre fratelli maggiori che era diventata parte integrante della Ribellione. Sulle prime molti di loro erano stati scettici di fronte a quella ragazzetta figlia di un mercante ma con un carattere e la costituzione di una contadina o di una guerriera…ma si erano dovuti ricredere.
- Tristan è morto, e così anche Jean-Baptiste. Di Maxime non sappiamo nulla, ma credo che anche lui sia morto.
- Mi spiace…- soffiò il Cacciatore, maledicendosi per aver posto quella domanda.- Quando è successo?
- Circa un anno fa. Sono stati i soldati di Navarre a ucciderli. Abbiamo ritrovato i corpi di Tristan e Jean-Baptiste nella Foresta Incantata, mezzi divorati dai corvi. Quello di Maxime invece non lo abbiamo più trovato, ma era con loro quando sono stati catturati, dunque…
- E le tue sorelle?
- Astrid è scappata con un suo amante sei mesi fa; Clotilde invece è morta anche lei. Polmonite. Mio padre non ha retto quest’ultima perdita e…
Belle non fece in tempo a terminare la frase, ma quasi a sottolineare la stessa si udì un forte tonfo proveniente dalla stanza adiacente. La levatrice si precipitò fuori di corsa, seguita dal Cacciatore. L’uomo rimase affacciato alla porta della camera vicina mentre Belle invece entrava velocemente, aiutando un uomo anziano a rialzarsi dal pavimento su cui era caduto dopo essere scivolato dal letto.
Il Cacciatore sospirò, mentre la ragazza cercava di far calmare suo padre, un vecchio ormai divorato dalla demenza che non faceva altro che agitarsi e borbottare parole senza senso. Non era rimasto più niente dell’anziano mercante di un tempo, e l’uomo a quella vista non poté fare altro che chiedersi dove avesse condotto tutti quanti quell’oscurità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Capitolo allegro, eh? XD. Okay, ammetto che possa essere stato un po’ noioso, ma mi occorreva per presentare alcuni nuovi personaggi (nell’altro avremo più Gerda e Hansel, e l’arrivo di Gretel ;). Ora si sa un po’ meglio perché Cappuccetto Rosso è stata fatta fuori e dei particolari in più sulla storia di Vincent…a voi lo scoprire se le accuse rivolte a Belle sono solo accuse o se invece la nostra bella (e a proposito, anche chi non è sul gruppo immagino avrà capito chi sarà il malcapitato che verrà trasformato in una bestia ;) ha davvero un segreto che non vuole svelare neppure al Cacciatore ;).
Ringrazio chi legge e chi recensisce :).
Ciao a tutti, al prossimo capitolo!
Beauty
 
P. S. Qui ci sono i possibili volti per i nuovi personaggi.
 
Hansel (Jeremy Renner):
 
http://rigsamarole.files.wordpress.com/2013/01/hansel-and-gretel-witchhunters-jeremy-renner-gun.jpg
 
Gerda (Emma Watson):
 
http://it.eonline.com/eol_images/Entire_Site/20131014/rs_560x415-131114091956-1024.Emma-Watson-Noah-jmd-111413.jpg
 
Belle (Gemma Arterton) http://cdn3.belfasttelegraph.co.uk/migration_catalog/article25629807.ece/95d72/ALTERNATES/h342/tessNEW

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Capitolo 30
*** Witch Hunt - The Black Cat ***


Witch Hunt – The Black Cat
 
Belle aveva chiesto a Gerda di fare gli onori di casa al posto suo, ma la ragazza non ci stava riuscendo troppo bene, anzi. Elizabeth aveva preso a saltellare nervosamente da un piede all’altro, con le mani incrociate dietro la schiena e lo sguardo che vagava sul soffitto della stanza per non guardare né Cenerentola, che in quel momento sembrava più immusonita che mai, né Gerda, la quale da parte sua appariva estremamente a disagio, e se ne restava in disparte in un angolo, in piedi accanto al camino di pietra acceso, con un mezzo sorriso di circostanza sul volto e le dita che si torcevano le une con le altre.
La bionda aveva l’aria impaziente, come se non volesse rimanere in quella casa più del necessario; Elizabeth avrebbe voluto chiederle che cosa le fosse preso così all’improvviso, ma la presenza di Gerda e il timore di una rispostaccia la frenavano.
Dopo qualche minuto di pesante silenzio, la ragazza incinta si schiarì la voce.
- Volete…ehm…- si scostò una ciocca di capelli dietro un orecchio.- Volete bere qualcosa, in attesa che Belle e il Cacciatore tornino? Oppure…avete fame? Dovrebbe essere rimasta un po’ di minestra, se non sbaglio…
- No, stiamo benissimo - rispose Cenerentola, secca, anche se tutt’e due stavano morendo di fame, dato che era quasi mezzogiorno e il pane con il formaggio di quella mattina non era neppure sufficiente a riempire loro lo stomaco per poche ore.- Perché ci mettono tanto? Cosa devono dirsi di così importante?
- Sono…sono tanti mesi che non si vedono, e voi certamente sarete a conoscenza del…beh, della situazione…- provò a spiegare Gerda, con palese imbarazzo.- Avranno…delle cose importanti di cui discutere…
- E non potevano parlarne qui, di fronte a noi?
Gerda non seppe rispondere a quell’ultima domanda, e si strinse nelle spalle. Elizabeth stava iniziando a sentire il respiro venir meno. Volse lo sguardo verso l’unica finestra della stanza: al suo esterno, il gatto grigio era accucciato all’ombra accanto alla porta d’ingresso, con la coda che si muoveva su e giù, leziosamente. La ragazza fece un sorrisetto, quando a un tratto vide avvicinarsi al cortile un altro gatto: questo invece era nero come la pece, con gli occhi gialli e le pupille a fessura.
Rimase a girovagare tranquillamente nei pressi della casa per qualche minuto, quindi se ne andò.
 
***
 
Il Cacciatore aveva assistito a tutta la scena sentendosi infinitamente impotente e inutile, ma Belle non aveva dato alcun segno di aver bisogno d’aiuto, tutt’altro. Ci aveva impiegato ben dieci minuti prima di riuscire a calmare il mercante e far cessare i suoi borbottii senza senso, ma alla fine aveva fatto in modo di farlo stendere nuovamente a letto e gli aveva rimboccato le coperte, come a un bambino. Il Cacciatore aveva conosciuto il padre di Belle, quando quattro dei suoi sei figli erano entrati a far parte della Ribellione: l’aveva incontrato solo due volte, a essere precisi, ma in entrambe aveva avuto di lui l’impressione di un uomo forse non più giovanissimo – aveva già tutti i capelli bianchi, all’epoca, e il volto solcato da rughe – e che certamente aveva dovuto subire molte sofferenze e affrontare numerosi ostacoli nella sua vita – fra cui il dissesto finanziario, quel crepacuore che erano state le sorelle maggiori di Belle, e l’impossibilità di fornire una dote alle sue figlie femmine –, ma comunque forte, posato, saggio e con i nervi saldi. La morte dei suoi tre figli maschi e di Clotilde l’avevano adesso provato oltre ogni dire, facendogli perdere la salute e il senno: ora era dimagrito, aveva gli occhi iniettati di sangue, la mandibola cascante che si muoveva pronunciando borbottii e parole prive di significato, aveva bisogno di essere curato e accudito come un bambino piccolo, e al Cacciatore era parso che non fosse più nemmeno in grado di riconoscere la sua figlia prediletta.
Belle non fece commenti, e non appena il mercante si fu calmato ed ebbe chiuso gli occhi per dormire, uscì dalla stanza con una calma quasi impressionante, atteggiamento che al Cacciatore fece comprendere che quella situazione si trascinasse da tempo, sufficientemente perché la levatrice ci avesse fatto l’abitudine. Provò quasi pena per lei, ma scacciò via quel pensiero non appena si affacciò nella sua mente: Belle aveva sempre combattuto in vita sua, e se c’era una cosa che aveva fatto in modo non accadesse, era che qualcuno la compatisse. Meritava ammirazione, semmai, ma certamente non pietà falsa e inutile.
La levatrice sospirò, sistemandosi le pieghe dell’abito azzurro. Si appoggiò alla parete con il dorso.
- Non mi hai ancora detto perché sei qui. E…chi sono le tue accompagnatrici - fece un mezzo sorriso.- Perché la brunetta è vestita in quel modo strano?
Il Cacciatore chinò il capo, sospirando impercettibilmente. Stava esitando, si chiedeva se fosse opportuno rivelare a Belle la verità oppure no…ma d’altronde, lei era a tutti gli effetti un membro dei ribelli, e forse quella notizia avrebbe potuto risollevare un poco la sua speranza. Era solo questione di tempo, peraltro, prima che tutta la Ribellione lo venisse a sapere. Si fece più vicino a lei, in modo da poterle sussurrare in un orecchio.
- Si chiama Elizabeth. Lei è…è la Salvatrice.
Belle scattò all’indietro, colpendo rumorosamente la parete con le spalle, portandosi una mano alla bocca mentre alzava sull’uomo uno sguardo incredulo. Scosse il capo più volte prima di riuscire a mettere a fuoco la notizia.
- Che cosa? La Salvatrice? Sei…- bisbigliò.- Sei sicuro?
- Beh, a dire il vero, non ne sono del tutto certo…- a quella frase l’euforia della levatrice si smorzò un poco, ma Belle rimase comunque attenta a ciò che le stava dicendo.- E’ arrivata qui insieme a una sorella. Sono…le figlie di Richard Hadleigh. Ti ricordi di lui, vero?
- Certo - Belle fece una smorfia.- Come farei a dimenticarmene, dopo quello che ha combinato? E…dov’è ora, la sorella?
- Non lo so, e nemmeno lei. Ha detto di averla persa, sta cercando di ritrovarla. Ma la Regina Cattiva le vuole morte, entrambe…Questo, insieme al fatto che siano le figlie del traditore, è un chiaro segno che una delle due debba essere la Salvatrice.
Belle annuì, pensierosa.
- Sì, la profezia parla della progenie di un traditore…E il capitano Hadleigh è un traditore secondo solo a Vincent. Ma ora il problema è: chi delle due è la vera Salvatrice? Voglio dire, solo una di loro lo è, mentre l’altra…e se…e se la sorella fosse morta, o fosse stata catturata dalla Regina Cattiva, e la Salvatrice fosse lei e non quest’altra ragazza, allora come…
- Non corriamo troppo. Io so solo che questa ragazza ha già trovato una delle chiavi…
- Davvero?! Quale?
- Il sogno infranto. Ma…Belle, dobbiamo stare attenti. Presto la profezia parlerà di nuovo, e la Luna di Sangue si avvicina…anche la Regina Cattiva è sulle tracce della Pietra del Male, e vuole uccidere la Salvatrice e…ci resta ancora da scoprire dove i Pendragon abbiano intrappolato i fratelli Grimm - il Cacciatore si fece scuro in volto, mentre la levatrice annuiva lentamente, fissando il pavimento.
- Hai ragione. Non è solo la Pietra a essere nascosta, ma lo è anche la prigione di Jacob e Wilhelm - mormorò Belle.- Forse…forse potremmo…- si morse il labbro inferiore.- Merlino!- esclamò.- Lui lo saprà certamente! Anche lui era presente durante la Guerra Oscura, saprà senz’altro dove…
- Merlino è a Camelot, per il momento - disse il Cacciatore.- E…Belle, tu hai ragione: lui naturalmente lo saprà, ma non è più lo stesso della Guerra Oscura. E’ invecchiato, molto…le creature magiche, i maghi e le streghe vivono di più dei comuni esseri umani, ma anche loro prima o poi devono morire. E Merlino non ha più molte forze…è una cosa orribile da dire, lo so, ma presto potremmo non essere più nelle condizioni di contare sul suo aiuto.
- E allora cosa proponi di fare?- incalzò Belle; le parole del Cacciatore non le erano piaciute per niente: il suo amico aveva parlato come se il mago fosse già disteso su di una pira, pronta a essere arsa insieme alle sue spoglie, e anche mettendo da parte il fatto che a lei non piaceva parlare della morte, specialmente se questa non era ancora avvenuta, quel discorso nella sua mente presupponeva una resa che lei non aveva alcuna intenzione di prendere in considerazione.- Cosa vorresti dire con questo? Che se Merlino muore, allora tutti noi saremo condannati? Senza nemmeno provare a combattere? Che è inutile tentare almeno di contattarlo, o di individuare la prigione dei fratelli Grimm? Che tutto quello che stiamo facendo è destinato a fallire, e faremmo meglio ad arrenderci alla Regina Cattiva? Che…
- Non ho detto niente di tutto ciò. Belle, mi hai frainteso: volevo solo dire che Merlino è lontano, e che per raggiungere Camelot ci vorranno giorni, forse settimane intere, e in tutto questo tempo la profezia potrebbe parlare nuovamente e la Regina non smetterà certo di cercare le chiavi per arrivare alla Pietra. Potrebbe precederci e arrivare a risolvere gli enigmi prima di noi, e d’altra parte se anche raggiungessimo Camelot e trovassimo Merlino, non potremmo fare niente, senza la Pietra. Belle, se riusciamo a ricomporre i pezzi del labirinto prima della Luna di Sangue, allora non avremo neppure bisogno di cercare la prigione di Jacob e Wilhelm! Quei due maledetti resteranno dove sono per il resto dell’eternità, e la Regina Cattiva non potrà usare il loro potere contro di noi!
- Ma perché vuole riportarli indietro?- bisbigliò Belle, con rabbia repressa.- Non sa a cosa sta andando incontro? Non ricorda com’erano i Tempi Bui? Cosa facevano i fratelli Grimm?
- Dimentichi che non è della matrigna di Biancaneve che stiamo parlando. Anche se si fa chiamare Grimilde come lei, non…
- Io non sto dimenticando niente! Lo so che è una nuova Regina Cattiva a essere sul trono, ma chiunque fosse prima che prendesse il potere, sa di cosa sono capaci i Grimm! S’illude di poterli controllare, ma non sa a cosa sta andando incontro…
- Non credo che si stia illudendo. Per quello che ne sappiamo, forse possiede davvero un mezzo per controllarli, un mezzo di cui noi non siamo a conoscenza. Quanto al perché voglia il loro ritorno…non ti so rispondere, Belle, e spero di non esserne mai in grado…
La levatrice sospirò, abbandonando la parete contro cui era appoggiata e dirigendosi verso il corrimano della scala; vi piantò sopra i gomiti, fissando il vuoto di fronte a sé con le sopracciglia aggrottate.
- L’unica speranza che ci resta è che quella ragazza che sta con te sia veramente la Salvatrice, e riesca a recuperare tutte le chiavi…- mormorò a mezza voce; il Cacciatore la raggiunse, avvolgendole un braccio intorno alle spalle. Belle alzò lo sguardo su di lui, guardandolo come se avesse improvvisamente notato qualcosa di strano che prima non aveva visto. L’uomo inarcò entrambe le sopracciglia, perplesso.
- Che succede?- le domandò.
- Ehm…ti…ti senti bene?- domandò la levatrice, facendo correre lo sguardo prima sul suo volto, poi sull’intera figura. Aveva già notato quando l’aveva rivisto che c’era qualcosa di strano, ma sulle prime aveva pensato che fosse solo un’impressione dettata dalla troppa lontananza. Poi, questa era scomparsa a causa di tutta quella concitazione, lei che si doveva riprendere dal fatto di aver appena scampato la forca e lui che aveva delle informazioni importanti da darle, ma ora che entrambi erano più calmi si rendeva conto che qualcosa non andava: il Cacciatore era molto più pallido di quanto non fosse mai stato, con delle profonde occhiaie e un’espressione sofferente; era dimagrito, di molto, e l’intera sua figura emanava un senso di…debolezza.- Voglio dire, sei…sei molto pallido…
L’uomo sentì il sangue gelarsi nelle vene, ma sostenne lo sguardo di Belle, fingendo indifferenza.
- Sono due giorni che quasi non mangio e dormo nella Foresta Incantata. E’ naturale che sia un po’ emaciato…- si strinse nelle spalle con un sorrisetto di finta allegria.
- Davvero? Eppure non mi sembravi in cattiva compagnia…- ridacchiò la levatrice.- Anche se eri nella Foresta Incantata, due belle fanciulle come quelle che ti porti dietro dovrebbero lenire non poco la fatica…
- Belle, ti prego…!
- La bionda è carina - Belle ghignò, facendogli l’occhiolino.- Anche se non credo di andarle troppo a genio…temo che presto ti troverai un’amante gelosa fra capo e collo.
- Lei non è la mia amante, e nemmeno lo diventerà mai!- si schernì il Cacciatore, con un sorriso imbarazzato.
- Quante storie! Alla tua età non sei nemmeno sposato, non ti vergogni?!- rise la levatrice.
- Non oserei mai sposarmi prima di te…
- Allora caschi male, mio caro. Non l’hai ancora capito che io morirò zitella?- con questo, Belle si aprì in una risata liberatoria, iniziando a scendere velocemente le scale seguita dal Cacciatore.
La visione di loro due che ridevano e scherzavano come se nulla fosse fu quella che ebbero Cenerentola, Elizabeth e Gerda quando entrarono nella stanza del caminetto. La bionda inarcò un sopracciglio.
- Dovevate parlare di cose…importanti, vero?
- Sì…- soffiò il Cacciatore, ritornando serio in un battito di ciglia.- Questioni riguardanti…
- Madame Tremaine ripeteva sempre che la buona educazione vuole che si evitino sussurri quando si è in presenza di altri e che non è cordiale escludere terzi presenti da una conversazione. E’ una delle poche cose buone che ho appreso da lei.
A Elizabeth parve che la temperatura si fosse improvvisamente abbassata di almeno una decina di gradi. Il Cacciatore non replicò a quella che era una palese frecciatina, ma anzi sembrò interessato a dismisura a una seggiola posta contro la parete. Gerda si umettò le labbra. Belle mantenne stoicamente il sangue freddo e la faccia tosta.
- L’ora di pranzo è passata da diverse ore, ormai - disse gentilmente, con un sorriso.- Il Cacciatore mi ha raccontato che avete avuto diverse peripezie nella Foresta Incantata: il minimo che posso fare è offrirvi qualcosa di caldo, fintantoché sarete ospiti miei e di Gerda.
- Noi…non dovevamo cercare indizi riguardanti la Pietra del Male?- Cenerentola incrociò le braccia al petto, guardando il Cacciatore. Elizabeth non poteva che dirsi d’accordo con lei, ma non poté fare a meno di notare che la bionda si era lasciata sfuggire un particolare che implicava la Ribellione e la loro presenza a Salem; tuttavia, era chiaro che quelle due ragazze ne fossero già a conoscenza, quindi non se ne preoccupò più di tanto.
- Ah, ecco! Ora mi spiego il motivo della tua presenza qui!- Belle si voltò verso il Cacciatore.- Beh, possiamo aiutarvi, ma prima…venite, vi preparo qualcosa da mangiare. Mio padre diceva sempre che con lo stomaco pieno si ragiona a mente più lucida…
 
***
 
Il pranzo preparato da Belle consisteva in una minestra di patate riscaldata, ma era chiaro che avesse dato loro il meglio che aveva. Elizabeth aveva compreso al volo che quella casa forse un tempo era stata abitata da persone benestanti, ma che di queste rimaneva solo quella ragazza il cui nome le aveva immediatamente riportato alla mente un’altra favola – e si stata trattenendo a stento dal farle domande riguardo a essa. Sia lei sia il Cacciatore si erano avventati sul proprio piatto non appena la levatrice glielo aveva posto di fronte, al contrario di Cenerentola, che invece continuava a fissare le patate che galleggiavano nel brodo rigirandole con il cucchiaio con aria annoiata e vagamente disgustata. Gerda mangiava come un uccellino, quasi non toccò nulla.
- Allora…da dove intendete cominciare?- chiese Belle a un certo punto, spezzando un piccolo pezzo di pane; si rivolse soprattutto a Elizabeth.- Il Cacciatore mi ha detto che avete già trovato il sogno infranto. Siete stati molto bravi…
- Davvero?- fece Gerda, sollevando il capo di scatto e inarcando le sopracciglia. Cenerentola puntò uno sguardo a metà fra l’accusatorio e l’allibito in direzione del Cacciatore. L’uomo si schiarì la voce.
- Belle è un membro della Ribellione, e così anche il marito di Gerda - disse, come a giustificarsi.- Ho ritenuto giusto informarle.
Cenerentola fece una smorfia di disappunto, ma non replicò. Elizabeth si stava chiedendo perché mai lei e sua sorella non se ne fossero fregate di quel distintivo e non fossero rimaste a casa, quella sera in cui erano finite nel Regno delle Favole. Si schiarì nervosamente la voce.
- Avevamo…avevamo pensato di cercare qualcosa…- mormorò, sentendo che era arrossita; le capitava spesso, quando doveva parlare con persone che non conosceva.- Speravamo di trovare…delle biblioteche o degli archivi, qui…dove…dove poter cercare…
- Biblioteche e archivi?- negli occhi della levatrice spuntò una luce di amara allegria.- Qui a Salem? Mi dispiace deludervi, ma questo villaggio non tiene molto in considerazione i libri e la cultura…
- Ma…dovrete pur avere qualcosa - insistette il Cacciatore.- Oppure…Belle, tu hai più libri di quanti ne avrebbe una biblioteca…non potresti…
- Lo farei più che volentieri, ma purtroppo i miei libri sono molto…particolari - Belle chinò il capo, chiaramente evitando di continuare; a Elizabeth non sfuggì lo sguardo che si scambiarono lei e Gerda.- Dubito che troveremmo quello che cerchiamo.
- Ci interesserebbe sapere che cos’è la bellezza nella morte - mormorò Elizabeth.- E…anche il riflesso della verità.
- La profezia ha parlato nuovamente, quando abbiamo trovato lo specchio infranto - spiegò il Cacciatore.- Crediamo che sia una nuova chiave.
- Ora che ci penso, il borgomastro ha qualche libro, ma è molto difficile che li metta a disposizione - Belle guardò Elizabeth.- Non fraintendetemi, ma…avrete compreso da voi che questa città è molto superstiziosa. Gli stranieri non sono molto ben visti…
- Faremo un tentativo - dichiarò il Cacciatore, ingoiando un cucchiaio di minestra.- Da dove potremmo cominciare, secondo te?
- Beh, la moglie del borgomastro è la locandiera…- mormorò la levatrice.- Magari potreste partire da lì. E’ una brava donna, una mano potrebbe darvela. La locanda è La meravigliosa incantatrice, appena fuori dalla piazza principale. Potreste cominciare da là, come primo passo…io intanto vedrò di dare un’occhiata ai miei libri, magari non è detto che non ci sia nulla…Mi vorrete scusare se non vengo con voi - ridacchiò con amarezza.- Ma credo che se vi vedessero in compagnia di una…presunta strega, non vi farebbero neppure entrare.
- Non preoccuparti, Belle. E grazie - il Cacciatore sorrise.- E…
Qualcuno bussò alla porta, coprendo le restanti parole dell’uomo. Tutti i presenti si zittirono, e Gerda fece cadere il cucchiaio sul pavimento per la sorpresa. Trascorsero alcuni secondi, quindi bussarono ancora, più a lungo e con più energia.
Gerda guardò Belle con preoccupazione.
- Chi…chi pensi possa essere?- pigolò.
La levatrice non rispose, ma si alzò velocemente da tavola e si diresse a passo spedito verso la porta. Il Cacciatore la imitò, seguendola a ruota. Elizabeth esitò, rimanendo ancora un paio di secondi seduta, quindi si alzò anche lei, correndo loro dietro.
I colpi contro il legno si fecero più insistenti; Belle afferrò il pomello e lo girò, socchiudendo appena la porta per sbirciare chi ci fosse all’esterno, ma non appena riconobbe la sagoma attraverso lo spiraglio, immediatamente tentò di richiudere il battente.
- Ancora tu!- strillò.
L’uomo all’esterno glielo impedì, prima facendo forza contro di essa con le braccia e infine bloccandola insinuando lo stivale fra il bordo e lo stipite della porta. Belle cercò di prendere il legno a spallate, ma lui era più forte.
- Vattene!- ringhiò, lanciandogli uno sguardo di fuoco attraverso lo spiraglio.- Vattene! Questa è casa mia, non hai il diritto di entrare!
- Apri! Mi manda il borgomastro!
- Sono stata riconosciuta innocente! Vattene via!
- Ho detto di aprire!
Il Cacciatore cercò di raggiungere a sua volta la porta per aiutare l’amica, ma prima che potesse farlo Belle cedette sotto le spinte dell’uomo, il quale spalancò il battente con un colpo secco. La levatrice barcollò, indietreggiando quasi fino a raggiungere Cenerentola, Elizabeth e Gerda che se ne stavano tutt’e tre in piedi sulla soglia della cucina; l’ultima si teneva una mano sul grembo.
Il Cacciatore sollevò lo sguardo, incrociando quello dell’uomo che avevano incontrato quella mattina sulla forca, il cacciatore di streghe che Belle aveva identificato come Hansel.
Questi entrò in casa come se nulla fosse, sistemandosi sbrigativamente alcune pieghe del cappotto, quindi puntò su Belle uno sguardo di fuoco.
- Sei fortunata che io voglia passare sopra a quest’inconveniente: potrei anche decidere di farti arrestare per avermi opposto resistenza!
- Questa è casa mia!- ringhiò la levatrice, andandogli incontro inviperita, del tutto sorda a quella minaccia.- Ho il diritto di far entrare chi voglio! Vattene immediatamente, se non vuoi che…
- Che cosa? Che mi scagli addosso uno dei tuoi malefici?- sputò fuori Hansel: c’era un modo in cui guardava Belle che non era né odio né paura, ma solo profondo e radicato disgusto, come se la ragazza fosse stata un insetto da schiacciare. La levatrice si rabbuiò.
- Sono stata riconosciuta innocente…- sibilò.
- No. La tua pena capitale è stata solo temporaneamente sospesa in attesa che io trovi altre prove a tuo carico, ma quando ciò accadrà sta’ pur certa che nessuno ti potrà salvare dalla forca - Hansel infilò una mano all’interno del cappotto, estraendone una pergamena sigillata con un timbro in cera rosso fuoco, quindi la gettò ai piedi di Belle.- Sai leggere, strega?- le domandò mentre lei si chinava a raccoglierla.- Questa è una lettera del borgomastro, scritta di suo pugno. Ti ordina di non lasciare Salem fino a che non ti sarà esplicitamente permesso, inoltre sei sollevata dalla tua attività di levatrice sino a data da definirsi.
- Che cosa?!- gridò Belle, a metà fra lo sgomento e il furioso.- E come farò a vivere? Io mi mantengo con quel lavoro, mio padre è malato…
- Avresti potuto pensarci prima di iniziare a praticare la arti oscure - Hansel si aprì in un ghigno un po’ sghembo, ma ritornò subito serio; la levatrice stava per dire qualcos’altro, ma l’attenzione del cacciatore di streghe si era spostata su Gerda. Hansel si soffermò in particolar modo sul ventre arrotondato della ragazza, quindi la guardò negli occhi.
- Signora, vi chiedo di lasciare questa casa.
Lo disse in modo talmente piatto e allo stesso tempo talmente perentorio da togliere il fiato ai presenti. Gerda impiegò qualche secondo per mettere a fuoco le parole, ma poi scosse il capo con forza.
- No, non posso.
- Certamente potete. Non abbiate timore, vi scorterò io stesso presso la moglie del mugnaio. Lei ha già nove figli, saprà prendersi cura di voi molto meglio di questa strega.
- Quella vecchia sgualdrina ubriaca?!- insorse Belle, fuori di sé: Elizabeth vide che era pallida e madida di sudore, e le mani le tremavano per la rabbia.- E’ lei che avete scelto al posto mio? Farà morire tutti i neonati, quell’incapace…
- Sarà sempre meglio di una strega come voi.
Belle incassò il colpo, ma subito dopo marciò in direzione di Hansel come una furia. Lo afferrò per il bavero della casacca, in modo che il volto del cacciatore di streghe fosse a pochi centimetri dal suo.
- Stammi a sentire, razza di idiota!- sibilò.- Non me ne importa niente se mi credete una strega e m’impedite di fare il mio lavoro, ma Gerda non si muove da qui! E’ incinta, è debole, ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei e di stare tranquilla, e tu non stai facendo altro che metterla in agitazione con il tuo berciare, maledetto figlio di una cagna…!
- Toglimi le mani di dosso, strega!- ruggì l’uomo, divincolandosi dalla presa di Belle.
- Io non me ne vado!- pigolò Gerda, con tutta la poca forza che aveva.- Non posso andarmene! Mio marito è lontano, è Belle che si prende cura di me e del bambino. Sto bene qui con lei, non mi ha mai fatto mancare niente…
- Come volete, ma non dite che non vi avevo avvisato - Hansel provò a ricomporsi, tornando a guardarla.- State mettendo la vita vostra e del vostro piccolo nelle mani di una strega, sappiate questo. In ogni caso, qualora cambiaste idea, potete sempre contare sull’aiuto mio e del borgomastro.
- Che i Grimm vi squartino vivi, tutti e due!- ringhiò la levatrice a mezza voce.
Hansel spostò la sua attenzione sulle altre tre persone presenti nella stanza: liquidò velocemente Cenerentola, ma si soffermò a lungo prima su Elizabeth, quindi sul Cacciatore. A quest’ultimo rivolse un’occhiata rabbiosa.
- Mi ricordo di voi. Vi rendete conto del fatto che avete preso le difese di una strega? Potreste essere condannato a morte anche voi, per questo.
- Ho solo fatto ciò che mi sembrava più giusto - rispose il Cacciatore, tranquillamente.- Piuttosto, ho udito quello che il borgomastro vi ha detto, stamattina in piazza. Non dovreste continuare ad additare Belle come una strega, se non ne avete le prove. E io ho la piena fiducia nella sua innocenza - accompagnò quest’ultima frase con un sorriso complice e un’occhiata eloquente rivolta alla levatrice, che ricambiò appieno.
- Comunque - proseguì Hansel imperterrito, fingendo di non aver sentito.- Consiglio a tutti voi di non rimanere ulteriormente in questa casa. Ho parlato con il borgomastro, ed egli si è dichiarato disposto a ospitarvi nella locanda del villaggio, in modo che non dobbiate trascorrere la notte in compagnia di questa strega.
- Ehi, ma come ti permetti?!- lo riprese Belle.- Questa è casa mia, posso ospitare chi voglio! Di’ a quel vecchio che…
- Accetteremo molto volentieri, grazie - il Cacciatore le parlò sopra, per poi voltarsi e lanciarle un’altra occhiata d’intesa che lei colse al volo. Elizabeth non fu da meno: non le era sfuggita la parola locanda.
- Molto bene. Un’ultima cosa…- Hansel estrasse dal cappotto un’altra pergamena, ma stavolta la svolse, porgendola loro con un calamaio e una piccola piuma d’oca.- E’ legge a Salem che gli stranieri registrino il loro nome, legge resa ancora più necessaria dai tempi in cui ci troviamo a vivere.
Ci fu qualche istante di silenzio, quindi Cenerentola annuì: fu la prima a farsi avanti, e firmò. Elizabeth si sporse spudoratamente per poter vedere: la bionda non aveva scritto il suo nomignolo, naturalmente, ma aveva firmato con quello che doveva essere il suo nome di battesimo. La ragazza non riuscì a decifrare il cognome, ma lesse chiaramente il primo nome: Ella.
Cenerentola si scostò per lasciarle il posto, quindi toccò a lei firmare: scrisse Elizabeth Hadleigh con una calligrafia a zampe di gallina e fece anche cadere una macchia d’inchiostro sulla pergamena.
Quando fu il turno del Cacciatore, questi rimase immobile fermo al suo posto per diversi istanti, mordendosi l’interno di una guancia. Hansel lo guardò come a incitarlo a sbrigarsi.
Infine, l’uomo si avvicinò e afferrò la piuma d’oca con evidente impaccio. A Elizabeth parve quasi che non sapesse nemmeno bene come si tenesse in mano. Alla fine, il Cacciatore tracciò una tremolante croce accanto alle due firme delle ragazze.
Hansel guardò quella X mal scritta, e sogghignò con cattiveria.
- Naturalmente. Avrei dovuto immaginare che un uomo come voi non sapesse scrivere.
Il Cacciatore avvampò, puntando lo sguardo sul pavimento, reazione che a Elizabeth fece avvertire una stretta al cuore. Da quel poco che lo conosceva, aveva sempre visto il Cacciatore come dotato di una personalità decisa, calma e forte allo stesso tempo, e vederlo vacillare in quel modo le faceva uno strano effetto. Guardò Cenerentola: era impallidita.
- Molto bene. Seguitemi, vi faccio strada.
Elizabeth si voltò, salutando con un cenno del capo e un sorriso accennato sia Belle sia Gerda; si sarebbe aspettata che anche il Cacciatore facesse lo stesso, e invece l’uomo era così avvilito che uscì dalla porta principale senza nemmeno girarsi.
 
***
 
Il gatto nero era accucciato in un angolo del cortile, appena sotto un salice piangente. Il gatto a strisce grigie gli si avvicinò, stuzzicandogli la coda con una zampa, al che il primo felino soffiò rabbiosamente nella sua direzione, facendolo fuggire via.
Il gatto nero si rizzò sulle zampe, e queste cominciarono ad allungarsi lentamente. Il felino si resse sugli arti posteriori, assumendo una posizione eretta a mano a mano che il suo corpo continuava a cambiare. La coda scomparve, e il pelo si trasformò in un lungo abito nero.
Gretel scosse il capo, facendo ondeggiare i capelli castani al vento.
- Stupida bestiaccia!- ringhiò, rivolta al gatto grigio che, tuttavia, era già sparito dalla sua visuale.
Guardò il cielo: il sole stava calando, e presto la notte sarebbe stata vicina.
 
***
 
Belle sospirò, poggiando la fronte bollente contro il vetro della finestra, beandosi di quella poca frescura contro le sue tempie imperlate di sudore. Era rimasta a guardare il Cacciatore e la Salvatrice allontanarsi in compagnia della bionda e di Hansel, e ora erano tutti e quattro spariti dietro le case del villaggio.
- Gliel’hai detto?- chiese Gerda alle sue spalle, seduta su una seggiola mentre si accarezzava piano il ventre. Belle la guardò con aria interrogativa.
- Che cosa?
- Al Cacciatore…gliel’hai detto?- insistette l’altra.
La levatrice sospirò nuovamente, scuotendo il capo.
- No. Ho pensato di farlo, a un certo punto, ma…ho preferito lasciar perdere.
- Temevi che potesse pensar male di te? Il Cacciatore è un uomo buono!
- Lo so, Gerda, ma non voglio comunque che lo sappia. Non sono cose che si possono rivelare ai quattro venti, queste. Hai visto come ha reagito la gente di questo villaggio…
- Tu non pratichi la magia oscura, Belle. E le persone lo sanno, te lo hanno dimostrato.
- Ma non durerà, Gerda. Presto, anche se non ne avranno le prove, tutti m’indicheranno come una strega. Il pregiudizio a volte è più forte della verità.
- E che farai, se dovesse accadere?
- Io…- Belle guardò un’altra volta fuori dalla finestra.- Io non lo so, Gerda. Davvero, non lo so.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Questo capitolo è un po’ noiosetto, lo so, ma dal prossimo mi farò perdonare. Ah, il prossimo sarà molto breve, lo pubblicherò verso la fine della settimana e mi discosterò un attimo dall’atmosfera di Salem per spostarmi altrove. Non preoccupatevi, a Salem non abbiamo ancora finito e Gretel entrerà in scena dal prossimo ancora, ma non sarà la sola vicenda a essere trattata in questo lasso di tempo…sarà una luuunga notte per tutti, questa ;).
Ringrazio SognatriceAocchiAperti, x_LucyW e Sylphs per aver recensito :).
Ciao, al prossimo capitolo!
Beauty

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Capitolo 31
*** Human ***


Human
 
La notte non era ancora del tutto calata, dal momento che all’orizzonte s’intravedeva ancora una sottile striscia arancione che andava via via scomparendo oltre la superficie del mare, ma Ariel non ebbe la pazienza di attendere oltre, e quando il buio scese completamente lei si trovava in prossimità della spiaggia già da un’ora. Era rimasta a lungo nascosta dietro degli scogli alti e appuntiti in modo da poter celare la sua presenza a occhi indiscreti: non erano tanto le storie di Re Nettuno sul Mondo di Sopra e i suoi abitanti che la spaventavano – sebbene ancora fosse indecisa se crederci o meno – quanto il fatto che la Jolly Roger si trovava a pochi metri dalla costa, con l’ancora gettata. La nave era rimasta ferma per una giornata e mezza dopo quella terribile tempesta, Ariel supponeva per la necessità di riparare i danni che il tifone aveva provocato – oppure per permettere al giovane capitano di riprendersi da quella brutta avventura.
Al suo ricordo, la sirenetta arrossì vistosamente, lasciandosi sfuggire un sorrisetto sognante: sapeva che era stata attenta e fin troppo veloce perché lui avesse potuto vederla, ma nella sua mente le piaceva fantasticare che si ricordasse di lei, che magari in quel momento si trovasse sul ponte della nave a pensarla e a chiedersi dove fosse.
Era un’idea assurda, sì, ma che scaldava il cuore come non mai.
Ariel si assicurò che non vi fosse nessuno nei paraggi, quindi abbandonò il suo nascondiglio e nuotò rapidamente verso la spiaggia. Quando giunse quasi alla riva nuotare si fece più difficile, data l’acqua bassa, ma alla fine la sirenetta riuscì a trascinarsi fino al bagnasciuga e a distendersi con il busto sulla sabbia e la coda ancora immersa nelle onde.
Si scostò all’indietro i lunghi capelli rossi, inspirando a fondo e chiudendo gli occhi. Aveva progettato e sognato quel momento a lungo – precisamente dal primo momento in cui aveva visto il capitano della Jolly Roger, anche se i dettagli avevano iniziato a prendere concretezza da quando gli aveva salvato la vita –, ma ora che era arrivato i dubbi avevano iniziato ad assalirla. Non era tanto il fine di quella gita notturna in superficie – ormai aveva deciso, sapeva ciò che voleva –, quanto piuttosto il mezzo che sarebbe stata costretta a impiegare per raggiungere il suo scopo.
Certo, lei era un’amante dell’avventura, forse anche una testa matta come le rimproveravano sempre suo padre e le sue sorelle, ma non era tanto stupida da gettarsi a capofitto in una vicenda che avrebbe potenzialmente potuto metterla nei guai. Ma in quel caso non aveva altra scelta, soprattutto visto e considerato che la soluzione al suo problema le era piombata sulla testa per puro caso.
Aveva udito una delle tante conversazioni fra le sue sorelle. Raluka stava raccontando a Ondina e Perla una leggenda del Mondo di Sopra – checché ne dicessero, anche loro erano piene di curiosità nei confronti della terra degli umani –, una leggenda che parlava di un potente stregone che, nei momenti più disperati di una persona, giungeva in suo soccorso e le proponeva la salvezza in cambio di un piccolo pagamento di sua scelta.
Quando Raluka aveva fatto anche il nome del suddetto stregone, Ariel aveva sentito di possedere abbastanza materiale fra le mani per mettere realizzare il suo desiderio.
E ora eccola lì, scappata di casa di nascosto la notte, distesa sul bagnasciuga ad attendere lo stregone di cui aveva parlato sua sorella. Aveva dato parecchie cose per scontate – lei in quel momento si sentiva sufficientemente disperata, e se quest’uomo giungeva nei momenti di disperazione, beh, che stava aspettando? –, ma adesso si rendeva conto che c’era qualcosa che non andava.
Come avrebbe fatto quello stregone a raggiungerla, a sapere dov’era lei?
Ariel si schiarì la voce, cercando di ricordare il suo nome.
- Tre…- mormorò, con uno sforzo di memoria.- Tre…Trem…Tremo…Tremotino?- chiese infine all’aria, ricevendo in risposta solo il suo flebile eco. La sirenetta sbuffò, sistemandosi meglio sul bagnasciuga. Quello le sembrava il nome giusto, ma non ne era del tutto sicura.
Provò a fare un tentativo.
- Tremotino!- chiamò, e di nuovo il proprio eco fu l’unico suono che la raggiunse.- Tremotino, io t’invoco!- ripeté, cercando di imitare la voce imperiosa di Re Nettuno, con scarsi risultati.
La sirenetta rimase in ascolto per qualche istante, ma non accadde nulla. Sospirò nuovamente, mettendosi in attesa: forse, ci voleva solo un po’ di tempo, ma alla fine sarebbe arrivato…giusto?
 
***
 
Non le sembrava vero che fosse trascorsa già un’intera giornata, e che adesso fosse di nuovo notte. Le ventiquattr’ore che aveva trascorso praticamente isolata al campo dei ribelli erano state stranamente lunghe, come se il tempo avesse rallentato il proprio corso. Dopo l’incubo che aveva avuto su sua madre – non ne faceva più da quando aveva dodici anni –, Anya aveva tentato di darsi una scrollata, uscendo dalla tinozza, asciugandosi alla bell’e meglio e indossando i vestiti che Madama Holle le aveva portato. Questi non erano altro che un abito color prugna lungo fino ai piedi e con le maniche svasate, più biancheria intima e un corsetto. A quest’ultimo, Anya aveva lanciato un feroce sguardo di sfida dopo esserselo rigirato fra le mani per più di mezz’ora, prendendo infine la definitiva e irrevocabile decisione di non provare nemmeno ad allacciarselo. Non aveva idea di come funzionasse, ma aveva visto diversi film in costume in cui la gentil donzella come minimo sveniva perché soffocata dal suddetto corsetto. Immaginò sé stessa capitolare miseramente addosso a qualcuno per la mancanza d’ossigeno, e fu abbastanza da indurla a lasciar perdere.
Il vestito non le piaceva, la gonna era troppo stretta e lei non riusciva a camminare speditamente come avrebbe voluto. Madama Holle le aveva promesso di farle avere un cambio, ma Anya abbandonò ogni speranza quando la donna la mattina seguente le consegnò un affare tutto pizzi e merletti.
L’anziana signora l’aveva attesa fuori dalla capanna in cui era stato allestito quel bagno improvvisato, e l’aveva accompagnata fino a quella che aveva definito la sua tenda: anche quest’ultimo fatto fu indice per Anya che in quel luogo, se non tutti quanti, almeno Madama Holle e Kay avevano intuito che lei poteva essere la Salvatrice – sbagliandosi in pieno. L’aveva compreso quando la donna le aveva comunicato che lei avrebbe avuto una tenda singola, mentre tutte le altre ragazze dormivano insieme, in una sorta di camerata, oppure in due o tre per tenda. Anya non sapeva niente di come funzionasse un’associazione di rivoltosi, ma certo quello era un riguardo non da poco, specialmente per una sconosciuta.
Madama Holle le consegnò un sacchetto dove, Kay aveva ordinato, lei avrebbe dovuto custodire la chiave, raccomandandosi di prestare la massima attenzione. Anya infilò la bellezza nella morte nel sacchetto, non sentendosi più molto sicura di volerla tenere da sé, ma non disse nulla.
La sua tenda era provvista di tre coperte in cui lei si era avvolta per dormire, e nient’altro. Prima di andare via, Madama Holle le aveva dato una candela e tre fiammiferi per la notte, che Anya non aveva utilizzato. Aveva provato a chiedere come stesse Vincent, ma la donna le aveva risposto semplicemente che l’effetto del veleno sembrava essersi estinto e che ora lui stava dormendo.
Anya non aveva creduto che sarebbe riuscita a riposare, quella notte, non dopo il sogno che aveva fatto, e infatti si addormentò solo quando ormai era l’alba, con la conseguenza di rimanere a ronfare nella sua tenda per tutto il resto della giornata. Si era svegliata solo nel tardo pomeriggio quando Madama Holle era venuta a vedere se per caso non fosse morta nel sonno.
Aveva appena fatto in tempo a mettere il naso fuori dalla tenda che il coprifuoco, annunciato da Brontolo, era scattato nuovamente. E ora eccola lì: senza aver visto praticamente nulla del campo dei ribelli, inginocchiata nella sua tenda, con lo stomaco vuoto, Vincent ancora fuori gioco e nessuna stanchezza.
Madama Holle si affacciò sulla soglia della tenda, scostando lievemente la stoffa grezza per infilare il capo all’intero. Sorrise, passando ad Anya una seconda candela.
- Ho visto che non hai utilizzato quella che ti ho dato ieri sera, cara - osservò, scoccando un’occhiata alla cera intatta e ai fiammiferi ancora inutilizzati. Anya scosse il capo in segno di diniego.
- Non ne ho avuto bisogno - spiegò.- Sono andata a dormire subito.
- Oh, ma da stanotte in avanti sarà meglio che l’accendi, per il tuo bene - insistette Madama Holle.- E’ un nuovo ordine di Kay: ogni sera, prima che cali il buio, a tutti vengono distribuiti dei fiammiferi e una candela, da esporre accesa all’esterno della propria tenda. E’ per precauzione, sai…abbiamo appreso di recente che l’Uomo Nero è stato liberato, e con lui in giro la notte non è mai sicura.
Al ricordo di quella sagoma scura con gli occhi rossi Anya rabbrividì, sentendo ritornare la paura: quell’esperienza era stata terrificante almeno quanto quella vissuta al Castello di Rovi, e di certo non aveva alcuna intenzione di ripeterla. Annuì con forza, prendendo la candela dalle mani di Madama Holle e accendendo un fiammifero. La sistemò all’esterno della tenda, con cura in modo che non cadesse e non troppo vicina alla stoffa: aveva come la sensazione che quella notte non avrebbe chiuso occhio per continuare a controllare ogni dieci secondi che non si spegnesse.
Madama Holle sorrise compiaciuta.
- Brava, cara. Domani mattina spero che sarai ben riposata, così potrò farti fare un giro del campo e spiegarti le regole.
- Quali regole?
- Ci sono dei regimi e dei turni che dobbiamo rispettare, tutti noi. Ognuno ha i propri compiti, e tutti devono collaborare. Non preoccuparti, tesoro: vedrai che farai presto conoscenza. C’è brava gente, qui.
Anya annuì nuovamente, più per cortesia che per vera e propria convinzione. Madama Holle le augurò la buona notte, quindi se ne andò.
Ormai fuori era completamente buio: Anya riusciva a malapena a scorgere la fiammella della propria candela oltre la stoffa scura della tenda. Sospirò, stendendosi sotto quell’ammasso di coperte: ne aveva impiegata una in modo che fungesse da materasso di fortuna, ma la scomodità del terreno si faceva comunque sentire. Una fottuta pietra appuntita continuava a pungerla all’altezza della colonna vertebrale, e poi aveva dormito per tutta la giornata, il sonno le era passato del tutto. A differenza del ricordo di quegli occhi gialli che erano stati applicati al volto di Christine Hadleigh.
Sua madre le era apparsa in sogno esattamente come se la ricordava durante l’ultimo periodo: c’era stato un tempo, quando la mamma stava bene, in cui era anche una bella donna, ma poco prima che sparisse nel nulla il suo volto era divenuto magro e pallido, con profonde e marcate occhiaie, circondato da capelli neri che una volta erano sempre lisci e ben pettinati, ma che ora erano arruffati, sporchi e trascurati. Negli ultimi tempi – almeno, questo era ciò che aveva sentito raccontare da suo padre agli psicologi che si prendevano cura di loro due, non è che lei si ricordasse troppo bene questi dettagli, era troppo piccola –, Christine aveva smesso totalmente di curarsi di sé stessa. Sempre stando a quanto diceva Richard, prima era una donna non solo attiva e solare, ma anche molto attenta alla cura della propria persona: non era vanitosa, almeno supponeva, ma ripeteva sempre che ci teneva a essere in ordine, con i capelli a posto e vestita in modo dignitoso e non trasandato. A quanto pareva, neppure durante le due gravidanze aveva mai smesso di mettersi lo smalto sulle unghie o di truccarsi quando lei e suo padre dovevano uscire, forse per timore di apparire brutta di fronte al marito. Anya aveva dei vaghi ricordi in cui, quando sua madre usciva dal bagno con addosso un vestito nuovo o un make-up diverso dal solito e chiedeva a Richard che ne pensasse, se lui esitava anche solo una frazione di secondo in più per risponderle, lei subito si agitava e gli diceva prontamente che, se voleva, poteva sempre andare a cambiarsi. Forse non era un atteggiamento che suggeriva troppa sicurezza in se stessi, ma se non altro quelli erano modi di fare normali, niente che facesse presagire ciò che le sarebbe successo. Quale donna non avrebbe voluto piacere a se stessa e agli altri, anche in questioni così superficiali?
E invece, quando era andata fuori di testa – sì, proprio così, fuori di testa – si era lentamente lasciata andare. Vagava per casa con lo sguardo perso nel vuoto, mugolando sottovoce fra sé e sé, quasi non vedeva lei e sua sorella, e dedicava loro al massimo uno sguardo distratto – questo prima che cominciasse la seconda fase, come Anya la definiva nella sua mente, quella seconda fase in cui a farla da padrone erano le crisi isteriche e le sberle rifilate senza motivo.
Christine rimaneva anche giornate intere con addosso solo il pigiama, sempre chiusa al buio nella sua stanza, distesa a letto con il volto affondato nel cuscino, a dormire o a piangere. Un paio di volte lei e Liz l’avevano sentita sussurrare al vuoto che voleva morire, e qualcos’altro che nessuna delle due era riuscita a decifrare.
Christine voleva morire, e probabilmente sarebbe anche riuscita nel suo intento, se papà non si fosse preso cura di lei. Da quando lei era scivolata in quello stato, era stato sempre Richard a occuparsi di sua moglie. Lei si faceva tirare su di peso dal letto, protestando a mezza voce, ma alla fine si lasciava trascinare dove voleva suo marito: papà la vestiva, la spronava a uscire almeno dalla camera da letto, faceva tutto al posto suo. Era lui che si occupava di farle il bagno, lavandole i capelli e passandole la spugna con tutto il corpo mentre lei se ne rimaneva immobile seduta nella vasca, rannicchiata su se stessa e lo sguardo fisso. Le dava da mangiare: Anya non aveva mai assistito a questa scena, ma un giorno, mentre era in camera sua a giocare, Elizabeth era trotterellata dentro e le aveva tirato una manica del maglione.
- Ehi, Anya…perché papà sta imboccando la mamma come fa con me quando non voglio mangiare?
Richard aspettava che loro due avessero terminato il pranzo o la cena, quindi si sedeva accanto a Christine e l’imboccava piano piano, proprio come una bambina piccola, in modo che non digiunasse come invece avrebbe fatto se fosse stata sola.
Di tanto in tanto, durante quel primo periodo, la mamma aveva qualche momento di lucidità, in cui sembrava riemergere dal proprio torpore e, anche se si vedeva che stava male, trovava comunque la forza di fare loro un sorriso o di entrare nella cameretta a guardarle mentre giocavano con le Barbie.
Poi, invece, tutto era peggiorato, e lei era impazzita del tutto, diventando quel mostro che aveva cercato di far loro del male.
(Anya! Vieni subito qui!)
Mamma, no!
(Bambina cattiva!)
La proiezione onirica di Christine la notte precedente non era altro che la sosia della Christine di quell’ultimo periodo, prima che sparisse, l’immagine paurosa e malefica di una donna divorata dalla depressione e dagli psicofarmaci.
Anya serrò gli occhi nel tentativo di non pensare a sua madre e di provare almeno ad addormentarsi ma, se il primo proposito venne portato a termine tutto sommato quasi subito, per il secondo non c’era verso di trovare una soluzione. Volse il capo in direzione della candela: la fiammella continuava a intravedersi oltre la stoffa della tenda, ma alla ragazza sembrò molto più flebile di quando l’aveva accesa. Si tirò su a sedere in fretta, gattonando sino all’uscita: si assicurò che la fiamma non stesse per spegnersi, ma una lieve brezza notturna la fece tremolare in modo pericoloso. Anya afferrò la candela con una mano, ponendo l’altra a coppa e portandola accanto alla fiammella per proteggerla dall’aria.
Doveva essere trascorsa sì e no mezz’ora da quando l’aveva accesa, e già cominciava a dare segni di cedimento a causa di un po’ di vento: poco ma sicuro, si sarebbe spenta prima dell’alba.
Anya si guardò intorno: esattamente come le aveva spiegato Madama Holle, tutte le tende circostanti recavano al loro esterno delle candele accese, ma la ragazza notò che molte di esse erano già parzialmente consumate, alcune addirittura fino a metà. Due o tre invece si erano del tutto spente. Anya smodo da poter tenere alla larga l’Uomo Nero, e l’accampamento silenzioso e illuminato le ricordava molto uno di quei santuari che la notte di Halloween venivano rischiarati con le luci delle zucche intagliate. Sarebbe bastato? Anche se la luce c’era, e due candele spente non avrebbero fatto molta differenza, sarebbe stata sufficiente a tenere alla larga l’Uomo Nero?
Anya cercò di rassicurarsi con il pensiero che, quando se l’erano trovato di fronte, Vincent l’aveva allontanato con il solo fuoco di una torcia, e dunque…
Vincent!
Si riscosse, ricordandosi che lui era ancora in infermeria, e che non aveva avuto altre sue notizie se non quella, breve e concisa, da parte di Madama Holle. Anya ritornò velocemente dentro la tenda, s’infilò gli stivali e quindi uscì nuovamente, tenendo con attenzione la candela in mano, e iniziando ad avviarsi verso la baracca che fungeva da ospedale.
 
***
 
Tremotino si era preso il suo tempo, e non si faceva alcun problema ad ammetterlo. In genere era lui che si faceva vivo quando qualcuno aveva bisogno di essere tirato fuori dai guai, era ben raro che una persona l’invocasse di propria spontanea volontà – il mondo era molto meno pieno di stupidi di quanto avesse immaginato. Comunque, stavolta era capitato e, sebbene dubitasse seriamente dell’intelligenza della sirenetta ma non per questo fosse meno ansioso di conoscerla, restava pur sempre convinto che era lui a decidere se farle un favore o meno, il che significava che sarebbe andato da lei quando più gli sarebbe aggradato.
E in quel momento aveva altro da fare: stava leggendo un volume oltremodo interessante.
Non utilizzava quasi mai la biblioteca del suo castello, ma ciò non voleva dire che questa non fosse ben fornita. Erano tutti libri di magia, erboristeria e incantesimi, ed era stato proprio uno di questi che aveva cercato dopo il suo fallito tentativo di spedire James Hook a dormire con i pesci aveva scombinato i suoi piani. O meglio, dopo che la figlia di Re Nettuno e le sue graziose pinne li avevano scombinati.
Ed era stato proprio riguardo a lei e alla sua razza che aveva deciso di leggere. E aveva scoperto qualcosa che mai avrebbe immaginato.
Aveva scorto un paragrafo scritto con caratteri minuti, quasi a volerne impedire la lettura, e Tremotino non aveva faticato troppo per comprendere il perché: a quanto pareva, le uniche capacità delle sirene non erano solo cantare e salvare i pirati da una tempesta che avrebbe dovuto farli annegare.
Già, perché le sirene vedevano il futuro.
Non proprio. Non così chiaramente, almeno. Il paragrafo era molto corto ed estremamente conciso, e lo stregone aveva impiegato diverso tempo prima di riuscire ad afferrarne il contenuto nei minimi dettagli: se si trovavano in una condizione di particolare tranquillità e quiete corporea e mentale – e specialmente se nel loro ambiente naturale, dunque l’acqua –, le sirene potevano avere delle fugaci visioni di ciò che sarebbe accaduto in futuro. Queste erano molto rapide ed estremamente confuse – e c’era da aspettarselo: erano sirene, non chiromanti – e mai del tutto certe, dal momento che il futuro poteva essere cambiato drasticamente da ogni minima scelta, inconveniente o dettaglio. Ma era sempre meglio di nulla.
Tremotino ci aveva riflettuto a lungo, ponderando attentamente i pro e i contro. Non sarebbe stato semplice leggere il futuro – lui stesso ci aveva provato, quando ancora era sotto la tutela di Merlino, ma aveva rinunciato a causa della confusione che tutte quelle immagini fosche gli provocavano – e per di più un futuro incerto, che avrebbe potuto cambiare nel giro di pochi secondi e in maniera del tutto imprevedibile. Ma avrebbe comunque potuto procurargli dei vantaggi: certamente, la mente della sirenetta non avrebbe potuto predirgli come si sarebbe conclusa quella che stava diventando la Seconda Guerra Oscura, né se sarebbe riuscito a riportare indietro i fratelli Grimm, ma quantomeno dargli indicazioni su quali sarebbero stati i piani e le mosse delle due ragazze – la maggiore era prigioniera del Primo Ministro, che in quanto a essere un bastardo non scherzava, ma quell’altra, Elizabeth, lo preoccupava parecchio, sebbene avesse dato ordine a Gretel di non ucciderla –, permettendogli così di prevenirle, di batterle sul tempo. Avrebbe potuto sapere in anticipo dove si trovavano le altre chiavi, così da arrivare sul luogo per primo. Non era niente affatto male come idea, dopotutto.
Aveva esitato solo un attimo, ma questo a causa del fatto che ultimamente aveva fin troppi grattacapi – primo fra tutti quella Elizabeth Hadleigh, senza contare che stava iniziando a pentirsi di aver affidato una missione di tale importanza a quell’inetta di Gretel, e poi Capitan Uncino che era ancora vivo e vegeto, in più le chiavi per trovare la Pietra del Male, la Regina Cattiva che lo incalzava ogni giorno di più e, oh!, non doveva dimenticarsi di Merlino e della mocciosa di Ginevra –, ma alla fine si sistemò al meglio e decise di accogliere l’invocazione della sirenetta. Sì, le sue capacità gli sarebbero certamente tornate utili…c’era solo un piccolo dettaglio che stonava: trattandosi di una sirena e non di una strega o una maga, gli sarebbe stato impossibile creare una connessione mentale con lei in modo da spiare i suoi pensieri. La figlia di Nettuno avrebbe dovuto comunicargli le sue visioni con la voce.
Ma era un problema facilmente risolvibile.
 
***
 
Il cambio della guardia era un momento estremamente rumoroso, perlomeno nelle segrete del palazzo. Lady Marian sospettava che fosse a causa del poco controllo a cui erano sottoposti i soldati. La Regina Cattiva scendeva molto di rado nelle prigioni sotterranee, e infatti per tutto il lasso di tempo che trascorreva là sotto – sempre comunque molto breve e giusto lo stretto necessario – le guardie e i goblin erano ridotti al più solenne silenzio e alla disciplina più ferrea, ma questi scomparivano non appena la tiranna lasciava le segrete. Lady Marian non aveva difficoltà a ricordare come, quando ancora era la dama di compagnia della Regina Cattiva, i domestici e i soldati ammutolissero al suo passaggio, quanti inchini e riverenze in cui si profondevano, quanto ordine e operosità; in un attimo, sembrava quasi che chiunque, all’interno del palazzo, fosse tremendamente affaccendato e laborioso, dedito solo al proprio dovere e a riverire la propria sovrana.
Tutto questo, Lady Marian lo sapeva, era dovuto solo alla presenza della Regina Cattiva…e alla sua assenza lì, nei sotterranei.
Là sotto non c’era nessuno, neppure un sovrintendente che si occupasse di mantenere l’ordine, e questo sfociava immancabilmente in chiasso non appena due soldati avevano l’occasione di poter venire a contatto fra di loro. Il cambio della guardia avveniva disordinatamente, con risate sguaiate e commenti ad alta voce, e spesso si prolungava per parecchi minuti, prima che finalmente tornasse il silenzio.
Era molto fastidioso, specialmente se a notte inoltrata.
Più di una volta Lady Marian era stata svegliata da quel fracasso – anche se, quando aveva uno dei suoi incubi, non poteva fare a meno di ringraziare la guardia di turno per aver lanciato l’imprecazione altisonante che l’aveva fatta ritornare alla realtà – o le era impedito prendere sonno, come quella notte.
Si girò su un fianco, poggiando il capo contro il proprio braccio disteso e sperando che i due soldati che montavano di guardia quella sera finissero presto di fare commenti osceni e di parlare ad alta voce. Era distesa sul solito pagliericcio umido, a cui in tre anni di prigionia aveva fatto l’abitudine – tanto che, le capitava di pensare, se per caso un giorno si fosse trovata nuovamente a dormire su uno dei morbidi materassi a cui era abituata quando era ancora una dama di compagnia, era sicura che non sarebbe riuscita a chiudere occhio –, così come aveva fatto l’abitudine ad ascoltare le chiacchiere delle guardie, fino ad arrivare al punto di riconoscerne le voci e ricondurle a un nome.
Quella sera il soldato che aveva montato di guardia di fronte alla sua porta era Cassius, che ora stava per venire sostituito per l’intera nottata da Brutus. Era uno dei peggiori, Brutus: era già al servizio della Regina quando lei aveva otto anni ed era stata accolta al palazzo, e per tutta la sua – breve – adolescenza Lady Marian non aveva fatto altro che sentire dicerie sul suo conto. Si sussurrava che fosse stato allontanato dal corpo di guardia del capitano Navarre perché vizioso, pigro, per nulla capace in battaglia o nelle ruberie, nel corso delle quali tuttavia non perdeva occasione di stuprare le donne o trucidare i prigionieri. Era quasi sempre ubriaco, e Lady Marian sospettava fortemente che dovevano essere trascorsi anni dall’ultima volta in cui aveva fatto un bagno, dato che emanava un puzzo di fango misto a sudore che le dava la nausea ogni volta che si avvicinava troppo a lei.
Si divertiva a sbeffeggiarla, e lei si considerava fortunata che avesse spesso il turno di notte, in cui tutti i prigionieri dormivano: altrimenti, se era sveglia, Brutus non perdeva occasione di sputare oltre le sbarre della finestrella in segno di spregio, di chiamarla sgualdrina e fare commenti sul fatto che, da lady, era passata a essere una prigioniera.
Finalmente, Cassius si allontanò, e Brutus si mise in posizione di fronte alla porta della sua cella, e il silenzio ritornò. Lady Marian emise un sospiro di sollievo, sistemandosi meglio sul pagliericcio e provando a chiudere gli occhi: era stanca, la notte precedente non aveva fatto altro che rimanersene sveglia per ore a fissare quella frase che era stata scolpita nella pietra della parete, chiedendosi che cosa diamine significasse, e quando poi era riuscita ad addormentarsi i suoi incubi avevano tornato ad assalirla. Non erano nulla di diverso rispetto a quelli che aveva sempre avuto, ma erano comunque terribili, angoscianti.
Sperò che almeno per quella notte la lasciassero in pace, ma proprio quando stava per addormentarsi, si rese conto che il silenzio non era silenzioso come le era sembrato. Un piccolo rumore, molto flebile ma non abbastanza da non poter essere udito, proveniva dalla cella accanto alla sua, oltre la parete.
Lady Marian si tirò su a sedere, rimanendo in ascolto. Non aveva idea di chi ci fosse rinchiuso accanto a lei, a dire il vero non aveva mai pensato ci fosse qualcuno. Tese l’orecchio, riconoscendo ben presto di cosa si trattasse: qualcuno stava piangendo.
Non era insolito, spesso aveva udito i lamenti degli altri prigionieri, ma quei singhiozzi erano diversi: la voce di chi li stava producendo era sottile, leggermente acuta…infantile.
Lady Marian strisciò fino alla parete accanto, avvertendo come sempre un dolore acuto quando il ferro delle catene le sfregò contro i polsi. Si accostò, notando un piccolo spiraglio di luce che passava attraverso il muro: un paio di piccole pietre erano smosse, e lasciavano aperto un foro. Lady Marian le scostò in modo da renderlo leggermente più grande, quindi si chinò a sbirciare attraverso esso: i singhiozzi ora erano più numerosi, più frequenti, e appartenevano a più di una sola persona.
Lady Marian cercò di scoprire a chi appartenessero, e ciò che vide la sconvolse: nella cella accanto, stipati come del bestiame in un recinto, c’erano sei bambini.
Le si mozzò il respiro, mentre il suo cervello iniziava a porsi domande a una velocità impressionante: che ci facevano dei bambini lì? La Regina Cattiva non aveva mai preso dei bambini in ostaggio, perché invece ora l’aveva fatto? A che le servivano?
Due di loro, un maschietto e una femminuccia, si tenevano abbracciati; un altro nascondeva il volto nell’incavo creato fra le spalle e le ginocchia, una bambina tentava invano di asciugarsi gli occhi; una terza femmina, con le lentiggini e i capelli biondi raccolti in due code ai lati del capo, teneva in braccio un bimbo di neanche un anno, che sembrava essere l’unico calmo, ma i cui occhi gonfi e le guance arrossate suggerivano che doveva aver pianto fino a poco prima.
Lady Marian provò a chiamarli, bisbigliando per non farsi scoprire dalla guardia, ma i bambini non l’udirono. A sentirla invece fu Brutus, che entrò nella cella spalancando la porta, con una tale furia che la prigioniera si spaventò.
Il cuore di Lady Marian fece un balzo nel petto, ma non ebbe tempo né di dire né di pensare nulla, perché Brutus la colpì a una spalla con un calcio, tanto da mandarla al tappeto. Sbuffò, ricevendo il colpo, e ritrovandosi distesa supina a fissare il soldato.
Brutus sputò a terra, guardandola con disgusto.
- Che stavi facendo, sgualdrina? Non ti hanno insegnato a non ficcare il naso in cose che non ti riguardano?!
- Chi…chi sono quei bambini?- soffiò Lady Marian di rimando, cercando di rialzarsi.- Perché sono qui? La Regina li ha…
- Non è un problema tuo!- abbaiò Brutus.
Prima che potesse reagire, l’afferrò per il collo dell’abito lercio che indossava, sollevandola in ginocchio. Avvicinò il proprio volto al suo, così che Lady Marian avvertì il fetido alito della guardia sferzarle addosso.
- Almeno, non per il momento…- Brutus ghignò, scoprendo una fila di denti giallastri e anneriti. La scosse con violenza, prima di lasciarla ricadere a terra.- Sei fortunata che la Regina abbia ordinato di non toccarti in alcun modo, altrimenti a quest’ora ci avrei pensato io a darti una bella punizione - sputò nuovamente a terra.- Ha dei progetti molto ambiziosi per te e quei marmocchi. Vedremo se avrai ancora voglia di curiosare in giro, quando la Luna di Sangue sorgerà alta in cielo…
Lady Marian non rispose, raggomitolandosi su se stessa come per proteggersi. Brutus rimase a guardarla per un istante, quindi uscì dalla cella, chiudendo la porta dietro alle proprie spalle.
 
***
 
Il mare notturno era calmo, e l’infrangersi delle onde contro lo scafo della nave creava un suono dolce e rilassante allo stesso tempo, mentre sopra le loro teste il cielo era limpido e costellato di stelle.
Sembrava proprio lo scenario adatto per una favola.
Il capitano Hadleigh rise amaramente di fronte a questa situazione, passandosi una mano fra i capelli e tornando a fissare il mare di fronte a sé. Era stato incaricato di fare da sentinella per tre ore, durante quella nottata: aveva accarezzato più volte l’idea di tentare la fuga, ora che la riva era vicina, ma purtroppo non era il solo a essere di guardia. C’erano altri tre pirati sul ponte, fra cui Spugna, e di sicuro lo avrebbero fermato immediatamente e riportato indietro.
Si appoggiò alla balaustra della nave. La Jolly Roger era ferma da una giornata e mezza: durante la tempesta, lui non si era nemmeno accorto che Capitan Uncino era stato sbalzato fuori bordo, se n’era reso conto solo quando Spugna e il timoniere lo avevano gridato a squarciagola. Anche a costo di apparire cinico, gliene sarebbe importato ben poco se fosse annegato o meno: anzi, forse senza lui a intralciarlo, sarebbe finalmente potuto scendere da quella nave e continuare le ricerche di Anya e Liz.
Invece, Capitan Uncino era stato ripescato – inspiegabilmente, secondo Spugna, dato che sopravvivere in un mare in tempesta come quello era impossibile – e riportato a bordo. Sembrava essere abbastanza in forma, sulle prime, ma presto aveva avuto bisogno di ritirarsi nella sua cabina per riprendersi: intanto, la tempesta aveva apportato dei danni gravi alla nave.
L’albero di mezzana era stato spezzato a metà, e le vele erano state sbrindellate. Una parte della balaustra sulla fiancata sinistra era stata tranciata via e le cime erano sfilacciate e inutilizzabili. Capitan Uncino aveva ordinato che si dessero da fare, poiché era impossibile proseguire il viaggio in quelle condizioni, e apportassero tutte le riparazioni necessarie alla Jolly Roger.
Naturalmente, lui se ne restava tranquillamente chiuso nella sua cabina mentre loro si spaccavano la schiena sul ponte di comando. Hadleigh era più stanco che mai, e il dover fare da sentinella di notte per altre tre ore era un colpo durissimo.
Gli venne da pensare che non era sempre stato così: quando era entrato in polizia come agente semplice – all’epoca non era ancora un membro del Dipartimento – riusciva a rimanere in servizio per tutto il giorno e poi aveva ancora la forza di trascorrere l’intera nottata in ispezioni a magazzini e turni di controllo sulle strade. Certo, allora aveva vent’anni e adesso più di quaranta: era invecchiato.
Ultimamente si rendeva conto di stancarsi più velocemente, ma questo a pensarci bene durava da anni. Il periodo in cui Christine stava male era stato in assoluto il più duro, e forse tutta quella stanchezza accumulata in quei mesi di insonnia e preoccupazione gli era rimasta attaccata addosso, e non se ne sarebbe mai andata.
Il ricordo di sua moglie lo colpì in maniera inaspettata, quasi violenta. Richard si passò una mano sulla fronte, sospirando. Gli capitava spesso di pensare a Christine, questo era vero, ma ancora più spesso si affrettava ad allontanare il suo ricordo.
In un certo senso, non era il solo uomo in quelle condizioni: quanti altri che avevano perso la propria moglie o si erano visti presentare una richiesta di divorzio facevano come lui? Il problema era che quello di Christine non era il ricordo sì doloroso ma anche dolce di un fantasma del passato, come poteva esserlo una persona che non c’era più.
Lui stesso non riusciva mai bene a decifrare quali emozioni provasse, quando ripensava a lei: sofferenza? Rabbia per aver fatto del male alle sue bambine? Sconforto e colpevolezza per aver trascorso ben sette anni in sua compagnia?
Hadleigh si passò lentamente le mani sul volto, con gli occhi che bruciavano. Come poteva saperlo, allora? Molti dei suoi colleghi avrebbero detto che avrebbe dovuto aspettarselo, da una ragazza giovane e assolutamente priva di equilibrio com’era Christine, quando l’aveva conosciuta.
Lo stesso Fraser glielo aveva detto, in faccia, chiaro e tondo, senza giri di parole.
 
Il ticchettio della penna contro la superficie della scrivania è snervante. Richard sta iniziando a chiedersi se il suo superiore non lo stia facendo apposta, con l’intenzione di irritarlo ancora di più. Come se non bastasse già quello che gli ha appena detto.
Stringe il pugno lungo il fianco, serrando le mascelle. E’ in piedi di fronte alla scrivania nell’ufficio del capitano, proprio di fronte a lui, come uno studente impreparato a un’interrogazione. Ma non ha nessuna intenzione di chinare il capo e ammettere di aver sbagliato.
Fraser alza lo sguardo su di lui.
- Hai capito benissimo ciò che ti ho detto, Richard.
- Invece no - la sua voce non è normale, bensì un ringhio sommesso che stupisce anche lui.- Si spieghi meglio: cosa vorrebbe dire con questo?
- Richard…- Fraser sospira, abbandonandosi contro lo schienale della sedia. Ha l’impressione che lo veda come un inetto, e debba decidere per lui della sua vita. E non c’è niente che lo faccia arrabbiare di più.- Richard, credimi. So che in questo momento non ragioni a mente lucida e credi che io voglia impicciarmi della tua vita, ma…
- Io sono lucido!- ringhia di rimando.- E non è una mia impressione: lei non deve permettersi di mettere bocca in cose che non la…
- Sono già passato sopra a questa storia quando è cominciata - lo interrompe Fraser.- Sapevi meglio di me che quello che stavi facendo era scorretto, eppure non hai voluto troncare la tua relazione con quella ragazza. E ho fatto finta di niente, ho ignorato il fatto che andassi a letto con una testimone! Ma adesso ti stai spingendo troppo oltre, e io non sono disposto a lasciarti correre verso il precipizio senza nemmeno provare a fermarti!
- Quale precipizio?- sta davvero cominciando a non capire.- Dove sarebbe il rischio? Me lo spieghi! Se davvero ha sopportato fino adesso, allora continui a farlo e mi lasci vivere la mia vita!
- Richard, io te lo ripeto un’ultima volta. Per il tuo bene, non sposare quella ragazza!
Non ha intenzione né di ubbidire né di ascoltarlo ancora, e glielo dimostra picchiando un pugno contro la scrivania. Non dice una parola, ed esce in fretta dall’ufficio.
Fraser è il suo capo, questo è vero, ma non è né un suo amico né suo padre e, se anche lo fosse, non avrebbe alcun diritto di cercare di impedirgli di sposare chi ama.
Ma prima che sbatta rabbiosamente la porta alle sue spalle, fa in tempo a udire le ultime parole che Fraser gli urla.
- Se la sposi, ci saranno delle conseguenze, per tutti quanti!
 
Se la sposi, ci saranno delle conseguenze…, così gli aveva detto Fraser, quel giorno. Possibile che avesse intuito qualcosa? E come avrebbe potuto?
Richard aveva ripensato spesso a quella discussione, e nel periodo appena successivo alla sparizione di Christine – lo stesso in cui anche il suo ex capo e la sua famiglia erano scomparsi nel nulla – aveva quasi avuto un esaurimento nervoso a sua volta, causato dallo stress e dal ricordo di quell’avvertimento che sapeva di minaccia. Non era possibile che Fraser sapesse quello che sarebbe accaduto, che Christine avrebbe cercato di fare del male ad Anya e Liz.
Anche se, a pensarci bene, l’ex capitano del Dipartimento aveva spesso avuto ragione su parecchie cose. Prima fra tutte, quella della natura ambigua del Regno delle Favole.
(Il Regno delle Favole è insidioso. Ti fa credere che potrai avere il tuo lieto fine, e così tu ti lasci trascinare…divieni parte di quel mondo, un mondo che non ti appartiene e in cui non potrai mai essere accettato…e finisci per passare dalla parte più oscura delle fiabe. A quel punto, sai che non avrai mai un lieto fine.)
Hadleigh sapeva che il suo lavoro poteva comportare dei risvolti imprevisti – eccome! –, ma le parole di Fraser non l’avevano turbato mai più di tanto: invece, adesso si rendeva conto di quanto avesse ragione. Continuava a pensare che l’assassino di Cappuccetto Rosso era ancora a piede libero, e a quello che gli aveva detto Crawford, riguardo a una nuova Regina Cattiva che aveva preso il posto della matrigna di Biancaneve. E a Mulan.
Sospirò: quella scoperta era stata un vero e proprio shock, sia per lui che per Jones. Non erano più scesi nella stiva, ma gli altri pirati sì, e questo faceva intuire che la routine non fosse cambiata. In ogni caso, venire a sapere quello che era successo a Mulan era stata un’ulteriore conferma che nel Regno delle Favole c’era qualcosa che non andava.
- Ehi…- Hadleigh si voltò non appena udì la voce di Jones alle sue spalle. Nathan si avvicinò.
- Spugna ha detto che il tuo turno è finito. Tocca a me, ora, vai pure a riposarti.
- Grazie…
Il capitano fece per andarsene, ma il suo collega lo trattenne.
- Ho sentito Capitan Uncino parlare con il timoniere, questo pomeriggio - disse.- A quanto pare ha una meta precisa. Non sono riuscito a capire quale fosse, ma dovremmo arrivarci tra poco. Credo si tratti di un’isola, o qualcosa del genere.
- Beh, se non altro è la terraferma…- mormorò Hadleigh, lievemente speranzoso: tornare a terra avrebbe costituito un passo avanti nella sua ricerca, sempre meglio che stare su quella nave.- In bocca al lupo per la nottata, allora…e, Nate?
- Sì?
- Hai…hai più visto quella ragazza di cui mi dicevi?- il capitano lo guardò.- Sai, quella che…che ti sembrava di aver intravisto un paio di volte…
Jones aggrottò le sopracciglia e gettò una rapida occhiata al mare calmo, quindi tornò a guardare il suo superiore e fece segno di no con la testa.
- No, non l’ho più vista.
 
***
 
Gaston era sicuro che, presto o tardi, il senso di colpa l’avrebbe ucciso.
Non erano trascorsi neppure due giorni da che aveva ammazzato quella donna – una fata, sant’Iddio, la Fata Turchina! – e il ricordo di quello che era appena accaduto continuavano a tormentarlo di giorno ma soprattutto di notte, impedendogli di dormire a causa di incubi in cui rivedeva se stesso che affondava la lama nella carne di quella poveretta, incubi che lo facevano sentire una merda ancora più di quanto già non fosse. A complicare il tutto c’era anche la situazione in cui si trovava: ancora non riusciva ad accettare l’idea di essere finito in una sorta di realtà parallela o quel che diavolo era, e nonostante avesse superato la “prova” a cui l’avevano sottoposto Navarre lo trattava appena meglio di quanto facesse prima. Non aveva neppure provato a scappare: il pensiero di quel che avrebbero potuto fargli se l’avessero riacciuffato era sufficiente a farlo desistere da ogni tentativo di fuga. Gli allenamenti si trascinavano tutti i giorni per ore intere, eppure lui continuava a non migliorare, il che gli attirava gli insulti del capitano e le canzonature degli altri soldati.
Era sicuro che, se tutte quelle cose non l’avessero ucciso, quantomeno avrebbero avuto l’effetto di spingerlo al suicidio.
Ma quella notte c’era una novità, una novità che l’aveva spinto a tentare davvero di scappare.
Appena poche ore dopo aver ucciso la Fata Turchina, infatti, si era reso conto di avere qualcosa di molto simile a un eritema sul palmo della mano destra – la stessa che aveva impugnato il coltello. Erano delle semplici strisce rossastre sulla carne, come dei graffi. Tuttavia, con il trascorrere del tempo avevano iniziato – molto velocemente, troppo velocemente – a trasformarsi.
Si fecero più rosse, più marcate, fino ad assomigliare a delle vere e proprie cicatrici, e si unirono fino a formare una definita forma geometrica: un cerchio in cui era inscritto un triangolo, all’interno del quale vi era un altro cerchio.
Il marchio dell’infamia.
Gaston non ci aveva impiegato molto a ricordare le parole della Fata Turchina e a dare un nome a quel simbolo. E in un attimo, tutto ciò di cui gli aveva parlato acquistò un significato, un significato pauroso che era stato sul punto di farlo impazzire.
Ma allo stesso tempo, non aveva dimenticato che la Fata Turchina gli aveva ancora dato una possibilità: gli aveva detto che sì, era suo destino ucciderla e portare il marchio dell’infamia e, forse, divenire quel Vendicatore di cui aveva parlato, ma aveva anche sostenuto che c’era ancora una via d’uscita per lui, che poteva scegliere da che parte stare.
E lui voleva stare a New York, voleva stare nella sua vecchia vita.
Era stato per questo che, quella notte, aveva deciso di scappare: non gli sarebbe stato possibile farlo di giorno, con Navarre e i suoi che lo controllavano a vista, mentre dormivano, invece, aveva più possibilità. Gaston attese che anche l’ultimo soldato si fosse addormentato, quindi si rivestì – i suoi abiti erano stati bruciati da Navarre, ora aveva solo la divisa nera dei soldati e un mantello – e sgattaiolò fuori dalla sua tenda, nel campo di fortuna che avevano allestito.
Con velocità e cautela, s’inoltrò nel folto della Foresta Incantata. Non aveva idea di dove sarebbe andato, come avrebbe fatto a tornare a casa…ma per ora, sapeva che la soluzione era lontano da lì.
 
***
 
Stava iniziando a perdere le speranze. Era distesa sul bagnasciuga da più di due ore, un lasso di tempo indecente specialmente se considerato che qualunque essere umano sarebbe potuto passare di lì da un momento all’altro e vederla, e nonostante avesse invocato il nome dello stregone almeno una decina di volte, questi non accennava a farsi vedere. A dire la verità, Ariel non sapeva nulla di come si verificasse l’arrivo di una qualche creatura magica, ma si aspettava qualcosa come nuvole di fumo o inquietanti ombre proiettate contro gli scogli.
Più o meno una cosa del genere, insomma…eppure, quando la suddetta ombra si stagliò alla sua destra, la sirenetta arretrò precipitosamente e nuotò a nascondersi dietro agli scogli.
- Calma, pesciolino! Non ho nessuna intenzione di mangiarti…
L’affermazione fu accompagnata da una risatina acuta che sembrava piazzata apposta per smentire quanto l’ombra aveva appena detto, ma il fatto che chi aveva parlato sapesse che lei era una sirena bastò a indurla a fidarsi, almeno quel tanto che bastava per farla sporgere appena dagli scogli per poter guardare. Udì un’altra risata.
- Allora, pesciolino: hai intenzione di venire fuori o no? Mi hai chiamato tu, o sbaglio?
Ariel riemerse da dietro gli scogli, nuotando cautamente fino alla riva. L’ombra alla sua destra si fece sempre più piccola fino a scomparire, lasciando il posto a un’autentica figura umana, la figura di un uomo ancora giovane, vestito di nero, con il volto affilato e i capelli castani raccolti in una coda.
La sirenetta si avvicinò.
- Siete...siete voi Tremotino?- domandò, guardandolo con i grandi occhi verdi spalancati. Lo stregone sogghignò, fissandola dall’alto con le braccia incrociate al petto.
- In persona. E tu devi essere una delle figlie di Re Nettuno, vero?
Ariel annuì, avvicinandosi completamente a lui sul bagnasciuga.
- Credevo che non sareste venuto!- trillò.- E’ da due ore che vi aspetto, temevo che…
- Sì, pesciolino, lo so, sono in imperdonabile ritardo, ma cerca di capirmi: sono un uomo molto impegnato. Tuttavia…- Tremotino si sedette sulla sabbia di fronte a lei, a gambe incrociate.- So esattamente qual è il problema che ti affligge e perché hai richiesto il mio aiuto. Hai preso una bella cotta per il capitano della Jolly Roger e desideri potergli fare visita, possibilmente senza quella coda di pesce addosso. Ho indovinato?
La sirenetta sgranò gli occhi, fissandolo a bocca aperta. Tremotino ridacchiò.
- Lo prendo per un sì.
- Ehm…sì, è così…- Ariel abbassò lo sguardo per un attimo, lievemente intimidita.- Vorrei…ecco…beh, ci ho riflettuto a lungo e…non credo che sia il caso che lui mi veda come sono…- arrossì.- Non che me ne vergogni, questo no, ma…sapete, mio padre dice sempre che gli esseri umani fanno a noi creature del mare delle cose che…
- Sempre dare ascolto ai genitori!- ammonì lo stregone, scherzosamente.- Hanno quasi sempre ragione.
- Il punto è: se io mi mostro a lui come una della sua specie, solo il tempo per convincerlo che noi sirene non siamo cattive, poi andrà tutto bene!- spiegò Ariel, allargando le braccia.- Per questo mi chiedevo…se voi poteste…
- Trasformarti in un’umana? E’ questo che vuoi?- Tremotino si sporse verso di lei.- Lo immaginavo. Beh, pesciolino, consideralo il tuo giorno fortunato perché posso, posso eccome!
- Oh, grazie!- esclamò la sirenetta, battendo le mani.- E come farete? Per quanto tempo dovrò…
- Non correre troppo, pesciolino, non ho ancora finito - lo stregone fece un sorriso sghembo mentre quello di Ariel le moriva sulle labbra.- Quello che mi stai chiedendo, ovvero trasformare la tua coda in un paio di gambe, ha un prezzo, e inoltre non è un incantesimo che può essere attivato e cancellato a proprio piacimento.
- Io…- la sirenetta deglutì, confusa.- Perdonatemi, credo di non capire.
- Ti spiego meglio: una volta che avrai delle gambe umane, la tua coda scomparirà per sempre. Non avrai modo di tornare indietro. In parole povere…apparterrai per sempre al mondo degli umani, e potrai dire addio al mare.
- Ma…- Tremotino avrebbe potuto giurare che gli occhioni della sirenetta si stessero riempiendo di lacrime, e dovette fare un grande sforzo di volontà per reprimere una smorfia di esasperazione: possibile che le donne avessero tutte le lacrime in tasca? O meglio…nascoste fra le pinne, in quel caso.- Ma…ma io ad Atlantide ho la mia famiglia…mio padre…le mie sorelle, i miei amici…
- Che c’è, hai già cambiato idea?- lo stregone sbuffò.- Bell’amore che dimostri! Prima ti dichiari pronta a tutto per il tuo uomo, e poi abbandoni il campo di battaglia alla prima difficoltà?
- Non c’è un altro modo?- chiese Ariel, ignorando la domanda.- Ci deve essere! Io voglio stare con l’uomo che amo, ma non voglio nemmeno rinunciare alla mia famiglia! Non c’è una maniera per rendere l’incantesimo reversibile, in modo che io possa…scegliere quando avere le gambe e quando invece…
- Ah, ho capito: vuoi avere una doppia natura, non è così?- Tremotino sorrise.- In effetti…ora che ci penso, potrei anche trovare un modo per accontentarti. Ma richiederà un immenso impiego di magia, lo sai, e dunque…beh, mi vedo costretto a chiederti di fare la tua parte.
- La mia parte?- Ariel lo guardò, a metà fra il perplesso e il diffidente.- Intendete dire che…volete una sorta di pagamento?
- Precisamente. Che pesciolino intelligente che sei…!- lo stregone rise.- Ti chiederò qualcosa in cambio: per l’esattezza, qualcosa di tuo e un favore. In cambio, potrai avere la tua doppia natura.
- D’accordo…- mormorò la sirenetta, inarcando un sopracciglio.- Qualcosa di mio e un favore, avete detto? Bene. Che cosa volete?
- Puoi cominciare con il darmi la tua voce.
Quelle parole furono come un fulmine a ciel sereno. Ariel sobbalzò, indietreggiando istintivamente e sollevando spruzzi d’acqua sul bagnasciuga. Si guardò intorno freneticamente, con aria sempre più confusa e spaesata, come a cercare una spiegazione a quella richiesta che non riusciva a trovare da sé.
- La…la mia voce?- balbettò.- Perché?- chiese alla fine.
- Non crucciarti su questo punto, pesciolino. Ho le mie buone motivazioni.
- Ma…ma se non potrò più usare la voce…come farò a…
- A dire al tuo uomo che sei innamorata di lui? Credimi, pesciolino, ci sono molti altri modi in cui puoi dimostrarlo…ad esempio, tenendolo lontano dai guai.
- Guai?- Ariel sollevò lo sguardo su Tremotino; iniziava a non capirci più niente.- Che genere di guai? Sta male? Gli è successo qualcosa?
- Per ora no, ma potrebbe, se non sta attento. E qui entra in gioco il favore che ti ho chiesto - Tremotino si sporse su di lei.- Il favore che ti ho chiesto, che ha anche a che fare con la tua voce. Se lo porterai a termine, ti prometto che te la restituirò.
- Non capisco.
- Sarò del tutto sincero con te, pesciolino: il tuo uomo, di qui a pochi giorni, sbarcherà con la sua ciurma su un’isola. Non è l’Isola che Non C’è, ma è molto vicina a essa, e altrettanto pullulante di magia bianca. Magia fatata, per l’esattezza. Bene, quel genio approderà in quel luogo con l’intenzione di catturare una fata. Il tuo compito è impedirglielo.
- Una fata? Perché dovrebbe catturare una fata?
- Questo è un suo problema, non mi riguarda…Il mio problema, invece, è che se lui cattura quella fata, potrei ritrovarmi fra capo e collo l’esercito di Re Oberon e consorte, il che mi renderebbe le cose parecchio difficili, visto ciò che devo fare. Tu tienimelo lontano da quell’isola, impediscigli di catturare quella fata e ti prometto che riavrai indietro la tua voce. Nel frattempo, io la custodirò come un tesoro. Che cosa desideri più di questo? Avrai una doppia natura, potrai essere una sirena o un’umana come e quando lo vorrai, starai sia con il tuo amato che con la tua famiglia, e riavrai anche indietro la tua preziosa voce…dovresti ritenerti fortunata, sai? Molte altre sirenette come te capitano fra le grinfie di maghi malefici e approfittatori…
Ariel non rispose, e chinò il capo. Ci rifletté: in fondo, non sembrava male come offerta. Certo, avrebbe dovuto rinunciare alla sua voce per un po’, ma se avesse fatto ciò che Tremotino le chiedeva, l’avrebbe riavuta indietro. Non avrebbe dovuto rinunciare all’uomo che amava ma nemmeno dire addio alla sua famiglia, il tutto in cambio di un semplice favore.
Doveva tenerlo lontano da quell’isola, impedirgli di catturare una fata…non sembrava così difficile, no?
Tremotino sorrise, sollevandole il mento con la punta dell’indice.
- Allora, pesciolino: affare fatto?
La sirenetta annuì.
- Affare fatto…- soffiò.
 
***
 
Non può fare a meno di pensare che il Cacciatore ha sbagliato a calcolare le misure, quando ha inciso quel bersaglio nel tronco della quercia. Il cerchio centrale è molto più piccolo e stretto del normale, ma non è un problema. Affatto.
Non da a Robin nemmeno la soddisfazione di vederlo prendere la mira, e un attimo dopo aver teso il braccio e la corda dell’arco, la freccia sibila in aria, andando a colpire proprio il punto centrale del bersaglio. Il Cacciatore inarca le sopracciglia, chiaro segno di ammirazione, ma l’uomo dei boschi non se lo sogna nemmeno di riconoscere che è più bravo di lui. La sua aria di sufficienza lo infastidisce.
- Allora, Hood?- incalza.- Pensi di saper fare meglio?
- Non volevo umiliarti, ma visto che mi costringi…
Robin Hood imbraccia il suo arco e, senza che nessuno dei tre se ne accorga, in un attimo la freccia è conficcata al centro del bersaglio. E la sua, invece, ora non è altro che un legnetto sfilacciato, diviso a metà.
- Non ci posso credere…l’hai…l’hai tranciata a metà!- Marian ha gli occhi sgranati, continua a far dardeggiare lo sguardo dalla freccia di Robin alla sua, che ora non ha più nemmeno la dignità di essere nominata come tale. Si trattiene a stento dallo scaraventare l’arco a terra.
- Esibizionista.
Robin Hood alza le spalle con ostentata noncuranza: non gliene potrebbe importare di meno del suo giudizio e ci tiene a ricordarglielo ogni volta che può. Non c’è da stupirsene: si sono fatti letteralmente la guerra per anni, loro due, e avrebbero anche continuato se il Cacciatore non li avesse convinti a deporre la reciproca rivalità in nome della Ribellione. Si chiese se, quando tutto ciò sarebbe finito, sarebbero tornati ad ammazzarsi a vicenda, concludendo che molto probabilmente sarà così.
Marian  ridacchia, scendendo dal tronco di quercia caduto su cui era seduta, e gli si avvicina.
- Perché te la prendi? Lo sai com’è fatto…- gli batte una mano su una spalla, quindi si fa passare l’arco.- Dai, fa’ provare me…
 
Vincent sbuffò, ancora parzialmente nel mondo dei sogni, ma non abbastanza per non sentire qualcuno scuoterlo per una spalla. Si passò una mano sulla faccia.
- Ehi, sei sveglio?- chiese Anya, cominciando ad avvertire un gran mal di schiena per la posizione mezza eretta in cui era costretta a stare.
- Ora sì, grazie a te…- Vincent impiegò solo pochi secondi per ricordarsi di essere nel campo dei ribelli, mentre gli ci volle una forte fitta di dolore alla spalla per rendersi conto della situazione in cui era: qualcuno gli aveva tolto di dosso la casacca, ed ora era in maniche di camicia, con il braccio sollevato e fasciato, assicurato intorno al collo con delle bende pulite. Cercò di ricordarsi chi gli avesse applicato quella fasciatura, ma non ci riuscì: il veleno del non-morto alla fine s’era estinto, ma aveva avuto l’effetto di intontirlo in maniera spaventosa, tanto da farlo rimanere addormentato per quasi due giorni. E avrebbe anche continuato a dormire, probabilmente, se quella piaga che l’aveva quasi fatto divorare vivo dalla principessa Rosaspina non l’avesse svegliato.
Si tirò su a sedere sul pagliericcio, poggiando le spalle contro la parete della capanna per paura di non riuscire a reggersi: si sentiva ancora intontito e le membra gli dolevano, per non parlare del braccio che lo stava tormentando.
- Che cosa ci fai qui?- sbuffò.
Anya decise che non ce l’avrebbe fatta più a restare piegata in due, e si sedette a gambe incrociate sul pavimento, poggiando la candela. Si era portata dietro anche quella che Madama Holle le aveva dato la notte precedente e che lei non aveva utilizzato, perché la cera stava già iniziando a colare.
- Non riuscivo a dormire.
- E svegliare anche me ti è sembrata una soluzione al problema?
- Hai dormito per tutto il giorno, e quando ti ho visto l’ultima sembravi in punto di morte!- protestò Anya.- Ero venuta a controllare che non fossi passato a miglior vita…stronzo come sei, sarebbe un dispetto coi fiocchi da parte tua, morire e mollarmi qui da sola!
- Hai finito di dire sciocchezze?- Vincent inarcò un sopracciglio. La ragazza si tormentò nervosamente una ciocca di capelli, scoccando un’occhiata preoccupata alla candela.
- Scusa…- borbottò.- Come stai?
- Come se mi avesse appena morso un non-morto - ironizzò l’uomo.- E tu?
- Come al solito. Solo, con un problema in più…
- E sarebbe?
- Non possiamo andarcene da qui - Anya lo guardò.- Ti ricordi cosa ci aveva detto il nano a proposito di diventare membri della Ribellione? Beh, a quanto pare ha mantenuto la sua promessa. Siamo bloccati qui da ieri notte.
Il Primo Ministro sospirò, abbandonando il capo contro la parete di legno. Quello era un grosso problema: sapeva di trovarsi nel campo dei ribelli, nonostante avesse tenuto gli occhi serrati per evitare che scoprissero il suo segreto si era reso conto di dove lo stessero trasportando, ma cercare di fermarli con un braccio sanguinante e del veleno in corpo sarebbe stato praticamente impossibile.
E ora era lì. Di nuovo.
Per un attimo si sentì invadere dal panico, ma poi la razionalità l’aiutò: se l’avessero riconosciuto, a quest’ora certamente l’avrebbero già ucciso, o imprigionato, comunque non sarebbe stato ancora lì disteso su quel pagliericcio, braccio malandato o meno. Stentava a credere che fosse così cambiato, nell’arco di cinque anni, da non risultare nemmeno riconoscibile a delle persone con cui aveva combattuto per anni, ma era meglio così.
Doveva stare attento, però: doveva farsi vedere il meno possibile e, soprattutto, stare alla larga da tutti quando calava la notte. Se avessero visto i suoi occhi, allora di sicuro non ci avrebbero messo nulla a riconoscerlo e…
Si accorse improvvisamente che, in quel momento, dovevano essere come quelli di un lupo, e che la ragazza lo stava guardando. Provò a chinare il capo, ma lei sbuffò.
- Senti, falla finita con quegli occhi, tanto lo so che cosa succede quando è buio - si scostò una ciocca di capelli dietro un orecchio.- Poi, uno di questi giorni mi spiegherai che cosa ti è successo…- borbottò.- Comunque, per tornare al punto: che cosa facciamo? Ho paura che abbiano capito chi sono…
Si pentì immediatamente di quelle parole, essenzialmente perché non ci credeva, ma anche per il fatto che Vincent sembrò agitarsi.
- Hanno capito che sei la Salvatrice?
- A parte che non lo sono…comunque, credo che lo pensino. C’è il capo, Kay, che lo sospetta, è palese.
Kay. Il Primo Ministro si ricordava di lui, anche se molto vagamente. Era un ragazzetto intelligente, all’epoca, e sempre attaccato al Principe Filippo, quando non stava con la sua fidanzata Gerda. In ogni caso, anche se era perspicace, non avrebbe scommesso un soldo sul fatto che sarebbe un giorno diventato il capo della Ribellione. Si sbagliava.
- Chi altri hai incontrato?
- Solo lui e una certa Madama Holle, molto gentile. Non ho visto granché, in effetti: ho dormito per tutta la giornata. Comunque…che cosa facciamo? Ce ne andiamo, vero?
- No…- Vincent ci rifletté: se davvero Kay aveva capito di aver a che fare con la Salvatrice, allora andarsene sarebbe stato come invitare lui e tutti i ribelli a inseguirli. Non aveva bisogno di clamore, e poi il suo braccio era ancora malandato e chissà quanto tempo ci avrebbe impiegato a guarire.
Doveva aspettare. Rimettersi in sesto, per prima cosa, e poi pensare a un piano per allontanarsi da lì senza attirare sospetti, prendere la chiave e sbarazzarsi della ragazzina. Ora, con il braccio fasciato, sarebbe stato impossibile…
- Come, no? E mia sorella?
- Tua sorella starà bene…
- Come fai a dirlo? Non lo sai! E io non voglio restare qui!
- E’ l’unico modo per poter trovare tua sorella, se è questo che ti preoccupa!- Vincent la guardò, spazientito.- Pensaci: qui sono almeno una cinquantina, e hanno scoperto loro dove si trova la bellezza nella morte. Quando la profezia parlerà di nuovo, molto probabilmente sapranno organizzarsi meglio di noi e, se il Castello di Rovi ti ha insegnato qualcosa, avrai capito che in ricerche come questa non è il caso di rimanere da soli!
Anya digrignò i denti, incrociando le braccia al petto, punta sul vivo. Si rifiutò di guardarlo.
- Spero che tu abbia ragione…!
 
***
 
Ariel si risvegliò al largo, distesa supina sul filo dell’acqua. Aprì piano gli occhi, incontrando il cielo stellato sopra la sua testa: le sembrava di aver dormito cent’anni ma, ancora peggio, non riusciva a ricordare nulla di quanto fosse accaduto dopo aver siglato il suo accordo con Tremotino.
Cercò di sollevare il capo dall’acqua e, quando ci riuscì, per poco non cacciò un urlo: al posto della sua coda c’erano ora due gambe umane, due lunghe gambe femminili umane.
Ariel sobbalzò, finendo sott’acqua. Istintivamente provò a risalire agitando la coda, ma le sue nuove gambe erano due e funzionavano in maniera del tutto diversa, e per poco a causa loro la sirenetta fu sul punto di affogare. Riuscì a riemergere solo facendo forza sulle braccia, ma anche in quel modo la sua testa era appena sopra il filo dell’acqua. Non poteva più respirare stando immersa, realizzò.
Iniziò a cercare in lungo e in largo una sorta di appiglio quando, a pochi metri da dove si trovava, vide l’enorme forma della Jolly Roger.
Cominciò a nuotare faticosamente nella sua direzione.
 
***
 
Tremotino lanciò in aria il medaglione, riafferrandolo al volo.
Sorrise, sistemandosi meglio sulla poltrona nel grande salone del suo castello, proprio accanto al fuoco.
Era soddisfatto di se stesso.
Riuscire a rubare la voce di una sirena per accedere ai suoi pensieri e conoscere così il futuro non era un accordo da poco…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Come avevo già anticipato sul gruppo di fb, il capitolo mi è venuto fuori più lungo di quanto avessi previsto. Inizialmente avevo in mente una specie di capitoletto di mezzo (come di fatto è) incentrato esclusivamente su Tremotino e Ariel e la sua trasformazione in umana, ma poi mi sono ricordata che Gaston non lo si vedeva da un po’ e non andava bene visto che il suo personaggio avrà un’importanza sempre maggiore, idem per Lady Marian, e peraltro non potevo pretendere che Anya e Vincent trascorressero quella che sarà una notte delle streghe per Liz semplicemente dormendo, così come era ora di fare un po’ più di chiarezza (anche se non del tutto) su Christine Hadleigh…non è finita, sappiatelo ;). A questo proposito…si accettano scommesse: perché il capo di Rick non voleva che la sposasse? ;).
Nel prossimo capitolo torneremo a Salem e vedremo Gretel in azione :).
Ringrazio SognatriceAocchiAperti, x_LilyW, Princess Vanilla e Sylphs per aver recensito e tutti i lettori silenziosi :). Grazie ragazzi, fa sempre piacere poter contare sul vostro appoggio, specialmente in periodacci come questo :).
Ciao, a presto!
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 32
*** Winter's Tale ***


Angolo Autrice: Innanzitutto, mi scuso per il ritardo, ma ho avuto parcchio da fare, ultimamente. Seconda cosa: invece del capitolo su Salem ho ritenuto opportuno pubblicarne prima un altro, un capitolo flashback così come lo era stato Straw. E' molto breve e, anche se forse lo troverete noioso e inutile, vi assicuro che avrà un suo perché nel corso della storia, quindi abbiate la pazienza di leggerlo. Ho scelto di pubblicarlo ora per un problema organizzativo, mi sembrava inopportuno rimandare.

Grazie, e prometto che dal prossimo torneremo a Salem :).

 

 

 

Winter's Tale

 

La carrozza si era lasciata alle spalle la Foresta Incantata che già aveva iniziato a nevicare, ma se prima la strada che correva fra gli alberi spogli era semplicemente ghiacciata e fangosa, adesso un manto di neve candida copriva interamente le vie del borgo e i tetti delle casupole. I cavalli facevano sempre più fatica ad avanzare in mezzo a tutta quella distesa gelida e scivolosa: Lord Walter, stretto nel suo mantello di mediocre fattura, riusciva a udire anche dall'interno dell'abitacolo i nitriti nervosi dei due animali e i borbottii spazientiti del cocchiere che li incitava ad andare avanti. Pensò per un attimo di dire all'uomo di fermare la carrozza per far riposare i cavalli, ma poi si disse che, con quella neve e quel freddo, sarebbe stato solo deleterio, senza contare che non avrebbero neppure trovato un po' d'acqua per abbeverarli, in quelle condizioni. E poi, il castello era vicino: lì, nelle scuderie, sarebbero stati curati meglio...e lui non vedeva l'ora di essere a casa.

Si sporse un poco per vedere oltre una delle finestrelle della carrozza, stringendo fra le mani il pomo d'ottone del suo bastone. Le strade erano pressoché deserte, fatta eccezione per qualche raro artigiano di ritorno dal lavoro, e non c'era da stupirsene. Con la neve e il gelo tutte le poche persone che vivevano nel borgo vicino al maniero se ne stavano chiuse in casa, magari di fronte a un fuoco acceso o a una minestra calda. Sperava. Era uno dei crucci che l'avevano tormentato durante quel viaggio estenuante: non si fidava abbastanza dei ministri e dei funzionari di palazzo per essere certo che avessero eseguito i suoi ordini. Aveva dato istruzioni affinché tutte le famiglie avessero almeno venti monete d'oro a testa così che potessero procurarsi legna da ardere e qualcosa di caldo da mettere in tavola, lussi rari in quella stagione che era stata caratteristica dei Tempi Bui. La maggior parte di coloro a cui aveva delegato questo compito aveva protestato dicendo che non sarebbe stato appropriato, nella sua posizione, fare l'elemosina alla plebe, ma lui non aveva voluto ascoltare repliche.

Era un piccolo feudo, quello che re Stefano gli aveva affidato il compito di governare in qualità di suo vassallo e, come tutte le piccole regioni del reame, era ancora più soggetto di altre alla tirannia del sovrano. Non si poteva dire che re Stefano fosse un monarca che s'interessava dei suoi sudditi, tutt'altro: Lord Walter era stato spesso a corte, e ogni volta che la lasciava era sempre più disgustato dall'opulenza scialacquata che vi albergava. Forse perché non ci era abituato, forse perché era sempre stato solito a vivere con modestia nonostante fosse il vassallo di quel feudo, e avesse sempre insegnato a sua figlia il valore dell'umiltà. Fatto stava che la noncuranza di re Stefano nei confronti del suo popolo lo aveva sempre ripugnato, motivo per il quale cercava di non seguire il suo esempio, per quel che poteva.

Lord Walter forse peccava di superbia, ma si era sempre considerato un buon vassallo e un bravo signore per il suo feudo: s'impegnava affinché il popolo soffrisse meno la fame, specialmente in periodi di carestia come lo era l'inverno, cercava di amministrare i beni e la giustizia nel modo che gli sembrava più equo. Si rendeva disponibile qualora ci fossero lamentele o rimostranze da ascoltare, era contrario alla pena di morte, a meno che non si trattasse di un reato gravissimo...Faceva del suo meglio, o almeno ci provava.

Di certo, era a posto con la propria coscienza. Una coscienza che re Stefano probabilmente nemmeno possedeva.

Bussò con il manico del bastone contro il tetto della carrozza, al che il cocchiere rispose.

- Dite, mio signore...!

- Quanto manca al maniero?- domandò Lord Walter.

- Non molto, mio signore. Fra poco saremo arrivati.

- Bene. Sbrighiamoci...voglio vedere mia figlia...- aggiunse a mezza voce, sistemandosi meglio sul sedile della carrozza. Era più di un mese che mancava da casa e, sebbene sapesse che la sua bambina fosse in buone mani, protetta dalle cure della sua nutrice, aveva pur sempre dodici anni e certamente aveva bisogno di lui. E poi, aveva sentito la sua mancanza, come sempre quando si allontanava dal maniero, fosse stato solo per pochi giorni.

D'un tratto, la carrozza sobbalzò violentemente, e l'intero abitacolo venne scosso più volte. Lord Walter si resse al sedile, mentre all'esterno i cavalli nitrivano di spavento e le imprecazioni del cocchiere venivano coperte da un rumore sordo. La carrozza s'arrestò bruscamente, inclinandosi di lato. Lord Walter si guardò un attimo intorno, smarrito, quindi si rialzò aiutandosi con il bastone e arrancò fuori dalla carrozza inclinata. Affondò gli stivali nella neve, mentre alla sua destra il cocchiere borbottava maledizioni mentre cercava di far calmare i cavalli.

Lord Walter si guardò intorno alla ricerca della causa di tutto ciò, e le sue ipotesi non tardarono a venire confermate: una delle ruote si era staccata dal perno, e ora giaceva abbandonata in mezzo alla strada innevata. Alcune persone si erano affacciate sulla soglia delle loro case attirate dal rumore, e lo fissavano sgomente.

Il cocchiere si avvicinò a Lord Walter, sputando per terra, rabbioso.

- Quei due bastardi di Jacob e Wilhelm Grimm devono averci lanciato qualche maledizione...!- gracchiò.- Prima questa neve, e adesso anche...

- Pensate di riuscire a ripararla? Quanto ci vorrà?- domandò Lord Walter.

- Non meno di un'ora - rispose il cocchiere.- Aspettate qui, vado a chiamare alcuni miei conoscenti alla locanda. Mi aiuteranno a rimetterla a posto.

- Molto bene. Vi darò anche io un aiuto...- si offrì Lord Walter, ma il cocchiere scosse il capo in segno di diniego.

- No, voi attendete qui, mio signore. Non è un lavoro per nobili come voi, questo, e non è salutare per il vostro ginocchio. Penserò a tutto io, voi non crucciatevi...

Lord Walter non rispose, cedendo a malincuore mentre il cocchiere si allontanava. Prese a guardarsi intorno, indeciso sul da farsi. Faceva un freddo dannato, sembrava quasi che il Grande Inverno avesse deciso di sprigionarsi nuovamente su quella terra come all'epoca in cui regnavano i fratelli Grimm. Si strinse nel suo mantello liso, muovendo qualche passo in avanti aiutato dal suo bastone.

Il suo ginocchio gli doleva ogni giorno di più, man mano che si avvicinava alla vecchiaia – trentotto anni erano già molti, per un uomo come lui – e questa invalidità che lo costringeva a camminare appoggiandosi a un bastone non era altro che l'ennesimo ringraziamento che doveva a re Stefano.

Si allontanò dalla carrozza dove il cocchiere e altri tre uomini avevano cominciato a cercare di riparare la ruota, insinuandosi in uno dei vicoli laterali del borgo.

Il dubbio che i suoi ministri non avessero fatto ciò che aveva loro ordinato l'aveva assillato per tutto il viaggio: ora aveva tutta l'intenzione di verificare almeno in parte che le sue sensazioni non fossero solo tali.

 

***


Il freddo faceva male.

Questa era una delle poche ed essenziali cose che Lucy, nei suoi dieci anni di vita, aveva imparato per sopravvivere. Il freddo faceva male, era cattivo. Non c'era da stupirsi se l'inverno era la stagione in cui accadevano le cose più brutte. Se un neonato nasceva d'inverno, allora quasi sicuramente moriva; d'inverno faceva più freddo, e lei non aveva mai abbastanza vestiti per coprirsi o legna per riscaldarsi; d'inverno mancava sempre il cibo, e le persone si ammalavano. Era stato l'inverno con le sue stalattiti ghiacciate che aveva ucciso sua madre, e solo l'inverno scorso anche la nonna era morta. Sospettava che anche suo padre fosse morto d'inverno, anche se questo non l'aveva mai saputo.

Sin da quando ne aveva memoria aveva chiamato padre quell'uomo che, solo mezz'ora prima, ubriaco, l'aveva colpita all'altezza dello zigomo lasciandole un livido violaceo che ora pulsava caldo e furioso sulla sua faccia intirizzita. L'aveva sempre chiamato padre, così come la mamma le aveva ordinato di fare, e solo quando a otto anni la nonna l'aveva presa sulle sue ginocchia e le aveva spiegato che quello schiavo dei Grimm altri non era che il secondo marito di sua madre, Lucy aveva cominciato a comprendere parecchie cose di cui prima d'allora non era mai riuscita ad afferrare il senso: ad esempio, perché quell'uomo si ritraesse sempre imprecando quando lei cercava di abbracciarlo, o perché la picchiasse anche per cose sciocche, come versare un bicchiere d'acqua sulla tavola.

Un padre non avrebbe mai fatto queste cose. Lucy ne era sicura, adesso più che mai, con la certezza che quell'uomo non era altri se non il suo patrigno e il fatto che, ancora una volta, lei fosse sola di notte in mezzo a una strada, con il volto gonfio di botte e le lacrime che le scaldavano le guance.

Fila a lavorare!, le aveva gridato, un attimo dopo averle rifilato un calcio nei polpacci tale da farla ruzzolare giù dai gradini che davano accesso alla loro catapecchia in periferia. L'aveva afferrata per lo scialle e l'aveva trascinata di peso verso la porta, scaraventandola fuori. L'aveva picchiata di nuovo, anche se a questo Lucy ormai c'era abituata: quando era piccola chiedeva sempre che cosa avesse fatto di male e implorava di essere perdonata. Ora, invece, non lo chiedeva più. Sì, supplicava sempre di non essere picchiata, ma...aveva smesso di chiedere il perché. Non c'era nessun perché, o meglio, ce n'erano troppi.

Il suo patrigno la picchiava perché era ubriaco, perché era cattivo, o perché non c'erano più sua madre o la nonna a prendere le sue difese, o perché semplicemente gli piaceva farlo. Certo, lui le ripeteva sempre che era una bambina stupida e inutile, e questo Lucy lo sapeva: se fosse stata utile almeno un po', lei e il patrigno non sarebbero dovuti morire di fame come rischiavano di fare ogni giorno, perché avrebbe lavorato di più.

Lucy sapeva e non sapeva il perché di tutto, ma non cambiava la sostanza: quello che aveva creduto suo padre per quasi dieci anni continuava a picchiarla ogni giorno, e lei ogni giorno piangeva.

Cercava di non farlo – i mocci lo facevano arrabbiare ancora di più –, ma proprio non ci riusciva. Le faceva male, quando la picchiava, e i segni non facevano mai in tempo a guarire che subito venivano sostituiti da altri. E non importava quanto lei s'impegnasse per fare pena ai passanti, come le aveva sempre ordinato di fare lui: le monete che guadagnava erano sempre troppo poche, e andava a finire ogni volta allo stesso modo, con lui che la picchiava e la insultava dandole della scansafatiche, e poi si accaparrava il denaro che veniva speso solo in vino e in altri fiammiferi.

Lucy si asciugò con forza le lacrime calde che le bagnavano il viso coperto di lividi e graffi, gemendo di dolore quando sfiorò inavvertitamente l'ematoma violaceo all'altezza dello zigomo. Le poche gocce di sangue che le spillavano dal labbro inferiore fino a poco prima ora si erano ghiacciate a causa del freddo. La neve continuava a cadere, sferzandole il volto.

Lucy si strinse nel suo scialle liso e stinto, troppo leggero per proteggerla dal gelo, e affondò i piedini nudi nella neve. Non ricordava di aver mai posseduto delle scarpe, e ora i suoi piedi erano bluastri per il freddo e pieni di croste e geloni. Strinse al petto il cestino stracolmo di fiammiferi. Li aveva raccattati uno per uno da terra quando il suo patrigno l'aveva sbattuta fuori casa, facendola cadere giù dalle scale.

Fila a lavorare!, aveva urlato. E vedi di non tornare prima di aver venduto tutti quei fiammiferi!

Il solo ricordo le fece venire voglia di piangere di nuovo, ma si trattenne, e continuò ad avanzare nella neve. Aveva anche creduto che vendere fiammiferi, specialmente in una stagione gelida come quella, avrebbe anche potuto fruttare qualcosa. Non molto, magari, ma qualche moneta, quel tanto che bastava per mettere qualcosa sotto i denti. Aveva anche sognato di rubare qualche soldo al suo patrigno per entrare nella bottega del fornaio e comprarsi una pagnotta calda, ma la paura delle botte l'aveva sempre frenata. In ogni caso, si era sbagliata: la gente non aveva abbastanza denaro nelle tasche o sufficiente buon cuore per prestare attenzione a una piccola fiammiferaia che mendicava in un angolo della strada.

Lucy uscì dallo stretto vicolo in cui si trovava, solo per svoltare l'angolo e ritrovarsi in un'altra stradina ancora più stretta della precedente. Di solito il suo posto era la piazza principale, seduta accanto al pozzo o alla locanda, ma quella sera sarebbe stato inutile provare ad andarci.

Le strade erano deserte, a malapena all'interno delle case s'intravedevano ancora le luci delle candele. Non c'era nessuno, e nessuno le avrebbe comprato fiammiferi, quella sera.

Lucy si accorse di avere i capelli biondi ormai impiastricciati di neve, ma non fece nulla per scrollarsela di dosso. Si sedette in un angolino alla fine della via, in una piccola zona d'ombra. Si raggomitolò su se stessa, nel tentativo di arginare il freddo, con poco successo.

In fondo, sapeva che era inutile rimanere ancora lì, ma non aveva il coraggio di tornare a casa dal suo patrigno. Si sarebbe certamente infuriato quando avesse saputo che non aveva venduto nemmeno un fiammifero.

Forse stanotte morirò, pensò Lucy. Se non mi ammazza lui, lo farà il freddo.

L'idea di morire non la spaventava, tutt'altro. Anzi, quasi ci sperava. Aveva dieci anni, sapeva ancora poco del mondo, ma da quel che aveva visto non c'era nulla per cui valesse la pena vivere. Gli altri bambini della sua età ridevano e giocavano nella piazza principale, mangiavano dolci e leccornie e la sera tornavano a casa da una madre e un padre che volevano loro bene.

Lei no. Lei non aveva più nessuno a parte quell'uomo cattivo che la costringeva a vendere i fiammiferi. La sua mamma era morta, e anche la nonna. Quando qualcuno moriva, tutti dicevano che i fratelli Grimm se lo erano portato via; Lucy aveva udito tantissime storie su di loro, racconti paurosi che la terrorizzavano, ma adesso, pensava, se Jacob e Wilhelm fossero venuti a prendere anche lei, allora magari l'avrebbero portata dalla mamma e dalla nonna.

Le avrebbe riviste, sarebbe stata insieme a loro e non avrebbe più dovuto tornare a casa dal suo patrigno a prendere botte. Non sarebbe più stata la piccola fiammiferaia del borgo.

Sorrise a quel pensiero. Fino a poco prima aveva avvertito un lancinante dolore alle mani e ai piedi, ma ora non sentiva più niente. Anche il livido all'altezza dello zigomo aveva smesso di pulsare, e i tagli non bruciavano più.

Lucy prese un fiammifero dal cestino e lo strofinò contro la parete di pietra di una casa fino a che questo non si accese con una debole fiammella. Se quella notte avesse dovuto tornare a casa, allora non si sarebbe mai azzardata a rubare un fiammifero, ma doveva morire, adesso, e non voleva farlo al freddo.

Si sentiva il capo pesante, le palpebre chiudersi. Lucy poggiò la nuca contro la parete della casa, cercando di rimanere sveglia. Non sentiva più né braccia né gambe, ma le sue dita continuavano a tenere stretto il fiammifero acceso. Lucy fissò la fiammella danzare flebilmente di fronte ai suoi occhi.

Le girava la testa, e presto cominciò a vedere i guizzi della fiammella sdoppiarsi.

Di fronte a lei ora il fuoco stava formando delle immagini ora nitide e ora sfuocate, l'immagine di una bambina che non era lei, ma che le somigliava molto, con lunghi capelli biondi e un bellissimo ed elegante abito. Lucy riuscì a sorridere debolmente, con un enorme sforzo di volontà. Ormai le forze la stavano abbandonando sempre di più, ma lei voleva comunque tenere gli occhi ancora aperti per vedere la fiammella. La bambina era scomparsa, e la suo posto ora c'erano due uomini, uno più vecchio che insegnava a un ragazzino a combattere con la spada. Forse erano due cavalieri.

Era un'immagine molto bella, che le piacque ancora più della precedente, ma durò poco.

Le scene successive furono una peggio dell'altra.

Il fuoco creò prima l'immagine di una donna che bruciava viva, poi quella di un maniero in fiamme e infine di un esercito di scheletri ossuti che cercavano di agguantarla.

Lucy sentì che il respiro le si era mozzato in gola, ma non avvertiva più alcuna sensibilità alle dita. Non aveva la forza di distogliere lo sguardo che, peraltro, si stava facendo sempre più appannato, le palpebre sempre più pesanti.

- Chi sei tu? Cosa ci fai da sola qui fuori, con questo freddo?

Il fiammifero le scivolò via dalle dita, cadendo a terra e spegnendosi all'istante al contatto con la neve. Lucy scosse il capo con violenza, come se si fosse risvegliata da un torpore, ma non sentiva comunque le membra e tenere la testa dritta le costava uno sforzo immane.

Sbatté le palpebre più volte, lasciandosi sfuggire un gemito soffocato mentre cercava di mettere a fuoco chi le stava di fronte. Era un uomo, alto e robusto, con capelli e barba scuri, ma non riusciva a distinguerne chiaramente i tratti del volto, complice la neve e lo sguardo annebbiato per la stanchezza.

Lucy tossì, senza più alcuna sensibilità né controllo del proprio corpo.

- Per le forze del Bene, chi ti ha ridotto in questo stato?!- esclamò Lord Walter, chinandosi di fronte alla bambina. Si tolse di dosso il mantello, avvolgendoglielo intorno alle spalle per riscaldarla. Lucy avvertì la stoffa grezza e ruvida contro la pelle, a malapena, ma comunque abbastanza per comprendere che, sebbene quell'uomo avesse l'aspetto di un nobile, il suo abbigliamento non si confaceva affatto al suo stato. Mugolò qualcosa d'indistinto, lasciandosi cadere in avanti, priva di forze. Lord Walter la sorresse per le spalle.

- F-fiammiferi, signore...- soffiò Lucy, quasi senza rendersene conto. Era stata abituata a ripetere quelle frasi talmente tante volte di fronte alle persone, che adesso le veniva spontaneo pronunciarlo.- Volete comprare dei fiammiferi?

- Che i Grimm siano maledetti, tu hai la febbre alta!- constatò Lord Walter, premendole una mano sulla fronte. Lucy ormai teneva gli occhi completamente chiusi, si lasciava manovrare come una bambola di pezza.

- F-fiammiferi...- gracchiò, prima di ricadere nuovamente in avanti. Lord Walter le circondò le spalle con un braccio e le passò l'altro sotto le ginocchia, prendendola in braccio. Era incredibilmente leggera, molto più di sua figlia, si ritrovò a pensare. Lo scialle che indossava quella bambina era troppo leggero per proteggerla, gli abiti erano stracciati e bagnati di neve, e il gelo della pelle contrastava con le fiamme di cui ardeva la fronte.

Era magra, denutrita, infreddolita e malata, non c'era bisogno di essere un osservatore esperto per capirlo. Lord Walter le fece poggiare il capo contro la propria spalla. Lucy era ancora cosciente, ma non aveva più alcuna forza per opporsi o per muoversi. La sua testa avrebbe penzolato nel vuoto se l'uomo non l'avesse sorretta.

Quasi non si rese conto che il nobile la stava portando in braccio, in direzione di una carrozza, ma quando entrarono all'interno dell'abitacolo Lucy, ancora fra le braccia di Lord Walter, avvertì subito un calore che le scaldò il cuore, oltre alle membra.

- Partiamo!- ordinò Lord Walter.- Al maniero, veloce!

La carrozza iniziò a muoversi. Lucy socchiuse appena gli occhi, solo per vedere dalla finestrella dell'abitacolo il suo cestino abbandonato che si allontanava sempre di più, con i fiammiferi sparsi sulla neve candida.

 

***

 

La prima cosa che Lucy avvertì quando riaprì gli occhi fu il calore. Un calore non soffocante, ma piacevole, come di quelli che aveva provato solo quando la mamma l'abbracciava o la nonna la prendeva sulle sue ginocchia per narrarle una storia. Quasi stentò a credere che provenisse dal semplice fuoco che scoppiettava nel caminetto, invece che da un abbraccio.

Lucy mugolò qualcosa, riaprendo finalmente gli occhi. Si guardò intorno, smarrita: non era più dove ricordava che fosse, in un angolo di una strada buia a vendere fiammiferi, bensì in una grande camera da letto, distesa su di un materasso morbido sovrastato da un baldacchino a tende rosse, il capo poggiato contro dei cuscini e un cumulo di coperte e lenzuola gettate addosso. Aveva le dita delle mani e dei piedi ancora intirizzite, ma andava decisamente meglio rispetto a prima.

Sono morta, pensò. I Grimm mi hanno portata via...

Ma fu un pensiero fugace dal momento che, quando riconobbe nell'uomo appoggiato contro la colonna del baldacchino lo stesso nobile che aveva incontrato nel vicolo, tutto le tornò alla mente con chiarezza. Più o meno. Non era sicura di come fossero andate esattamente le cose, ma sapeva solo che non era più in mezzo a una strada, a morire di freddo.

Lord Walter le sorrise, abbandonando il suo posto accanto alla colonna e avvicinandosi a lei.

- Come ti senti, piccola?- le chiese.

Lucy arrossì vistosamente, scivolando ancora di più sotto le coperte. Si sentiva parecchio imbarazzata, da una parte perché, ora che ce l'aveva di fronte, aveva riconosciuto nel suo salvatore niente meno che il signore del borgo, e dall'altra perché nessuno l'aveva mai trattata con così tanta gentilezza. Era solo una piccola fiammiferaia, in fondo.

Lord Walter si sedette sul bordo del letto accanto a lei. Lucy trattenne il respiro e frenò l'impulso di ritrarsi quando lui allungò una mano grande e callosa verso il suo volto. Abituata com'era a ricevere pugni e schiaffi, si stupì non poco che il nobile le scostasse una ciocca di capelli sporchi e bagnati dagli occhi.

- Chi ti ha fatto questo?- le domandò; fece scorrere lo sguardo su tutto il viso paffutello della bambina: un occhio era semichiuso e lo zigomo gonfio e livido, mentre il labbro inferiore era spaccato.- Chi è stato?

Lucy deglutì nervosamente, reggendo le lenzuola con le mani. Parlare con Lord Walter la metteva parecchio a disagio, ma lui adesso era lì a guardarla, e aspettava una risposta. Doveva dire qualcosa, un attimo di esitazione in più e sarebbe stato scortese.

- Mio padr...- si bloccò appena in tempo.- Il mio patrigno, mio signore.

- Il tuo patrigno...- fece eco Lord Walter in un soffio.- E' stato il tuo patrigno a obbligarti a uscire, stanotte?

- Sì, mio signore. Io...vendo i fiammiferi - trovò il coraggio di aggiungere.

- E tua madre? Dov'è?

- I fratelli Grimm l'hanno portata via, mio signore...

- Come?

- E hanno portato via anche la nonna.

Dopo quest'ultima frase, Lord Walter comprese immediatamente tutto quanto. Guardò nuovamente la bambina: non doveva avere più di dieci anni, eppure era così piccola e magra che ne dimostrava sette o otto. I capelli biondi erano sporchi e arruffati, il viso paffutello coperto di lividi e graffi e le dita piene di geloni. Lo squadrava con due occhi castani grandi e attenti, molto simili a quelli di sua figlia. Sorrise, accarezzandole il capo.

- Come ti chiami?- le chiese.

- Lucy, mio signore.

- Lucy...- ripeté Lord Walter, pensoso. Che doveva fare, adesso? Rimandare quella bambina dal suo patrigno sarebbe stato come condannarla a morte. Era quasi morta assiderata quella notte, ed era stata una fortuna che si fosse accorto di lei prima di risalire in carrozza. Se l'avesse rispedita indietro, certamente avrebbe continuato a vendere fiammiferi per strada per sopravvivere, e non ci sarebbe riuscita. L'uomo che lei chiamava patrigno avrebbe dovuto essere rinchiuso nelle segrete del castello, ma facendolo arrestare c'era il rischio che la bambina finisse in un orfanotrofio, dove le cose sarebbero andate anche peggio.

Lord Walter sospirò: era una decisione avventata, la sua, poco riflettuta. Un gesto non da lui...ma quello giusto da fare.

- Lucy...- Lord Walter le sorrise, accarezzandole i capelli.- Ti piacerebbe restare qui?

- Oh, sì! Io...so cucire - buttò lì la piccola fiammiferaia. Non era vero, non sapeva cucire: la nonna aveva provato a insegnarle a lavorare a maglia, quando era più piccola, ma non ricordava assolutamente nulla di quanto aveva imparato. Ma aveva comunque sentito la necessità d'inventarsi qualcosa: nei suoi dieci anni di vita l'unica cosa che aveva sempre fatto era stata vendere i fiammiferi in mezzo a una strada, e certamente in un grande castello come quello in cui abitava Lord Walter non c'era bisogno di una piccola fiammiferaia. Doveva rendersi utile, dimostrare di valere qualcosa come sguattera, o lui l'avrebbe rispedita dal suo patrigno.

Inaspettatamente, Lord Walter si aprì in una risata.

- Beh, ne sono felice. Mia figlia ha a noia il cucito, forse tu potresti farglielo piacere un po', visto che sei così brava...ma non credo che sarai mai costretta a cucire, qui.

- So...so anche lavare i pavimenti...!- si affrettò a dire Lucy, con disperazione.

Lord Walter chiuse gli occhi e sospirò, scuotendo il capo.

- Non hai capito, piccola. Io non intendo tenerti qui come...

La porta si aprì all'improvviso, impedendogli di concludere la frase. Lucy sollevò lo sguardo: erano appena entrate due persone, una una donna anziana vestita da cameriera, e l'altra una bambina che doveva avere circa uno o due anni più di lei. La piccola fiammiferaia sgranò gli occhi: era la stessa bambina che aveva visto nella fiammella. Aveva un viso un po' pallido ma grazioso, i capelli biondi e lisci lunghi fino alla vita e gli occhi castani. Era magrolina, ma comunque aggraziata. Il vestito che indossava era semplice, verde scuro con le spalline a sbuffo e le maniche ricamate con fili dorati. Teneva fra le braccia una bambola, stringendola a sé come se fosse stata una neonata. Lord Walter sorrise, alzandosi in piedi. Le tese una mano.

- Vieni, tesoro...- sussurrò, invitandola ad avvicinarsi al letto. La bambina ubbidì, seria e anche un po' incerta. Posò la bambola su una poltroncina, e si avvicinò al bordo del baldacchino. Lord Walter si rivolse alla cameriera.

- Andate in cucina e dite ai domestici di preparare qualcosa da mangiare, qualcosa di caldo. In fretta, mi raccomando. Fate chiamare la sarta, questa bambina ha bisogno di vestiti. E dite al dottore che sembra stare meglio, ma che deve essere qui domani mattina. Tesoro, vieni più vicino...- aggiunse poi, di nuovo rivolto alla bambina, mentre la donna faceva un rapido inchino e usciva.

Lucy ci mise un attimo a comprendere che si trattasse di sua figlia, anche se non si somigliavano per niente. Lord Walter le avvolse un braccio intorno alle spalle.

- Lei da oggi starà con noi - le spiegò.- Mi raccomando, ha ancora un po' di febbre...non devi farla agitare e da qui in avanti devi prenderti cura di lei come se fosse una sorella, intesi?

La bambina impiegò qualche secondo prima di rispondere, quindi alzò lo sguardo su suo padre e annuì. Lord Walter le scostò una ciocca di capelli biondi dietro un orecchio.

- Brava. Io vado a controllare come procedono le cose in cucina...tu resta qui a farle compagnia, va bene?- le diede un bacio su una tempia.- Ci vediamo fra poco, Lucy...- aggiunse poi, prima di uscire dalla camera.

Lucy era perplessa: quindi, Lord Walter non intendeva tenerla al maniero come serva? A quanto pareva no. Ma allora...?

La piccola fiammiferaia guardò la bambina che le stava di fronte. Teneva le mani giunte in grembo, e la guardava di sottecchi. Lucy deglutì: le faceva una strana impressione rivedere in carne e ossa un sogno, e non sapeva spiegarsi come ciò fosse possibile. Il silenzio si fece velocemente teso, pesante. Lucy cominciava a sentirsi a disagio: chi poteva saperlo, forse la figlia di Lord Walter non era troppo entusiasta della sua presenza al maniero...

Rimasero a guardarsi in silenzio per un tempo che a entrambe parve infinito, quindi la bambina più grande si schiarì la voce e drizzò il capo.

- Papà ha detto che hai la febbre...- mormorò.- Come...come stai, adesso?

- B-bene - balbettò Lucy, tirandosi le coperte fin sotto al mento. Non stava troppo bene, a dire il vero: l'iniziale sensazione di calore era scomparsa, e ora lei era pervasa da brividi di freddo. Tentò di raggomitolarsi ancora di più sotto le coperte, ma servì a poco.

La bambina se ne accorse.

- Hai freddo?- le chiese.

Lucy annuì. La bambina esitò qualche istante, quindi si avvicinò al caminetto, chinandosi accanto a esso. Chiuse le mani a coppa, quindi le dischiuse leggermente, soffiandovi sopra. Lucy sgranò gli occhi dallo stupore quando vide uscire dalle sue mani una lingua di fuoco che si depositò sulle braci del camino, facendo scoppiettare ancora di più le fiamme.

- Meglio?- le domandò la bambina un attimo dopo, come se nulla fosse.

Lucy balzò a sedere.

- Come hai fatto?!- sbottò, incredula.

La bambina non rispose subito, ma nascose le mani dietro la schiena e si fece rossa in volto.

- Per favore, non ti spaventare - pigolò un attimo dopo.- Papà non vuole che lo faccia. Lo sappiamo solo io, lui e la mia nutrice, e lei è votata al silenzio. Ho pensato di dirlo anche a te perché...beh, perché fai parte della famiglia, adesso - quell'ultima frase ebbe il potere di distrarre momentaneamente Lucy da quanto era appena successo, ma subito tornò a prestare attenzione a ciò che diceva la bambina.- Per favore, non dirlo a nessuno!- implorò quest'ultima.- Papà non vuole che si sappia. Dice che non devo dirlo ad anima viva.

- Perché?- a Lucy venne spontaneo chiedere.

- Perché...ha paura per me.

- Paura?

- Sì, lui dice...dice che la gente è cattiva, e che se sapesse cosa so fare cercherebbe di farmi del male. E' successo anche a mia madre: lei è morta. Un re l'ha uccisa perché sapeva fare quello che faccio io. E papà dice che non sopporterebbe che mi facessero del male.

- Sono...poteri magici, quello che hai appena fatto?

- Credo di sì.

- Sei una fata?

- No.

- Sei una strega, allora?

- Io...non lo so.

Lucy non trovò nient'altro da chiedere: guardò quella bambina, il modo in cui cercava di giustificarsi. In fondo, pensò, se anche era una strega, che importava, se era buona? Non le avrebbe fatto del male...

- Non lo dico a nessuno - assicurò, guadagnandosi un sorriso di gratitudine. La bambina si avvicinò di nuovo al letto.

- Vuoi giocare un po' con la mia bambola?- propose, prendendo in braccio la suddetta che aveva prima lasciato su una poltroncina.

- Non...non so come si gioca - confessò Lucy.- Non ho mai avuto una bambola.

- Beh, è facile - assicurò la figlia di Lord Walter, sedendosi sul letto accanto a lei.- Puoi farla parlare...puoi cullarla facendo finta di essere la sua mamma...e quando sono in tante puoi fare anche una recita...oppure puoi pettinarla. Guarda: così!- si sporse a prendere una spazzola posata su una cassapanca, e iniziò a pettinare con delicatezza i riccioli della bambola.

Lucy osservava la scena incantata, praticamente dimentica di tutto ciò che era successo un attimo prima. La bambina sorrise, porgendole la bambola.

- Vuoi provare tu?

La piccola fiammiferaia prese la bambola fra le braccia con attenzione, e cominciò a spazzolarle piano i riccioli. Sorrise contenta.

- Mi piace giocare con le bambole!- esclamò.- E poi, che altro si può fare?

- Beh, puoi dormire insieme a lei...guarda...- la figlia di Lord Walter prese la bambola dalle mani di Lucy e la sistemò accanto a lei, sotto le coperte. La piccola fiammiferaia si accoccolò sul materasso, abbracciando il pupazzo.

- Se vuoi, puoi dormire insieme a lei, stanotte - propose la bambina.- Così, ti abitui a stare qui. La puoi abbracciare...a me aiuta sempre, quando non riesco a dormire.

- Grazie, ma...è tua!- provò a obiettare Lucy.

- Non fa niente. Te la presto volentieri. Poi, domani mattina ti faccio vedere le altre, così giochiamo insieme...- disse la bambina con un gran sorriso. La piccola fiammiferaia annuì, grata, quindi si tirò su a sedere le tese una mano.

- Comunque, io mi chiamo Lucy - si presentò.

La figlia di Lord Walter ricambiò la stretta di mano, sorridendo.

- Piacere, Lucy. Io sono Carabosse.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: Come vi avevo anticipato, è un capitolo molto breve e con ben poca azione, ma spero davvero che non vi abbia annoiati troppo. Forse vi sembrerà un flashback inutile, ma sarà indispensabile per parecchie vicende future che vedranno coinvolti i personaggi di questo capitolo.

Un grazie per la pazienza e a tutti coloro che leggono e recensiscono. Prometto che tornerò il più presto possibile con qualcosa di interessante.

Un bacio,

Beauty

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Capitolo 33
*** A Gingerbread House Deep in the Forest, part 1 ***


A Gingerbread House Deep in the Forest

part 1

 

Elizabeth non sapeva bene che cosa aspettarsi, da una locanda delle fiabe. A dirla tutta, non aveva avuto poi neanche molto tempo per farsi una proiezione mentale, dato che solo ora si rendeva conto che il suo cervello doveva essere sprofondato in stato comatoso dal momento in cui avevano lasciato Belle. Non aveva pensato a nulla né sentito nulla, e nella sua testa si rincorrevano solo le immagini di quanto era appena accaduto, senza trasmetterle alcune emozioni. Vedeva Belle e Gerda, il Cacciatore che firmava con quella croce tremolante, Hansel che entrava in casa sfondando la porta...

Si era riscossa solo quando Cenerentola le si era avvicinata e l'aveva presa sottobraccio, continuando a camminare fianco a fianco a lei. Elizabeth aveva scosso il capo per riprendersi da quella sorta di torpore, e si era accorta che ormai lei, la bionda, il Cacciatore e Hansel erano giunti alle soglie di quello che era a occhio e croce l'ingresso principale della locanda.

Sorprendentemente, tutto ciò che vide fu un'esatta copia di come Elizabeth aveva supposto fosse una locanda delle fiabe. L'insegna recante la scritta La meravigliosa incantatrice campeggiava sopra la porta, una trave di legno tarlato a cui era inchiodata la suddetta insegna, anch'essa di legno mezzo marcio e con le lettere scrostate. La costruzione era a due piani, costruita con un misto di fango, pietra, legno e paglia, e dava l'idea di essere talmente fatiscente che, Elizabeth aveva pensato in un lampo di follia che la spaventò non poco, se fosse arrivato un lupo e avesse soffiato a pieni polmoni l'avrebbe certamente abbattuta.

Con l'interno andò un po' meglio, anche se la totale assenza di clienti non faceva supporre che gli affari andassero a gonfie vele. Comunque, il salone in cui entrarono era abbastanza ampio, illuminato e pulito, con alcuni tavoli circolari sistemati al centro, delle candele a rischiarare l'ambiente e due grosse botti – Elizabeth presumeva stracolme di qualche alcolico – sistemate orizzontalmente contro una parete della stanza, proprio quella opposta al bancone. La locandiera – una donna alta e decisamente robusta – stava in piedi dietro di esso.

Senza che nessuno gli chiedesse nulla, Hansel si era avvicinato a lei e aveva preso a discutere parlando a bassa voce, molto fitto, tanto che nessuno di loro era riuscito a comprendere cosa stesse dicendo. Lei e Cenerentola avevano cercato di cogliere qualcosa osservando le labbra – senza peraltro alcun risultato apprezzabile –, ma il Cacciatore non si era nemmeno curato di dire o fare qualcosa. Non aveva spiccicato parola da quando avevano lasciato la casa di Belle, e aveva seguito Hansel a capo chino, rialzandolo solo di tanto in tanto per dare un'occhiata al cielo.

Avevano perso molto più tempo di quanto sembrasse, e mancavano poche ore al tramonto.

Alla fine, Hansel aveva smesso di borbottare con la locandiera ed era ritornato da loro, spiegando la situazione.

- La signora è stata così gentile da offrirvi delle stanze fintantoché rimarrete a Salem, così non sarete costretti ad alloggiare presso quella strega.

- Non è una strega...- aveva sibilato il Cacciatore fra i denti, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Hansel; quest'ultimo aveva poi continuato:

- Mi è stato chiesto di riferirvi che, qualunque cosa abbiate bisogno, il borgomastro sarà lieto di aiutarvi. E posso dire lo stesso di me - aveva accompagnato quest'ultima osservazione con un rapido inchino rivolto alle due ragazze, quindi era tornato a rivolgersi alla locandiera.- Grazie, signora. Vi prego di tenere pronta quella camera che vi ho chiesto. La strega trattiene presso di sé un'altra persona, una giovane donna incinta. Le ho domandato di venire via, ma non ha voluto: credo che tema per sé e per la sua creatura, o che sia sotto l'effetto di un maleficio. Cercherò di convincerla a lasciare quella casa.

- Sarà sicuramente prigioniera di qualche stregoneria!- aveva commentato la locandiera, con un vocione che aveva risuonato contro le pareti.- Portatela via da quella casa, signore. Quella strega ha già mietuto troppe vittime con i suoi malefici...!

- Belle non è una strega e Gerda non è vittima di nessun maleficio!- era insorto il Cacciatore, così all'improvviso che Elizabeth si era spaventata. Si era rivolto ad Hansel, guardandolo con ferocia.- Ci tenete proprio a tormentare un'innocente e una donna incinta, vero? Lasciatele in pace, non sono nelle condizioni di sopportare...

- Tacete, o vi faccio arrestare per aver preso le difese di una fattucchiera!- aveva tuonato il cacciatore di streghe.- Vi sto facendo un favore, non fatemene pentire.

Il Cacciatore non aveva dato l'impressione di voler star zitto, anzi, era sul punto di rispondere, ma Cenerentola si era fatta avanti e gli aveva scoccato un'occhiata implorante. L'uomo non aveva detto nulla, ingoiando il boccone amaro.

Hansel si era schiarito la voce.

- Venite, vi faccio strada...

Li aveva accompagnati fino al piano superiore, lungo una scala di legno scricchiolante e anche un po' traballante. Elizabeth, forse per mancanza di attenzione o a causa di un gradino cedevole, era stata sul punto d'inciampare...ma il cacciatore di streghe l'aveva sostenuta, prendendole una mano.

Allora, lei non aveva potuto fare a meno di voltare il capo e guardarlo negli occhi: Hansel non aveva commentato, ma le aveva rivolto un rapido sorriso continuando a sorreggerla, aiutandola a salire, e le aveva lasciato la mano solo quando lei e Cenerentola si erano trovate di fronte alla camera che era stata loro assegnata.

E adesso, Elizabeth proprio non riusciva a non sentire le tracce di quel contatto contro il palmo della propria mano.

Sospirò, liberandosi della felpa e della maglietta e lasciando scivolare i jeans sul pavimento, rimanendo in biancheria intima di fronte a quel catino. Gettò un'occhiata dietro di sé, proprio sopra la sua spalla: si era liberata della sacca contenente il libro di favole non appena aveva messo piede nella camera, e ora questa se ne stava sul letto dove l'aveva gettata. Si era aperta, e la parte superiore del libro di favole spuntava fuori dalla stoffa scura.

Elizabeth si assicurò che non ci fosse nulla di strano – anche se non sapeva esattamente che cosa, forse si aspettava qualche luce evanescente o roba simile –, quindi tornò a occuparsi di se stessa. Afferrò la morbida pezzuola appoggiata al bordo del catino e l'impregnò d'acqua, strofinandoci contro una delle scagliette di sapone che trovò in una scatoletta in un angolo della stanza, ripetendo meccanicamente ciò che Cenerentola le aveva detto di fare. Si strofinò rapidamente la pezzuola su tutto il corpo, rabbrividendo per il freddo ma cercando comunque di lavarsi tutta, senza lasciare indietro nessun punto. Vide la polvere e i residui di erba sciogliersi e scivolare via dalla pelle, e solo questo la fece sentire più pulita. Quando ebbe finito afferrò altre due scagliette di sapone, bagnò i capelli con l'acqua gelida e li strofinò ciocca per ciocca, sciacquandoli infine con l'acqua del catino.

Alla fine, si sentì decisamente meglio, e dovette ricredersi di tutto il suo scetticismo quando Cenerentola le aveva spiegato come fare per lavarsi. Calciò via gli abiti sporchi e si volse nuovamente verso il letto, afferrando quella che doveva essere una camicia da notte, messa a disposizione dalla locandiera. Era bianca e larga, e la stoffa era un po' ruvida.

Elizabeth l'indossò senza problemi, sentendosi infinitamente bene, ma la sensazione del palmo di Hansel contro il proprio non se ne andava. Chiuse rapidamente la mano a pugno due o tre volte, sgranchendosi le dita, ma quella non spariva.

- Liz? Sei pronta?- giunse una voce da dietro lo spogliatoio, che non era altro se non un telo di stoffa assicurato a due chiodi piantati nella parete.

- Sì...

Cenerentola sbucò fuori dallo spogliatoio, anche lei con una camicia da notte bianca identica a quella che indossava lei. Aveva i capelli raccolti in una treccia.

- Se solo potessi avere anche una cuffietta...- sospirò, gettando un'occhiata al pavimento.- Sono i tuoi vestiti, quelli?

- Oh! Sì...scusa - Elizabeth si chinò in fretta per raccoglierli, ma la bionda fu più svelta. Raccattò i jeans luridi, stendendoli con le braccia aperte di fronte a sé. Inarcò un sopracciglio.

- Che strana stoffa!- commentò.- Ancora non mi hai spiegato come mai eri vestita da uomo...

- Non ero vestita da uomo...- mormorò Elizabeth.- Da dove vengo io, tutte le ragazze si vestono così.

- Le ragazze indossano i pantaloni?- Cenerentola parve ancora più stupefatta, e raccolse da terra anche gli altri vestiti.- Ma...come fai? Come fanno tutte le donne del tuo reame? Non indossavi nemmeno un corsetto! E queste scarpe...!

- Da me i corsetti non esistono. Non più - precisò la ragazza; si lasciò sfuggire una risatina imbarazzata.- E, se posso permettermi, meno male: non credo siano molto comodi.

- No, non lo sono. Questo te lo concedo.

- Non saprei nemmeno come allacciarli...

- Facciamo così...- Cenerentola ghignò, piegando i jeans e lasciandosi poi cadere sul materasso del letto.- Quando tutto questo pasticcio sarà risolto, io prometto che t'insegnerò a indossare un corsetto...e tu, in cambio, mi farai provare un paio di quelli - sogghignò indicando i jeans.

Elizabeth sorrise, sedendosi cautamente sul materasso. Era un letto a due piazze: Hansel aveva procurato al Cacciatore una stanza singola, e a loro due una camera da dividere. Doveva ammettersi che il pensiero di condividere il letto con nientemeno che Cenerentola le provocava un po' d'imbarazzo, ma tutto sommato poteva anche passarci sopra. Le sembrava quasi di condividere qualcosa con un'amica. Al liceo, durante le gite scolastiche, quello era un lusso che non si era mai potuta permettere: tutte le sue compagne di classe cominciavano già giorni e giorni prima della partenza a scegliersi le coinquiline nella stanza dell'albergo, a fare progetti per pigiama party e nottate da trascorrere sveglie a chiacchierare e fare pettegolezzi.

Lei aveva partecipato a una sola gita scolastica, che sarebbe dovuta durare cinque giorni ma di cui lei ne aveva fatti solo tre, e questo quando aveva quattordici anni: Ursula, Jessica e compagnia l'avevano chiamata Liz-Hadleigh-Mangiamerda per tutto il tragitto dalla scuola superiore di New York all'hotel di Worcester, colpendola in testa con dei libri. Una volta arrivati in albergo, lei aveva elemosinato un posto in compagnia con qualunque altra ragazza della comitiva, anche con chi non conosceva. Alla fine le altre studentesse della sua classe avevano dichiarato a gran voce che nessuna di loro aveva la benché minima intenzione di dividere la stanza con quella lagna della Hadleigh, chi assicurava che non fosse una pazza isterica proprio come sua madre e non tentasse di ammazzarle tutte nel sonno?, e così lei si era ridotta a dormire nella stessa camera con la professoressa di biologia, una sessantenne che soffriva di emicrania e che non sopportava la televisione e la luce troppo intensa.

Come se non bastasse, la mattina seguente aveva trovato i suoi occhiali rotti sul comodino, e le sue compagne di classe non avevano fatto altro che farle dispetti e prenderla in giro per tutta la gita. Era finita che, al terzo giorno, aveva telefonato in lacrime a suo padre pregandolo di venirla a prendere.

Richard aveva guidato fino a Worcester e ritorno con lei che non la smetteva di frignare, ma non aveva capito quale fosse il vero problema. Elizabeth aveva ancora in mente la conversazione che avevano avuto loro due, sempre le stesse domande e le stesse risposte, come un disco rotto.

- Ma si può sapere che cos'hai?

- Non mi sentivo bene.

- Perché stai piangendo?

- Non sto piangendo, ho il raffreddore.

- Perché hai voluto che ti venissi a prendere prima?

- Te l'ho detto, non mi sentivo bene.

- A me sembri in forma.

- Ho mal di testa.

- Vuoi che ti accompagni da un dottore?

- No.

- Elizabeth, è successo qualcosa?

- No, niente.

- Sei sicura?

- Ho detto che non è successo niente, papà.

Frasi sospettose, ma niente di più. Richard non aveva capito nulla, e lei non sapeva spiegare perché non gli avesse detto la verità. Forse la sua era una richiesta d'aiuto implicita, sperava che lui ci arrivasse da sé, ma si era resa conto che era pretendere troppo da suo padre. Anya in quel periodo stava uscendo da un bruttissimo periodo, e quindi non aveva detto nulla nemmeno a lei.

Non aveva più partecipato a una gita scolastica.

- Per me puoi provarli anche subito...Ella - si azzardò a dire, a mezza voce, quasi avesse paura. Si sarebbe aspettata che la bionda scattasse sulla difensiva, o che fosse sorpresa di sentirsi chiamare con quel nome; invece, Cenerentola si voltò a guardarla con un sorriso amaro e sornione insieme.

- Hai letto il mio vero nome, eh?- fece, piegando un poco il capo.

Elizabeth arrossì senza sapere il motivo, e annuì.

- Era lo stesso di mia madre. Nessuno mi chiama più così da anni.

- Tu...tu ti sei presentata come Cenerentola - osservò timidamente la ragazza.

- Sì. Dopo anni in cui convivo con questo nomignolo, ci sono abituata - la bionda si lasciò cadere sdraiata sul materasso, e incrociò le braccia dietro la nuca, fissando il soffitto.- Madame Tremaine e le mie sorellastre me lo hanno affibbiato una volta in cui avevo la faccia sporca di cenere per aver pulito il camino, e da allora non hanno mai smesso di chiamarmi così.

Elizabeth non disse nulla, e si morse il labbro inferiore. Si sistemò meglio sul materasso, incrociando le gambe. La sensazione del palmo di Hansel contro il proprio non se n'era ancora andata: si massaggiò la mano con delicatezza.

- Tipo strano quel cacciatore di streghe, uhm?- commentò Cenerentola all'improvviso, abbandonandosi distesa sul letto e incrociando le braccia dietro la nuca, fissando il soffitto.

- Perché strano?

- Non saprei...credo che sia una mia sensazione - la bionda si strinse nelle spalle.- Sembra molto...convinto di ciò che dice. Mi riferisco alla stregoneria. Era certo che quella levatrice fosse colpevole...

Elizabeth non sapeva bene cosa rispondere, quindi stette zitta, attorcigliandosi una ciocca di capelli intorno all'indice. Cenerentola sollevò il busto facendo leva sul gomito, girandosi su un fianco.

- Comunque, è stato molto gentile, non trovi?- la bionda sghignazzò, quindi strisciò fino alla parte superiore del letto e si accoccolò contro un cuscino.- Non so tu, ma io sono felicissima di poter dormire in un letto...!

- Anch'io...!- Elizabeth ridacchiò, ma la sua nascente ilarità venne stroncata un secondo dopo da Cenerentola, la quale si drizzò a sedere.

- ...e di non dover essere ospite di quella levatrice.

Elizabeth tornò seria di colpo, guardando l'altra; la bionda sprimacciò un paio di volte il cuscino, prima d'infilarsi sotto le lenzuola. La ragazza si avvicinò a lei, con cautela.

- Perché dici questo?- chiese, incerta.

- Non lo so, io...- borbottò Cenerentola.- E' che...non mi fido. Un attimo prima viene quasi impiccata con l'accusa di stregoneria, e quello dopo ride e chiacchiera come se non fosse accaduto nulla.

- La...la gente ha preso le sue difese...- provò a obiettare Elizabeth.- E' stata riconosciuta innocente, no?

- Non del tutto - la bionda si voltò, guardandola negli occhi.- Liz, credimi, a me non piace insinuare, ma...non pensi che ci sia un motivo, se è stata accusata? Voglio dire, perché proprio lei e non qualche altra donna? Le voci possono essere maligne, lo so, ma so anche che le cose non nascono così dal nulla...

- Pensi che Belle sia davvero una strega?- il pensiero la faceva rabbrividire, e non se ne stupiva. Una parte di lei le suggeriva che, dopo Biancaneve impazzita, il licantropo, la profezia e tutto il resto, avrebbe dovuto essersi abituata a tutte quelle stranezze, eppure lei ancora faticava a farsene una ragione. Non bastava essere finita in un mondo dove i personaggi delle fiabe la facevano da padrone, no: doveva anche accettare il fatto che in quel luogo ogni regola e logica fossero state completamente abbattute in favore del caos più totale. Forse era per questo che non riusciva a concepire questo lato distorto delle fiabe, ma se pensava anche solo a quello che era accaduto a Cenerentola, comprendeva che tutto ciò faceva parte della vita reale: non sempre le cose andavano come ti aspettavi; non sempre ottenevi il tuo lieto fine, anzi, spesso non lo raggiungevi mai.

Cenerentola si strinse di nuovo nelle spalle.

- Non lo so se è una strega o meno, ma posso dirti che non ci tengo a scoprirlo. Sono solo contenta di non dover stare in casa sua, stanotte.

- Il Cacciatore sembrava fidarsi di lei.

- Già. Anche troppo, per i miei gusti.

Elizabeth sgranò gli occhi, mentre la bionda si girava su un fianco e si sistemava meglio sul materasso, dando totalmente l'impressione di volersi mettere a dormire, ma la ragazza comprese al volo che era tutta scena e nient'altro. Si lasciò sfuggire un sorrisetto involontario che si affrettò a reprimere, e gattonò più vicina a Cenerentola.

- Ti piace, vero?

- Che cosa?

- Non cosa, piuttosto chi.

- Eh?

- Sto parlando del Cacciatore - sbuffò Elizabeth alla fine, alzando gli occhi al cielo; non riusciva a capire se Cenerentola davvero non capisse o se piuttosto stesse facendo finta di nulla. La bionda si drizzò a sedere con tanta velocità da farla sobbalzare.

Si pentì amaramente di aver parlato; in genere non era così sfacciata, la parte della saputella rompiscatole in genere se l'accaparrava Anya, e neppure sempre. Questo perché sua sorella aveva cervello, a differenza sua. Arrossì vistosamente: era perennemente così. Ogni volta che si ritrovava a parlare con qualcuno che le desse l'impressione di starla a sentire, il filtro che collegava cervello e bocca si scollegava, e lei sparava fuori qualche idiozia a sproposito.

Forse era per questo che non aveva amici: se lo era meritato.

- Ma che dici!- Cenerentola dava l'idea di non sapere se ridere o se schernirsi, fatto sta che si girò nuovamente per non guardare Elizabeth negli occhi.- Ho chiuso con gli uomini dalla fregatura che ho preso con il Principe Azzurro. Credo che lui fosse l'emblema del genere maschile.

Elizabeth arrossì ancora di più, tenendo lo sguardo basso. Una remota parte del suo subconscio – quella che non stava mai zitta neppure quando avrebbe dovuto, per la precisione – le stava facendo notare che Cenerentola di fatto aveva girato intorno alla sua domanda pur di non risponderle, ma insistere sarebbe stato fastidioso, oltre che da benemeriti imbecilli.

- Tu, piuttosto!- non aveva neppure terminato di vergognarsi che venne raggiunta da una cuscinata in piena nuca, accompagnata da una risata della bionda.- Hai finito o no di civettare con il bel cacciatore di streghe?

- Io...non...uff!...stavo civettando!- provò a protestare Elizabeth, sollevandosi dal materasso in cui era sprofondata dopo quel colpo di guanciale, e di nuovo le sue guance tornarono a prendere fuoco. Anya diceva sempre che un giorno di questi lei sarebbe cotta come un pollo allo spiedo, e in effetti non era troppo lontana dal vero.- Mi spieghi in che modo avrei civettato? Con un...- si bloccò appena in tempo; stava per dire personaggio delle favole dunque, nella sua testa, inesistente, ma forse Cenerentola non avrebbe gradito.

- Non ha fatto altro che squadrarti per tutto il tempo...!

- A parte che non è vero...e io che c'entro?!

Cenerentola stava per ribattere, ma dei colpi contro la porta non glielo permisero. Qualcuno stava bussando. Elizabeth si alzò dal letto con un sospiro, arrancando in direzione della porta.

- Salvata dalla porta...!- commentò la bionda, incrociando le braccia dietro il capo e stendendosi sul letto. Lo sguardo le corse al pavimento, dove erano sistemati quei...come li aveva chiamati Liz? Jeans, se non andava errato...ben piegati, e sul volto le spuntò un sorrisetto sornione.

Elizabeth raggiunse velocemente la porta, inspirando a fondo per far passare il rossore, e socchiuse appena il battente per sbirciare fuori.

- Chiedo scusa, non avevo intenzione di disturbare...!- disse il Cacciatore mentre lei apriva di più la porta e si affacciava sulla soglia. L'uomo le pareva ancora un po' a disagio per la faccenda della croce al posto della firma di poco prima.

- No, nessun disturbo...io ed Ella ci stavamo sistemando per la notte...- soffiò la ragazza.

- Ho pensato che questi vi sarebbero potuti servire...- il Cacciatore le pose fra le braccia due pesanti mantelli di stoffa nera e ruvida, ben piegati.- Per il freddo. Il Grande Inverno si avvicina, e dovremo cercare di proteggerci dal gelo il più possibile, quando riprenderemo il cammino.

- Grazie...- Elizabeth azzardò un lieve sorriso.- Cosa...cosa faremo, domani?

- Ci sto ancora pensando. Credo che sia opportuno seguire il consiglio di Belle, e procurarci dei libri. Lì, c'è sempre scritto qualcosa di utile...o almeno, così mi hanno detto - il Cacciatore si schiarì la voce, guardando il pavimento.- Tutto starà nel convincere la locandiera a parlare con il borgomastro, affinché ci dia accesso ai libri.

- Cosa cerchiamo, esattamente?

- Qualsiasi cosa che ci aiuti. Belle ci darà una mano...

Elizabeth pensò istintivamente che Ella non ne sarebbe stata entusiasta, affatto, ma un urlo disumano proveniente dall'interno della stanza la tolse dall'imbarazzo di dover fornire una risposta.

- Oh, per tutte le forze del Bene che hanno sparso la polvere di fata su questo mondo! Liz! Liz, perché non mi hai mai detto che questa calzamaglia era così comoda?!

Elizabeth fece appena in tempo a scansarsi che Cenerentola la raggiunse sulla soglia della porta, su di giri, con la camicia da notte arrotolata intorno alla vita e i suoi jeans addosso. Incredibilmente, sembrava che le fossero stati cuciti su misura.

- Ma sono stupendi!- trillò.- Non avevi mai indossato dei vestiti da uomo, ma...che meraviglia! Niente gonne strette, niente corsetti, niente...ehm...- smise di botto di saltellare quando si accorse della presenza del Cacciatore, e arrossì vistosamente, ammutolendo. L'uomo parve improvvisamente interessato allo stipite della porta.

- Non...non voglio impicciarmi di questioni...ehm...come dire...riguardanti voi donne, quindi...- accennò a un saluto con una mano, allontanandosi lungo il corridoio.- Dormite bene.

- Grazie...buona notte...- mormorò Elizabeth, a stento, mentre Ella riuscì solo a emettere un verso soffocato che aveva un po' dell'imbarazzo e un po' dello sgomento. Elizabeth fece dietrofront e richiuse la porta della stanza. La bionda vi si abbandonò contro, accasciandosi contro il legno.

Si nascose il volto fra le mani.

- Che figuraccia...!

 

***

 

Gerda puntellò i gomiti contro il materasso, sollevando il busto per appoggiarsi meglio contro un cuscino. Abbandonò il capo contro la testiera del letto, inspirando a fondo per poi espirare lentamente, come le aveva insegnato Belle. Si passò entrambe le mani sul ventre arrotondato, avvertendo i calcetti del bimbo contro i palmi. La sua amica levatrice le aveva spiegato che, a mano a mano che il bambino cresceva nella sua pancia e questa si faceva sempre più rotonda, anche i semplici calcetti diventavano più dolorosi, lievemente, ma certo era che si avvertivano con più intensità.

Belle le aveva insegnato a fare dei respiri lunghi e profondi, in modo da diminuire il fastidio, rilassarsi e contemporaneamente prepararsi per quando fosse giunto il momento del parto. Gerda non lo ammetteva mai ad alta voce, ma aveva una gran paura di quel giorno: era il suo primo figlio, dunque non aveva idea di come funzionasse...ma aveva udito i racconti delle altre donne di Salem, di quanto fossero dolorose le doglie e di come tutto quanto potesse durare anche un'intera giornata, se non di più. Partorire la spaventava, doveva confessarlo. Senza contare che avrebbe voluto avere vicino Kay, quando fosse stato il momento. Certo, sapeva che tutti i mariti avevano l'obbligo di attendere fuori dalla stanza fino a che tutto non fosse finito, ma l'idea di averlo lì vicino, fosse stato anche solo al di là di una porta chiusa, mentre lei partoriva, sarebbe comunque bastato a farla sentire meglio. E invece, lui ora non c'era...e chissà quando sarebbe tornato.

Gerda chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi più sulla respirazione e meno su Kay: il bambino sembrava essersi calmato, almeno un poco.

La porta della camera da letto si aprì piano, e Belle scivolò dentro la stanza come se temesse di fare rumore. Gerda la guardò: la sua amica s'era cambiata d'abito, ora indossava un vestito dalla gonna lunga e stretta color marroncino chiaro, un po' malandata, e il bustino bianco con le maniche a sbuffo che lasciavano scoperte le spalle, intorno alle quali era avvolto uno scialle scuro. Belle aveva i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle e reggeva in mano una candela accesa, la cui fiamma seppur flebile faceva risaltare ancora di più il pallore del suo volto. Gerda non se ne stupiva: dopo tutto quello che aveva passato – e ancora doveva passare, non aveva scordato le sue parole di quel giorno – era normale che il colorito roseo della sua pelle fosse scomparso.

Belle era sempre stata una bella giovane, o almeno così pensava Gerda. A volte, confessava di invidiarla per quella sua bellezza particolare, un po' contadina, forse, ma comunque forte e spiccata come un fiore selvaggio. Al confronto, lei si sentiva piccola e insignificante, e spesso si domandava perché mai Belle avesse scelto un futuro da zitella: i pretendenti non le erano mancati, quando ancora suo padre non aveva perduto tutta la sua fortuna, e Gerda ricordava che anche lì a Salem, all'inizio, quando era solo la levatrice e non la presunta strega, diversi giovani scapoli le facevano la corte.

Belle, invece, pareva indifferente a tutti, così come si lasciava scivolare addosso le chiacchiere maligne sul suo conto – già venticinque anni e non sposata, è inaudito!, gracchiavano le vecchie vedove di Salem –, e a Gerda non era mai parso che le mancasse la presenza di un uomo al suo fianco.

Per lei, che era innamorata di Kay sin da quando erano bambini, era una cosa inconcepibile.

- Perché la candela?- le domandò, mentre Belle posava il lume su di una vecchia cassapanca.

- Il cielo si è scurito - rispose la levatrice, gettando un'occhiata alla finestrella della camera che, una volta, era stata di sua sorella Astrid. Gerda seguì il suo sguardo: il tempo si era rannuvolato e, anche se non era ancora giunto il tramonto, presto sarebbe stato buio, e minacciava pioggia.

Belle si avvicinò al letto e si sedette accanto a lei, sul bordo del materasso.

Gerda si umettò le labbra.

- Tuo padre?- chiese.- Sta dormendo?

- Sì. Come sta il piccolo?- domandò immediatamente la levatrice, cambiando argomento.

- Scalcia...- Gerda non riuscì a trattenere un sorriso di contentezza al quale Belle si unì; le fece cenno di stendersi meglio sul materasso, quindi le posò entrambe le mani sul pancino di quasi cinque mesi. Rimasero entrambe in silenzio, mente la levatrice faceva scorrere delicatamente i panni sopra la stoffa della camicia da notte dell'amica, tastando con attenzione ogni angolo del suo ventre, quasi come se volesse accarezzare il bimbo che si muoveva al suo interno. Gerda tratteneva il fiato, scrutando ogni movimento di Belle: era esperta, aveva fatto nascere decine di bambini lì a Salem, e lei non avrebbe saputo trovare mani migliori in cui affidare se stessa e suo figlio non ancora nato, eppure ogni volta temeva che lei le dicesse qualcosa di brutto. Gerda era consapevole di essere molto esile, di avere i fianchi stretti, troppo stretti per essere adatti a partorire, e avvertiva il proprio fisico come il suo più acerrimo nemico durante quella prima gravidanza. Se poi ci aggiungeva anche il fatto che era appunto la prima volta che era incinta e che doveva trovarsi a partorire, beh, il terrore l'assaliva ogni volta che si trovava a pensare al momento in cui sarebbero iniziate le doglie.

Tante donne morivano, durante il parto. Quello era un dato di fatto. La stessa nonna di Gerda era spirata nel dare alla luce uno dei suoi tanti figli, e anche una sua cugina, tempo addietro, aveva perduto la vista insieme al suo bambino. Ma Belle...Belle era brava, sapeva il fatto suo e come gestire quelle situazioni. E, anche se qualcosa fosse andato storto, Gerda sapeva che la sua amica levatrice aveva più di un asso nella manica: bastava pensare a cosa era accaduto alla moglie del fabbro: lei e il suo bambino sarebbero certamente morti se Belle non avesse...

- Si è girato - annunciò all'improvviso la levatrice, guardandola negli occhi.

Gerda sbatté le palpebre.

- Come hai detto?

- Il bambino si è girato. Senti - Belle le prese una mano, facendogliela poggiare sul pancione.- Qui c'è la testa e qui invece i piedini - spiegò, facendo in modo che Gerda tastasse i punti da lei indicati.- E' nella giusta posizione, pronto per la nascita. Uscirà con la testa per prima, non potrebbe andare meglio di così...

- E'...- Gerda deglutì, nervosamente.- E' una buona notizia, quindi?

- Decisamente sì - Belle annuì con forza.- Ricordi che cosa ti ho detto di fare quando inizierai a sentire dolore?

- Respiri profondi...- mormorò Gerda in risposta.

- E...?

- Ehm...

- Dovrai spingere - precisò la levatrice, sempre con un sorriso.- Dovrai spingere con tutte le tue forze. Non preoccuparti, comunque, quando sarà il momento anche il bambino spingerà a sua volta per uscire.

- E...e se non lo facesse?

- In tal caso penserò io a fare pressione sul ventre, ma di questo non devi avere pensiero - Belle si alzò in piedi, facendole l'occhiolino.- Tu per ora continua ad esercitarti a respirare e non fare alcuno sforzo. Mancano ancora quattro mesi, avremo tutto il tempo per prepararci...

- D'accordo - Gerda si sistemò meglio sul materasso. Belle si stava sistemando lo scialle sulle spalle; si lisciò brevemente la gonna, quindi fece per uscire dalla stanza.

- Belle!

La levatrice si arrestò con un braccio a mezz'aria, teso ad afferrare la maniglia della porta. Si voltò a guardare Gerda, con sguardo interrogativo. L'altra si sollevò a sedere sul letto, poggiando il dorso contro i guanciali.

- Non...non lo desideri mai?- trovò il coraggio di chiederle.- Intendo, avere un bambino...

Belle impiegò diversi secondi prima di rispondere, quindi si strinse nelle spalle con noncuranza.

- Non mi sono mai posta questa domanda - disse semplicemente.- So che non avrò mai dei figli, Gerda, è inutile che mi crucci su questo pensiero. Il mio mestiere è far nascere i bambini degli altri...non crescerne di miei.

- Perché dici che non ne avrai mai?- incalzò Gerda.- Voglio dire...potrebbe anche capitare, un giorno...

Belle attese ancora qualche secondo, quindi sfoderò un sorriso che aveva molto del ghigno beffardo.

- Immagina di essere un uomo come Kay o uno dei miei fratelli, e di essere in cerca di una moglie: fra tutte coloro che hai a disposizione, ne sceglieresti una fra le centinaia che sono normali, che desiderano più di ogni altra cosa una casa e una famiglia, oppure la levatrice strega del villaggio, povera in canna, svergognata dal padre e dalle sorelle, già venticinquenne, che sa leggere e scrivere e che non ha nessuna intenzione di sposarsi se non per amore, che non arriverà mai?

- L'amore...l'amore arriva con il tempo...- provò a protestare Gerda.- I miei genitori e i miei suoceri volevano che io e Kay ci sposassimo già quando eravamo dei bambini. Eravamo promessi sposi, ma ci siamo innamorati prima del matrimonio, ed eravamo dei ragazzi. Tu non sei troppo vecchia per trovare un marito, c'è ancora tempo...

- Gerda, tu e Kay siete un caso su migliaia, e comunque non è questo il punto!- ribatté Belle, esasperata.- A parte che piuttosto che sopportare tutta la vita un fedifrago che corre dietro alle gonne di ogni pulzella della città mentre io mi spacco la schiena a crescere i suoi marmocchi preferirei tornare da Hansel e chiedergli d'impiccarmi per davvero, io sono una strega! Che sia vero o falso, che la gente ci creda o no, io da questo momento in avanti non sarò più guardata come un tempo...ricordi cosa ti ho detto qualche ora fa? Si avvicinano tempi duri, e non parlo solo della Regina Cattiva, del Grande Inverno o dei fratelli Grimm!

- Tu non sei una strega!- disse istintivamente Gerda, per poi ammutolire un attimo dopo. La levatrice si piantò le mani sui fianchi, inarcando un sopracciglio. L'altra arrossì vistosamente, e si accarezzò piano il ventre.- Voglio dire...- mugugnò.- Non come dice Hansel. Tu...tu non...non trasformi la gente in rospi, non diventi un animale maligno, non lanci sortilegi cattivi...tu...

- Non cambia nulla. Questa città è popolata da pecore e conigli: sono bestie paurose, preferiscono cercare un nascondiglio piuttosto che affrontare una minaccia. Perché credi che altrimenti mi avrebbero condannato alla forca, Gerda? Non vogliono vedere, non vogliono ammettere che i Grimm stanno per tornare...non osano dire una sola parola contro la Regina per paura che questa li stani con il suo maledetto specchio e gliela faccia pagare...pochi hanno il coraggio di guardare in faccia alla realtà, e guarda dove sono: nella Foresta Incantata, a nascondersi come animali braccati. Salem non ha voluto credere che la profezia si sta avverando, che la leggenda del ritorno dei Grimm non è più solo una storia per spaventare i bambini...come pensi che potrà credere che le streghe non sono solo esseri malvagi? Che io non sono come Malefica, o la Strega Cieca che divora i lattanti...

- Il Cacciatore ti avrebbe creduto, ne sono sicura. E non tutti gli uomini sono dei fedifraghi. Mio marito non lo è...e nemmeno Robin Hood, o il Cacciatore...un uomo come lui sarebbe perfetto per te...- provò a dire Gerda, ma l'entusiasmo le si smorzò non appena vide la smorfia di Belle.

- E' un caro amico, ma non potremmo mai stare insieme come marito e moglie. Senza contare che la bionda che si è tirato dietro mi strangolerebbe ancora prima di giungere all'altare...

- La bionda?

- Sì, quella che pareva aver ricevuto un calcio negli stinchi ogni volta che mi guardava...

- A me non è sembrata gelosa.

- Allora vuol dire che oltre che incinta sei anche cieca.

Gerda non trovò più nulla per replicare e se ne stette zitta. Belle smoccolò un poco il lume, quindi si lisciò malamente le pieghe della gonna. Guardò fuori dalla finestra: il cielo si era davvero oscurato per la pioggia, complice anche il fatto che il sole stava per tramontare. La levatrice rimase a fissare le nuvole scure senza vederle veramente: era stata una giornata durissima, traumatica, in poche ore aveva rischiato di venire impiccata e subito dopo aveva dovuto costringersi a recuperare il sangue freddo, perché c'erano cose più importanti a cui pensare. Il Cacciatore si era presentato a casa sua con una serie di notizie che avrebbero fatto capitolare chiunque: Cappuccetto Rosso e sua nonna erano morte assassinate dalla Regina, e questo significava non solo la perdita di altri membri della Ribellione, ma anche l'interruzione di tutte le comunicazioni. I messaggio non avrebbero più potuto essere recapitati, non finché qualcuno al campo dei ribelli non si fosse dato una svegliata e non avesse trovato qualcun altro che avesse pari fegato a quello che aveva avuto una ragazzina di tredici anni per recapitare le notizie; e in ogni caso, la Regina Cattiva di sicuro aveva già provveduto a inviare i suoi soldati in ogni angolo della Foresta Incantata in modo da sbarrare più vie possibili e rinforzare i controlli e la caccia ai rivoltosi; quella ragazzina sgomenta che il Cacciatore si era portato dietro probabilmente era la Salvatrice, anche se non ne aveva proprio l'aria, e aveva anche una sorella potenziale candidata, dispersa chissà dove e forse morta, il che, se fosse stato confermato, avrebbe segnato la rovina di tutti loro. Quelle due erano anche le figlie del più grande traditore del Regno delle Favole, secondo solo a Vincent...il quale ora stava dalla parte della Regina Cattiva, con tutto ciò che questo comportava. Le persone continuavano a sparire, non avevano notizie di Kay, né di Robin Hood e dei suoi. L'unica nota positiva in quella cascata di eventi funesti era che Lady Marian era viva, ma restava comunque una prigioniera al palazzo della Regina Cattiva...

E ora lei aveva lasciato che il Cacciatore, la bionda e la Salvatrice, se ne andassero via con quel bastardo di un cacciatore di streghe, in una notte da lupi. E di notte accadevano le cose peggiori: le conveniva credere o no alla voce secondo cui l'Uomo Nero era stato liberato?

Gocce di pioggia avevano cominciato a cadere dal cielo e a infrangersi contro il vetro della finestra, ma Belle non le vide nemmeno. Si accorse che stava diluviando quando la voce di Gerda si levò più alta di quanto non avesse fatto nei cinque minuti precedenti.

- Belle? Belle!

La sua amica stava strillando. La levatrice trasalì, riscuotendosi all'improvviso, e scosse il capo con forza per riprendersi e al contempo per mettere a fuoco ciò che le stava dicendo.

- Che ti prende? Ti senti male?- fece Gerda, accorata. Belle scosse ancora il capo, più piano.- Che ti è successo? Ti sei incantata?

- Io...credo di sì. Scusa.

Gerda rimase a guardare attonita la sua amica che apriva la porta con furia per uscire nel corridoio.

- Ma...dove vai?- boccheggiò. La levatrice si fermò sulla soglia.

- In città. Alla locanda della moglie del borgomastro.

- Perché?- domandò Gerda, attonita.

- Io...- Belle guardò il pavimento, stringendo le dita intorno alla maniglia della porta fino a far sbiancare i polpastrelli.- Non lo so. Una...una brutta sensazione.

- Ma che...

- Mio padre non dovrebbe svegliarsi per stanotte. Tu cerca di stare tranquilla, in un paio d'ore sarò di nuovo a casa...

- Ma Belle...

La levatrice richiuse la porta della stanza senza ascoltare la replica, e scese velocemente le scale. Giunse al pianterreno, e s'infilò in fretta un paio di stivali consunti. Recuperò da sopra un'alcova uno dei vecchi scialli di sua madre, di un marrone stinto, e se lo sistemò sopra le spalle.

Spalancò la porta d'ingresso, arretrando appena di fronte al temporale che imperversava. Inspirò a fondo: da quando aveva scoperto la sua doppia natura, con essa erano venuti a galla anche strani sensi, capacità di percepire cose che un essere umano comune non sarebbe stato in grado di avvertire. Era una proprietà che interessava solo le fate, oltre che le creature della notte come gli uomini lupo. O le streghe.

Belle si tirò lo scialle sul capo e lo strinse alla gola, avventurandosi sotto la pioggia diretta alla locanda.

 

***

 

Elizabeth era rimasta per più di un'ora distesa sotto le coperte, girata su un fianco a guardare fuori dalla finestra la pioggia che cadeva forte e fitta, con gli occhi aperti nel buio. Il sole era appena calato, non era ancora notte, ma lei e Cenerentola avevano deciso di coricarsi presto, per essere maggiormente in forze l'indomani, quando avrebbero cominciato le ricerche di...non si sapeva bene cosa. Ci si era lambiccata il cervello per due giorni: la bellezza nella morte?; il riflesso della verità? Che diamine erano, e dove si trovavano? Non si poteva dire che lei avesse scovato il sogno infranto, era più corretto dire che ci avesse sbattuto il naso contro, dal momento che mai e poi mai avrebbe immaginato che l'oggetto misterioso fosse in realtà la scarpetta di cristallo di Ella.

Ma ciò non significava che potevano permettersi di andare a fortuna ogni volta. Il Cacciatore faceva molto affidamento su Belle, e dunque c'era solo da sperare che lei potesse dar loro una mano.

Elizabeth si era infilata sotto le lenzuola con questi ragionamenti che le rimbalzavano nella testa e con quelli era rimasta, sveglia, al buio, e con l'ormai familiare groppo alla gola che sopraggiungeva ogni qualvolta si azzardava a pensare a sua sorella. Da una parte, aveva piena fiducia in Anya – insomma, sua sorella aveva sempre ampiamente dimostrato di sapersela cavare benissimo da sola, anzi, in genere era lei quella ad aver perennemente bisogno d'aiuto –, ma dall'altra aveva avuto la prova che in quel luogo non era il caso di scherzare troppo con il fuoco. Chi poteva saperlo, le balenò in testa improvvisamente, magari Anya non si trovava neanche più nel Regno delle Favole. In fondo, lei era rimasta nei pressi della capanna della Fata Turchina, quando si era aperto quel vortice...era vicina a papà...forse era riuscita a tornare indietro e a scovare una strada per ritornare a casa.

Sì, ma Tremotino ha detto che non ce n'erano. Te lo ricordi? Crawford ha parlato di una parete in mezzo alla Foresta Incantata, e voi avete girato per ore come delle povere inette senza trovare nulla. E Tremotino ve l'ha detto chiaro e tondo.

(“Non ci sono pareti, nella Foresta Incantata. Non so chi ve l'abbia detto, ma è la più grossa delle menzogne. Avete mai provato a immaginare un muro di mattoni che spunta dall'erba come le radici di un albero? Vi pare possibile? No, non credo proprio”).

Elizabeth scattò a sedere sul letto non appena la sua coscienza cominciò a riportarle indietro la voce precisa e sputata di quell'uomo. Sì, ma era un uomo? La fiaba della Figlia del mugnaio diceva che era un folletto, ma quello aveva tutta l'aria di un giovane uomo neanche poi tanto più vecchio di lei...quanti anni poteva avere? Venticinque, ventisei?

Scosse il capo, chiudendo gli occhi. In ogni caso, non ci doveva pensare. Sarebbe stato da stupidi: insomma, di chi voleva fidarsi? Del procuratore Crawford, il capo di suo padre, un uomo che comunque sapeva il fatto suo, oltre a essere più informato di loro due su quel luogo...o di uno sconosciuto sbucato fuori da chissà dove che non si era limitato a prenderle per i fondelli, ma non contento le aveva anche mollate in balia di un lupo umanoide?

Tremotino, folletto o uomo che fosse, era un essere maligno. Lo diceva anche la fiaba. E l'aveva confermato anche la Fata Turchina.

(“Non fidatevi di Tremotino!”).

Elizabeth sospirò rumorosamente, scostandosi una ciocca di capelli che le era finita di fronte agli occhi. Si voltò appena per vedere Cenerentola, al suo fianco, che dormiva tranquilla, dandole le spalle. A quanto pareva la figuraccia con il Cacciatore non le aveva impedito di crollare dal sonno, e lei la invidiava tantissimo. Scostò piano le lenzuola per non svegliarla, e abbandonò il materasso: di dormire non se ne parlava proprio, non per quella notte. E dire che era stata sul punto di mettersi a saltellare per la contentezza quando aveva realizzato di aver a disposizione un letto con cuscini e coperte...invece, vuoi per la preoccupazione per Anya, vuoi perché le mancavano papà e casa sua, vuoi per quella situazione e il dubbio se fosse lei o no la Salvatrice, e vuoi anche per il ricordo di Tremotino che si sovrapponeva continuamente alla faccia di Hansel, non riusciva a chiudere occhio.

Gattonò per cinque minuti buoni sul pavimento alla ricerca delle proprie scarpe da tennis, ma le vigliacche dovevano essere finite in qualche angolino sperduto della stanza che lei al buio non riusciva a raggiungere. Arraffò a tentoni gli stivali nuovi di Ella, sperando che le andassero bene, e li infilò. Di uscire con solo addosso la camicia da notte non le sembrava il caso, quindi si gettò sulle spalle il mantello che le aveva regalato il Cacciatore. Era di stoffa ruvida, ma comunque molto caldo, ed era un piacere averlo addosso.

Sempre al buio, arrancò fino alla porta, socchiudendola appena. Nella stanza si riversò un debolissimo raggio di luce, ma Cenerentola non si svegliò.

Elizabeth sgusciò fuori senza fare rumore.

 

***

 

Mulan si era abituata a quella vita. Non aveva potuto farne a meno. Quando uno dei pirati era venuto da lei, la prima volta, non aveva nemmeno provato a opporre resistenza: si era detta che, in fondo, se le stava capitando tutto questo, era perché se l'era meritato.

Anche il generale, quando l'aveva scoperta e aveva dato ordine di arrestarla, gliel'aveva detto. Te lo sei meritato, le aveva urlato pieno d'orgoglio ferito, e anche suo padre lo pensava. Hu se n'era rimasto in silenzio con sua moglie stretta al braccio mentre i soldati la portavano via. Non le aveva detto nulla, nemmeno una parola d'addio, ma d'altra parte Mulan non se lo sarebbe nemmeno aspettata. Era partita per la guerra con le migliori intenzioni, e aveva finito con il gettare addosso del fango all'onore della sua famiglia. I suoi genitori probabilmente erano anche stati sollevati di non dover più sopportare una figlia costretta a fingersi un uomo e a passare da una battaglia all'altra, invece di sposarsi e dare figli a suo marito come tutte le altre giovani del villaggio. Nessuno le aveva detto nulla, quando l'avevano portata via, ma lei aveva letto fin troppo bene ciò che dicevano gli occhi di suo padre: te lo sei meritato. Se l'era cercata, avrebbe dovuto prevedere che quella farsa non sarebbe potuta durare in eterno. Non poteva dire di essersi stancata degli abiti maschili – al contrario, si trovava meglio in quelle vesti che stretta in lunghi e femminili vestiti scomodi quasi quanto l'etichetta a cui erano obbligate tutte le ragazze del suo villaggio –, ma le donne del paese e le vicine di casa avevano ben presto iniziato a spettegolare, a lanciare insinuazioni neanche poi tanto velate quando incontravano sua madre al mercato, e presto le voci avevano abbandonato le case delle vecchie comari per diffondersi anche fra i loro mariti e i figli. Sarebbe stata solo questione di tempo prima che la scoprissero, anche se il generale non si fosse intestardito così tanto nel voler farle sposare sua figlia.

Aveva fatto tutto da sola, se l'era cercata e aveva avuto ciò che si meritava.

Era una consapevolezza che l'aveva quasi uccisa, e forse si sarebbe anche lasciata morire se il lenone a cui l'aveva consegnata il generale non l'avesse tenuta in vita a suon di schiaffi e facendole ingurgitare cibo e acqua a forza. Il viaggio dalla sua terra natia fino all'isola di Tortuga era stato sfinente, e lei e le altre schiave erano state stipate su di un carro fino al porto, e poi strette nella stiva di una nave fino a che non avevano attraccato presso l'isola dei pirati. Due di loro erano morte durante la prima parte del viaggio, e una terza l'avevano ritrovata senza vita una mattina nel corso della traversata.

Mulan ricordava di aver sentito una delle sopravvissute mormorare qualcosa di simile a buon per loro o sono state fortunate, a cui nessuno aveva replicato. Tutte sapevano a quale destino stavano andando incontro, e lei non faceva eccezione. Aveva veduto più volte la fine che facevano le ladre o le mogli adultere, e conosceva il mestiere dei lenoni. Ma non aveva provato a scappare, non aveva fatto nulla: aveva sempre combattuto, in vita sua, lottato, prima per salvare suo padre e poi per continuare a mantenere il suo segreto, ma dopo che l'avevano scoperta era come se le avessero sottratto ogni energia. Continuava a ripetersi che le stava bene, che se l'era meritato, e dunque doveva affrontare le conseguenze del suo sbaglio.

Non aveva idea del perché Capitan Uncino avesse scelto proprio lei. C'erano delle altre schiave di gran lunga più avvenenti e che certo avevano più classe e conoscevano maggiormente le buone maniere, anche se a pensarci bene a un pirata non avrebbe potuto importare granché di queste cose. Mulan pensava che, per qualche sconosciuto motivo, doveva essergli piaciuta. Aveva sussultato quando quel ragazzo giovanissimo con un uncino al posto della mano si era girato a bisbigliare due parole rivolto a Spugna e poi l'aveva indicata al lenone. Non le aveva detto molto, mentre la conduceva sulla Jolly Roger: le aveva solo chiesto come si chiamasse e le aveva comunicato freddamente che aveva bisogno di una donna che calmasse i bollenti spiriti della sua ciurma, quindi vedesse di fare la brava.

E così era cominciata la sua seconda vita, stavolta come sgualdrina su di una nave pirata, costellata di sesso sporco e malesseri dovuti alle onde. Quando stava male erano gli unici momenti in cui trovava ancora la forza di sfoderare gli artigli e cacciare via qualunque idiota che non fosse in grado di capire che andare a letto con una che rischiava di vomitare a ogni sobbalzo della nave non era il massimo dell'erotismo per nessuno dei due, ma per il resto si comportava docilmente come una di quelle mogli sottomesse che sua madre avrebbe tanto voluto lei fosse. Stava tutto il giorno chiusa in quella piccola cabina che Uncino aveva riservato apposta per lei, con solo un letto scomodo con lenzuola sporche e il puzzo di chiuso, di pesce avariato e di sudore; aspettava che qualcuno venisse da lei, faceva quello che doveva – quasi tutti le facevano male, erano ben pochi quelli che si curavano di essere gentili, ma non interessava né a loro né a lei –, e poi si dava una ripulita in attesa del prossimo.

La notte dormiva pochissimo e mangiava ancora meno, e sempre uova e pesce che Spugna le passava su di un piatto sporco due volte al giorno. Era dimagrita in maniera spaventosa in tutti quei mesi, e spesso il capitano della Jolly Roger le ripeteva che se non si decideva a mettere su un po' di carne e a farsi sparire quelle occhiaie nere, allora lui l'avrebbe scaraventata in mare e si sarebbe procurato un'altra puttana.

Era un tipo strano, Uncino. Mulan aveva sentito dire che il suo vero nome fosse James Hook, ma nessuno lo chiamava mai così, e non occorreva grande intelligenza per intuire da dove provenisse quel soprannome che gli era stato affibbiato. Aveva sì e no diciotto anni, eppure comandava un branco di balordi e un'intera nave pirata. Non veniva quasi mai da lei, ma le poche volte che lo faceva era sempre distaccato, quasi non gliene importasse nulla di provare piacere o meno; c'era comunque da dire che stava attento a non farle male. Almeno, quando lei si comportava bene. Erano i suoi momenti di ribellione che lo mandavano in bestia, e non mancava mai di farle pagare la sua insubordinazione. L'ultima volta, poco prima che scoppiasse quella tempesta, Spugna era andato a riferirgli che lei aveva graffiato un pirata e cacciato via a male parole i due nuovi che Uncino aveva inviato per farla ragionare. E non l'aveva frenato il fatto che, a quanto dicevano, durante quel nubifragio avesse quasi rischiato di annegare o di essere divorato dal coccodrillo: non appena si era ripreso era sceso nella sua cabina e l'aveva colpita più volte con la fibbia della cintura sulle gambe, e che le servisse da lezione.

Adesso era notte inoltrata, e lei non riusciva a dormire non solo a causa del movimento della nave, ma anche per il bruciore di quei graffi e quei lividi. Mulan sollevò il busto puntellandosi su un gomito, e scostò appena la vestaglia dai polpacci per tracciare con un dito i segni di quegli ematomi. Uncino non ci aveva dato giù pesante come altre volte, ma le aveva comunque martoriato le caviglie, tanto che l'unico membro dell'equipaggio che aveva avuto il tempo di venire da lei nonostante tutte le riparazioni da apportare alla Jolly Roger se n'era scappato con aria disgustata alla vista di quelle escoriazioni. Poco male.

Mulan si alzò dal letto, stringendosi addosso la vestaglia. Raramente saliva sul ponte principale, ma la sua nausea non era ancora passata; forse un po' d'aria salmastra le avrebbe fatto bene.

 

***

 

Elizabeth sussultò quando un tuono ruppe il silenzio della locanda, ma subito riprese a camminare lungo il corridoio. L'unica fonte di luce proveniva da alcuni candelabri accesi affissi al muro, ma le candele si stavano lentamente consumando. Si strinse nel mantello e zampettò fino alla scalinata che avevano percorso per giungere nelle loro camere. Fuori continuava a piovere a dirotto, e faceva freddo, troppo freddo perché fossero veramente a ottobre come quando lei e Anya avevano lasciato New York. Ma le stagioni erano le stesse anche in quel mondo?

Elizabeth raggiunse la scalinata, aggrappandosi alla ringhiera di legno scheggiato. Ci mise qualche istante per mettere a fuoco l'immagine della sala sottostante a causa del buio, ma infine riuscì a distinguere senza difficoltà i tavoli e le botti di vino contro la parete opposta a quella del bancone. Non c'era nessuno, nemmeno la locandiera, sebbene l'ambiente fosse più illuminato rispetto al solo corridoio. Elizabeth rimase immobile per qualche istante, ascoltando la pioggia che batteva contro i vetri. Le girava un po' la testa, ma non aveva sonno; anzi, si sentiva più vispa che mai. Scese qualche gradino della scala, ma subito si bloccò, sospirando, e si accucciò a terra, con una spalla premuta contro la ringhiera. Giocherellò svogliatamente con una ciocca di capelli, annoiata. Non c'era un motivo preciso per cui aveva lasciato la stanza, semplicemente era stufa di starsene a letto senza riuscire a fare altro se non rimuginare e ancora rimuginare.

Il ricordo di Crawford e di Tremotino aveva preso una piega che la spaventava non poco. La Fata Turchina aveva detto di non fidarsi assolutamente di lui, questo era vero, ma occorreva anche guardare i fatti: Crawford aveva parlato di una parete come quella che le aveva condotte nel Regno delle Favole, e che sarebbe anche stata in grado di riportarle a casa. Aveva anche indicato loro la strada da percorrere, all'interno della Foresta. Lei e Anya avevano girato in tondo senza trovare nulla, rischiando anche di finire scannate da Biancaneve. Poi era arrivato Tremotino che con il suo fare supponente aveva comunicato loro che di pareti alla Harry Potter nella Foresta Incantata non ce n'era nemmeno l'ombra. A chi credere?

Se – se! – Tremotino aveva detto la verità...questo voleva dire che Crawford aveva mentito. Fatto che Elizabeth ora considerava quasi certo dato che sia lei che – molto probabilmente – Anya ancora girovagavano per il Regno delle Favole. Questo apriva degli scenari spaventosi: perché Crawford avrebbe dovuto mentire? Che motivo aveva per far sì che lei e sua sorella si perdessero nella Foresta Incantata? Cosa ci avrebbe guadagnato?

...e il procuratore era anche il capo di suo padre. Questo significava che...

Il rumore di oggetti sposati la fece sobbalzare, ma forse fu anche a causa dell'adrenalina che aveva iniziato a scorrerle in corpo. Elizabeth si guardò intorno stringendosi il mantello alla gola, mentre un miagolio sommesso giungeva dal fondo delle scale. Guardò in basso: un gatto grigio a strisce più scure, tutto bagnato, stava salendo i gradini nella sua direzione.

Era il randagio che avevano incrociato a casa di Belle.

Elizabeth fece un mezzo sorriso, mentre il gatto la raggiungeva e si sedeva a pochi metri dalla sua coscia. Lei fece un segno di saluto con la mano.

- Ehi, ciao...- mormorò, ridacchiando e fregandosene della sensazione di sembrare un'ebete.- Che fai qui? Perché non sei a casa di Belle?

Il gatto, come da copione, non le rispose, ma si scrollò in modo da asciugarsi, per poi balzarle in grembo. Elizabeth s'irrigidì, mentre il felino si strusciava contro le sue ginocchia, facendo le fusa. La ragazza si rilassò, cominciando ad accarezzarlo distrattamente sul dorso e dietro le orecchie, gesto che il gatto parve apprezzare molto.

Elizabeth guardò fuori dalla finestra: il temporale non accennava a calmarsi, anzi, stava peggiorando. Pensò che fosse ora di tornare in camera, non fosse stato altro per non spaventare Cenerentola, qualora si fosse svegliata e non l'avesse trovata. Le sarebbe piaciuto poter parlare ancora un po' con il Cacciatore, e si rese conto che era sparito quasi subito, non appena il sole aveva cominciato a calare.

Non si accorse che c'era qualcuno alle sue spalle fino a che questi non le posò una mano sulla spalla. Elizabeth lanciò un grido di spavento tale da far spaventare il micio, che balzò giù dal suo grembo con un miagolio innervosito.

La ragazza alzò lo sguardo, incrociando quello di Hansel, in piedi alle sue spalle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: Capitolo un po' lento e incentrato essenzialmente sulle emozioni, ma comunque necessario. Come credo di aver già detto in passato, preferisco sempre dare spazio alle emozioni dei personaggi, perché a mio parere la grave pecca che ho riscontrato in parecchie storie fantasy è quella di dare troppo tutto per scontato: da come nasce un amore o un'amicizia alle motivazioni che portano un certo personaggio a comportarsi in una certa maniera o a compiere una data azione. Faccio giusto giusto una breve inquadratura nell'eventuale chiarimento di perplessità.

Siamo ancora durante la fatidica notte in cui ne succedono di tutti i colori. Abbiamo visto Ariel che stringe un accordo con Tremotino, la decisione di Anya e Vincent di fermarsi al campo dei ribelli e stiamo aspettando il confronto con Gretel. Il prossimo capitolo riprenderà le vicende che abbiamo lasciato in sospeso a Camelot e che porteranno anch'esse a questa notte in cui diversi destini verranno sconvolti. Dal prossimo ancora finalmente Gretel entrerà in scena e vedremo Ariel sulla Jolly Roger. TUTTO QUESTO per poi portare tutti i protagonisti alla cosiddetta mattina dopo, in cui dovremo mettere insieme i pezzi di quanto è successo.

Il prossimo capitolo sarà anche l'ultimo in cui Camelot rappresenterà una realtà distinta rispetto al Regno delle Favole, da quel momento in poi tutta la Avalon-team interagirà anche con altri personaggi ;). Oh, e aspettatevi TANTE sorprese :D.

Ciao, al prossimo capitolo!

Un bacio,

Beauty

 

P. S. Il titolo del prossimo capitolo sarà No more Mr. Nice Guy!...chi ha capito a cosa/chi mi sto riferendo? :D.

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Capitolo 34
*** No More Mr. Nice Guy! ***


No More Mr. Nice Guy!

 

Era una mattina strana, a Camelot. Si sarebbe potuto dire che l'atmosfera fosse rarefatta, come se il tempo si fosse fermato. Il cielo uggioso e minacciante pioggia contribuiva a plasmare quel clima immobile e anche vagamente teso, come se chiunque, dal più umile garzone al più alto funzionario di palazzo, si aspettasse qualche catastrofe da un momento all'altro. Ma non c'entravano nulla le condizioni climatiche: quella era l'aria che si respirava da tre giorni, da quello scandaloso ballo in maschera che sarebbe stato ricordato negli anni a venire come la notte del cigno nero. Un nome romantico e poetico, ma che Lancillotto sapeva essere tutto tranne quello che sembrava. Lo dicevano le mezze frasi pronunciate dalle serve in cucina, le risate soffocate degli inservienti, i commenti e i bisbigli svenevoli di quelle civette delle dame di compagnia della regina. Nemmeno i cavalieri si erano premurati troppo di mantenere un minimo di contegno rispetto alla vicenda, e solo il giorno prima Lancillotto si era trovato a prendere per un orecchio uno scudiero che lo aveva indicato a un compagno nel corridoio. A quanto pareva, anche lui era stato coinvolto nella bravata di Odile, sebbene il suo intento fosse stato proprio quello di punire il cigno nero.

Oltre al danno, anche la beffa, avrebbe detto Galvano, se non fosse stato che da tre giorni loro due si evitavano come se fossero stati nemici mortali, invece che compagni d'armi.

E quest'ultimo punto era solo l'ennesima stoccata che gli toccava incassare da quando quell'oca di Odile aveva voluto giocare alla gran dama sostituendosi alla principessa.

Il sole era appena sorto all'orizzonte, quando Lancillotto uscì dalla sua stanza per andare nelle scuderie. Molti dei cavalieri si stupivano che lui si alzasse sempre prima dell'alba, e solo Galvano sapeva la verità: Lancillotto aveva sempre faticato a dormire, spesso trascorreva anche delle notti intere senza chiudere occhio e questo si manifestava in tutta la sua evidenza con le ombre scure che gli circondavano perennemente gli occhi. Da bambino aveva trascorso talmente tante nottate insonni, a trattenere il respiro ogni volta che udiva un rumore strano proveniente dall'esterno della camera, a controllare se per caso qualche soldato o, peggio, l'Uomo Nero, non stesse cercando di entrare in quella catapecchia che chiamava “casa”, o ad ascoltare sua madre che piangeva mentre il marito ubriaco le inveiva contro, che adesso quel nervosismo gli era rimasto addosso, quell'ansia che qualcosa di orribile stesse per accadere da un momento all'altro, anche se sapeva che andava tutto bene...non l'aveva lasciato, e dubitava che l'avrebbe mai fatto. Questo, unito al fatto che non gli piaceva starsene con le mani in mano, aveva contribuito a forgiare questa sua abitudine. Non aveva mai dormito molto, e si era sempre alzato molto presto: quando ancora viveva con i suoi genitori e i suoi fratelli, suo padre lo buttava giù dal letto a suon di insulti e scossoni perché filasse subito a lavorare, e anche dopo, quando era diventato sguattero al castello di Camelot, e poi scudiero, doveva sempre essere in piedi all'alba per cominciare il lavoro e gli allenamenti.

Entrò a passo deciso nelle scuderie, ma si bloccò sulla soglia, stringendo un pugno per il fastidio. Si avvicinò in fretta al garzone che in quel momento stava spazzolando il suo cavallo, strappandogli la spazzola di mano e spingendolo di lato. Il ragazzo – non doveva avere più di quindici anni – assunse un'aria da cane bastonato, forse studiata ad arte per impietosirlo.

- Posso pensarci io, sir...- riuscì a mormorare. Lancillotto gli regalò un'occhiata in tralice da sopra la spalla.

- Non credo, non dopo lo scempio che stavi combinando...- ringhiò, cominciando a spazzolare il manto nero del cavallo con mano esperta.- Un'incuria del genere ai miei tempi sarebbe stata punita con una bastonata. Vattene, faccio da me.

Il ragazzo schiuse le labbra per replicare, ma le serrò un attimo dopo. Si esibì in un rapido e impacciato inchino in segno di saluto, quindi corse fuori dalle scuderie. Lancillotto sospirò impercettibilmente, accarezzando il collo del cavallo e continuando a prendersi cura del manto, fino a che non udì degli altri passi fare il loro ingresso. Erano passi pesanti e tranquilli, di certo non potevano appartenere al garzone o a qualche altro servo; infatti, quando Lancillotto si voltò, si trovò faccia a faccia con sir Galvano.

Il cavaliere più vecchio indossava la divisa blu con la croce bianca, ma coperta da un lungo mantello nero gettato sulle spalle, e appariva incredibilmente serio...cosa insolita per uno come lui. Evidentemente era ancora arrabbiato, pensò Lancillotto.

Incrociò le braccia al petto, girandosi completamente per incontrare lo sguardo di Galvano. Tenne la testa alta, ma non si scompose.

- Come mai così mattiniero, oggi?- chiese, senza curarsi di nascondere una punta di beffa nella voce.

- Sai benissimo dove vado ogni mattina, e non sono venuto qui per litigare - tagliò corto l'altro, muovendo un passo verso di lui, appoggiandosi con una spalla contro una delle travi di legno che sostenevano il tetto delle scuderie.- Devo parlarti.

Lancillotto emise uno sbuffo ironico, pensando che tanto era destino: Galvano non avrebbe potuto mantenersi arrabbiato con lui a lungo, specialmente quando sapeva di essere nel torto. Ci aveva provato, e non gli aveva rivolto più la parola da tre giorni, dalla notte del cigno nero, quando lo aveva trascinato via dal ballo e gli aveva raccontato quella stupida leggenda nel tentativo – finito in miseria – di intimorirlo.

Il fulcro della questione era che, da quello scandaloso ballo, da tre giorni nessuno aveva più visto Odile bazzicare per i corridoi del castello, e non si era presentata nemmeno per le faccende domestiche, o per l'ora dei pasti. Nessuno osava dirlo apertamente, ma era chiaro a tutti che Morgana non fosse andata troppo per il sottile con sua figlia. Il re e la regina erano stati troppo impegnati a punire la loro, di mocciosa ribelle, per preoccuparsi di infliggere un castigo alla serva. E, conoscendo Artù e sua moglie, forse non si sarebbero nemmeno accaniti troppo su una patetica servetta che aveva voluto giocare alla nobildonna per una sera. Ma Morgana non era il tipo che perdonava facilmente, specialmente se la figlia a cui teneva di meno combinava qualcosa che la facesse svergognare agli occhi dei regnanti.

Lancillotto non aveva idea di cosa ne fosse stato di Odile, e nemmeno gli interessava più di tanto. Lui stesso era stato abituato a venire punito per i propri sbagli, e quello compiuto dalla servetta era stato madornale. Era certo che Morgana non le avesse fatto troppo male, altrimenti non si sarebbe spiegato come mai Mordred – seppure taciturno e pallido in maniera innaturale – avesse continuato a prendere parte agli allenamenti e alla vita di corte sapendo che fosse accaduto qualcosa di grave alla sorella.

Lancillotto riteneva giusto che Odile fosse stata punita per ciò che aveva combinato; era stato esattamente il suo intento, quando l'aveva smascherata. Era stato evidente che tutta quella messinscena era stata architettata solo per attirare le sue attenzioni, ma lui non era il tipo da farsi abbindolare facilmente. Cosa provasse Odile nei suoi confronti, o cosa sperasse di ottenere con quella sciocchezza che aveva compiuto, non lo riguardava; la servetta aveva messo in ridicolo se stessa e la principessa, e stava per fare lo stesso anche con lui e gli altri cavalieri. Questo non lo poteva tollerare né perdonare.

Galvano naturalmente la pensava in maniera diversa, e quel rimprovero che gli aveva mosso appena dopo aver ritrovato e riportato a casa la principessa – cosa sperava di ottenere, poi, raccontandogli quella leggenda? Di spaventarlo? Beh, allora aveva proprio fallito nel suo intento – era stato l'emblema di come la pensasse. Lancillotto si era sentito offeso da quelle parole e dal fatto che il suo amico avesse addossato la colpa per la sorte di Odile interamente a lui. Non aveva intenzione di passare sopra quella mancanza di rispetto, ed esigeva delle scuse da parte sua, scuse che sir Galvano non aveva alcuna intenzione di concedere.

Il risultato di tutto era che quella era la prima volta che loro due si rivolgevano la parola da tre giorni.

Lancillotto sogghignò.

- Davvero? A cosa devo l'onore?

- Togliti quel sorriso dalla faccia, hai poco da gioire - sibilò Galvano, voltando brevemente il capo per assicurarsi che non ci fosse nessun altro nelle scuderie all'infuori di loro due, quindi tornò a guardarlo negli occhi.- Riguarda la principessa.

- Sono stanco di quella bambina!- sbottò Lancillotto, e fece per tornare a occuparsi del cavallo.- Se è scappata un'altra volta che si arrangi, non ho nessuna intenzione di perdere tempo per andare a scovarla su qualche quercia nodosa...

Galvano scattò in avanti, bloccandogli un braccio e costringendolo a voltarsi nuovamente verso di lui.

- Non è scappata. E la situazione è più grave - lo lasciò andare, sicuro di avere ora la sua completa attenzione.- Il re è furioso per quel che è successo la notte del cigno nero. A quanto pare lui e la regina sono più contrariati per il fatto che la principessa sia uscita di nascosto dalle mura del castello, piuttosto che per la bravata di Odile...

- E allora?

- Hanno deciso di punirla, e nel modo peggiore - Galvano scosse il capo.- A quanto pare vogliono assicurarsi che lei non lasci più il palazzo, né Camelot. Vogliono trovarle un marito, contro la sua volontà.

Lancillotto si concesse qualche secondo prima di rispondere, ponderando la questione. Da una parte comprendeva che un'azione simile, sebbene credesse che la principessa meritasse finalmente una qualche punizione, avrebbe causato più danni alla sua persona che benefici; ma dall'altra non capiva perché Galvano lo stesse informando riguardo a ciò. Non era corretto da parte dei sovrani, certo...ma non era comunque un affare che riguardasse lui, il suo amico, o gli altri cavalieri.

Incrociò le braccia al petto.

- Dove vuoi arrivare?- chiese.- La principessa ha sedici anni, è in età da matrimonio. E l'ultima volta che ho controllato non mi è parso che né tu né io fossimo inseriti nella lista dei pretendenti.

- La cosa ci riguarda, invece - ribatté Galvano.- Stavolta non ci sarà nessun ballo per far conoscere giovani nobili alla principessa, nessun ricevimento a corte, nessuna presentazione ufficiale. Forse il re è così accecato dalla rabbia che non ragiona più, ma...ha trovato un mezzo molto più rapido ed esclusivo per dare in moglie sua figlia...

- Che cosa?

 

***

 

- Un torneo?!

Odette udì la propria voce acuta rimbombare sulle pareti e sul soffitto della sala del trono, e quando l'eco si fu del tutto estinto, ritornò a esservi il silenzio. Non una risposta, non una parola aggiunta a quanto suo padre le aveva appena dichiarato, secco e perentorio. Solo dopo diversi secondi la principessa ebbe il sollievo di poter udire almeno il tintinnio della tazza di thé che sua madre aveva sollevato dal piattino per portarsi alle labbra. Odette guardò Ginevra: era molto più pallida del solito, con profonde occhiaie che le solcavano gli zigomi; il suo abbigliamento era impeccabile, ma i capelli erano stati raccolti malamente in una treccia storta da cui sfuggivano alcune ciocche, e non le era difficile notare che le tremassero le mani mentre riponeva di lato la tazzina. Sua madre versava in uno stato pietoso dalla notte del cigno nero – ma che diamine aveva combinato quella pazza di Odile?! – ma nulla a che vedere con suo padre. Il medico di corte aveva detto che il suo non era altro che un semplice malessere, eppure invece di migliorare Artù sembrava stare sempre peggio ogni giorno che passava, tanto che anche Merlino la sera prima aveva voluto accertarsi personalmente delle sue condizioni...e Odette aveva udito le dame di compagnia di sua madre dire che era uscito dalla camera del re parecchio corrucciato. Artù non dava a vedere di stare male – suo padre aveva un carattere solido come il legno di quercia, taciturno e un po' schivo, ma fiero e per nulla incline a ricercare attenzioni non dovute o alle moine –, ma era chiaro che non fosse nel pieno delle forze: lo dimostravano il modo in cui quel momento stava seduto sul trono – abbandonato come un sacco vuoto, debole e stanco, senza neppure la forza di essere composto –, il suo pallore, e Odette aveva notato che faticava a parlare, e faceva delle lunghe pause fra una frase e l'altra per riposarsi.

I suoi genitori, seduti sui troni dorati della reggia di Camelot, in quel momento le sembravano due statue lontane e austere, due figure tratte dai libri, il re malato e la regina stanca, che la squadravano dall'alto con la severità i più terribili dei giudici.

E Odette adesso non sapeva se quel peso sul cuore che sentiva, quella gran voglia di mettersi a piangere e di desiderare solo di poter tornare indietro nel tempo, fossero dovuti a quell'immagine, al pensiero che era lei a farli soffrire così o ciò che Artù le aveva appena comunicato.

L'egoismo prevalse, e la principessa si ritrovò a boccheggiare, cercando di metabolizzare ciò che aveva appena udito.

- Un torneo?- ripeté, gracchiando.- Avete intenzione di mollarmi al primo uomo di passaggio solo se questi vincerà un maledetto torneo?!

Di nuovo ottenne come risposta solo il silenzio. Vide suo padre fissarsi le ginocchia e stringere un pugno per poi distendere le dita, e sua madre chiudere gli occhi mentre si passava una mano sulla fronte. Odette non faticava a immaginare che dovesse avere una grandissima emicrania, ma in compenso lei stava sentendo il fuoco bruciarle nel ventre.

Pestò rabbiosamente un piede a terra.

- E rispondetemi, dannazione!- gridò.

- Hai sentito benissimo, Odette, non c'è bisogno che tuo padre te lo ripeta - sussurrò Ginevra, alzando lo sguardo su di lei.- Ti abbiamo dato delle possibilità fino ad oggi, e tu le hai sempre rifiutate. Ora abbiamo sopportato abbastanza. Hai bisogno di qualcuno che sappia tenerti al tuo posto, ed è giunto il momento che ti sposi. Domani mattina stessa qui a Camelot sarà indetto un torneo; vi parteciperanno i nobili celibi dei reami confinanti e i Cavalieri della Tavola Rotonda, e colui che vincerà avrà in premio la tua mano. Questa è la nostra decisione, ed è irrevocabile.

- Non potete farmi questo!- strillò Odette, con le lacrime agli occhi. Non riusciva a credere di aver tirato la corda così a lungo e così forte da spezzarla, di aver condotto davvero i suoi genitori a ricorrere a quello squallido metodo per togliersela di torno. Era a questo che si era ridotta, continuando a ribellarsi? A essere trattata come una bella bambola in vendita al mercato, a venire ceduta al miglior offerente come carne da macello? Non riusciva a dare un senso alle parole di sua madre, e nel contempo le sfilavano di fronte agli occhi immagini di volti noti e altri che non aveva mai visto, grotteschi stereotipi di quello che sarebbe potuto diventare suo marito contro la sua volontà.

Chiunque avrebbe potuto vincere, e chiunque avrebbe potuto averla fra le sue grinfie. Chi avrebbe sposato, lei? Forse quel damerino di sir Lionel, o sir Galahad che correva dietro a tutte le gonnelle delle cameriere? O Mordred, che lei detestava profondamente e che aveva cercato di metterle le mani addosso? Sir Galvano, che aveva quarantacinque anni ed era come un secondo padre per lei? O sir Lancillotto, che a malapena la sopportava? Oppure un vecchio con la faccia rugosa e butterata di piaghe, un omuncolo brutto e stupido, o un ragazzino appena svezzato?

Non resistette più, e scoppiò a piangere. Singhiozzò così forte che tutte le guardie presenti nella sala del trono, che fino a quel momento avevano educatamente finto di non ascoltare il diverbio fra lei e i suoi genitori, si voltarono a fissarla. Artù girò il capo di lato per non guardarla, e Ginevra non profferì parola, apparentemente insensibile.

Odette fece di tutto pur di non cadere in ginocchio sul pavimento come si sentiva di fare in quel momento, ma continuò a singhiozzare.

- Vi prego, non fatemi questo!- mai avrebbe pensato in vita sua di implorare i suoi genitori, eppure adesso la disperazione la stava costringendo a farlo.- Vi prego, vi ho già detto che mi dispiace!- non era vero, ma adesso si sarebbe giocata qualunque carta, fosse stata anche una bugia.- Non lo farò più, ve lo giuro, ma vi prego, non...

- Odette, basta!- tuonò Artù, così forte e così all'improvviso da farla trasalire, e la sua voce risuonò contro le pareti come un'eco imperiosa.- Odette, ti abbiamo comunicato la nostra decisione e non intendo ascoltare capricci o obiezioni di alcun tipo! Ti abbiamo concesso più di un'occasione, e tu le hai sprecate tutte. Ora ne pagherai le conseguenze, e...

Non terminò la frase. Odette vide suo padre piegarsi in avanti con il torace e portarsi una mano alla bocca per soffocare un nascente ascesso di tosse, tanto violento da provocargli degli spasmi e farlo tremare come una foglia. La principessa sgranò gli occhi ancora appannati dal pianto, mentre il re si aggrappava a un bracciolo del trono – forse per sostenersi, per non cadere a terra, pensò Odette – e sua madre si alzava di scatto e lo raggiungeva.

Ginevra s'inginocchiò accanto ad Artù, circondandogli le spalle con le braccia e accarezzandogli il dorso con una mano. Odette vide sua madre sussurrargli qualcosa, ma non capì cosa. Artù parve sentirsi meglio, ma l'attacco di tosse l'aveva chiaramente spossato, e non era ancora cessato del tutto.

La principessa provò ad asciugarsi le lacrime e a salire la breve scalinata che conduceva ai due troni dei sovrani per soccorrere suo padre, ma Ginevra glielo impedì. La regina si rivoltò come una vipera, digrignando i denti senza tuttavia lasciare il marito. Non si degnò nemmeno di guardare sua figlia negli occhi, e chiamò una delle guardie.

- Accompagnatela nelle sue stanze e fate in modo che ci resti...!- sibilò, mentre uno dei soldati posava delicatamente una mano sulla spalla di Odette per tirarla indietro.- Chiamata uno dei cavalieri e ditegli di montare di guardia di fronte alla sua porta. Non voglio che esca prima di domani mattina, sono stata chiara?

L'unica cosa che Odette ricevette fu una feroce occhiata da parte di sua madre, prima che due delle guardie l'afferrassero per i gomiti e la conducessero con loro. Si lasciò trascinare mollemente fuori dalla sala del trono, senza neanche il coraggio di voltarsi, continuando a singhiozzare sommessamente.

Artù gettò un ultimo colpo di tosse, e posò il capo contro la spalla della moglie. Ginevra lo vide chiudere gli occhi e respirare a fondo per calmarsi: la sua salute era peggiorata, nonostante le cure dei medici e le tisane che la cara Morgana si prendeva il disturbo di preparargli.

Gli posò un bacio sulla fronte, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Ordinò a una delle guardie che mandassero a chiamare il medico di corte e anche Merlino, e che la camera del re fosse preparata, poiché aveva bisogno di riposare. Si morse il labbro inferiore, con gli occhi che bruciavano sempre di più: in quel momento, era come se tutto il suo mondo, tutto il castello che aveva faticosamente costruito per sedici anni le stesse crollando addosso. Sua figlia, suo marito che stava male...e Tremotino. Tremotino che era tornato, lo sapeva, era tornato e ora reclamava il pagamento che lei non aveva voluto dargli anni prima.

Non resistette più. Continuò a tenere suo marito fra le braccia, ma voltò il capo di lato per non che vedesse che stava piangendo.

 

***

 

Mordred socchiuse piano la porta di una delle camere di sua madre, entrando silenziosamente e con cautela, quasi si trattasse di un santuario. O di un luogo maledetto.

Era una delle camere che Morgana non usava praticamente mai, e che impiegava al massimo come salottino privato. Era arredata elegantemente, ma in modo essenziale, e contro una parete più di tutto spiccavano un tavolo in legno di ciliegio e una poltroncina foderata di velluto rosa scuro. Modred posò sul ripiano del tavolo una tazza di latte caldo e un pezzo di pane, quindi si voltò verso la porta del ripostiglio dietro la quale sapeva esserci Odile. Sua madre aveva mantenuto la promessa: il cigno nero non era stato liberato dalla sua punizione per tre giorni esatti, senza mai uscire da quella stanzetta stretta e buia in cui era stata relegata. Odile aveva sopportato tutto in maniera altalenante: aveva strillato per più di tre ore quando Morgana l'aveva rinchiusa, e tutto il resto della notte del cigno nero l'aveva trascorso singhiozzando rumorosamente con brevi intervalli in cui ancora implorava di farla uscire, e aveva proseguito per tutta la mattinata seguente. Poi, da dietro la porta chiusa a chiave aveva smesso di provenire qualsiasi suono, tanto che, a sera inoltrata, Mordred era entrato nella stanza e si era avvicinato a quella porticina per assicurarsi che Odile fosse ancora viva: l'aveva udita respirare regolarmente da oltre il legno, e si era tranquillizzato. Aveva ripetuto altre tre volte lo stesso gesto durante la giornata seguente, e sempre l'aveva sentita respirare oppure piangere.

Avrebbe voluto farla uscire già da un pezzo, se non altro per porre fine a quello strazio, ma non aveva osato farlo senza il consenso di sua madre. Quella mattina, allo scadere della punizione, era andato da Morgana e le aveva chiesto che cosa dovesse fare con Odile. Sua madre aveva sbuffato e aveva risposto di fare quello che voleva, purché non l'infastidisse, e sebbene non si fosse trattato di un esplicito consenso, Mordred si era sentito come se avesse ricevuto il via libera.

Si avvicinò alla porticina del ripostiglio e girò la chiave nella serratura senza pensare a niente, come se a compiere quel gesto non fosse stato lui ma qualcun altro che si era impossessato del suo corpo.

La scena che si ritrovò di fronte fu patetica, ma in qualche modo molto simile a ciò che si era aspettato.

Sua sorella era seduta sul pavimento, con le ginocchia strette al petto e il dorso poggiato contro la parete. L'abito da cigno nero che aveva addosso era ridotto a uno straccio di stoffa sporco e stropicciato, in alcuni punti dell'orlo anche stracciato; Mordred immaginò che Odile si fosse accanita su di esso in un momento in cui la rabbia e la disperazione avevano raggiunto l'apice. Una delle spalline sottili le era scivolata lungo il braccio, e quella spalla magra dalla pelle pallida fu la prima parte di sua sorella che venne illuminata dalla luce quando aprì la porta. Odile teneva il capo girato verso l'interno del ripostiglio, con il collo – un collo niveo, lungo e sottile, un collo da cigno – lievemente reclinato di lato, immobile come una morta. Tremò appena quando la luce la raggiunse, anche se ci vollero diversi secondi prima che si decidesse a raddrizzare la testa e a guardarlo. Mordred sapeva che sua sorella aveva naturalmente un incarnato pallido, eppure quel pallore gli sembrò più brutto e smorto di quanto non fosse mai stato; i grandi occhi castani erano gonfi di pianto, e profonde occhiaie violacee le solcavano gli zigomi per scendere fin quasi alla bocca. La fronte e i riccioli castani erano imperlati di sudore, e una ciocca le era finita di fronte a un occhio.

Mordred si scostò per lasciarla passare.

- Avanti, alzati e vieni fuori - la incitò, mantenendo la voce piatta e l'espressione neutra.- Nostra madre ha detto che puoi uscire.

Odile lo guardò per un lungo istante con quei suoi occhi bovini grandi e stupidi, e per un attimo Mordred si chiese se non dovesse ripeterle l'invito. Ma dopo pochi secondi sua sorella appoggiò un palmo contro alla parete per sostenersi, e si sollevò in piedi. Una lacrima le scese lungo la guancia, e lei si affrettò ad asciugarla con il polso, tirando su con il naso. Mordred vide che incespicava lievemente per avanzare, e non se ne stupiva: quel ripostiglio era talmente stretto che, per stare seduta, sua sorella aveva certamente dovuto raggomitolarsi su se stessa; era ovvio che avesse le gambe intorpidite.

Odile uscì con le spalle curve, fissando un punto indistinto sul pavimento. Provò a tirarsi su le spalline, ma subito queste scivolarono di nuovo lungo le braccia. Mordred pensò che l'abito da cigno nero era ormai da gettare via.

Richiuse la porta con un colpo più forte del necessario, con l'intento di suscitare una qualche reazione in Odile. Ma il cigno nero – no, non più, era tornata a essere l'anatroccolo che era sempre stata, un anatroccolo brutto, stupido e indifeso – non si mosse, né emise un sussulto.

Mordred si schiarì la voce, sentendosi la gola secca.

- Ti ho portato da mangiare...- disse, indicando il pane e il bicchiere di latte.

- Non ho fame.

Le prime parole di Odile dopo tre giorni furono pronunciate con la voce acuta e incrinata, ancora pregna di pianto. Ed erano state dettate più da quel poco orgoglio che le era rimasto – ammesso che ne avesse mai posseduto – più che dalla verità. Mordred stentava a credere che dopo tre giorni a digiuno, chiusa al buio in un ripostiglio, sua sorella non fosse divorata dai morsi della fame.

Quel piccolo tentativo di ribellione lo fece innervosire.

- Mangia lo stesso - ringhiò, indicandole il tavolo di Morgana e la poltroncina.

Odile non replicò ulteriormente, e andò a sedersi dove suo fratello le aveva ordinato. Mordred pensò che quella era la prova definitiva che il cigno nero era morto, e non sarebbe tornato mai più: sua sorella era tornata quella figurina smunta e tremante nascosta in un angolo, la servetta timida e con la testa fra le nuvole che ubbidiva senza fiatare a qualsiasi ordine per paura di qualche scherzo o di una punizione. Non c'era più niente in Odile che ricordasse il cigno nero, quel cigno nero spregiudicato e sensuale che aveva danzato tre notti prima; quel cigno nero era stato ucciso, e le sue ali erano state strappate ed esibite come trofeo alla cattiveria e allo scherno di Camelot.

Odile prese un pezzetto di pane e lo intinse nel latte, per poi portarselo alla bocca. Mordred pensò che, forse, l'ipotesi dello stomaco chiuso era vera: sua sorella masticava lentamente e con fatica, e una smorfia storta sulle sue labbra lasciava intendere che stesse per vomitare da un momento all'altro. O di scoppiare nuovamente a piangere.

Mordred si sentì improvvisamente a disagio: era abituato a veder piangere Odile – era accaduto spesso che scoppiasse in lacrime di fronte ai suoi occhi, fosse stato per qualche scherzo delle cameriere o per uno schiaffo di Morgana –, ma in qualche modo non ci aveva mai davvero fatto l'abitudine. Tutte le volte che sua sorella si scioglieva in lacrime di fronte ai suoi occhi, qualunque fosse il motivo, lui faceva una fatica immensa a tollerare la scena, e spesso assecondava il suo istinto di guardare altrove e aspettare che tutto fosse finito. Per qualche strano e immondo motivo, trovava le lacrime di Odile insopportabili.

Il silenzio si fece rapidamente insostenibile. Sua sorella continuava a sbocconcellare quel che le aveva portato con fatica e malavoglia, e lui cominciava ad avvertire il desiderio di andarsene.

Si schiarì la voce una seconda volta.

- La regina è stata così magnanima da perdonarti - non trovò nient'altro di meglio da dire.- Nostra madre ti ha concesso di uscire, ma è molto meno incline ad elargirti il tuo perdono. Dovrai faticare parecchio prima di poterti ripresentare di fronte a lei senza vergogna.

- Come se lei non si fosse mai vergognata di me...- sussurrò Odile, fissando la tazza di latte, ma il cavaliere fece finta di non averla sentita.

- Hai perduto tre giorni di lavoro, quindi dovrai darti da fare il doppio per recuperare - proseguì Mordred.- Dovrai cominciare subito per porre rimedio al tempo che hai perso.

- Non è stata colpa mia se ho perso tempo.

Il cavaliere rimase interdetto per via di quella frase, ma subito si riprese, e strinse un pugno.

- Ora non dare la colpa a me e a nostra madre per quello che hai fatto!- quasi gridò.- Ti conosco, sai? Ti piace fare la vittima, ti piace giocare alla povera serva maltrattata, ma tutto ciò che ti è successo te lo sei procurato da sola! Ti sei messa in ridicolo, hai svergognato me di fronte agli altri cavalieri e disonorato nostra madre agli occhi della regina. Non ti vergogni?!

Odile si morse il labbro inferiore, e Mordred vide che gli occhi le si erano di nuovo riempiti di lacrime. La servetta piegò il capo in avanti, ingobbendosi, quasi avesse voluto scomparire.

- Io non volevo...non volevo fare niente di male...- balbettò con la voce rotta.- Ho solo...Odette...lei ha tutto, e io...volevo solo stare bene...solo stare bene per una sera...

- E tutto questo perché?- la voce di suo fratello arrivò secca e improvvisa come una frustata.- Perché? E per chi? Per sir Lancillotto, quella bestia che detesta le donne e a cui non gliene è mai importato niente di te! E' stato lui a smascherarti perché era disgustato da ciò che hai fatto, e tu ancora lo veneri!

- Sir Lancillotto è buono. Io forse ho sbagliato, ma lui non ha colpa...- balbettò Odile.- Gli chiederò scusa...Sir Lancillotto è un vero cavaliere, capirà che ho fatto tutto per lui...

- Ma non impari mai?!- sbottò Mordred, a metà scandalizzato e a metà esterrefatto.- Neanche dopo quello che ti ha fatto?! Non gliene importa nulla di te, voleva solo umiliarti, e tu non lo capisci! Non hai capito che...

- Smettila di dire così!- piagnucolò Odile; a Mordred sembrava quasi un cane che guaiva per la sofferenza.- Smettila, Mordred! Sei tu che non capisci, né tu né nostra madre avete mai capito!- riprese a singhiozzare più forte di prima, e le spalle vennero scosse da tremiti.- Mi avete sempre sgridata solo perché ero innamorata...come se tutto il resto non bastasse! Perché ci godete tanto a farmi male? Perché cercate sempre anche quel poco che ho di bello?

- Ma che diamine stai dicendo, stupida?

Odile non se la prese per l'insulto – suo fratello in genere si limitava a ignorarla o al massimo a ordire qualche scherzo ai suoi danni, ma Morgana le diceva anche di peggio –, ma non le sfuggì il cambiamento di Mordred dopo la sua accusa. Il cavaliere era arrossito, ed era visibilmente in difficoltà nel continuare la discussione. Cercava in tutti i modi di evitare il suo sguardo.

- Che cosa vai blaterando?- continuò suo fratello.- Nostra madre si è sempre comportata in modo più che corretto con te, e se qualche volta ti ha punita è stato solo perché te lo sei meritato. Quanto a me...

- Non è vero!- accusò ancora Odile; non riusciva a smettere di piangere.- Sai che non è vero! Che cosa avrei fatto di male? E' da quando sono nata che mi trattate come se non valessi nulla! Che cosa vi ho fatto per meritarmi questo? Se nostro padre fosse ancora vivo, allora...

- Ora lascia riposare in pace chi non è più su questa terra. Neanche l'hai mai conosciuto, nostro padre, e lui non ha fatto neppure in tempo a vederti in faccia. Che ne sai di com'era?

- Sarebbe stato certamente meglio di sua moglie. O di te!- Mordred non seppe dire perché, ma arretrò istintivamente all'ultima frase. Era la prima volta che sua sorella tirava fuori gli artigli e, torto o ragione che avesse, doveva ammettere di non saper gestire la situazione. Era sempre stato abituato a vedere Odile chinare il capo e ubbidire a ogni ordine, non si era mai trovato nella situazione di dover discutere con lei.

A dire la verità, non ricordava che loro due avessero mai avuto una conversazione tanto lunga.

- Nostra madre mi odia, non so per quale motivo, ma è evidente che è così. Ma tu?- incalzò Odile; ora stava singhiozzando senza controllo, e Mordred era sinceramente stupito che riuscisse ancora a parlare.- Che cosa ti ho fatto, Mordred? Non mi hai mai voluto bene, hai sempre voluto farmi male, come nostra madre. Dimmi almeno perché...

- Quello che dici non è vero...

- E allora perché hai sempre lasciato che nostra madre mi facesse male? Ti ho visto tre notti fa, ho visto come hai reagito quando lei mi ha colpito! Perché non hai fatto niente per fermarla? Perché in diciannove schifosi anni non hai mai mosso un dito per me?

Perché non ho mai creduto opportuno farlo, si ritrovò a pensare Modred. Perché è sempre stato così fin da quand'eravamo bambini. Io sono l'unico figlio che nostra madre ama, e tu...

Sì, ma perché era sempre stato così?, chiese una voce nella sua testa. Se è sempre stato così, voleva dire che anche a te andava bene. Pensaci: cos'ha veramente fatto Odile perché Morgana la trattasse peggio di una nullità? E tu perché non hai mai fatto niente per aiutarla? Ti piace davvero vederla così, com'è adesso?

No. No, non piace. Se non fosse da codardi, scapperei via.

- Perché le hai permesso di farlo, Mordred?

Il cavaliere non rispose, né si mosse. Sembrava che fosse incapace di fare qualunque cosa che non fosse rimanersene in silenzio di fronte a sua sorella che lo guardava con occhi pieni di lacrime, occhi accusatori, occhi che adesso veramente non ce la facevano più.

- Perché lasci che nostra madre mi tratti così?- singhiozzò Odile.- Non hai mai fatto niente, non hai mai detto niente...Lei mi insulta sempre, mi mette le mani addosso, mi tratta peggio di una nullità, e tu resti lì a guardare!- il suo tono di voce si alzò pericolosamente, ma fu tutto: sua sorella, il brutto anatroccolo, il cigno nero dalle ali spezzate, continuava a singhiozzare e a fissarlo con quegli occhi stanchi.- Sei mio fratello, Mordred! Perché lasci che nostra madre si accanisca così su di me? Sei mio fratello, dovresti difendermi! Perché non fai mai niente? Non hai mai fatto niente!

Non hai mai fatto niente!

Mordred si accorse di avere le mani sudate. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma le richiuse subito.

Odile gettò un altro singhiozzo e riprese a piangere, distogliendo lo sguardo da lui e fissando la superficie del tavolino. Il cavaliere fece schioccare le nocche, indietreggiando verso la porta.

Si sentiva come se l'avessero appena preso a schiaffi.

Afferrò la maniglia e l'abbassò.

- Sbrigati a finire, e datti una sistemata. Ti aspettano giù in cucina.

Odile finse di non aver sentito, e nascose il volto fra le mani quando fu certa che suo fratello fosse uscito dalla camera e avesse richiuso la porta.

 

***

 

- Non credo di aver compreso.

- Se non hai compreso, o sei stupido o non vuoi capire - commentò nervosamente sir Galvano, prendendo la sua inseparabile fiaschetta dalla cintura e buttando giù in generoso sorso di grog.- Mi sembra di essere stato abbastanza chiaro nella mia spiegazione, e non vedo cosa ci sia di così difficile.

Lancillotto digrignò i denti, ma si costrinse a non rispondere per le rime. In quel momento, sentiva di poter tirare un pugno al suo amico: Galvano non solo stava dando fondo a uno dei suoi vizi peggiori – bere, e per di più in servizio! –, ma lo stava anche trattando con sufficiente, rivolgendosi a lui come se fosse stato un povero idiota; tuttavia, si costrinse a restare calmo e, per quel che gli era possibile in quella situazione, lucido.

Non era vero che non aveva compreso; stava solo sperando di non averlo fatto.

Galvano inarcò un sopracciglio, scoccandogli un'occhiata di traverso, quindi bevve un altro sorso di grog, prima di sospirare.

- Te lo ripeto: il re ha indetto un torneo che si terrà qui a Camelot domani mattina. Per stanotte sono attesi come ospiti tutti i nobili di Avalon e dei dintorni, e dovremo gareggiare anche noi cavalieri, nessuno escluso. Chi vincerà, avrà in moglie la principessa Odette, e diventerà così il futuro sovrano.

A quel punto non poteva più nemmeno sperare in un margine di errore da parte propria.

Lancillotto incrociò le braccia al petto, appoggiando il dorso contro una delle travi che sostenevano il tetto delle scuderie. Non sapeva nemmeno lui cosa pensare o cosa dire, se aspettare che Galvano aggiungesse qualcosa – chi poteva saperlo, un margine di salvezza? – oppure no. Ma il suo amico non pareva avere alcuna intenzione di proseguire, così si decise a fare lui stesso un passo avanti.

- Sono impazziti, forse?- ringhiò Lancillotto, anche se si sentiva la gola secca al pensiero.- Rovinano la vita di un pover'uomo solo perché una mocciosa sedicenne ha combinato una marachella aiutata dalla sua amica?

- Sto seriamente cominciando a pensare che tu lo faccia apposta, altrimenti mi toccherebbe ammettere che sei un inetto - lo insultò tranquillamente Galvano.- Ti è mai passato per la testa che la maggior parte dei cavalieri e tutti i nobili che gareggeranno sarebbero più che felici di sedere al trono di Camelot? E che la vera vittima di tutto è la principessa?

- Se si fosse comportata bene a quest'ora non sarebbe stata punita. Piuttosto, ti rendi conto che qualcuno di noi potrebbe ritrovarsi in una condizione che non desidera, se dovesse vincere?- ribatté Lancillotto.

- Se non vuole diventare re o sposare la principessa, potrà sempre perdere di proposito...- mormorò il cavaliere più vecchio.- Ma hai ragione, potrebbe capitare a chiunque di noi. E la principessa corre il serio rischio di trovarsi sposata a un animale travestito da essere umano, se è sfortunata.

- Dovrebbe riguardarci?- Lancillotto non sembrava troppo preoccupato per la sorte di Odette.- Qualcuno dovrà pur vincere, domani, e io non voglio diventare re, né tantomeno sposare una sedicenne ribelle!

Galvano fece una smorfia: Lancillotto era, come sempre, concentrato su se stesso. Lo conosceva sin da quando era un ragazzino cencioso che lavorava come inserviente al castello per portare il pane a casa, un ragazzino che possedeva soltanto il sogno di diventare un giorno cavaliere e, fortunatamente, anche la determinazione necessaria per perseguire il suo obiettivo.

Da quando era entrato ufficialmente a far parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda, Galvano ripensava spesso a quel ragazzino, e tutte le volte che si scontrava con l'uomo che era divenuto, lo rimpiangeva. Lancillotto era un bravo cavaliere, impeccabile sotto ogni punto di vista...ma era come se avesse gettato deliberatamente il proprio cuore in pasto alle belve, pur di diventare com'era ora. Si era gettato alle spalle l'intero suo passato, e si era costruito un presente neppure tanto solido: Lancillotto nascondeva come una ferita orrenda le sue origini, e tutto ciò che aveva affrontato prima di arrivare a Camelot, seppur da semplice sguattero. Andava su tutte le furie se qualcuno accennava anche solo da dove venisse e cosa era accaduto ai tempi di re Uther...e di re Stefano. Che cosa aveva fatto.

Non riusciva neppure a sopportare la parola sguattero. O regicida.

Da parte sua, Galvano aveva sempre cercato di non piantare ancora di più il pugnale in quelle che sapeva essere le fragilità del suo amico – fragilità stupide, forse sbagliate e nascoste come un imperdonabile peccato, ma pur sempre delle fragilità che Lancillotto si rifiutava di ammettere –, ma quasi mai era d'accordo con il suo comportamento egoista. Il cavaliere più giovane pensava solo alla propria reputazione, si preoccupava soltanto del suo ruolo, spesso senza curarsi di ciò che provavano gli altri. Era stato questo che l'aveva fatto maggiormente arrabbiare, nella vicenda del cigno nero: la vigliaccata di Lancillotto e la sua totale mancanza di rimorso.

Il suo amico si era comportato freddamente e senza cuore, come una crudele bestia. E non ne aveva alcun rimorso.

- Nemmeno io lo voglio. Ma non tutti i gareggianti, domani, la penseranno come noi...- disse Galvano.- Il re ha seguito il proprio cuore, e ha sposato la figlia di un mugnaio, e anche io ho sposato mia moglie perché l'amavo. I sovrani hanno preso esempio dal proprio comportamento, e prima che la principessa facesse perdere loro la pazienza le avevano concesso la possibilità di scegliere il proprio compagno per il futuro...Ma a pochi è concesso questo lusso, lo sai, Lancillotto. La principessa ha sedici anni, è in età da marito, e quasi tutti i nobili che parteciperanno domani troveranno naturale ciò che sta accadendo. Anche fra i contadini è usanza che siano i genitori a scegliere il consorte dei figli, perché non dovrebbero farlo due sovrani?

Lancillotto annuì impercettibilmente; sapeva che il suo amico diceva il vero, dal momento che lui stesso era figlio di una madre che, seppur contadina, era stata costretta a sposare un uomo che non amava per volere dei genitori. E ringraziava ogni giorno di essersi allontanato per sempre dal fango in cui era vissuto fino a undici anni.

- Camelot è un regno prospero, e fortunatamente ancora lontano dalla minaccia dei fratelli Grimm...- mormorò sir Galvano.- Il trono farebbe gola a molti, e domani al torneo saranno accaniti. Faranno di tutto pur di vincere, e non perché qualcuno sia veramente interessato alla principessa...Quella poverina rischia di avere la vita rovinata...

- Avrebbe potuto pensarci prima - borbottò Lancillotto.- E comunque, cosa vorresti fare per impedirlo? Non puoi, lo sai. Domani qualcuno vincerà, è inevitabile.

- E se fossi tu a vincere?- incalzò il cavaliere più vecchio.- Cosa farai?

- Non fingerò di perdere, ma sarò più che onorato di venire battuto da un guerriero più valoroso di me, quando accadrà.

- Sì, ma se non dovesse accadere?- Galvano stava cercando di spronarlo in tutti i modi ad aprire gli occhi.- In fondo, non è così improbabile che tu vinca, Lancillotto. Sei uno dei migliori, fra di noi, può anche darsi che sarai tu, il vincitore...

- Forse potrei arrivare fra i primi...ma in quel caso sarei comunque sconfitto da te...- Lancillotto inclinò lievemente il capo di lato.- Tu non avrai alcun problema a vincere, e lo sai. Sei il più anziano, il più esperto, e il più abile. Di certo di gran lunga superiore a tutti i novellini che si presenteranno domani. Per questo sarò tanto orgoglioso, quando verrò sconfitto...sarai tu a disarcionarmi.

Galvano non rispose, e si girò appena di spalle per non dover sostenere lo sguardo dell'amico. Che gli piacesse o meno, Lancillotto aveva ragione: non aveva idea se fosse il più bravo nella giostra fra tutti i partecipanti di domani, ma non poteva negare di essere il migliore fra i cavalieri. Non era mancanza di modestia, vanità o presunzione: semplice dato di fatto.

Durante i consigli di Stato e le riunioni, il re aveva disposto che fosse lui a occupare il posto d'onore, alla sua destra, e Galvano se l'era guadagnato non solo per l'amicizia nei confronti di Artù, ma anche per la propria abilità. Quando ancora sul trono di Camelot sedeva re Uther, era sempre a lui che il sovrano assegnava il compito di occuparsi delle reclute e degli scudieri, sebbene all'epoca non avesse neppure trent'anni. Artù aveva indetto sette tornei in sedici anni, e lui ne aveva vinti cinque – in due era stato Lancillotto ad arrivare primo, e solo perché lui non aveva partecipato.

C'erano buone possibilità che vincesse, era vero. E il solo pensiero lo faceva raggelare.

Qualcuno bussò contro lo stipite del portone, e subito dopo il garzone che Lancillotto aveva scacciato poco prima si presentò sulla soglia delle scuderie.

- Chiedo scusa...- mormorò.- Ma la regina ha richiesto che uno dei cavalieri monti di guardia di fronte alla porta della principessa...

- Perché deve essere uno di noi?- fece Lancillotto, con una smorfia.- Dove sono le guardie reali?

- C'è molto da fare per domani mattina, sir. Immagino saprete del torneo...ecco, occorre più aiuto possibile, e...

- Riferisci alla regina che andrò io - disse Galvano, in fretta, congedando con un gesto il garzone. Il ragazzo fece un rapido inchino e se ne andò. Lancillotto lo guardò brevemente, ma Galvano non disse nulla, e uscì dalle scuderie.

 

***

 

In quasi diciassette anni di matrimonio, Artù aveva avuto modo d'imparare un tratto caratteristico di sua moglie che lasciava sbalorditi tutti: per quanto potesse sembrare dolce e remissiva, quando si metteva in testa una cosa Ginevra era inarrestabile, e non c'era verso di distoglierla dai suoi propositi.

Questo era il motivo per cui adesso si ritrovava nella sua stanza, disteso a letto sotto cumuli di coperte con sua moglie, il medico di corte e Merlino che lo fissavano.

Era abbastanza snervante.

In vita sua non era quasi mai stato malato – suo padre lodava sempre la sua salute di ferro, ed era una delle poche cose buone che si era sentito dire da Uther – e quindi essere costretto a letto gli pesava più di qualsiasi altra cosa – anche se mai più del non riuscire a trovare un punto d'incontro con Odette.

Artù rimase immobile, irrigidendosi appena sotto le coperte quando Merlino gli tastò la fronte con un palmo della mano. Sentì le dita di Ginevra stringersi ancora di più intorno alle proprie.

- Ve l'ho già detto più di una volta, Vostra Maestà: non dovreste agitarvi così - borbottò Merlino, ritraendo la mano; aveva l'aria corrucciata.- E' quanto di più deleterio ci sia quando si è malati.

- Non sarebbe successo, se non fosse stato per Odette...- sibilò Ginevra, con un po' troppo astio nella voce; Artù le strinse la mano per calmarla.

Il medico di corte si sedette a un piccolo tavolo, scrivendo qualcosa su un taccuino. La regina alzò lo sguardo su di lui.

- Avevate detto che si trattava di una lieve influenza - disse.- Perché non è ancora guarito?

- Tutto ciò che posso consigliarvi è di attendere e riposare - rispose l'uomo.- I sintomi sono quelli di una leggera febbre e un po' di debolezza...non c'è altro. Vi consiglio solo di non agitarvi troppo e di dormire il più possibile. Con permesso...- il medico si alzò in piedi, s'inchinò e uscì dalla stanza, lasciando solo il taccuino su cui – Ginevra lo sapeva, motivo per il quale non aveva alcuna intenzione di leggerlo – aveva certamente prescritto ciò che aveva detto a voce.

Tutti consigli che avevano messo in pratica, ma che non davano nessun risultato.

La regina alzò lo sguardo.

- Merlino?- chiamò, con aria supplichevole. Il mago la guardò per un istante: era evidente che anche lei stava cominciando a sospettare che il medico avesse torto, e che Artù fosse affetto da qualcosa di ben più grave. Merlino si schiarì la voce.

- Io non sono un medico, mia regina...- mormorò.- Non posso consigliare nulla contro i mali del corpo.

- Ma praticate una magia molto potente - insistette Ginevra.- Non...non potreste...

- In effetti, mi sento stanco...- s'intromise il re, guardando la moglie.- Proverò a dormire come mi ha suggerito il medico...vedrai che fra un paio d'ore starò meglio...- provò a rassicurarla, anche se il suo aspetto debole e malaticcio suggerivano tutto il contrario.

Ginevra non rispose, ma si lasciò sfuggire un impercettibile sospiro. Chiuse gli occhi un attimo, prima di riaprirli e puntare nuovamente lo sguardo su Merlino. Il mago fece un rapido inchino.

- Vedrò cosa posso fare, Vostra Maestà - promise, e uscì dalla stanza.

Merlino richiuse la porta e cominciò ad avviarsi lungo il corridoio, diretto nella zona Est del palazzo. Sin da quando re Uther Pendragon era in vita, gli erano stati assegnati degli alloggi in quell'ala del castello, che erano a sua sola disposizione. Nessuno ci era mai entrato – gli unici ad averne il diritto sarebbero stati il re, il quale aveva sempre nutrito talmente tanta fiducia in lui da non sentire nemmeno il bisogno di controllare, e sua moglie e sua figlia, che non si erano mai interessate a cosa ci fosse là dentro –, e lui li teneva sempre chiusi a chiave. E protetti con la magia.

Merlino accelerò il passo, ma appena svoltò l'angolo per poco non urtò contro una persona che arrivava dalla direzione opposta. Il mago si accigliò, facendo un breve cenno con il capo in segno di scuse.

- Perdonatemi, milady...- bofonchiò, intravedendo l'orlo di una gonna scarlatta. La donna emise un verso gutturale simile a uno sbuffo, ma non rispose. Merlino sollevò lo sguardo, incontrando il volto tirato di Morgana.

La dama di compagnia preferita della regina era stretta in un lungo abito di velluto scarlatto, molto scollato, e aveva i capelli raccolti in una retina dai fili dorati. Reggeva fra le mani un involucro nascosto da un fazzoletto. Morgana fece una riverenza in segno di saluto e fece per proseguire, ma Merlino la bloccò per un braccio.

La donna gli rivolse uno sguardo stizzito.

- Non vi hanno insegnato le buone maniere nei confronti di una signora?- sibilò.

- Non ho mancato di rispetto ad alcuno e, in ogni caso, voi non siete una signora!- rispose il mago, digrignando i denti.- Dove state andando?

- Che v'importa?- Morgana si divincolò, ma a Merlino non sfuggì che teneva ben saldo quell'involucro.- Non è affar vostro, e fingerò di non aver udito quel commento sulla mia rispettabilità...

- E io fingerò che voi non siate un mostro senza cuore che ha certamente punito in modo disumano una povera creatura innamorata. Dove state andando?- ripeté.

- Voi non sapete niente dei provvedimenti che ho preso nei confronti di mia figlia, e in ogni caso queste sono questioni strettamente private che non vi riguardano!

- Posso perfettamente immaginare cosa abbiate fatto passare a Odile, voi e vostro figlio! Ora, ve lo chiedo un'ultima volta, e se non risponderete sarò costretto a chiamare le guardie: dove state andando?- incalzò Merlino. Morgana arrossì, stizzita, ma non osò rispondere per le rime: lei era una protetta della regina, ma sapeva che questo non la rendeva invulnerabile. Merlino era un pezzo grosso, non solo nelle arti magiche – lei in fondo era una semplice fattucchiera, ed eccelleva soltanto nell'erboristeria –, ma anche nella gerarchia di Camelot. Se avesse chiamato le guardie, allora lei avrebbe dovuto rassegnarsi a venire trattenuta fino a nuovo ordine. Non le conveniva giocare con il fuoco.

Cercò di darsi un contegno, raddrizzando le spalle e il collo, ma ritraendosi quel tanto che bastava per non essere troppo vicina a Merlino.

- Nelle stanze del re. Una visita di cortesia - pronunciò quelle parole stando attenta che la propria voce non la tradisse, ma non bastò per ingannare il mago.

- Cosa tenete fra le mani?

- Una tisana per dormire. Ho saputo che Sua Maestà ha avuto un'altra crisi, e così ho pensato che...

Non fece in tempo a terminare la frase. Merlino le strappò di mano l'involucro, con decisione ma stando attento a non rovesciarne il contenuto – di qualunque intruglio si trattasse. Morgana boccheggiò per qualche secondo, interdetta, ma subito si riprese.

- Ma come vi permettete?!- sbottò, stavolta rossa di rabbia.- Non avete il diritto di...

- In quanto amico personale e confidente di Sua Maestà, ho diritto a questo e altro - il mago la freddò.- E il re non può ricevere visite in questo momento, né può ingerire alcunché senza l'approvazione del medico di corte...

- Non...non ero a conoscenza di ciò. Ebbene, ridatemela.

- Non credo proprio...- Merlino si voltò, tenendo attentamente l'involucro fra le mani, e riprese a camminare in direzione dei suoi alloggi.- Se nessuno la berrà, non vedo il motivo di conservarla. Penserò io stesso a gettarla via...

Morgana rimase a guardarlo in silenzio e immobile fino a che non scomparve dietro un angolo del corridoio. Strinse i denti. Merlino aveva detto che avrebbe l'avrebbe gettata via...ma a lei non era sfuggito che il suo sguardo intendeva tutt'altro.

 

***

 

Odette si girò su un fianco, asciugandosi gli occhi con una manica del vestito. Continuò a singhiozzare, sentendosi gli occhi gonfi; sapeva di essersi cercata quella punizione, così come sapeva che frignare standosene distesa a letto non avrebbe né cancellato i suoi sbagli né tantomeno fatto cambiare idea ad Artù e Ginevra, ma non sapeva che altro fare e aveva un disperato bisogno di sfogarsi.

Le attraversò la mente il ricordo di Odile, di come si fosse fidata della sua amicizia...una parte di lei le urlava che se la figlia di Morgana non avesse fatto la stupida – per quale motivo, poi? – allora adesso non sarebbe stata in quella situazione, e provava il grandissimo impulso di scaricare tutta la colpa delle sue disgrazie sulla servetta...ma un'altra la rimproverava, dicendo che tanto sarebbe accaduto comunque.

Afferrò un cuscino e nascose sotto la testa, continuando a singhiozzare.

 

Chissà chi lo sa, il mio nome qual sarà.

Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio.

 

Odette sgranò gli occhi, e trattenne istintivamente il fiato. Per dei lunghissimi secondi non accadde nulla, tanto che la principessa credette di essersi immaginata quella voce maschile e cantilenante.

Ma subito ricominciò.

 

Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà.

Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio.

 

Odette tirò fuori la testa dal cuscino e scattò seduta sul letto. Una lacrima le sfuggì dalle ciglia, ma aveva smesso di piangere. Si rese conto solo vagamente di stare respirando più forte e con più affanno.

- Chi è?- chiese all'aria, facendo correre lo sguardo su ogni mobile della stanza.

Una risatina acuta le fu da risposta.

 

Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà.

Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio.

Piangi bella bambina, la mala sorte ti è vicina.

Ma se il mio nome invocherà, la principessa salva allor sarà.

 

Odette sentì il cuore prendere a battere più forte, ma quando aprì la bocca per chiedere chi fosse, il rumore di un pugno contro il legno della porta la fece trasalire. La principessa sobbalzò, voltando il capo verso il battente.

Rimase in silenzio per un tempo che le parve infinito, durante il quale quella cantilena non si fece più sentire. In compenso, i colpi contro la porta si ripeterono, più decisi.

- Chi...- la voce le uscì come un gracidio quando si risolse a rispondere.- Chi è?

- Vostra Altezza? Sono...sono io. Sir Galvano.

Odette ci mise qualche istante a metabolizzare l'informazione, ma tirò un sospiro di sollievo, scostandosi una ciocca bionda dietro un orecchio. Forse me lo sono immaginato, pensò.

- Entrate.

Galvano non attese oltre, ed entrò. Odette distolse lo sguardo, fissando le proprie ginocchia mentre gli occhi tornavano a riempirsi di lacrime. Si morse il labbro inferiore, stringendo le lenzuola fra le dita.

Il cavaliere si avvicinò con cautela.

- Vostra madre mi ha ordinato di montare di guardia di fronte alla vostra porta.

Odette si asciugò gli occhi con una manica, tirando su con il naso.

- E perché avete deciso di entrare, allora?- domandò.

- Ho pensato...che sarei stato più utile dentro, piuttosto che fuori.

La principessa comprese immediatamente, e si morse il labbro con più energia per non scoppiare a piangere, ma con scarsi risultati. Galvano si avvicinò al letto.

- Posso sedermi?

Odette annuì, e non appena il cavaliere ebbe raggiunto il bordo del baldacchino, gli si gettò al collo, nascondendo la faccia contro la sua spalla e ricominciando a singhiozzare. Galvano rimase un attimo interdetto da quel gesto, ma subito si riprese. Contrariamente a sir Lancillotto, agli altri cavalieri, e a chiunque abitasse a Camelot o nei dintorni di Avalon, lui aveva sempre visto la principessa più come una semplice ragazza di sedici anni – con tutto ciò che questo comportava – che come un membro della famiglia reale. Sospirò, passandole una mano sul dorso nel tentativo di calmarla, ma Odette singhiozzava senza freni.

- Lo so che sono lacrime di coccodrillo...!- mugolò la principessa.- Ma non riesco a credere di essere arrivata a questo punto. Stavolta mia madre non cambierà idea...

Galvano non rispose: non voleva dirle una bugia o rassicurarla a vuoto, ma nemmeno infierire. La regina non sarebbe tornata indietro, non stavolta, e lo sapeva anche lui.

Odette si staccò appena per poterlo guardare negli occhi.

- Che cosa devo fare?- chiese, con la voce incrinata.- Domani...domani...

Non riuscì a continuare la frase. A Galvano pareva quasi che la principessa fosse sul punto di svenire, con gli occhi arrossati dal pianto, tremante e sudata. Staccò dalla cintura la fiaschetta di grog, porgendogliela.

- Bevete un sorso di questa, vi aiuterà a calmarvi. Fate piano, è roba forte...- mormorò. Odette annuì, prendendo la fiaschetta e ingurgitando un generoso sorso del suo contenuto.

Chiuse gli occhi, gettando il capo all'indietro. La gola le bruciava un po', ma in un attimo si sentì invadere interamente dal calore del grog. L'alcool le scorreva nelle vene come fuoco liquido, un fuoco tiepido e benevolo come quello di un caminetto acceso mentre fuori impestava la bufera.

Fu una sensazione che durò pochi secondi, ma abbastanza per calmarla.

Odette riaprì gli occhi; avrebbe voluto buttare giù un altro sorso – tutto, tutto pur di dimenticare –, ma sir Galvano le strappò la fiaschetta di mano, allacciandola nuovamente alla cintura.

- Basta. Un sorso va bene, ma troppo vi fa male...- Galvano abbozzò un sorriso di scuse.

- Non mi è sembrato facesse male...- mormorò Odette.- E' per questo che bevete sempre?- trovò il coraggio di chiedere. Il cavaliere annuì.

- Mi aiuta a lenire il dolore...qualche volta. Ma non lo estingue, ed è solo in grado di farti dimenticare per qualche momento. Nulla più.

- Dimenticare cosa?

Galvano sorrise, evadendo educatamente la domanda. Odette comprese, e si strinse le ginocchia al petto. La sensazione di tiepido benessere datale dal grog era sparita, e lei aveva ancora voglia di piangere, adesso. Il cavaliere sospirò.

- Vorrei potervi aiutare...- sussurrò.- So che è molto poco, ma vorrei davvero che ci fosse un modo per...

- Forse...forse c'è...- disse Odette, guardandolo negli occhi.- Voi...voi non desiderate diventare re, vero? Non avrete interesse a sposarmi, giusto?

Galvano rise.

- Voi potreste essere mia figlia, Vostra Altezza, e il ruolo di monarca è troppo impegnativo per me...

- Allora, vincete quel torneo!- scattò su Odette.- Vincete per me. Vincete, e rifiutate la mia mano. Solo così non sarò costretta a...

- Se fossi io a vincere, domani, lo farei sicuramente - l'interruppe sir Galvano.- Ma in questo caso, il re concederebbe la vostra mano al secondo arrivato, e può anche darsi che chiunque egli sia abbia degli ottimi motivi per non rifiutare come ho fatto io...E se anche così non fosse...

- …mia madre troverebbe comunque il modo di trovarmi un marito - concluse la principessa la posto suo.- Ci deve essere un'altra maniera! Ho provato a chiedere scusa, lo giuro, ma...evidentemente ho tirato troppo la corda, e ora si è spezzata. E adesso pensano che io non sia in grado di avere la mano di me stessa...

In quel momento, fu come se la frase di Odette avesse acceso una fiammella nel buio. Galvano ricordò improvvisamente una delle regole dei tornei: chiunque poteva chiedere di partecipare, in qualsiasi momento. Anche un attimo prima della giostra finale.

Se si fossero giocati bene le loro carte, allora...

Le posò una mano su un braccio; Odetto lo fissò con aria interrogativa.

- Molto probabilmente il re mi caccerà e la regina s'infurierà ancora di più con voi, ma se non altro avremo eliminato il problema del matrimonio fino a che i sovrani non avranno ripreso a ragionare a mente lucida...

- Non vi seguo...

- Il re mi ascolterà, al momento opportuno mi assumerò le mie responsabilità e spiegherò tutto personalmente. Vedrete che andrà tutto bene - disse sir Galvano.- Ho solo una domanda per voi: da quel che ho potuto vedere durante la notte del cigno nero, vi piace molto mascherarvi: sareste disposta a farlo di nuovo?

 

***

 

La colpa non era stata sua. Né sua, né di Morgana e – no – nemmeno di Odile. Non di Ginevra, non di Artù, non di quella mocciosa della principessa Odette, e nemmeno di tutti quegli ipocriti che avevano deriso il cigno nero quando le ali le erano state strappate.

La colpa di tutto era solo di Lancillotto.

Mordred si era rigirato per ore fra le lenzuola, prima di giungere a questa conclusione.

Lancillotto aveva fatto innamorare sua sorella, l'aveva illusa e infine umiliata. Era colpa sua se Morgana aveva punito Odile, e se il cigno nero – brutto anatroccolo – ora aveva il cuore spezzato per colpa di una bestia.

La colpa era solo sua, e lui gliel'avrebbe fatta espiare fino in fondo.

 

***

 

La giornata era trascorsa stranamente in fretta. Ginevra si era decisa a lasciare la camera di suo marito solo molto tempo dopo che questi si era addormentato, e aveva dato ordine alle guardie di mandarla a chiamare quando si fosse svegliato. Aveva trascorso le ore seguenti chiusa nella propria stanza da letto, senza curarsi dei doveri di corte e lasciando che pensassero i funzionari e i servitori a organizzare tutto per l'indomani.

Adesso il sole stava calando, e lei era in piedi di fronte alla finestra di camera sua. La vista dava sul cortile interno alle mura, una distesa di terra dove gli antenati dei Pendragon avevano sempre organizzato i tornei e le giostre. Alcuni servitori stavano mettendo in ordine ancora i pochi dettagli che mancavano, e poi tutto sarebbe stato pronto per l'indomani.

Pronto per il torneo. Pronto per un matrimonio.

Pronto per una condanna a morte.

Ginevra inspirò a fondo. Chiuse gli occhi, e pensò a sua figlia. La rivide prima neonata, poi bambina e infine quella ragazza che la guardava con astio ogni volta che le sfiorava il capo con una carezza.

Non voleva farlo. Non avrebbe mai fatto una cosa del genere, se Odette non ce l'avesse costretta.

E se Tremotino non fosse tornato.

Il pensiero le diede la sensazione che la terre le mancasse da sotto i piedi, tanto che dovette aggrapparsi al bracciolo di una poltrona per sostenersi. Tremotino era tornato, e lei non aveva scordato la promessa che aveva infranto sedici anni prima. Lo stregone aveva giurato di prendersi sua figlia, e l'avrebbe avuta, prima o poi.

Se Odette si fosse sposata, allora sarebbe stato tutto più semplice. Avrebbe potuto proteggerla ancora meglio.

Bussarono alla porta. Ginevra si riscosse.

- Avanti...- mormorò, e un attimo dopo si ritrovò di fronte Morgana.

La donna fece una riverenza, tenendo lo sguardo basso.

- Perdonate il disturbo, Vostra Maestà. Ero venuta a chiedervi il vostro permesso per poter lasciare Camelot, domani.

Ginevra la guardò con tanto d'occhi.

- Lasciare Camelot, Morgana? Posso...posso domandarti il perché?

- Nulla di grave, Vostra Maestà. Alcuni affari di famiglia mi richiamano a Nord, nelle terre che furono del mio povero marito. Non sarà un viaggio lungo, io e la mia famiglia saremo di ritorno entro tre mesi - Morgana alzò lo sguardo.- Vengo a domandarvi il permesso per me e per mio figlio Mordred di partire.

La regina sorrise, annuendo.

- Permesso accordato, Morgana. Ma spero che partirete nel pomeriggio, dopo il torneo...

- Certamente, Vostra Maestà. Mordred non mancherebbe per nulla al mondo.

- E che succederebbe se Mordred dovesse vincere, domani?- Ginevra si avvicinò a lei, sorridendo.- Se dovesse essere lui a conquistare la mano di mia figlia...ho buone ragioni per contare sul fatto che non partirà più?

- Più che buone, Vostra Maestà. Intanto, comunque, vi ringrazio per il permesso.

Il sole calò all'orizzonte.

Nessuno, a Camelot, quella notte avrebbe dormito.

 

***

 

- Perché stai continuando a guardare il mio specchio? C'è qualcosa che vorresti vedere?

Malefica non rispose alla domanda della Regina Cattiva, ma ne percepì comunque l'ombra stizzita. La sua amica – ma poteva davvero chiamarla così? – non aveva mai sopportato che qualcuno che non fosse lei si avvicinasse alle sue proprietà, specialmente allo specchio magico.

Malefica le avrebbe voluto ridere in faccia, dirle che la sua stessa madre prima di lei aveva posseduto uno specchio come il suo, e che era anche immune all'effetto della polvere di fata. Ma era la Regina Cattiva che teneva le redini dei cavalli, al momento, e lei aveva tutto da guadagnare da quell'alleanza.

- A dire il vero, sì - ammise infine.- Sarei curiosa di dare un'occhiata a ciò che succede a Camelot.

- Ho già dato personalmente ordini a Morgana.

- Lo so, ho sentito. Ma Tremotino è ancora laggiù, non pensi che sarebbe opportuno controllare le sue mosse? Anche se non potremo evitarle, saremo sempre informate. Non trovi?

La Regina Cattiva arricciò le labbra in una smorfia incerta, ma fece un rapido cenno con la mano in segno di assenso. Malefica non attese oltre e si avvicinò allo specchio.

Sua madre ne aveva uno uguale al castello, e lei sapeva perfettamente come usarlo.

Mosse piano una mano di fronte alla superficie fredda che ritraeva il suo volto.

- Mostrami Camelot.

 

***

 

Era l'alba, e Odette si sentiva stanca come se fosse mezzanotte. E più che stanca, era nervosa. Ma non nervosa come lo era stata durante la sua breve evasione della notte del cigno nero...era un nervosismo spaventato. Sapeva che quello che stava per fare comportava o il successo o l'eterno fallimento, e l'unica cosa che la consolava era la consapevolezza che sir Galvano fosse un buon oratore.

A proposito, che fine aveva fatto?

Questo era ciò che contribuiva ancora di più al suo nervosismo: Galvano le aveva assicurato che avrebbe pensato a tutto lui, ma le aveva detto di tenersi pronta per le nove del mattino – ben due ore dopo l'inizio ufficiale del torneo. Le aveva detto di stare tranquilla, che sarebbe andato tutto bene...ma lei non ci riusciva, e avrebbe di gran lunga voluto essere insieme a lui, dovunque fosse.

Sempre meglio che in camera sua in compagnia di sir Lancillotto!

Odette sbuffò, lanciando un'occhiata di sottecchi al cavaliere seduto all'angolo opposto della stanza.

Le guardie reali erano ancora impegnate, e a quanto pareva era toccato a Lancillotto farle da bambinaia, quella mattina. Odette era quasi stata sul punto di rivelargli l'intero piano di sir Galvano, ma si era morsa la lingua. Tuttavia, il nervosismo non l'aveva abbandonata, tanto che aveva avvertito il bisogno di un po' di compagnia, e aveva chiesto a sir Lancillotto di entrare nella sua stanza a sorvegliarla, invece di starsene in corridoio.

Ovviamente quel bacchettone non ne aveva voluto sapere al primo colpo, e lei l'aveva convinto a entrare solo minacciando di mettersi a strillare se non l'avesse fatto. Voleva solo chiacchierare con qualcuno, avere un po' di compagnia in attesa del momento in cui Galvano sarebbe venuto da lei...lo desiderava talmente tanto che aveva scordato di stare chiedendo alla persona meno di compagnia di tutta Avalon!

Lancillotto alla fine aveva effettivamente ceduto alle minacce ed era entrato...solo per prendere un libro dalla sua biblioteca personale e sedersi in un angolo a leggere in silenzio, con lei che rimaneva a fissare il vuoto come una stupida.

Odette sbuffò di nuovo, mentre l'orologio a pendolo segnava le cinque e mezzo del mattino.

- Avete notizie di sir Galvano?- domandò, tanto per dire qualcosa.

Lancillotto finse non averla sentita, e continuò a leggere.

- Siete sordo?- incalzò la principessa.

- Esce tutte le mattine, e non torna prima delle sei...- borbottò infine il cavaliere, senza smettere di leggere.

- Davvero? E dove va?

- Alla tomba di sua moglie.

Odette rimase un attimo interdetta. Non aveva idea che Galvano fosse mai stato sposato.

Lancillotto la guardò di sottecchi, probabilmente intuendo.

- Lui preferisce non parlarne.

- Non l'ho mai visto al cimitero vicino alla foresta, quando mia madre mi portava a onorare i morti...- osservò la principessa.- Dov'è sepolta sua moglie?

- Molto al di fuori delle mura, e neppure in città. Non saprei darvi coordinate precise.

- Non...non è sepolta in terra consacrata?

Lancillotto evitò di rispondere.

- Com'è morta?- insistette Odette.

- Galvano non vorrebbe che ve lo dicessi, e in ogni caso non è un vostro problema...- il cavaliere posò il libro e si alzò, dirigendosi verso la porta. La principessa incrociò le braccia al petto, immusonita.

- Siete un orso!- borbottò.- Posso almeno sapere come si chiamava?

Era convinta che non avrebbe ricevuto risposta neppure stavolta, ma appena prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle, Lancillotto la guardò.

- Lucy.

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: TA-TA-TA-TAAAAN XD. Scommetto che questa non ve l'aspettavate XD.

Questo capitolo non sarebbe dovuto essere spezzato in due (avevo promesso a me stessa che non l'avrei più fatto, lo so *si fustiga*), ma numerose richieste sia su FB che su EFP affinché mi sbrigassi a pubblicare mi hanno indotto ad accelerare i tempi. Il prossimo capitolo vedrà il torneo e sarà ricchissimo di azione.

Due paroline su quest'ultimo. In primis, Lancillotto e il suo caratteraccio, nonché l'insonnia. Vi assicuro che niente in Grimm è campato lì tanto per il gusto di farlo, ma avrà un suo perché e una sua spiegazione, così come lo avrà il suo “bestiale” (nel senso di “senza cuore”) comportamento. Il fatto che sir Galvano abbia sposato Lucy intreccia ancora di più Camelot con la vicenda di Malefica (che verrà descritta tra un po')...e intanto: com'è morta la nostra piccola fiammiferaia? Cos'è successo a lei e a sua sorella adottiva? E Mordred starà cominciando a capire che Odile è una persona e non un oggetto? Che vuole fare? Che intenzioni ha con Lancillotto? E Merlino sospetta qualcosa su Morgana? Come farà lei a cavarsi dai guai? Che ha in mente Galvano e come andrà a finire il torneo?

E non dimenticatevi Tremotino che incombe...il nostro stregone come interverrà in tutto ciò? E Malefica?

Ci rivediamo alla prossima puntata ;).

Un bacio,

Beauty

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Capitolo 35
*** Kill the King ***


Kill the King
 
Alcuni raggi di sole avevano cominciato a filtrare attraverso le tende inamidate della sua camera da letto. Una pozza di luce prese a espandersi sul ripiano del tavolo, colpendo ciotole di rame, fasci di erbe appassite e alcune boccette di vetro. Morgana soffiò fra i denti, innervosita, e tirò indietro il mortaio in modo da ritirarsi nell’ombra, continuando poi a pestare le erbe al suo interno. I colpi della pietra appuntita che stava maneggiando contro il fondo legnoso risuonavano nella stanza e nelle orecchie della strega. Teneva le sopracciglia aggrottate, e pestava le erbe con cadenza regolare, calibrando ogni colpo. A ogni erba che maciullava, nella sua mente corrispondeva una persona, ognuna di esse che meritava di perire per mezzo delle sue mani: Ginevra, Artù, Odette, Odile e Merlino...Merlino che le aveva sottratto il veleno destinato al re...Merlino che certamente aveva capito che qualcosa non andava...Merlino che non avrebbe tardato a scoprire la verità e a denunciarli alla regina...
Poco male. Sarà impegnato tutta la mattina a causa del torneo. E prima di sera io e mio figlio ce ne saremo già andati. La Regina Cattiva ci ha promesso protezione...e quando torneremo, Mordred sarà il nuovo sovrano di Camelot.
Qualche volta le capitava di guardare indietro, di ritornare con la memoria a quando era la moglie di un semplice vassallo minore di re Uther...e si domandava come avesse fatto a ridursi così. O meglio, lo sapeva, ma all'epoca non aveva mai pensato a questa eventualità; e perché avrebbe dovuto? Non aveva mai neppure rivelato a suo marito le sue capacità da erborista...non - non solo - per paura delle punizioni contro chi praticava la stregoneria, ma perché non aveva mai pensato che quelle nozioni tramandatele da sua madre le sarebbero mai state utili in qualche modo. E che ragione avrebbe avuto d'impiegarle, d'altronde?
Era la moglie di un uomo sufficientemente benestante per mantenerla, per di più poteva vantarsi di essere una delle poche fortunate a cui i genitori avevano scelto un marito che tenesse alla sua opinione e la rispettasse come persona...chi avrebbe potuto sospettare che la sua vita sarebbe stata stravolta in quel modo, per colpa di un re ingrato?
Si era sposata a quattordici anni, a quindici aveva avuto suo figlio e a ventuno era già vedova, senza un soldo e incinta di sette mesi. Tutto ciò che aveva per campare erano il suo corpo e le sue capacità di erborista.
Che altro avrebbe potuto fare?
La cicuta nel mortaio era ormai quasi ridotta a una poltiglia verdastra, ma Morgana continuava a pestarla con furia; erano quasi le sei del mattino, e fra meno di tre ore il torneo avrebbe avuto luogo...e lei non poteva fare a meno di pensare a quante occasioni si stessero loro presentando in quegli ultimi tempi.
Forse non ci sarà veramente bisogno di partire. Se Mordred vince in capo a tre giorni sarà sposato con la mocciosa...sarà il legittimo erede al trono, e se anche Merlino dovesse aprire bocca diventerebbe un intoccabile. Lo faremo condannare al rogo, quel vecchio impiccione! E una volta tolto di mezzo Artù...
Udì la porta aprirsi cigolando alle sue spalle, ma non si voltò, né smise di pestare le erbe nel mortaio, e nemmeno lo fece quando la sentì richiudersi e un rumore di passi lenti e incerti riempì la stanza.
“Cosa ci fai qui?” chiese, sollevando lo sguardo verso la finestra.
“Il torneo è fra due ore” rispose Mordred, a voce bassa; fu sollevato dal fatto che sua madre non si fosse voltata. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, e specchiandosi quella mattina aveva incontrato il suo viso appuntito più pallido e smunto del solito, con profonde occhiaie a cerchiargli gli zigomi; poco ma sicuro, sua madre l'avrebbe rimproverato per non aver dormito.
“Dovresti essere nelle scuderie, a prepararti” sibilò la strega, cominciando a pestare le erbe con più veemenza. “Perché sei qui, si può sapere?”.
“Ero venuto a parlarvi di una questione”.
“Spero che sia importante”.
“Ero venuto...” Mordred avvertì uno strano nodo alla gola, ma si costrinse a continuare. “Ero venuto a parlarvi di Odile...”
“Oh, non seccarmi con quella sciocca!” ringhiò Morgana, lasciando cadere la pietra nel mortaio e girandosi finalmente a guardarlo. “Che si affoghi nel pozzo, se le va! Io ho altro a cui pensare, quindi non scocciarmi...!”
Mordred ammutolì, come un bambino appena sgridato dalla mamma e in attesa della punizione. Non aveva neanche voluto ascoltarlo, realizzò; era bastato pronunciare il nome di sua sorella perché Morgana liquidasse la faccenda come qualcosa di poco importante.
Perché Odile è poco importante, no?
Un tempo avrebbe pensato così. Avrebbe pensato così fino...al giorno prima. Anzi, fino al giorno prima non gli sarebbe mai neppure sopraggiunta l'idea di parlare di Odile con qualcuno, tantomeno con sua madre; e a che scopo, poi? Cosa c'era da dire su Odile?
Non era altro che un brutto anatroccolo, in fondo...
Ne sei proprio sicuro?
“Piuttosto...” Morgana inspirò a fondo, passandosi entrambe le mani sul volto con gli occhi chiusi.
“Piuttosto, sta' a sentire, devo parlarti di una questione...”
Lui non voleva starla a sentire.
Mordred si stupì dei propri pensieri, ma era così. In quel momento gliene importava veramente poco di tutto ciò che Morgana avrebbe potuto dirgli. E poi...perché avrebbe dovuto starla a sentire, quando lei non aveva voluto fare lo stesso con lui?
Digrignò i denti di fronte all'evidenza. Morgana pretendeva qualcosa da lui senza dargli niente in cambio; non aveva voluto ascoltarlo quando aveva cercato di dirle che...che forse c'era un motivo se Odile aveva fatto ciò che aveva fatto. Che forse loro due, tutti e due, avrebbero dovuto cambiare atteggiamento nei suoi confronti, da quel momento in avanti.
Non ti ha ascoltato, e ora pretende che tu lo faccia...
Aveva sempre fatto la stessa cosa con Odile, realizzò Mordred. Morgana aveva sempre preteso da lei rispetto senza mai darle il proprio in cambio. Aveva sottomesso Odile con la forza della paura, per diciannove anni. E Odile, il brutto anatroccolo, il cigno nero dalle ali spezzate era sempre stata troppo debole per ribellarsi.
Lei sì, ma tu no...tu sei più forte. Potresti vendicare entrambi.
Già, era vero. Odile era debole, piccola e minuta...ma lui era un uomo, un cavaliere, era alto e forte. Mordred guardò sua madre: era bassa di statura, magrolina...e non era neanche quel granché abile come fattucchiera. Cosa ci sarebbe voluto, in fondo? Lui era più forte di lei...avrebbe potuto afferrarla per le spalle, stringerle la gola, spingerla a terra...avrebbe potuto terrorizzarla, avrebbe potuto costringerla ad ascoltarlo, a chiedere perdono in ginocchio a Odile...
Sì, ma non ne hai il coraggio.
“Merlino ci ha scoperti” Mordred quasi non si era accorto che sua madre si era girata di nuovo e aveva ripreso a pestare le erbe nel mortaio; e si stupì parecchio quando si accorse che quella notizia non l'aveva sconvolto più di tanto. “Mi ha scoperta mentre portavo al re il veleno. Mi ha sequestrato la pozione, e mi ha fatto intendere che sospetta qualcosa...certamente la controllerà, quel vecchio imbecille, e se ci smaschera allora...mi stai ascoltando?!” abbaiò, voltandosi a guardare suo figlio.
“Sì” si affrettò a rispondere Mordred, riscuotendosi. “Sì, vi sto ascoltando, madre”.
“E non hai nulla da dire? C'è in gioco non solo il tuo futuro da re, ma anche la nostra vita. Ti è chiaro questo?!”
“Attendevo che terminaste di parlare...” sibilò lui, a denti stretti. Avrebbe voluto picchiarla.
“Ci sono due sole vie per uscirne” proseguì Morgana. “La prima è che tu diventi re”.
“E non avevamo stabilito che con Artù fra i piedi fosse impossibile?” sputò fuori Mordred, velenoso.
“Saremmo più vicini al trono, se tu sposassi la principessa. Vinci questo torneo e la mocciosa sarà tua moglie”.
“Che cosa?!” il cavaliere strabuzzò gli occhi. “Non la voglio quella bambina viziata come moglie!”
“Te la farai andare bene!” Morgana sbatté la pietra nel mortaio e si girò; in capo a un secondo gli fu a pochi centimetri di distanza. “Se tu la sposi, sarai il principe ereditario; Merlino non potrà fare né nulla contro di te o di me, neanche se ci accusasse con tutte le prove. Anzi, se solo si azzardasse ad aprire bocca noi lo potremmo far condannare al rogo. Se sposi la principessa, sarai il legittimo erede al trono, e Artù è praticamente già morto. Gli ho somministrato il veleno per mesi, ormai è condannato, non c'è più alcun mezzo per cui possa guarire. Tolto di mezzo lui, Ginevra non potrà niente, e sarai il re” Morgana si avvicinò ancora di più a lui. “Pensaci, Mordred” sibilò. “Sarai re senza dover ricorrere all'armata della Regina Cattiva per conquistare Camelot, e le potrai consegnare su un piatto d'argento ciò che desidera. Lei sarà orgogliosa di noi!”
“E per ottenere tutto questo io dovrei sopportare a vita quella piccola vipera?” Mordred inarcò un sopracciglio, infastidito.
“Se proprio non riesci a tollerare quest'inconveniente vorrà dire che il giorno dopo la tua incoronazione la spingeremo già dalla torre più alta del castello, e ora smettila di lamentarti!” sbuffò la strega, innervosita. “Piuttosto, smetti di perdere tempo e vai a prepararti. Devi vincere, oggi...e avrai degli avversari difficili da sconfiggere” aggrottò le sopracciglia, pensosa. “Sir Galvano, ad esempio...non so se preoccuparmi di lui, ha vinto molti tornei, è vero, ma ormai sta invecchiando...starei bene in guardia nei confronti di sir Lionel e sir Galahad...e anche di sir Lancillotto...”
“Lancillotto?”
Improvvisamente, a Mordred sembrò di rivivere un sogno. I pensieri che lo avevano tormentato per l'intera nottata tornarono a colpirlo con violenza inaudita. Rivide la maschera di sua sorella venir strappata via dal suo volto, udì di nuovo quel bel tentativo, Odile! carico di disprezzo, le risate e gli insulti gli rimbombarono nelle orecchie...e ora più che mai il giuramento che aveva fatto a se stesso acquistò ancora più significato.
E' colpa sua se Odile ha sofferto...non mia, né di nostra madre...solo sua...
Lancillotto doveva pagare per il male che aveva fatto a sua sorella.
E ci avrebbe pensato lui a riscuotere la somma.
 
***
 
Tirava vento, e i lembi del suo mantello ondeggiavano colpendogli le ginocchia e gli stivali.
Stava invecchiando. Se ne rendeva conto ogni mattina, quando doveva raggiungere la cima di quella piccola altura. Non era molto elevata, anzi, si trattava di null'altro che una collinetta peraltro nemmeno troppo ripida, ma lui si sentiva cedere le gambe ogni volta che doveva percorrere quella breve salita. Anche se a pensarci bene non era mai stato facile...neppure quando aveva trent'anni ed era rimasto vedovo da pochissimo. Forse erano stati quelli i passi più difficili e stancanti da compiere.
Il vento aumentò d'intensità, e Galvano udì il suo cavallo nitrire alle sue spalle, ai piedi della collinetta. Aveva faticato ad assicurare le briglie intorno al ramo di un albero perché l'animale continuava ad agitare il muso e a pestare gli zoccoli sul terreno. Era nervoso, e sicuramente con quel vento e quel cielo scuro anche gli altri cavalli lo sarebbero stati.
Quel torneo si preannunciava molto più difficile del previsto. Specialmente per lui.
Accelerò il passo quando vide la familiare sagoma grigia e squadrata fare capolino oltre i fili d'erba, proprio sotto alla quercia secolare dov'era stata collocata, e in pochi istanti raggiunse la cima. Strinse appena le dita intorno al fascio di fiori, avvertendo le spine delle rose pungere attraverso la stoffa dei guanti, mentre rimaneva a fissare quel rettangolo di pietra grigiastro che si ergeva solitario in quel territorio sconsacrato.
Avrebbe meritato di meglio. Molto, molto di meglio…
Anche il re lo aveva detto, con un sommesso tono di scuse, non appena la cerimonia di sepoltura si era conclusa. Lucy avrebbe meritato di meglio, ma lui non era riuscito a fare altro. Re Uther avrebbe voluto seppellirla nel lembo di terra del cimitero riservato ai fuorilegge, ai ladri e agli assassini, ed era stato solo grazie all'allora principe Artù e a Merlino se così non era stato.
Una terra sconsacrata, isolata da tutto e da tutti, era qualunque cosa meno che una sepoltura dignitosa...ma almeno aveva potuto evitare che la sua Lucy giacesse insieme alla feccia di Avalon, come re Uther e - lo sapeva - chiunque altro a parte lui, Lancillotto e Artù, avrebbe voluto.
D'altronde, era pur sempre della parente di una strega che si stava parlando…
Il vento cessò per un attimo di soffiare con intensità, ma continuava comunque a fare freddo. Galvano si strinse nel mantello, e lo attraversò di sfuggita il pensiero che era strano, veramente strano che facesse così freddo in quella stagione dell'anno.
Non ci pensò ulteriormente, e si avvicinò alla tomba, inginocchiandosi a terra e cominciando a strappare alcune erbacce che sorgevano accanto alla lapide.
“Eccomi, amore mio...” Galvano sfiorò con l'indice le lettere incise nella pietra, lettere che stavano sbiadendo e che presto sarebbero scomparse. Molti l'avrebbero preso per pazzo, forse anche gli stessi cavalieri o il re, che pure sapeva tutta la verità, ma non era mai riuscito a impedirsi di parlare ogni volta con quella lapide...come se Lucy fosse ancora lì, vicino a lui, viva, e lo ascoltasse, e potesse rispondergli. “Mi dispiace se sono arrivato tardi questa mattina, ma...lo sai, è un giorno importante” sospirò, distogliendo un attimo lo sguardo.  “So di stare sbagliando. So che è contro le regole e non è un comportamento da cavaliere. Ma...è la cosa giusta da fare. Per la principessa, e per noi...” posò le rose accanto a quelle appassite, e i petali vennero mossi un poco dal vento. “Sappiamo tutti che vincerei io comunque, ma non voglio una moglie bambina, e non voglio diventare re. Tu sei l'unica moglie che ho avuto, e resterai la sola. So che non dovrei fare ciò che sto per compiere...ma tu mi hai insegnato che bisogna sempre fare la cosa giusta, e non curarsi delle conseguenze”.
Sfiorò di nuovo le lettere incise sulla lapide. Era strano ogni volta. Strano e doloroso...specialmente se ritornava indietro nel tempo con il pensiero. Quando si erano sposati, anche se era stato un matrimonio combinato e gli inizi non fossero stati dei migliori...alla fine si era innamorato di Lucy. E mai, neanche per un attimo, aveva pensato che sarebbe stata lei la prima ad andarsene.
“Il rischio è grande, me ne rendo conto...” proseguì, a bassa voce.  “Un torneo non è un gioco e…non lo è nemmeno una caduta da cavallo. Lo so che c'è pericolo, ma...non voglio che una ragazzina di sedici anni rischi anche di peggio, per colpa mia. La principessa ha sbagliato, ma non merita questa punizione. Lo sai...” sorrise amaramente, distogliendo lo sguardo dalla lapide. “Non ci avevo mai fatto caso prima d'oggi, ma...se il nostro bambino fosse vissuto, avrebbe la sua stessa età ...”
Il vento riprese a soffiare.
 
***
 
C'era tutto che non andava.
Il colore. L'odore. La temperatura né calda né tiepida ma nemmeno fredda. L'aspetto che rimandava a qualsiasi cosa tranne che a una tisana. Non voleva neanche immaginare che sapore avrebbe avuto, se si fosse azzardato a berne un sorso...
Eppure, non era abbastanza, non per far accusare Morgana di praticare la magia nera, né tantomeno per fare in modo che venisse arrestata per tentato regicidio. Non finché non si fosse assicurato che quella presunta tisana preparata con tanta dedizione dalla ex concubina di re Uther non contenesse sostanze velenose...
Merlino aggrottò le sopracciglia, e svolse una piccola pezza di stoffa grezza alla sua destra, aprendola sul tavolo del suo laboratorio nella torre, proprio in corrispondenza di una chiazza più scura sul legno. Il mago la guardò per qualche secondo, constatando ancora una volta che non era mai più riuscito a farla venire via, da quel giorno in cui il suo ultimo apprendista aveva rotto accidentalmente una bottiglia d'estratto di belladonna.
 
“Mi dispiace molto, maestro...Aspettate, la faccio venire via in un attimo!”
“Non verrà mai più via, Tremotino”.
“Vi chiedo scusa, giuro che la prossima volta starò più attento…”
 
Chiuse gli occhi, scacciando quel ricordo dalla mente e tornando a concentrarsi sul contenuto della pezzuola. Prese una semplice fogliolina di magnolia e la portò all'altezza della tazza stracolma di...qualsiasi cosa fosse. La lasciò cadere al suo interno, fino a che non la vide galleggiare sulla superficie della...tisana.
Il torneo non durerà più di quattro o cinque ore...per quel tempo, saprò sicuramente se l'intruglio di Morgana è avvelenato o no.
Sospirò. Il torneo...o festa del macello di una povera ragazzina. Festa a cui avrebbe dovuto partecipare, giocoforza. Non ne aveva voglia, ma il destino della principessa Odette non era la sola cosa per la quale desiderava non andare...
Non si era mai fidato di Morgana. Non aveva mai neppure sospettato che praticasse la stregoneria, a dire il vero, ma di certo non si era mai fidato di lei e di suo figlio.
Eppure, gli sembrava veramente strano in quel momento che tutto ciò fosse dovuto a Morgana, che lei fosse l’unica persona coinvolta in quella storia, che avesse fatto tutto da sola.
Era un mago, e sebbene non fosse più giovane e in forze come un tempo, era ancora in grado di comprendere quando qualcosa non andava.
E c'era magia oscura, nell'aria...
 
***
 
Giusto per fare il punto della situazione: erano circa le nove meno un quarto del mattino, il torneo sarebbe iniziato alle dieci, lui doveva ancora indossare l'armatura e sellare il suo cavallo, e invece se ne stava chiuso - intrappolato - nella camera da letto della principessa, e quell'ossessivo e regolare colpire il tetto del baldacchino da parte della pallina dorata l'aveva costretto a rileggere la medesima riga per quindici volte consecutive.
Sbirciò in direzione del letto: Odette era distesa supina sul materasso e lanciava in aria la sua pallina d'oro per poi riafferrarla non appena questa, dopo aver colpito il legno, ricadeva in basso, a cadenza regolare. Se la ricordava, quella pallina: il re l'aveva regalata a sua figlia quando aveva compiuto cinque anni, e per due settimane di fila la marmocchia non aveva fatto altro che rincorrere lui e Galvano in ogni parte del castello chiedendo loro di giocare. Alzò gli occhi al cielo, tornando a concentrarsi sul suo libro e a cercare d'ignorare il ritmico tump! tump! della pallina contro il legno.
“Perché sir Galvano non mi ha mai raccontato di essere stato sposato? Di sua moglie?” chiese Odette, smettendo per un attimo di far rimbalzare la palla; si era resa conto che, con Lancillotto perennemente in silenzio e immusonito, non aveva speranze di distrarsi, ma d'altra parte se avesse continuato a pensare al torneo e a contare i minuti che la separavano da esso sarebbe impazzita.
Concentrarsi su qualcos'altro le era parsa una buona soluzione, almeno finché Galvano non fosse venuto a prenderla.
“Forse perché non è affar vostro. Ci avete mai pensato?” ironizzò Lancillotto, più infastidito che sarcastico, a dire il vero; non gli era mai piaciuto il modo di fare della principessa, fin troppo saccente e curioso in modo inopportuno - tutte così, le donne! -, ma ancor meno sopportava quando Odette s'impicciava senza rispetto di questioni che non solo non la riguardavano, ma nemmeno poteva lontanamente comprendere.
E poi, anche se non l'avrebbe mai ammesso...neanche a lui piaceva ricordare la fine che aveva fatto Lucy.
“Siamo amici!” protestò la principessa, scattando a sedere. “Cosa ci sarebbe stato di male?”
“Galvano soffre ancora molto per la perdita di sua moglie, e vi posso assicurare che non è una storia che si racconta con facilità, al di là delle circostanze!” sbottò Lancillotto, così all'improvviso che Odette trasalì. “E vi pregherei di avere il buon senso di non parlarne con lui...” bofonchiò in conclusione.
Odette aggrottò le sopracciglia e incrociò le braccia al petto, indispettita, ma non replicò. Giocherellò un poco con la gonna del suo abito: l'aveva scelto Ginevra, naturalmente, ed era rosso scarlatto, scollato e con le maniche a sbuffo. Si ritrovò a pensare che stavolta sua madre aveva veramente fatto cilecca: più che un'appartenente alla famiglia reale, somigliava a una prostituta d'alto borgo.
Poco male, pensò. Magari quegli idioti che gareggeranno oggi avranno una pessima opinione di me...
“Che ore sono?” domandò, sentendosi di nuovo agitata; l'unica cosa che desiderava in quel momento era che sir Galvano entrasse da quella porta e il piano avesse inizio.
“Non so dirvelo”.
“Ma esiste qualcosa che sapete o potete dirmi senza problemi?!”
Lancillotto non rispose, continuando a leggere. Odette prese ad agitarsi nervosamente sul posto.
“Sir Galvano non è ancora tornato?”
“Che v'importa?”
“Era per chiedere...” borbottò. “Va tutte le mattine alla tomba di sua moglie?”
“Sì”.
“Si chiamava Lucy, avete detto?”
Nessuna risposta.
“La amava molto?”
“Molto”.
“Voi la conoscevate?”
Ancora nessuna risposta.
“Che...che tipo era?” insistette la principessa.
“Ero un ragazzo, non ricordo molto...” Lancillotto girò una pagina del libro e abbassò istintivamente la voce, nel dire quella bugia.
“Voi non siete mai stato sposato, vero?” Odette inarcò un sopracciglio, dubbiosa.
“Certo che no!” rispose il cavaliere, in fretta, come se lei gli avesse appena rivolto un'offesa.
“Ehi, calmatevi, è solo che con tutti questi matrimoni volevo essere sicura che almeno qualcuno, qui, non mi nascondesse qualcosa sulla sua vita passata. Pensandoci bene, in effetti, avrei pietà della disgraziata che avesse la malaugurata idea di sposarvi...!” lo punzecchiò, ridendo sotto i baffi; sentì la tensione nel suo cuore smorzarsi un po'. “Voi non siete mai stato innamorato, dico bene? Ho indovinato, eh?”.
Con sommo sollievo di entrambi e immensa fortuna, qualcuno bussò alla porta. Lancillotto non fece in tempo ad alzare lo sguardo dalle pagine del libro che Odette era già balzata giù dal letto, precipitandosi ad aprire.
Il cavaliere ebbe quasi compassione della povera guardia reale non più che ventenne che quasi venne presa per il collo dalla principessa non appena se la ritrovò di fronte.
“Dov'è sir Galvano?” ringhiò Odette, esasperata.
“Aspettavate sir Galvano?” fece eco un incredulo Lancillotto, alzandosi dalla sedia. “Perché?”.
La guardia reale sembrava più smarrita che mai. La principessa stava per dire qualcos'altro, ma il suo volto si rilassò quando una figura più alta avvolta da un mantello nero fece capolino dietro le spalle del ragazzo.
“Sì, aspettava me...” confermò Galvano, elargendo un sorriso gentile a un perplesso Lancillotto, prima di guardare Odette. “La regina vostra madre mi ha chiesto di accompagnarvi nel cortile per assistere al torneo”.
“E non può pensarci la guardia?” s'intromise il cavaliere più giovane.
“Ordini reali”.
Galvano non attese replica, e offrì il braccio alla principessa. Odette fece un piccolo sorriso, sentendo ritornare la tensione, e si aggrappò al cavaliere come se fosse stato la sua unica salvezza da un pericolo imminente. E in effetti era proprio così.
“Puoi andare a prepararti. Io ti raggiungo più tardi...” disse Galvano a Lancillotto, prima di avviarsi in fretta lungo il corridoio in compagnia della principessa. Odette si sarebbe aspettata che il cavaliere più giovane avesse qualcosa da replicare, ma udì solo silenzio. Si aggrappò più saldamente al braccio di sir Galvano; deglutì, quindi inspirò a fondo, azzardandosi a rilasciare il fiato solo quando furono quasi a metà del corridoio.
Si guardò intorno per assicurarsi che nessuno li udisse, quindi parlò.
“Che cosa facciamo, adesso?” sussurrò.
 “Adesso...” Galvano abbassò la voce. “Adesso io vi accompagno nel cortile, da vostra madre. Voi mantenete la calma, sorridete e siate gentile, e godetevi il torneo”.
“Ma...”
“Attendete fino a che non resteranno quattro soli concorrenti. All'inizio della prima delle due giostre finali, dite a vostra madre che desiderate recarvi nelle scuderie per congratularvi con i nobili che hanno valorosamente perduto nel tentativo di conquistare la vostra mano...”
“Dovrei recarmi nelle scuderie?” bisbigliò Odette. “Va bene, ma mia madre vorrà certamente che una delle guardie reali mi accompagni...”
“No, se io mi faccio vivo prima di loro...” Galvano le sorrise, facendole l'occhiolino. “Sarò io a offrirmi di accompagnarvi. Il re non potrà dirmi di no, ci conosciamo da tanto tempo...”.
“D'accordo. E poi?”.
“Un passo alla volta. Vi spiegherò tutto a tempo debito. Ora, comportatevi da vera principessa e fingete di essere entusiasta che tanti uomini si sfidino per la vostra mano...
 
***
 
Malefica fece scorrere l'indice lungo la superficie dello specchio, e l'unghia della strega tracciò una crepa immaginaria proprio in corrispondenza del riflesso della guancia di Galvano. L'immagine scomparve, lasciandone il posto a un'altra: il cortile della reggia di Camelot, allestito in occasione del torneo, con la giostra già pronta per dare il via agli scontri; di fronte a essa, degli spalti di legno erano stati sistemati in modo da circondare l'intera arena, lasciando solo due spazi laterali per permettere l'entrata dei duellanti e dei loro destrieri. Una parte sopraelevata dei posti a sedere era sovrastata da un ampio drappo blu con ricamata una croce bianca - il simbolo della casata dei Pendragon, ricordò Malefica - in modo che fosse riparata dal sole.
Erano i posti riservati ai membri della famiglia reale.
“Allontanati dal mio specchio” la voce della Regina Cattiva arrivò dura e severa alle sue spalle; la sovrana del Regno delle Favole le aveva ceduto brevemente il suo posto di fronte allo specchio magico, per alzarsi e spazzolarsi la lunga chioma corvina, ma Malefica aveva avvertito i suoi occhi verdi che non avevano mai smesso di scrutarla. “E' prezioso, non voglio rischiare che tu me lo rovini”.
“So come trattarlo” replicò la strega, stizzita, ma ritrasse immediatamente la mano.- Mia madre ne possedeva uno a sua volta. Non lo sapevi, Grimilde?”.
La Regina Cattiva non rispose, e continuò a far scorrere i denti del pettine sulle sue ciocche corvine, lisce e morbide come la seta. Malefica rimase a guardarla fino a che non depose il pettine e si risistemò la corona sul capo; la strega notò che aveva le labbra rosse, più del solito, e come se non bastasse la vide passarsi ancora un poco di rossetto.
E' vanitosa, proprio come quella prima di lei...
“Quali novità?” s'informò la Regina Cattiva quando ebbe finito. “Hai scoperto cos'ha in mente il marito di tua sorella? Oh, perdonami...il suo vedovo” sibilò, ghignando senza farsi vedere.
“Ha detto alla marmocchia di recarsi nelle scuderie. Per il momento non so altro...” ringhiò Malefica; la Regina Cattiva sorrise sotto i baffi: parlare della compianta Lucy era sempre un ottimo mezzo per addolorare l'altra.
“E Tremotino? Lo hai visto?”
“No, di lui non c'è traccia. Ma è a Camelot, avverto la sua presenza. E se n'è accorto anche Merlino...” Malefica si alzò dalla poltrona, lasciando il posto alla sovrana che con un fluente fruscio di gonne si accomodò un attimo dopo. “E il vecchio non s'è accorto solo di quello...”
“Ti riferisci al dispettuccio di Morgana?”
“E tu un regicidio lo chiami dispettuccio?!” la strega digrignò i denti. “Cerca di essere seria! Quanto è grave?”
“Non più di tanto. Sinceramente, amica mia, dovresti rilassarti...” la Regina Cattiva alzò le sopracciglia con finto stupore. “Dico davvero, ti fa male alla pelle...”
“Che intendi dire con non più di tanto?” incalzò Malefica, ignorandola; incrociò le braccia al petto.
“Intendo dire che non è nulla a cui non possiamo far fronte. A dire il vero, non è accaduto niente che non avessi già previsto...Merlino starà invecchiando, questo te lo concedo, ma è ancora lucido. Mi aspettavo che prima o poi avrebbe scoperto Morgana, ma ci vorranno almeno sette o otto ore prima che abbia la certezza assoluta che la pozione sia un veleno. E ormai Artù ne ha ingerito troppo: morirà, qualunque cosa accada.
“Non temi che Morgana possa parlare?” insistette la strega. “A Camelot l'uso della tortura è stato bandito dalla morte di re Uther, ma di fronte a un tentato regicidio la pena di morte è più che certa. Non credi che Morgana potrebbe negoziare per la sua vita e tradire noi? Artù scenderebbe immediatamente in battaglia, e Merlino si affretterebbe a mettere al sicuro la...
“Ti ho già detto che Artù è un cadavere che cammina” tagliò corto la Regina Cattiva, innervosita. “Non gli restano che pochi mesi di vita, anche se ancora non lo sa. Quanto alla fedeltà di Morgana...è una cagna paurosa che pur di ottenere ciò che vuole non esiterebbe a spifferare tutto, questo non lo nego, ma non corriamo alcun rischio: Ginevra ha concesso a lei il permesso di lasciare Camelot dopo il torneo. Quando Merlino scoprirà la verità, lei e la sua famiglia saranno già sulla strada per il Regno delle Favole...”
La Regina Cattiva s'interruppe, e attese. Sbirciò con la coda dell'occhio alle sue spalle: Malefica era rimasta immobile, silenziosa, probabilmente stava assimilando la notizia; d'un tratto, la vite stringere i pugni e prendere a camminare avanti e indietro per la stanza, come se fosse sconvolta.
Di nuovo, la Regina Cattiva sorrise.
“Qualcosa non va, amica mia?”
“Oh, no!” esclamò Malefica, con un sorriso sardonico e la voce carica di sarcasmo. “Sono solo estasiata all'idea che d'ora in avanti avremo quella donnaccia e la sua prole sempre intorno...!”
“Ti hanno mai detto che l'ironia è il rifugio delle menti deboli?” rispose la sovrana, tranquillamente. “E comunque, fino a prova contraria, questo è il mio castello. Posso ospitare chi voglio. Senza contare che dovresti imparare a fare buon viso a cattivo gioco, specialmente di fronte al futuro re di Camelot...”
“Hai promesso Camelot a Mordred?” gridò Malefica, esterrefatta.
“Beh, dopo la dolorosa dipartita di Artù e il nuovo ordine che io stabilirò dopo aver riportato indietro i fratelli Grimm, occorrerà qualcuno che si occupi di quel regno, non credi?” la Regina Cattiva la guardò di sottecchi, ghignando. “O forse speravi di stabilirti là quando avrai...”
“Trovo semplicemente incredibile che tu abbia promesso il trono di Camelot a un ragazzino privo di spina dorsale...!” sibilò la strega.
“Dovresti avere più fiducia, cara”.
“Avrei quasi preferito che fosse sua sorella a sedere sul trono...”
“Chi? Il cignetto nero?” la sovrana si volta, stupita. “Andiamo, non sarai seria! Molto probabilmente sarà lei a venire giustiziata la posto della madre, non credo la rivedremo più...”
Malefica non disse nulla; inspirò a fondo, cominciando a dare un significato a ogni parola. S'irrigidì.
“Morgana ha intenzione di lasciarla indietro?” soffiò.
“Ha chiesto il permesso solo per sé e per Mordred, quindi immagino di sì. Ti dispiace, forse?”
 “Stavo solo...” Malefica esitò. “Stavo solo pensando che avrebbe potuto avere delle doti...”
 “Stai scherzando, vero?”
No, non stava scherzando. Era più seria che mai, ma questo Grimilde non poteva capirlo: era troppo presa dalla Pietra, dalle chiavi, da Tremotino, e dall'uccidere la Salvatrice. C'erano troppe cose a cui doveva pensare, era improbabile che avesse prestato la minima attenzione al cigno nero.
Un vero peccato…
“Mettiti comoda, Malefica. Lo spettacolo sta per cominciare”.
 
***
 
Sta per cominciare.
Ginevra trattenne il fiato, stringendo i braccioli della sua sedia sopra lo spalto mentre il suono delle trombe annunciava l’inizio del torneo. Guardò suo marito.
“Dov’è Odette?” sussurrò.
“Ho dato ordine di andare a prenderla”.
Quasi a confermare la veridicità di quell’affermazione, due guardie si posero sull’attenti, ritraendo le lance in modo da permettere il passaggio della principessa. La regina non le tolse gli occhi di dosso neppure quando Odette si fu seduta alla destra di Artù, mentre suo padre non la degnò di uno sguardo.
“Avresti potuto almeno raccoglierti i capelli” sibilò Ginevra, puntando lo sguardo sull’arena di fronte a sé. “Sembri una mendicante”.
In un’altra situazione non avrebbe tardato a replicare seccamente, ma quello non era proprio il momento di mettersi a litigare con sua madre, perciò se ne stette zitta. Odette maledisse il corsetto che le impediva di respirare troppo a fondo, e cercò di tenere a freno l’istinto di cominciare a scalpitare come una cavalla imbizzarrita per la tensione. Raccolse i capelli in una coda e se li gettò dietro le spalle, sperando che Ginevra perlomeno apprezzasse la buona volontà, ma lei neppure la vide.
Odette cercò di fare dei piccoli e rapidi respiri per calmare il battito accelerato del suo cuore, e guardò a sua volta l’arena. L’araldo aveva appena fatto il suo ingresso, e ora era in piedi al centro della giostra.
“In onore di Sua Maestà il Re Artù Pendragon e di Sua Maestà la Regina, si dia inizio alla giostra!” annunciò con voce squillante, a malapena coperta dal rullo dei tamburi. “Come stabilito dall’editto emesso dalle Loro Maestà, il vincitore del torneo riceverà in premio la lancia d’oro e la mano di Sua Altezza Reale la Principessa Odette”.
Così è questo che sono diventata: un premio.
Odette avvertì il cuore saltarle fino alla gola, ma cercò di non dare a vedere la sua tensione. Sperò con tutto il cuore che il piano di sir Galvano funzionasse.
“Ecco a voi i due primi contendenti: il Granduca Wulfric Ebeneezer di Norbert, della Contea di Weasley e Percy Wettlesback, Conte di Nickenbourg”.
Appoggiò il dorso allo schienale della sedia, prendendo un lungo respiro.
Sarebbe stata la giornata più lunga della sua vita.
 
***
 
Merlino era seduto appena a più a sinistra del re. Anche se la distanza rispetto alla pedana sopraelevata riservata alla famiglia reale era notevole, riusciva comunque a scorgere la sua sagoma da lontano, sempre con quel cappuccio nero tirato fin sul capo. Gli parve che la sua barba fosse molto più bianca da quando l’aveva visto l’ultima volta, sedici anni prima, e non se ne stupì.
Anche i più potenti invecchiano, dopotutto.
Ciò che lo sorprendeva maggiormente era che Merlino si fosse abbassato a un’azione così deplorevole come l’assistere a una giostra. In tutto il tempo in cui era stato suo apprendista non gli aveva mai permesso di partecipare a un torneo: sosteneva fermamente che non fossero questioni che si addicevano a un giovane mago.
E scommetteva neppure a un più maturo stregone.
Ghignò, mentre i due primi contendenti imbracciavano le lance e spronavano i loro destrieri.
Cominciò a canticchiare sottovoce.
Chissà chi lo sa, il mio nome qual sarà. Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio…”
 
***
 
Il vecchio e tre volte vedovo Granduca venne sbalzato giù da cavallo dal più giovane Conte.
Lancillotto si concesse solo qualche secondo in più di tempo per vedere lo scudiero che aiutava il suo anziano padrone a rialzarsi e i servitori che raccattavano quel che restava della sua armatura, ma tornò all’interno delle scuderie ancor prima che l’araldo annunciasse i prossimi contendenti.
Non sarebbe stato il suo turno prima di altri quattro giri di giostra, ma preferiva tenersi pronto in anticipo. L’elmo era appeso a un chiodo piantato nel legno del recinto del suo cavallo, e contro a esso erano anche appoggiati la lancia e la spada. Lancillotto finì d’indossare l’armatura, assicurandosi di non lasciare nessun lembo di carne scoperto, specialmente la gola. Da ragazzo aveva assistito a una giostra in cui un cavaliere giovane e inesperto era stato trafitto al collo da una lancia, ed era mortodissanguato nell’arena; da allora era sempre stato bene attento a indossare l’armatura in modo che niente rimanesse esposto alle armi avversarie.
Vide che il suo cavallo era nervoso, e provò ad accarezzargli il collo per calmarlo. Si chiese se gli animali potessero avvertire il nervosismo degli uomini.
“Attendete fino a che non resteranno quattro soli concorrenti. All'inizio della prima delle due giostre finali, dite a vostra madre che desiderate recarvi nelle scuderie per congratularvi con i nobili che hanno valorosamente perduto nel tentativo di conquistare la vostra mano...”
Non era convinto. Per niente. Qualsiasi cosa stesse complottando Galvano a sua insaputa, beh, era certamente scorretta, dal momento che non aveva neppure voluto che…
Qualcuno lo afferrò con violenza per una spalla, e prima che potesse rendersene conto Lancillotto si ritrovò sbattuto contro il recinto. Il cavallo nitrì, spaventato.
“Non ti vergogni?!”
Il cavaliere fece una smorfia di dolore, sentendosi la spalla dolente e il respiro mozzato. Non gli servì mettere a fuoco l’immagine di fronte a sé: aveva già compreso dalla voce di chi si trattasse.
“Rispondimi! Non ti vergogni per quello che hai fatto?!”
“No, non me ne vergogno!” ringhiò in risposta, cercando di liberarsi dalla presa, ma Mordred lo teneva stretto alla gola come se volesse ucciderlo. “Ti riferisci a tua sorella, vero? Io non ho niente da rimproverarmi, è lei che ha voluto fare la stupida e si è cercata guai!” Lancillotto accompagnò le ultime parole con uno spintone in grado di far allontanare l’altro cavaliere, ma questi non smise di guardarlo in cagnesco. “E toglimi le mani di dosso!” ululò. “Stai scaricando su di me colpe che sono solo di Odile, niente di più!”
“E’ colpa tua!” continuò imperterrito Mordred. “E’ solo colpa tua se Odile è diventata lo zimbello di Camelot! E’ colpa tua se mia madre per punirla l’ha tenuta segregata per tre giorni senza pane né acqua!”
“E tu allora perché non l’hai liberata?”
Quella domanda retorica fu solo in grado di farlo infuriare ancora di più. Mordred tornò all’attacco, afferrando un lembo della cotta di maglia di Lancillotto e strattonandolo con violenza. Avvicinò il volto a quello dell’altro cavaliere.
“Lei ti amava…!” sibilò. “Sapevi che era innamorata di te da quand’era bambina, e che cos’hai fatto?! L’hai umiliata di fronte a tutti, ora per colpa tua nessuno vorrà più sposarla, nessuno vorrà avere a che fare con lei…”
“Non avrebbe dovuto fare ciò che ha fatto! E allontananti da me!” Lancillotto lo spinse via una seconda volta. “Odile si è rovinata da sola, e lo sai! E non sarebbe successo se non fosse stato per causa tua e di tua madre!”
“Sei una bestia!” gridò Mordred. “Una bestia senza cuore!”.
Lancillotto non rispose, rimanendo immobile a guardarlo negli occhi. Mordred spostò un lembo del mantello con rabbia, girando i tacchi e allontanandosi, ma non prima di avergli lanciato un ultimo sguardo di sfida.
“La risolviamo nell’arena”.
 
***
 
Non era riuscita a concentrarsi su niente, quella mattina.
Aveva continuato a strofinare il medesimo punto del pavimento con lo straccio fino a che il ragazzo delle verdure non le era passato accanto colpendole la testa con uno schiaffo, riportandola così alla realtà. Non era nemmeno riuscita a trattenersi dal piangere a ogni risatina o commento sottovoce che aveva udito al suo passaggio, ed erano state molte.
Aveva la testa che scoppiava e gli occhi arrossati, e sentiva che avrebbe potuto dormire per giorni.
Avrebbe anche potuto richiudere gli occhi per non riaprirli mai più.
Ora era seduta in camera sua, al buio, su quel lettino duro e stretto che a malapena la faceva riposare di notte, inzuppando il fazzoletto e il grembiule di lacrime.
Fuori il torneo proseguiva da un’ora circa, ma lei non aveva prestato la benché minima attenzione. Fu solo quando udì i nomi dei prossimi contendenti che si riprese.
“Il Barone Adolf von Rubens contro sir Lancillotto dal Lago” annunciò l’araldo in lontananza.
Odile nascose il volto fra le mani, piangendo più forte.
 
***
 
Con il trascorrere delle ore e delle giostre, Odette si era un poco rilassata. Certo, il pensiero del piano di sir Galvano era ancora fisso, ma perlomeno adesso riusciva a fingere di essere rilassata. Suo padre aveva seguito con interesse lo svolgersi del torneo, e la principessa aveva fatto molta attenzione alle sue reazioni: era riuscita a decifrare ogni volta l’espressione di Artù per comprendere quando fosse contrariato o felice di una vittoria o dell’altra. Il re era visibilmente sollevato quando uno dei gareggianti che riteneva troppo vecchio, inetto o semplicemente non adatto a sua figlia veniva buttato giù da cavallo dal suo avversario; Odette notò che, in effetti, erano state ben poche le volte in cui il suo volto era stato solcato dalla delusione per l’eliminazione di un candidato.
Le era venuto da pensare che, in fondo, almeno lui non volesse veramente darla in sposa al primo sconosciuto che avesse vinto uno stupido torneo; ma d’altra parte, Artù era sempre stato tutto tranne che succube di sua moglie. Odette era più che certa che Ginevra fosse quella ad avercela di più, con lei, e quella che desiderasse maggiormente una punizione esemplare nei suoi confronti; ma sua madre avrebbe lasciato perdere, se il re le avesse imposto un divieto. E invece, anche se non era entusiasta all’idea di darla in moglie, a quanto pareva anche Artù si era convinto che quella fosse l’unica soluzione per domare la sua figlioletta ribelle.
Non appena Odette era giunta a queste conclusioni, aveva abbandonato per sempre ogni speranza che i suoi genitori cambiassero idea all’ultimo secondo, e i suoi pensieri erano immediatamente volati a Merlino: il mago era sempre stato gentile con lei, tollerante anche quando aveva tirato troppo la corda. Si era chiesta se avesse almeno provato a fare qualcosa per dissuadere i sovrani dal quel folle proposito ma, anche se così era stato, la sua perorazione doveva essersi rivelata vana.
Non le restava che sir Galvano.
I momenti in cui era lui a duellare erano anche gli unici in cui non si curava di perdere la sua studiata compostezza e s’irrigidiva visibilmente, sentendo il cuore battere a mille. Non le aveva spiegato nei dettagli in cosa consistesse il suo piano, ma Odette sentiva come per istinto che, perché questo andasse in porto, Galvano avrebbe dovuto vincere. O almeno arrivare fino alle giostre finali.
Sensazione che venne confermata anche dallo svolgimento del torneo mano mano che questo progrediva.
Assistette al duello fra sir Lancillotto e il Barone von Rubens, e fu ben felice quando quest’ultimo venne buttato giù da cavallo. Poi fu il turno di altre giostre, e altre ancora, fino a che non fu chiaro che erano in tre a contendersi la lancia d’oro – o lei stessa e il conseguente trono di Camelot.
Sir Galvano combatteva come un leone. Odette studiava a fondo ogni sua mossa, ogni sua espressione prima che montasse a cavallo e partisse lancia in resta contro il suo avversario. Il cavaliere non era più molto giovane, ma era almeno dieci volte più esperto di tutti gli altri contendenti.
E il modo in cui combatteva lasciava intendere che avesse tutta l’intenzione di vincere, che dovesse vincere.
Galvano fu spietato. Non si curò mai di non spronare troppo il destriero, o di non affondare la lancia con troppa violenza. Era chiaro che non gli bastasse che fosse ben puntata in direzione dell’avversario: doveva essere certo di colpirlo, di farlo cadere da quel maledetto cavallo ed assicurarsi la posizione successiva. Non ci andò piano neppure con sir Lionel, che pure era il più giovane e il più inesperto di tutti i cavalieri: lo disarcionò con facilità, borbottando appena qualche parola di scuse quando scese da cavallo per aiutarlo a rialzarsi.
Odette tirava un sospiro di sollievo ogni volta che lui vinceva, e lo seguiva con lo sguardo fino a che non scompariva oltre i cancelli delle scuderie. E se per caso incrociava sir Lancillotto, stava bene attento a non guardarlo negli occhi.
Dopo la sconfitta del Barone, per Lancillotto la strada era stata completamente in discesa: gli erano capitati inizialmente un marchesino di neanche quindici anni e un giovane nobile che aveva sbaragliato senza difficoltà; gli avversari successivi erano stati ben più temibili, in particolare un certo Rufus di Villadoca che brandiva una lancia estremamente appuntita. Lancillotto lo aveva disarcionato senza problemi, ma la lancia era scattata in alto forandogli l’elmo e graffiandogli un lembo di pelle proprio sotto lo zigomo destro. Quando si era tolto l’elmo per ringraziare la folla esultante, Odette aveva visto che sanguinava, e che il sangue aveva una stranissima tonalità rosso scuro…
Lancillotto si aggiudicava una posizione dietro l’altra in modo apparentemente così rapido e facile che Odette cominciava a temere il momento in cui si sarebbe, giocoforza, scontrato con sir Galvano. Ma c’era una cosa che la preoccupava ancora di più.
Un terzo pretendente aveva dimostrato di non essere da meno rispetto a entrambi i suoi amici: si trattava di sir Mordred.
Odette temeva forse più lui di qualunque altra cosa, e non solo per l’eventualità che vincesse e diventasse suo marito. C’era qualcosa di strano che lo spingeva ad andare avanti, e non era solo l’ambizione o l’interesse nel premio.
Mordred combatteva con furia cieca, come se da quello fosse dipesa la sua stessa vita. Il suo primo avversario era stato sir Tristano, che non aveva avuto difficoltà a sbaragliare; da quel momento, era stata tutta una lotta all’ultimo sangue pur di vincere. Mordred affondava la lancia con furia, spesso non curandosi nemmeno di assicurarsi che l’avversario stesse bene dopo la caduta, e un paio di volte si dimenticò perfino di ringraziare il pubblico dopo la vittoria. E, quando si sfilava l’elmo, Odette poteva vedere una strana smorfia sul suo volto affilato: rabbia mista ad amarezza, una stana mescolanza di furia, rancore e determinazione.
La spaventava.
Nessuno dei tre aveva ancora avuto occasione di scontrarsi con gli altri due.
Questo almeno fino alle cinque del pomeriggio quando l’araldo rientrò in campo per annunciare i prossimi contendenti.
“Sir Lancillotto dal Lago contro sir Mordred!”
 
***
 
“Sir Lancillotto dal Lago contro sir Mordred!”
Morgana udì la voce dell’araldo risuonare ovattata attraverso le pareti della sua stanza privata, ma non si voltò neppure a guardare oltre la finestra. Aveva seguito il torneo per tutto il giorno con l’angoscia che Mordred perdesse, e rallegrandosi ogni volta che vinceva. Si era convinta che suo figlio si fosse finalmente deciso a smettere di fare i capricci e avesse compreso quanto fosse importante per loro che lui sposasse la principessa.
Ma non si sentiva ancora tranquilla.
Prese uno straccio fra le mani e prese un mestolo di legno, immergendolo nella grande pentola che aveva posto a bollire sul fuoco. Afferrò una scodella posata sul tavolo e vi versò dentro il contenuto del mestolo: acqua calda in cui aveva sciolto le erbe appena pestate nel mortaio. La rimise dove l’aveva trovata, svolgendo una pezzuola ed estraendo da essa una fogliolina d’oleandro: l’effetto del veleno si sarebbe annullato al contatto con le erbe, ma ne avrebbe comportato un altro.
Anche se suo figlio era sulla buona strada per vincere, non poteva permettersi di abbassare la guardia o smettere di considerare ogni eventualità. Estrasse dalla pezzuola l’ultimo ingrediente: un piccolo pezzo del mantello di sir Lancillotto, tagliato ad arte per evitare che lui se ne accorgesse. Era grande solo pochi centimetri, ma più che sufficiente.
Giusto per non correre rischi…, si disse, lasciandolo cadere all’interno dell’infuso.
La pozione era pronta.
 
***
 
Lancillotto odiava quel periodo della giornata: il sole era troppo forte, e se ti trovavi contro di esso non riuscivi a vedere niente. Ed era di malumore: continuava a ripensare alle parole che Galvano aveva rivolto alla principessa senza riuscire a darvi un senso, e l’aggressione di Mordred nelle scuderie lo aveva parecchio infastidito.
E adesso gli toccava duellare contro di lui.
Il taglio all’altezza dello zigomo aveva smesso di sanguinare, ma bruciava. Si chiese se quella dannata lancia non fosse stata sporca o infetta di qualche veleno: quando era stato ferito, a tratti il sangue era così rosso da sembrare nero.
Cercò di non pensarci, e indossò l’elmo, assicurandosi che la spada fosse ben salda alla vita. Montò a cavallo, e lo scudiero gli passò la lancia.
Dall’altra parte dell’arena, Mordred era già pronto in sella al suo destriero, con la visiera del suo elmo appuntito calata sugli occhi per proteggersi dal sole. Il suo cavallo era nervoso, e continuava a scalpitare battendo gli zoccoli sul terreno. Il cavaliere tirò le briglia con violenza, digrignando i denti. Tenne lo sguardo fisso su Lancillotto, dall’altra parte dell’arena, e strinse ancora di più le dita intorno all’impugnatura della lancia.
Ti spezzo il collo. Giuro su tutte le forze del Bene di questo mondo, ti faccio sputare sangue finché non implori pietà. Ti farò strisciare nella polvere fino a che non bacerai la gonna di Odile supplicandola di perdonarti.
L’araldo abbandonò l’arena, dando così ufficialmente inizio allo scontro.
Lancillotto condusse il destriero fino alla sbarra, ponendo la lancia in orizzontale e assicurandosi che il cavallo poggiasse bene sugli zoccoli a destra. Vide Mordred avvicinarsi in sella al suo cavallo da guerra nero, con addosso quell’armatura piena di spuntoni, e avvertì un brivido di freddo che subito represse.
Non è colpa mia. Odile ha sbagliato e io ho fatto solo ciò che era giusto. Finiamola con questa storia.
Mordred, da lontano, spronò il cavallo al galoppo, e Lancillotto fece lo stesso.
Dagli spalti, Odette trattenne il fiato mentre i destrieri si avvicinavano sempre di più l’uno all’altro; trattenne l’impulso di serrare gli occhi quando le lance arrivarono a pochi millimetri di distanza.
Dopodiché, tutto accadde molto velocemente.
Dal pubblico si levò un mormorio di stupore e sgomento quando sir Lancillotto affondò la punta della propria lancia nello stomaco di sir Mordred, e questi lasciò la presa intorno alle briglie del cavallo. La lancia gli sfuggì di mano e il cavaliere perse l’equilibrio, rovinando a terra.
Ginevra si portò una mano alla bocca, sconvolta non appena lo vide cadere di schiena con un gran frastuono dell’armatura e il sollevamento della polvere nell’arena. L’elmo si sfilò dal capo e rotolò a diversi metri di distanza, rendendo ben visibile la smorfia di dolore di Mordred che si reggeva lo stomaco con una mano.
“Dannazione!” imprecò Morgana, non udita, dalla sua torre.
Galvano, in piedi sulla soglia delle scuderie, trasse un sospiro di sollievo.
Lancillotto tirò le briglie del proprio cavallo in maniera che si arrestasse, e si girò a guardare Mordred, riverso a terra. Avrebbe preferito non farlo, ma le regole della cavalleria gl’imponevano di scendere ad assicurarsi che stesse bene…anche se il solo pensiero di stringergli la mano gli dava la nausea.
Si tolse l’elmo, venendo prontamente accecato dai raggi del sole pomeridiano, e smontò da cavallo.
Mordred si stava rialzando a fatica; aveva gli occhi arrossati, era sudato e i capelli erano sporchi di terra. Lanciò un grido sommesso e frustato, carico di rabbia repressa.
Lancillotto avanzò verso di lui, di malavoglia.
“Stai bene?” chiese più per convenzione che per interessamento, ma si arrestò non appena vide cos’era accaduto.
Mordred aveva sfoderato la spada.
S’irrigidì, non credendo ai proprio occhi; dovette farsene una ragione quando lo vide ghignare, con le ciocche nere che gli ricadevano disordinatamente sul volto, mentre avanzava verso di lui brandendo il gladio.
Ginevra, dagli spalti, si voltò verso suo marito.
“Ma che cosa sta facendo?” chiese, accorata. “Non può farlo”.
“Può, a dire il vero” ribatté Artù, altrettanto perplesso. “Ma non è mai accaduto prima d’ora…non è neppure un comportamento da…”
Schifoso bastardo!” strillò Odette all’improvviso, balzando in piedi e aggrappandosi alla balaustra di legno. “Lascialo stare, figlio di una sgualdrina! Metti via quella maledetta…”
“Odette!” strillò Ginevra, inviperita, alzandosi in piedi a sua volta e tirando sua figlia per una manica dell’abito. “Devi sempre farci svergognare come al solito! Rimettiti seduta, subito!”
“Principessa, calmatevi…” intervenne Merlino, facendole cenno di rimettersi a sedere. Odette ubbidì, ancora agitata, e si rivolse verso il mago.
“Può difendersi, vero?” chiese accorata. “Sir Lancillotto ha una spada, giusto?”
“Sì, può difendersi…attendiamo”.
Lancillotto, giù nell’arena, indietreggiò istintivamente di un passo.
“Cosa stai facendo, si può sapere?” ringhiò. “Non è un comportamento da cavaliere!”
“Non lo è nemmeno umiliare una ragazza di diciannove anni!”
Mordred accompagnò quell’urlo sguainando ferocemente la spada e dirigendo la lama verso Lancillotto; l’altro si scansò un attimo prima che questa la colpisse, affrettandosi ad estrarre la propria. Impugnò l’elsa saldamente, ponendosi sulla difensiva.
“E’ per Odile che stai facendo tutto questo?” ansimò, trafelato.
Mordred non rispose e tornò subito all’attacco, con furia, come se avesse voluto ucciderlo. Lancillotto schivò anche questo affondo, ma il successivo si vide costretto a pararlo, e presto l’intera arena venne riempita dal rumore del ferro delle lame che cozzavano l’una contro l’altra. Mordred attaccava a testa bassa, veloce e spietato, ed era chiaro che fosse privo di una strategia: ciò che gli interessava era solo colpire, colpire, e colpire fino a che non avesse centrato l’obiettivo. Lancillotto parava gli affondi con una rapidità impressionante, ma continuava ad arretrare, ancora incredulo di fronte a ciò che stava succedendo.
Incespicò, allentando appena la presa intorno all’elsa della spada; fu sufficiente perché Mordred riuscisse a farla volare via con un colpo secco della propria lama. Lancillotto si gettò a terra per evitare gli affondi dell’avversario; si piegò di lato per recuperare la spada, con Mordred che torreggiava sopra di lui. Riuscì a raggiungere il gladio e a sollevarlo sopra la propria testa un attimo prima che questa venisse trafitta dalla lama dell’avversario.
Lancillotto digrignò i denti, sferrando un calcio all’altezza delle ginocchia di Mordred, facendogli perdere l’equilibrio e la spada. Si rialzò con fatica, piantando una mano contro il petto del cavaliere e sollevando la spada all’altezza dei suoi occhi.
Ansimò, cercando di recuperare fiato.
“Adesso basta…” soffiò.
Mordred si agitò sotto di lui, lanciando un ululato di frustrazione.
Prontamente, da lontano giunse la voce dell’araldo.
“Il vincitore è sir Lancillotto dal Lago!”
 
***
 
Odette seguì con interesse il seguito di…beh, quello che sua madre certamente si sarebbe ostinata a chiamare spiacevole incidente per almeno sei mesi. Alcune guardie reali e lo scudiero di sir Mordred erano accorsi per aiutarlo a rialzarsi, ma lui aveva fatto da solo, prendendo tutti a male parole e avviandosi con furia in direzione delle scuderie. Lancillotto aveva accolto l’ovazione del pubblico senza battere ciglio, visibilmente provato, e se n’era andato senza una parola.
Era così presa da quella faccenda che quasi non si accorse che era arrivato il penultimo giro: i contendenti erano sir Lancillotto e un altro nobile. Sir Galvano si era già aggiudicato la finale.
Odette inspirò a fondo, alzandosi in piedi. Ginevra le rivolse uno sguardo di fuoco.
“Dove credi di andare?” berciò con voce acuta e stizzita. “Rimettiti a sedere”.
“Desidererei recarmi nelle scuderie…” mormorò la principessa con un filo di voce. “Sono…sono preoccupata per sir Mordred…mi è parso molto scosso, e vorrei assicurarmi che…”.
“Non sta bene che una fanciulla non sposata rimanga da sola con un uomo, e in ogni caso non credere che ti lascerei andare senza una scorta, io…”
Vostra Maestà”.
Odette avrebbe quasi gettato le braccia al collo a sir Galvano, benedicendo il suo impeccabile tempismo. Il cavaliere era in piedi sulla soglia che dava accesso agli spalti reali; sebbene fossero evidenti i segni dei duelli appena trascorsi e avesse l’armatura incrostata di terra, il suo sorriso e la sua espressione erano così rilassati da apparire naturali.
“Se le Vostre Maestà me lo concedono, sarei lieto di poter fare da scorta io stesso a Sua Altezza…”
“Galvano!” esclamò Artù, con un sorriso. “Che piacere vederti! Lascia che mi congratuli con te. Sei stato veramente valoroso, oggi”.
“Vi ringrazio, Vostra Maestà” Galvano fece un lieve inchino. “Ho dunque il vostro permesso per scortare la principessa?”
“Io veramente…” provò a protestare Ginevra.
“Ma certo, permesso accordato. Non potrei lasciarla in mani migliori”.
A Odette venne quasi da ridere di fronte al broncio deluso di sua madre, ma si costrinse a mantenere un certo contegno. Accettò il braccio che sir Galvano le offriva, e si lasciò trasportare in direzione delle scuderie.
Il cavaliere rimase in silenzio per tutto il tragitto; quando furono all’interno, si accertò che non ci fosse nessuno in giro, quindi si sfilò il mantello e lo agganciò a una trave orizzontale che reggeva il soffitto, facendo cenno alla principessa di passare oltre a esso. Quando Odette fu dietro il mantello, Galvano le allungò una cotta di maglia, un’armatura molto leggera e un elmo.
“Ecco. Ora spogliatevi. Fate in fretta”.
La principessa strabuzzò gli occhi.
“Che avete detto?” chiese, arrossendo vistosamente.
“Spogliatevi e indossate quello che vi ho dato. Fate come vi dico, alla svelta!”
Odette si sentì arrossire ancora di più, ma ubbidì. Si sfilò l’abito e quasi lacerò i nastri del corsetto, quindi passò alla biancheria intima. Sentiva le guance in fiamme, e non andò meglio neppure quando mise addosso la cotta.
“Posso sapere, di grazia, qual è il vostro piano?”
“Io sarò il prossimo duellante. Non appena vincerò il torneo, voi salite in cima alla vostra cavalla, quella che di solito utilizzate durante la caccia con i falchi. Ho già provveduto a dire all’araldo di annunciare un nuovo cavaliere sfidante. Duellerete contro di me”.
“Ma io non so duellare nella giostra!” protestò Odette, sottovoce, tirandosi su i pantaloni di tela. “Non c’è speranza che io possa vincere…e poi, a che scopo tutto questo?”
“Il torneo stabilisce che il vincitore possa disporre della vostra mano, no? Ebbene, voi sarete la vincitrice e, secondo regolamento, potrete disporre voi stessa della vostra mano come più vi aggrada. E vincerete perché…anche se non sapete duellare, io so fingere di perdere”.
Odette sentì che Galvano stava sorridendo dietro al mantello, e ridacchiò a sua volta. Riprese a vestirsi, ma non fece in tempo a indossare l’armatura che udì una voce che la fece raggelare.
Allora la tua idea era questa!”
Odette non pensò più a niente, e mise il capo fuori dalla tenda improvvisata. Vide che Galvano si era irrigidito, e ora fissava un punto di fronte a sé. Lo stesso punto in cui stava anche Lancillotto.
“Hai vinto” constatò il cavaliere più vecchio.
“E tu verrai imprigionato a vita, te ne rendi conto?” ringhiò l’altro; percorse a grandi passi la distanza che lo separava da loro due e raccolse da terra il vestito che Odette si era appena sfilata. Glielo lanciò addosso. “Voi! Rivestitevi, subito! E’ un ordine!”
“Io non prendo ordini da voi, e questi non sono affari vostri!” strillò la principessa.
“Lasciate, ci penso io…” Galvano si avvicinò a Lancillotto. “Ascolta, è meglio parlarne in privato…”
“E di cosa vuoi parlare?! Ti rendi conto di quello che stai facendo?”
“E tu ti rendi conto che questo è niente di fronte alla condanna a vita che dovrà subire questa bambina, se dovesse sposare me o te?!” Galvano mosse un passo avanti con fare minaccioso. “Io e te siamo gli unici due rimasti, Lancillotto. Tu non la sopporti, e io per quanto le voglia bene potrei essere suo padre! I sovrani non ragionano…”
“No, e nemmeno tu ragioni!”
“Che cosa vuoi fare, allora?” lo sfidò. “Denunciarmi?”
“No” Lancillotto lo guardò dritto negli occhi. “No, non ti denuncerò. Ma ti butterò giù da quel cavallo, fosse l’ultima cosa che faccio” giurò; si volse verso Odette. “E voi, fareste meglio a rimettervi quel vestito alla svelta: non avrete bisogno di cavalcare, dopo questo scontro, statene certa!”.
 
***
 
Improvvisamente, l’aria si fece gelida.
Ginerva fu percorsa da brividi di freddo, mentre il vento freddo le sferzava il collo.
Era come se qualcuno la stesse deliberatamente facendo rabbrividire, si trovò a pensare con orrore. Come se ci fosse qualcuno lì, accanto a lei, alle sue spalle, qualcuno che non era né suo marito né Merlino.
“Hai le mani sporche, Ginevra figlia del mugnaio: sarà paglia oppure oro? O forse il sangue di tua figlia?” sibilò una voce ridacchiante.
La regina represse un grido, ma balzò in piedi. Sentì la fronte imperlata di sudore e il cuore che batteva come un tamburo. Realizzò che erano trascorsi ben dieci minuti da che Odette se n’era andata, e non aveva ancora fatto ritorno.
Ignorò lo sguardo interrogativo di suo marito, e chiamò due guardie.
“Accompagnatemi nelle scuderie!”.
 
***
 
Erano le sei del pomeriggio, e il sole era alto e cocente.
E se ben ricordava, sir Lancillotto odiava il sole negli occhi.
Perfetto, pensò Tremotino. Si nascose ancora di più nell’angolo d’ombra in cui si era rifugiato all’inizio del torneo, e osservò i due ultimi duellanti. Sir Lancillotto e sir Galvano.
Proprio come vuole la leggenda…l’amico si schiererà contro l’amico…oh, che bellezza!
Lancillotto puntò la lancia, imitato dall’altro. Al segnale dell’araldo, i due spronarono i cavalli, che partirono al galoppo.
Tremotino sogghignò, volgendo lo sguardo verso il sole.
Uno dei raggi cambiò improvvisamente direzione, colpendo Lancillotto in pieno volto. Il cavaliere serrò gli occhi per il fastidio, allentando la presa della lancia in modo che si abbassasse appena.
Non troppo, mio caro…non vorrai ucciderlo, vero?
 
***
 
“Odette!”
La principessa, in cotta di maglia, si voltò inorridita non appena udì la voce di sua madre. Ginevra le fu subito addosso e le afferrò le spalle, strattonandola con forza.
“Che cosa fai ancora qui? Perché sei vestita in questo modo? Che cosa avevi in mente di fare, disgraziata?!”
“Io…” Odette cercò disperatamente qualcosa da dire, e nel panico volse lo sguardo verso la porta delle scuderie, che dava proprio sull’arena; giusto in tempo per vedere la lancia di sir Lancillotto affondare nel petto di sir Galvano.
No!
 
***
 
Era successo tutto molto in fretta.
Aveva riaperto gli occhi troppo tardi, e non aveva potuto deviare il colpo.
E adesso era lì, in piedi in mezzo all’arena mentre tutti si affannavano intorno a Galvano. Il colpo della sua lancia l’aveva disarcionato, ma non era stato come le altre volte.
Ora Galvano era disteso a terra, con gli occhi chiusi, e una pozza di sangue scuro si allargava sul campo e sulla sua casacca, all’altezza dei polmoni.
Che cos’aveva fatto?

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Capitolo 36
*** The Deal is Struck ***


The Deal is Struck

 

Era successo tutto troppo in fretta perché se ne accorgesse.

L'unica cosa che ricordava era l'immagine di sir Galvano che veniva sbalzato da cavallo dopo il colpo ricevuto da Lancillotto, e in sottofondo gli strilli di sua madre. Odette non si era resa conto subito di ciò che era accaduto, o almeno non pensava fosse tanto grave: per un attimo aveva creduto – sperato – che si fosse trattato solo di una caduta.

Aveva cercato d'ignorare gli strattoni e le urla di Ginevra, rimanendo a fissare l'arena con il fiato sospeso.

Non è niente, aveva pensato. Ora Lancillotto lo aiuterà a rialzarsi...

Ma Galvano non si era mosso, e lei era distante, ma non abbastanza da non vedere la pozza di sangue nero che si allargava sulla terra. Aveva sbarrato gli occhi non appena aveva visto suo padre alzarsi dal trono e raggiungere le guardie, mentre tutt'intorno al cavaliere si radunava una folla.

Era stato in quel momento che aveva iniziato a gridare.

 

Non si era avveduta più di nulla.

Né del sonoro schiaffo che le aveva rifilato Ginevra, né delle guardie reali che erano accorse all'ordine di sua madre, né del ferro delle cotte che le graffiava le mani mentre lei cercava di divincolarsi. Ricordava solo il pianto e i singhiozzi mentre gridava frasi sconnesse, scalciava nel tentativo di raggiungere l'arena...

Non si era calmata neppure quando le guardie l'avevano trascinata lungo i corridoi del castello, strattonandola con malagrazia. Lei continuava ad agitarsi strillando di lasciarla andare, che voleva sapere come stava Galvano, e intanto non riusciva a trattenere i singhiozzi.

Suo padre era più sconvolto di lei, se possibile, anche se manteneva una parvenza di sangue freddo. Aveva agito prontamente, ordinando che Galvano fosse trasportato immediatamente nella stanza più vicina del castello, e che si sbrigassero a chiamare i medici di corte, e anche Merlino!

Due guardie e tre servitori sistemarono Galvano in una delle sue camere. La sola vista del corpo spezzato dell'uomo fu in grado di gettarla ancora di più nella disperazione: qualcuno aveva provveduto a togliergli la cotta di maglia e l'armatura; questo senz'altro l'aiutava a respirare meglio, ma rendeva anche più visibile la sua ferita.

La lancia di Lancillotto aveva penetrato la carne all'altezza del torace, troppo lontana per aver colpito il cuore, ma aveva aperto uno squarcio dove si trovava il polmone.

Galvano non aveva ripreso conoscenza; teneva gli occhi chiusi e una domestica dovette correre a sorreggergli il capo mentre i servitori lo deponevano sul letto. Respirava a fatica: il petto si sollevava a intervalli irregolari, e un paio di volte gettò dei colpi di tosse che gli fecero rigurgitare fiotti di sangue.

La camicia bianca che indossava sotto la cotta era imbrattata di sangue scuro, sangue scuro che continuava a fuoriuscire dalla ferita a ogni respiro. Odette cercò di liberarsi dalla presa delle guardie per raggiungerlo, ma una di esse imprecò fra i denti e la strattonò per tirarla indietro.

La principessa voltò il capo nella direzione del soldato, guardandolo in cagnesco. Gli sferrò una potente gomitata all'addome, strappandogli uno sbuffo di dolore mentre la guardia si piegava in due a reggersi lo stomaco, lasciandole il braccio. Odette colse l'occasione approfittando anche dello smarrimento della seconda guardia, e sgusciò via, correndo verso Galvano.

Si fece strada a gomitate fra la folla di curiosi, insinuandosi in mezzo alle dame di corte e ad altri due cavalieri che erano giunti sul posto.

- Odette!- ringhiò Artù quando la principessa urtò inavvertitamente la sua spalla, ma lei proseguì spedita. I domestici avevano sistemato sir Galvano sul letto, e qualcuno aveva provveduto a sfilargli di dosso la camicia: una cameriera stava premendo con forza un panno contro la ferita nel tentativo di fermare il sangue. La stoffa s'inzuppò velocemente, e la donna dovette gettarla sul pavimento, afferrandone velocemente un'altra.

Odette corse verso il letto, finendo in ginocchio accanto a esso e aggrappandosi alle lenzuola imbrattate di rosso e nero. Prese a singhiozzare più forte, scuotendo Galvano per una spalla.

- Mi d-dispiace!- ansimò, con la voce rotta.- Vi prego...mi dispiace tantissimo...

Galvano non si mosse, né aprì gli occhi. Aveva la fronte imperlata di sudore e respirava molto affannosamente. Odette singhiozzò, prendendogli il volto fra le mani, ma subito si sentì afferrare per le braccia e trascinare via.

- No!- protestò, scalciando, ma i due soldati la trasportarono di peso fino alla porta. Odette continuò a piangere; si voltò a guardare ancora una volta sir Galvano, ma non appena girò il capo il secondo ceffone della giornata la colpì all'altezza del labbro superiore, così forte che per un secondo la principessa smise di piangere.

Chiuse gli occhi; non aveva bisogno di vedere chi le stava di fronte per comprendere chi le avesse sferrato quello schiaffo. Le mani sottili e nervose di sua madre si riconoscevano senza alcuna ombra di dubbio.

- Guarda cos'hai fatto...- sibilò la regina, a denti stretti.

Odette ansimò, strizzando gli occhi per poi spalancarli all'improvviso, frastornata. Ginevra le afferrò una ciocca di capelli, tirandola e facendole alzare il capo.

- Con te facciamo i conti dopo...- ringhiò, per poi rivolgersi alle guardie.- Accompagnatela nelle sue stanze e inviate due soldati a sorvegliare la sua porta fino a nuovo ordine. Non voglio che esca da lì, sono stata chiara?

- No!- ripeté la principessa mentre veniva trascinata via, voltandosi di nuovo per vedere sir Galvano, ma adesso uno stormo di persone si era radunato intorno al letto dove giaceva il cavaliere, rendendole impossibile la vista. Odette scalciò.

- Ditemi come sta!- strillò a pieni polmoni.- Mi avete sentito?! Voglio sapere come...

Le sue urla si persero non appena varcò il portone che dava accesso all'ala est del palazzo, trasportata dalle guardie, ma prima che i battenti si richiudessero alle sue spalle, Odette riuscì a scorgere sir Lancillotto che entrava velocemente nella camera.

 

Continuò ad agitarsi e a scalciare per tutto il tragitto fino a camera sua, che le parve durare chilometri e chilometri. Non ce la spinsero dentro malamente come invece si usava fare con i prigionieri, ma la depositarono in piedi non appena ebbero aperto la porta. E furono anche veloci a richiuderla, perché Odette ci andò a sbattere contro con violenza, finendo seduta sul pavimento dopo aver cercato di sfondarla per uscire.

Si rialzò in fretta, cominciando a picchiare i pugni contro il legno. Afferrò la maniglia e provò a tirare con tutte le sue forze, ma le guardie dovevano averla chiusa a chiave dall'esterno. Riprese a picchiare pugni contro il legno.

- Voglio uscire!- gridò.- Mi avete sentito? Ho detto che voglio uscire! Portatemi da sir Galvano, voglio sapere come sta...!

Ai pugni si aggiunsero anche i calci, ma non servirono a nulla se non a stancarla più in fretta, e in pochi minuti Odette si ritrovò completamente sudata, con le membra doloranti, le tempie che pulsavano e il respiro affannoso.

- Datemi sue notizie, almeno...!- strillò con l'ultimo barlume di voce che le era rimasto. Nessuno, dall'esterno, le diede risposta. La principessa cercò di regolarizzare il proprio battito cardiaco e il respiro, attendendo in silenzio per altri interminabili secondi.

Quando le fu chiaro che nessuno le avrebbe detto nulla, si lasciò cadere in ginocchio accanto al bordo del letto, fissando la porta come inebetita. Di fronte ai suoi occhi cominciarono a scorrere le immagini di tutto ciò che era appena successo, soffermandosi soprattutto su quegli attimi che vedevano la caduta da cavallo di sir Galvano, e nella sua mente apparivano lenti e inesorabili, come un evento voluto dal Fato stesso.

Come erano arrivati a quel punto?, si chiese quasi inconsciamente. Come erano arrivati a quel punto? Come era arrivata a farsi odiare dai suoi genitori, e a far rischiare la vita a un uomo che le era sempre stato amico?

Istintivamente, Odette si mise alla ricerca di un colpevole, qualcuno contro cui sfogare tutta la sua rabbia per quanto era accaduto. Credette in un primo momento di averlo trovato in Odile: se quella sciocca non si fosse travestita da cigno nero spacciandosi per lei – o almeno, così le avevano raccontato –, allora non sarebbe stata scoperta, il suo piano sarebbe andato in porto senza intoppi e adesso non sarebbero stati tutti così infelici.

Ma poi rifletté.

Odile aveva compiuto un gesto sconsiderato...ma per quale motivo? Non era stupida fino al punto da non capire a cosa sarebbe andata incontro, se l'avessero scoperta, e certamente dovevano esserci dei motivi nascosti a spiegare ciò che aveva fatto.

Ripensò ai pochi momenti che avevano condiviso insieme...se di condivisione si poteva parlare. Lei e Odile avevano mantenuto sempre un rapporto molto distaccato, Odette non ricordava che avessero mai scambiato delle confidenze a parte quella sera precedente alla notte del cigno nero.

Che ne poteva sapere lei, di ciò che provava Odile?

Odette si sentì avvampare, cominciando a prendere consapevolezza di tutto: Odile doveva essere stata spinta a quel gesto, da qualcosa o qualcuno, e lei le aveva lasciato via libera per mettere in atto la sua idea; le aveva lasciato via libera per uscire di nascosto, solo per la sua voglia di avventura e per una ripicca nei confronti di sua madre.

Ed era stato a causa di questo gesto che Ginevra aveva deciso di punirla.

E per salvarla da questa punizione sir Galvano si era offerto di aiutarla.

Ed era stato ferito.

Di chi è la colpa, allora?

Sua. La colpa era soltanto sua.

Odette avvampò di colpo, per poi sbiancare completamente. Fu come se il sangue avesse smesso di scorrerle nelle vene, come se il tempo si fosse fermato.

Se Galvano rischiava di morire...la colpa era sua.

La colpa è soltanto tua, stupida principessina.

Si portò una mano alla bocca, desiderando solo di scomparire. O di tornare indietro.

Reclinò il capo di lato, poggiando la fronte contro il materasso, e scoppiò a piangere.

 

Lancillotto si era tolto di dosso l'armatura e l'elmo, e aveva abbandonato le armi nell'arena. La cotta di maglia lo soffocava, non riusciva a respirare regolarmente. Non era ancora riuscito a realizzare ciò che aveva fatto, quando giunse in prossimità della stanza di Galvano. Alcune persone – perlopiù cameriere e dame di compagnia, donnette curiose – affollavano l'entrata, tanto che Lancillotto pensò di doversi far strada a forza fra quel gruppo di persone. Invece, tutti si scansarono non appena lo videro arrivare: era chiaro che sapessero che era stato lui a ridurre sir Galvano in quello stato.

Entrò nella stanza senza neppure attendere un cenno di assenso da parte delle guardie. Vide il re seminascosto in un angolo: dava le spalle a tutti, aveva l'aria preoccupata e continuava a lanciare occhiate di sottecchi al medico di corte che si stava occupando di Galvano. Lancillotto seguì il suo sguardo fino alla figura rattrappita del dottore chino sul letto sopra il quale giaceva il suo amico.

Le lenzuola erano rosse e nere a causa del sangue. Galvano sembrava quasi un giocattolo di pezza abbandonato, di cui nessuno si era più curato: giaceva scomposto, con il capo voltato di lato, gli occhi chiusi.

Qualcuno gli aveva tolto la camicia, e adesso aveva una fascia avvolta intorno al torace per fermare il sangue. Lancillotto non sapeva nulla di medicina, ma sapeva che bloccare la fuoriuscita di quel liquido rosso e nero non sarebbe bastato affinché Galvano stesse meglio.

Aveva mirato allo scudo, dannazione! Aveva mirato allo scudo, com'era la regola dei tornei...erano stati i raggi del sole a fargli abbassare la lancia...

Si passò una mano fra i capelli, avvicinandosi di un passo. Il medico continuava ad esaminare Galvano, ma Lancillotto non riusciva a decifrare la sua espressione. Il re sollevò lo sguardo all'improvviso, dirigendolo verso di lui.

Il cavaliere fece un rapido inchino, evitando di guardarlo direttamente negli occhi. Artù non disse nulla, ma gli fece cenno di avvicinarsi.

Insieme, rimasero in attesa che il dottore finisse di occuparsi di Galvano, per udire il suo responso. Lancillotto non riuscì a pensare a niente per diversi minuti, concentrandosi solo sulla fascia intorno al torace del suo amico.

Alla fine, il medico si alzò e li raggiunse. Lancillotto rimase in disparte, allontanandosi quando Artù e il dottore presero a confabulare.

Vide il medico di corte scuotere il capo con aria di scuse, quindi inchinarsi e uscire velocemente dalla camera. Si levarono alcuni mormorii da parte delle domestiche; Lancillotto vide che il re era impallidito.

Artù rimase in silenzio per qualche secondo, quindi si avviò velocemente verso la porta. Lancillotto lo seguì.

- Che succede?- chiese.- Come sta?

- Chiamate Merlino!- ordinò Artù a un soldato, ignorando le sue domande.- Forza, in fretta!

- Cos'ha detto il medico?- insistette Lancillotto.

- La ferita è profonda, troppo per poter essere curata con la medicina tradizionale - il re serrò le mascelle.- Dobbiamo fare qualcosa, o morirà.

- Intendete chiedere a Merlino di usare la magia?

Lancillotto distolse lo sguardo, riflettendo: lui non si era mai fidato della magia, e non ne aveva mai fatto mistero, la riteneva pericolosa e non adatta a convivere con il mondo degli uomini; ma Galvano stava morendo, e se Merlino era al servizio della famiglia Pendragon da decenni doveva pur esserci un motivo.

Il re aveva ragione, dovevano fare un tentativo.

Artù annuì, senza guardarlo.

- Il medico ha detto che ha perduto molto sangue.

- Quella fascia non è sufficiente ad arginare la perdita.

- Le sguattere se ne stanno occupando.

Raggiunsero l'esterno della camera, e due guardie si aggregarono a loro come da consuetudine per proteggere il sovrano. Artù fece cenno a Lancillotto di seguirlo mentre cominciava ad avanzare lungo il corridoio.

Il cavaliere comprese che era diretto verso l'ala nord, la parte del palazzo riservata alle faccende politiche. Artù chiamò una terza guardia.

- Tenetemi informato sull'arrivo di Merlino, e quando avrà terminato mandatelo immediatamente da me - ordinò, per poi congedarla con un gesto sbrigativo.- Dovrò prendere dei provvedimenti riguardo a questa storia.

- Vostra Maestà, io...

Artù smise di camminare, alzando lo sguardo su di lui. Lancillotto distolse istintivamente il proprio, ben a conoscenza della propria posizione.

- Non accuso voi per l'incidente occorso a sir Galvano - proferì il sovrano, risoluto.- Ma ora pretendo da voi la verità. Sapevate che mia figlia si trovava nelle scuderie, prima del vostro scontro con sir Galvano?

- Sì, Vostra Maestà.

- E ne conoscete anche il motivo? Credo di averlo già compreso da me, ma voglio una conferma da parte vostra...

- Io...- Lancillotto prese un profondo respiro; si sentiva a disagio, parecchio...solo una volta, molti anni prima, si era sentito così. Colpevole.

Era stato immediatamente dopo la morte di Lucy.

- Ebbene...?- incalzò Artù.- Sapete perché la principessa Odette si trovava lì, vestita da cavaliere?

- Non conosco i dettagli dell'intera questione, Vostra Maestà - si affrettò a rispondere Lancillotto.- Ma credo...so che la principessa non desiderava contrarre matrimonio, e immagino che lei e sir Galvano abbiano stretto una sorta di accordo, anche se non so di quale natura.

- E' tutto?

- Sì, Vostra Maestà.

Artù non disse nulla per diversi secondi, nel corso dei quali Lancillotto tenne sempre lo sguardo basso. Il re si passò una mano sulla fronte, sentendosi debole; pensò che forse la febbre si stava alzando di nuovo.

- Mi auguro per voi che non foste coinvolto in questa storia.

- No, Vostra Maestà. L'ho scoperto solo poco prima dell'incidente.

- Sareste pronto a giurarlo?

- Sì, Vostra Maestà.

- Perché non siete venuto a riferirmelo, allora?

Lancillotto si ritrovò preso in contropiede. Esitò per diverso tempo prima di rispondere, cercando le parole adatte.

- Credevo di poter risolvere la questione da solo.

- Vedo: per colpa vostra adesso mia figlia passerà dei guai seri, mia moglie trascorrerà due giorni costretta a letto e sir Galvano rischia di morire.

Quelle parole furono un vero e proprio schiaffo alla sua dignità, ma più ancora lo fu l'atteggiamento del re. Artù non aggiunse altro e proseguì lungo il corridoio, fissando un punto indistinto di fronte a sé.

Lancillotto scosse il capo con forza per riprendersi, e si affiancò velocemente al sovrano.

- Vostra Maestà, io non volevo fare nulla di male...- ringhiò, avvampando per la vergogna.

- Ma lo avete fatto, sir Lancillotto.

- Credevo di agire per il meglio, sia nei confronti della principessa Odette sia...

- Se non ricordo male, vi ho già sentito pronunciare questa frase - Artù gli scoccò un'occhiata di traverso.- Quanti anni avevate? Quattordici, quindici...? Mi avete detto la stessa cosa: credevo di agire per il meglio. E quando l'avete detto c'erano due cadaveri vicino a voi.

Un altro schiaffo morale, stavolta ben più forte, quasi da sembrare fisico. Lancillotto rimase interdetto, e avvampò ancora di più. Il re fece una smorfia che era un misto di nervosismo e disgusto, e negli occhi aveva la stessa luce di chi è appena stato tradito da un caro amico.

- Siete uno dei miei migliori cavalieri, sir Lancillotto, ed in virtù di questo vi ho perdonato molte cose, compreso il vostro passato; non mi aspettavo che proprio voi mi nascondeste un simile fatto in merito a mia figlia. Ora dobbiamo solo sperare che sir Galvano abbia salva la vita e si rimetta in forze...dopodiché, prenderò dei seri provvedimenti nei confronti di tutti e tre.

- Vostra Maestà, io...

- E' la mia ultima parola sull'argomento, per oggi, sir Lancillotto.

Non aggiunse altro, e proseguì in direzione dell'ala nord, accompagnato dalle guardie. Il cavaliere chinò il capo, chiudendo gli occhi e rimanendo solo nel corridoio vuoto.

 

Lo specchio rifletteva le immagini molto nitidamente, questo Malefico doveva concederglielo. Il volto di Galvano appariva in tutto il suo pallore attraverso il riflesso; la strega vide che aveva gli occhi cerchiati, e non riusciva a respirare regolarmente.

Non ce la farà, non se Merlino non si sbriga..., constatò, ma subito dopo si chiese se davvero l'intervento del mago avrebbe potuto fare veramente la differenza. La magia non era la soluzione a tutti i problemi, lei lo sapeva e l'aveva sperimentato sulla sua pelle. Certo, spesso era la soluzione a una ferita, ma non se questa era troppo grave, e di certo non curava una malattia per la quale si era destinati alla morte.

Ma c'era dell'altro.

Malefica aveva visto ciò che era accaduto, aveva studiato il susseguirsi degli eventi come un falco attento studia le mosse della sua preda, e lo stesso aveva fatto Grimilde. Quello di Galvano non era stato un semplice incidente, forse a tutti i presenti – e, incredibilmente, anche a Merlino – era sfuggito, ma loro avevano visto chiaramente Tremotino mentre faceva in modo che i raggi del sole accecassero Lancillotto affinché colpisse malamente il suo avversario.

Malefica non sapeva cosa pensare: Grimilde era andata su tutte le furie quando era accaduto il fatto, ma solo perché non riusciva a darvi un senso. Entrambe sapevano che Tremotino era a Camelot con il loro stesso obiettivo, entrambe sapevano che le aveva battute sul tempo, ma in che modo sperava di ottenere ciò che desiderava colpendo Galvano? Il marito di Lucy – il suo vedovo, riecheggiò la voce della Regina Cattiva nella sua mente – era l'ultima persona che avesse a che fare con i Grimm e con ciò che stava cercando Tremotino.

In ogni caso, era stato strano vedere Lancillotto e Galvano fronteggiarsi, e l'uno ferire l'altro. Era stato strano anche ritrovare un ragazzino che era meno di un soldo di cacio come un cavaliere. Eppure, Lucy diceva sempre che aveva energia e forza di volontà, non sarebbe dovuto essere così sorprendente, viste le basi.

Non voleva dire niente

Anche lei e Lucy avevano tanta energia e forza di volontà, quando erano ragazze...ma ancora Malefica non riusciva a comprendere come avessero potuto venire ridotte in quello stato.

Bamboline sgualcite dimenticate da tutti, a meno che non si trattasse di beffarsi di loro tramite stupide leggende, favolette insensate e ballate macabre per spaventare i bambini.

 

Del re folle si è compiuta la morte,

ma ora son sola a piangere la mia sorte.

 

Malefica chiuse gli occhi per scacciare via quel ricordo. Com'era possibile che la memoria di sua sorella le avesse riportato alla mente gli ultimi versi di quella canzone maledetta.

Il re folle e la sposa rossa. Ben pochi ricordavano quella ballata – non veniva cantata spesso, sia perché era ridicola sia perché gli idioti e i superstiziosi credevano portasse sfortuna – e ancora meno conoscevano la storia dietro a essa. Ma Malefica sapeva che era stata scritta dopo ciò che era accaduto a lei e a Lucy, una beffa nei confronti della follia che aveva causato un massacro.

Il solo fatto che le fosse tornata alla mente le fece salire il sangue alla testa. Quella ballata era l'emblema di come una fanciulla potesse essere rovinata dalla pazzia, di come degli innocenti fossero destinati a soccombere ai potenti.

Innocenti come lo erano state lei e Lucy. O come lo erano Galvano, e la figlia di Morgana.

- A cosa stai pensando?- domandò la Regina Cattiva, annoiata, senza ottenere risposta. Malefica la guardò di sottecchi per diversi istanti, prima si sorriderle.

- Se te lo dicessi, approveresti la mia idea?

 

La cicuta stava bollendo. Morgana prese un cucchiaio e lo intinse nella pentola, travasando il contenuto dell'intruglio in un bicchiere di legno. Fu in quel momento che la porta si aprì.

- Il torneo è terminato. Non c'è stato nessun vincitore - annunciò Mordred, entrando zoppicante.

- Se anche così non fosse, tu saresti stato comunque fuori gioco. Dico bene?

Mordred distorse la bocca in una smorfia rabbiosa, sputando sul pavimento. Aveva il costato dolorante così come il ginocchio destro, che gli impediva di camminare bene. Aveva il volto ricoperto di lividi e graffi, e aveva ingoiato così tanta terra che gli ci erano volute due caraffe di vino prima di sentirsi la bocca nuovamente pulita.

Lasciò che i capelli neri gli coprissero gli occhi.

- Siete delusa da me, madre?

- Per tua fortuna ho sempre un piano di riserva. Per questa volta ti perdonerò, dal momento che ho la soluzione al disastro che hai combinato. Cerca solo di non diventare come tua sorella, non sopporterei di avere ben due figli inetti...

Mordred si trattenne. L'istinto gli suggeriva di rispondere che non avrebbe dovuto parlare di Odile a quel modo – o, più direttamente, di afferrare sua madre per i capelli e strattonarla fino a farla diventare calva.

Era sorpreso che non si fosse infuriata perché aveva perso il torneo, o per via del suo scontro nell'arena con Lancillotto. Era andato da lei preparato a ricevere insulti e schiaffi, e invece sua madre appariva calma e tranquilla.

Sicuramente doveva esserci qualcosa sotto. Il pensiero gli creò un poco di ansia.

Morgana non diede segno di avvedersi del suo nervosismo, e afferrò fra le mani il bicchiere di legno, avvicinandosi a lui.

- Puoi camminare?

- Sono arrivato fino a qui con le mie gambe - bofonchiò Mordred, seccato.

- Prendi la tua spada e bevi questo - ordinò Morgana, porgendogli il bicchiere. Il cavaliere lo prese con cautela, sospettoso.

- Che cos'è?

- Hai fallito, e non sposerai mai la principessa Odette. Merlino non ci metterà molto a scoprire che ho avvelenato il re, ma la Regina Cattiva ci ha offerto la sua protezione. Dobbiamo distrarre Artù e il vecchio fino a che non saremo abbastanza lontani...

Mordred stava capendo poco o niente, solo che sua madre voleva qualcosa da lui.

Quando mai non era stato così, d'altronde?

- Bevi, ho detto!- lo incitò Morgana, scuotendolo per un braccio; il cavaliere ubbidì, e un secondo dopo avvertì nella sua bocca il sapore dolciastro dell'intruglio.- Bevi, e ascolta attentamente ciò che devi fare...

 

Merlino accostò una mano ossuta alla fronte di Galvano, e il cavaliere sussultò al tocco. Questo era un buon segno, pensò il mago, ma la ferita era profonda. Doveva intervenire subito, se voleva salvarlo.

- Posso fare qualcosa - disse al medico.- Ma mi occorrono alcuni ingredienti che ho nella mia torre.

 

***

 

Era trascorsa all'incirca un'ora, e il buio era già calato.

Odette non si era rialzata dal pavimento, anzi, adesso era rannicchiata in posizione fetale accanto al letto. Aveva trascorso i primi dieci minuti rinchiusa in camera sua a piangere furiosamente, e in seguito si erano alternati momenti di calma ad altri di pura disperazione, sempre corredati da lacrime che scendevano silenziose dagli occhi. Si rendeva conto di essere spettinata, e doveva avere anche gli occhi rossi e gonfi.

Non gliene importava niente.

Aveva provato solo altre due o tre volte a ritornare alla porta e a chiedere notizie di sir Galvano, ma nessuno le aveva risposto. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere come stesse, se Merlino o il medico di corte avevano potuto fare qualcosa per salvargli la vita.

Se fosse morto, sentiva che non avrebbe mai potuto vivere con quel peso sulla coscienza. Era colpa sua, se era ridotto in quello stato.

Odette tirò su con il naso, asciugandosi le lacrime con la manica del vestito e sollevando il busto per sedersi sul pavimento. Poggiò il dorso contro il bordo del letto, e si scostò i capelli su una spalla.

Tirò su con il naso altre due o tre volte, sentendosi infinitamente stanca. Avrebbe voluto dormire, ma non sarebbe riuscita a chiudere occhio se prima non avesse saputo come stesse sir Galvano.

 

Chissà chi lo sa, il mio nome qual sarà.

Lo so soltanto io, che Tremotino è il nome mio.

 

Odette trasalì, drizzando il capo e spalancando gli occhi. Si aggrappò alle lenzuola del letto per tirarsi in piedi, guardandosi intorno. Osservò ogni angolo, ogni parte della stanza alla ricerca di quella voce.

L'aveva udita anche quella mattina, prima del torneo. Aveva creduto di stare sognando, ma ora l'aveva sentita chiaramente.

Indietreggiò all'altezza della testiera del baldacchino.

- C'è qualcuno in camera mia?- chiese al vuoto, continuando a far saettare lo sguardo da un lato all'altro della stanza; deglutì nervosamente.- Se c'è qualcuno, sappia che ci sono due guardie alla mia porta - minacciò.

- Le ho viste, carina. E credimi, ho visto scoiattoli dall'aria più feroce.

Odette lanciò un gridolino, intercettando la risposta; proveniva dalla sua destra. Sentì il cuore saltarle all'altezza della gola quando vide un'ombra scura nascosta nell'angolo fra la parete e il guardaroba.

Indietreggiò in fretta, sbattendo contro il catino e aggrappandosi alla colonna del baldacchino per non cadere.

- Per la camicia a fiori di Merlino, non sapevo di fare questo effetto alle signorine!- sbuffò l'ombra, infastidita. Odette continuò a fissarla con espressione incredula.- Cosa c'è? Ti sconvolge tanto che Merlino abbia una camicia a fiori?

Odette deglutì una seconda volta, aggrappandosi al baldacchino come se fosse stata un'arma di difesa. Udì un sospiro rassegnato, quindi una risatina divertita. Infine, lo sconosciuto venne allo scoperto.

La principessa osservò ogni tratto di quell'uomo, riconoscendo il profilo affilato, i capelli lunghi raccolti in una coda, l'abbigliamento nero, il sorriso sghembo...

- Voi!- esclamò.- Vi conosco! Siete...

- ...quello che ti ha riportato a casa qualche notte fa, dopo la tua bravata. Sembrano trascorsi secoli, non pare anche a te?- terminò con noncuranza, avvicinandosi al materasso e sedendosi come se fosse stato a casa sua.- Ti ricordi di me, vedo.

- Tremotino...- Odette si lasciò sfuggire quel curioso nome dalle labbra.

- Sei anche abile con i nomi. Sì, credo proprio che io e te andremo d'accordo - Tremotino si rialzò con la stessa agilità con cui si era seduto e, senza attendere, le prese una mano e le posò un bacio sul dorso. La principessa si ritrasse.

- Che rude!- ghignò lo stregone.- Mammina non ti ha insegnato le buone maniere?

- Cosa fate qui?

- Qui a Camelot o qui in camera tua?

Odette serrò le labbra, rimanendo sulla difensiva. Il buon senso le suggeriva di mettersi a gridare e chiamare aiuto, ma non riusciva a fare altro se non rimanere paralizzata di fronte a quell'uomo. Tremotino inarcò un sopracciglio, quindi sospirò e scosse il capo con fare rassegnato.

- Siamo alle solite...- soffiò.

- Cosa fate qui?- ripeté Odette.

- Per l'appunto. Bella gioia, tu non hai idea di quanto tutto ciò possa essere frustrante, a volte: sempre le solite domande. Chi siete? Cosa volete? Come siete entrato qui?...mai una volta che qualcuno mi inviti ad accomodarmi e mi offra qualcosa da bere. Insomma, che fine ha fatto il caro vecchio senso dell'ospitalità?

Odette non rispose, fissandolo come se avesse avuto di fronte un mostro inumano. Tremotino sghignazzò, quindi sospirò una seconda volta.

- Ho capito. Vorrà dire che arriverò subito al punto. Mammina adorata non ti ha mai parlato di me, suppongo.

Odette fece segno di no con la testa.

- Immaginavo. Beh, sappi che io, tua madre e il buon Merlino siamo amici di vecchia data. Certo, gli anni passano e si perdono i contatti, ma sono certo che entrambi si ricordano perfettamente di me...

- Né mia madre né Merlino mi hanno mai...

- Lo so, lo so, tesorino, ma sono dettagli. Quello che conta...è ciò che posso fare per te - Tremotino accompagnò l'affermazione con un sorrisetto sghembo che aveva un che di inquietante, su quel volto da furetto.

Odette strabuzzò gli occhi.

- Per me?!- sputò fuori, incredula.

- Esattamente. Se non ricordo male, la notte della tua marachella ti avevo detto che avresti sempre potuto contare su di me per qualsiasi problema tu avessi avuto, nevvero?

Odette ricordava solo vagamente una cosa del genere, ma annuì.

- Bene, sono qui - lo stregone allargò platealmente le braccia.- Approfittane finché puoi.

Odette sbatté le palpebre, perplessa. Si passò una mano fra i capelli, lasciandosi sfuggire uno sbuffo divertito.

- Ma a che gioco stiamo giocando?- gracchiò, non sapendo se ridere o se preoccuparsi.- Voi chi siete? Arrivate qui e dite che...

- Tu hai un problema, non è vero?

- Voi che ne sapete?

- Sbaglio o a pochi metri da qua c'è un uomo che sta morendo per colpa tua?

Odette sgranò di nuovo gli occhi, rimanendo a bocca aperta. Lo stregone rise.

- Prima che tu me lo chieda, ero al torneo oggi. E le voci corrono molto in fretta. Un brutto incidente, davvero...

- Uscite, subito.

- Non posso, la porta è chiusa dall'esterno e ci sono due guardie.

- Come siete entrato, sarete anche in grado di uscire. Andatevene via, prima che mi metta a urlare...

- Sei proprio sicura di non volere il mio aiuto?

- Voi non potete aiutarmi, voi mi state solo prendendo in giro...- Odette sentì che le lacrime erano di nuovo in agguato.

- Come fai a dirlo? Non mi hai neanche ascoltato...

La principessa si zittì, non sapendo cosa replicare. Tremotino attese qualche secondo, prima di proseguire.

- Ora, analizziamo la situazione: sir Galvano sta morendo, e solo per colpa tua - represse un sorriso quando si accorse che la principessa stava per scoppiare nuovamente in lacrime.- In questo momento Merlino si sta impegnando per preparare una pozione che gli salvi la vita, ma il tuo amico ha perso molto sangue e difficilmente sopravviverà il tempo necessario affinché la cura sia pronta. Direi che è spacciato, e tu avrai la sua vita sulla coscienza fino alla morte...

- Insomma, siete venuto qui per accanirvi su di me?!- strillò Odette, mettendosi le mani nei capelli. Riprese a singhiozzare più forte di prima. Tremotino fece un gesto infastidito.

- Ti prego, tutto sono disposto a tollerare ma i mocci no...E prima di darmi contro, stai almeno a sentire ciò che ho da proporti.

Odette premette una mano sulla bocca per frenare i singhiozzi, annuendo con forza.

- Dicevo: sir Galvano fra meno di un'ora sarà buono solo come concime per la terra. A meno che tu non ti fidi di me.

- Non capisco...cosa intendete dire?

- Che diamine, intendo dire che ho il modo per guarirlo qui, a portata di mano!- sbottò Tremotino, fingendosi spazientito.- E posso offrirtelo su un piatto d'argento. Ovviamente, devi essere disposta a pagare.

- Vi darò ciò che vorrete - affermò Odette, risoluta.

Negli occhi dello stregone comparve un guizzo diabolico.

- Tutto ciò che vorrò, hai detto?- inquisì.

- Certo, tutto ciò che vorrete. Se...se state dicendo la verità...- aggiunse, dubbiosa.

Tremotino scoppiò a ridere.

- Mia cara, che peccato che tua madre non ti abbia mai parlato di me! Avrebbe potuto garantirti che io non prendo mai in giro i miei clienti - il suo tono di voce si abbassò, e nei suoi occhi ricomparve quel guizzo maligno.- A differenza di molti...io rispetto sempre la parola data. Un contratto è un contratto, principessina. Puoi sfuggirvi per qualche tempo, ma alla fine devi sempre rispettarlo. Io sono sempre disposto ad aiutare chi è in difficoltà...molti disperati come te invocano il mio nome, e io accorro sempre in loro soccorso. Ho salvato molte persone, sai? Posso salvare anche il tuo amico...naturalmente, devi essere pronta a pagare.

Odette schiuse le labbra come a voler dire qualcosa, ma non disse nulla. Disltolse lo sguardo, cercando di prendere tempo.

Lo stregone mostrò segni d'impazienza.

- Dunque, principessina. Hai deciso? Abbiamo un accordo?

Odette si morse il labbro inferiore, torcendosi le dita delle mani; indietreggiò di un passo, in un istintivo gesto di difesa. Non ne era sicura...certo, quell'uomo l'aveva aiutata a tornare a casa la notte in cui era scappata e si era persa, ed ora si stava offrendo di darle una mano, ma...non le piaceva.

Non era sicura di potersi fidare di lui. C'era qualcosa, non sapeva cosa, che le suggeriva di non credere a una sola parola di ciò che stava dicendo, di uscire velocemente da lì, chiamare le guardie, correre a cercare sua madre o suo padre, o sir Lancillotto.

- Andiamo, non mi dirai che hai degli scrupoli di coscienza!- esclamò lo stregone, vedendo la sua esitazione.- Proprio ora, dopo tutto ciò che hai fatto senza pensare alle conseguenze? Ti preoccupi di ciò che potrebbe accadere adesso, dopo quel che hai combinato? Quando l'unico uomo che ti è sempre stato vicino ha un disperato bisogno del tuo aiuto?

Alla principessa si strinse il cuore a quest'ultima domanda. Tremotino le tese la mano destra, ammiccando.

- Abbiamo un accordo, dolcezza?

Odette prese un profondo respiro, e senza più pensarci strinse la mano dello stregone.

- Va bene. Abbiamo...abbiamo un accordo...- mormorò con la voce rotta.

La sua mano era fredda come la morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

SCUSATE SE NON HO MAI TEMPO PER LE NOTE, ULTMAMENTE, MA SONO PIENA FRA LAVORO ED ESAMI. GRAZIE A TUTTI I LETTORI E AI RECENSORI VECCHI E NUOVI, SIETE FANTASTICI. PROSSIMO AGGIORNAMENTO VENERDI' PROSSIMO.

UN BACIONE A TUTTI.

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