Un laccio invisibile

di _Woodhouse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incipit ***
Capitolo 2: *** Quello che resta di Mr. Rochester ***
Capitolo 3: *** Un motivo per vivere (Parte I) ***



Capitolo 1
*** Incipit ***


 
                                                                                                                                                                                        3 Novembre 18...


Sono ormai passati due anni dall'ultima volta che ho calpestato il suolo di Thornfield Hall.
Sono ormai passati due faticosi anni dall'ultima volta in cui mi sono sentita viva, donna, meritevole d'attenzioni e affetto.
Sono già passati due crudeli anni dall'ultima volta che l'ho visto; due anni da quella volta in cui, dinnanzi al focolare, lui, stringendomi al petto, mi supplicò di non abbandonarlo.
Qualche volta, nei miei sogni, ho avuto il coraggio di modificare le mie scelte. In alcuni - nei peggiori- decido di non muovermi da Lowood per il resto della mia vita e di vivere per istruire tante giovani donne che non sanno e non immaginano neppure cosa sia la vita, quanto estatica e sorprendente possa essere e quanto aspra e crudele possa rivelarsi poi, quando il cuore è più tenero e più propenso alla frattura. Ad ogni modo, con coscienza so che se avessi altre infinite possibilità di tornare indietro nel tempo e di cambiare il corso della mia esistenza, sceglierei sempre di lasciare Lowood school, di andare via, all'oscuro di quello che mi aspetta e vivere forse con più intensità Thornfield e tutto ciò che contiene.
L'unica cosa su cui spesso mi capita di rimuginare è la decisione di lasciare Edward... Mr. Rochester. Ecco, devo imparare a dimenticare il suo nome, non ho più alcun diritto di chiarmalo come se ancora io gli fossi cara, come se io potessi ancora rivederlo, ancora sposarlo.
In fin dei conti, chiedermi come sarebbe andata se fossi rimasta al suo fianco è solo una sciocca tortura che uso infliggermi di tanto in tanto. Che Dio mi perdoni per tanta stoltezza! Ma non posso, specie in giorni come questo, proibirmi di pensare a come sarebbero potuti trascorrere questi anni insieme a lui, sotto il suo tetto, stretti di fronte al focolare, goliardici tra i boschi.
Non riesco a non pensare a quanta benedizione sarebbe equivalso poterlo osservare nelle prime ore del mattino, avvolto nel lenzuolo sgualcito e consumato da una notte di primavera, mentre cerca di schiudere gli occhi e accogliere il giorno. Quanta estasi mi avrebbe offerto stringerlo affettuosamente prima di colazione, farmi spazzolare i capelli davanti alla toletta, essergli amica e confidente quando qualche controversia negli affari gli avesse dipinto sul volto il peculiare e adorabile broncio che tanto mi permettevo di adorare.
Ad ogni modo, sebbene nessun luogo potrà mai occupare il posto che nel mio cuore occupava e occupa tutt'ora Thornfield, nel mio cottage e in compagnia dei miei cari amici di Moor House, Mary, Diana e St. John conduco una vita sotto molti punti di vista appagante.
La loro presenza e le mie occupazioni lavorative mi distraggono dal buio dei miei pensieri per gran parte della giornata, e giacché il tempo restante si rivelerebbe invivibile, lo impiego studiando con acredine quel che St. John è così paziente di insegnarmi del tedesco.
A volte, però, capita che la mente divaghi insostenibilmente ed è in questi momenti che sento come se le forze e la vita mi venissero meno, come se il respiro volesse scoppiarmi violentemente fuori dal petto. In momenti così devo ricorrere alla preghiera o, nel peggiore dei casi, devo cedere languidamente al ricordo che, per quanto doloroso, a volte pare fungere da balsamo contro il dolore. Ricordarlo, per quanto a volte si riveli insopportabile, mi scalda il cuore e mi concilia con la mia intera esistenza; pensare al suono della sua voce che mi rimbrotta per il mio costante muso appenso, mi dà la possibilità di sorridere teneramente per qualche secondo al giorno.
Forse Dio mi punirà per non aver sfilacciato con le unghie e con i denti questa tenera passione, per non aver accettato come marito un buon uomo come St. John e per aver ostinatamente tenuto integro il laccio invisibile che mi lega all'anima di... Mr. Rochester.
Ah! Mi chiedo se per lui le cose siano andate come solo lui merita, se la vita sia riuscita anche per poco a sorridergli e a tirar fuori dal suo cuore tutto il calore che è stato in grado di donarmi.
Ad ogni modo non posso dilungarmi oltre, tra non molto mi raggiungerà St. John e dovrò andare con lui a visitare i poveri del villaggio.
Da questa giornata, comunque, non mi aspetto nulla, mi auguro solo di arrivare alla sera con l'anima e il cuore ancora integri e di non dedicare troppo spazio a pensieri che farei bene a tener lontani per sempre.
Jane, sii forte.


Dopo che Jane indossò lo scialle grigio di lana caldissima, lasciò il cottage in compagnia di St. John, il quale come ogni giorno si presentò alla sua porta con aria pensosa e con indosso un semplice completo da clericale.
Camminarono lentamente l'uno al fianco dell'altra lungo il sentiero erboso e stretto che conduceva al ponticello che distanziava il cottage di Jane dal resto del villaggio.
St. John non si era ancora sbarazzato della sua aria corrucciata e Jane, di tanto in tanto, gli indirizzava degli sguardi tanto premurosi quanto discreti. 
St. John fingeva di non accorgersi di quelle attenzioni e così proseguirono per una mezz'ora, finché la zona in cui stavano collocati i poveri non si presentò loro davanti.
Jane sorrise tra sé e sé, grata a Dio per il compito che le permetteva di svolgere, quindi strinse con più vigore il manico della cesta delle provviste e, dopo aver scambiato uno sguardo di particolare in intesa col buon amico, si addentrò nella prima casupola e svolse con solerzia tutti i suoi compiti, ricevendo sorrisi grati dalle signore più anziane e bisognose.
Quando il giro delle case fu terminato, i due si misero nuovamente sulla strada che avevano percorso all'andata e stavolta, senza che Jane se l'aspettasse, St. John esordì:
- Quest'oggi vi siete davvero superata, Jane. Non che di solito il vostro lavoro non sia degno d'ammirazione, ma questa mattina ho notato un'intensa dedizione in tutto ciò che facevate.
- Siete infinitamente gentile,- rispose lei, timidamente - credo di non meritare simili complimenti, ho solo fatto il mio dovere di cristiana e spero di poter fare sempre meglio.
- Il vostro carattere è la vostra forza. A volte, sapete, v'invidio immensamente. - disse St. John, improvvisamente provvisto di un sorriso melanconico. - Non saprò mai bene quel che vi è capitato prima che voi arrivaste alla mia casa, ma non dev'essere stato nulla di gratificante. Negli occhi avete appigliata una tenera tristezza che è probabilmente lo specchio di un dolore ben più acuto, dolore che avete saputo sovrastare e trasformare in impegno, amicizia, tenacia. Non finirò mai di ammirarvi, Jane.
- Siete troppo buono. - rispose con gli occhi rivolti a terra. In quell'attimo le balenò in mente il pensiero che non le sarebbero più bastate delle lusinghe qualunque per avvertire del clamore nella propria interiorità, piuttosto sarebbe servito uno sguardo, il suo sguardo: lo sguardo amorevole di Mr. Rochester.
 
                                                                                                                                                                                         

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Capitolo 2
*** Quello che resta di Mr. Rochester ***


Nell’oscurità della stanza, Mr. Rochester reggeva in una mano la coppa di un calice di porto, più per abitudine che per voglia. Dalle tende color vinaccio filtrava un fiotto di luce azzurra, palesando all’interno della stanza l’atmosfera uggiosa che stava al di fuori.
Grazie a quel po’ di luce riuscì a fissare con occhi vitrei il contenuto della coppa e le dita affusolate ma consumate che la stringevano.
Sebbene cercasse di distinguere sempre più nitidamente i particolari sul tappeto o gli oggetti posizionati sul tavolinetto di quercia, la vista si offuscava completamente e improvvisamente, cosicché tutti i suoi sforzi si rivelavano vani. Doveva limitarsi a qualche ombra e a momenti di meravigliosa lucidità, momenti che gli venivano regalati in special modo all’aperto, nelle giornate di sole.
A volte, però, quando gli pareva di vedere troppo bene e di riuscire a distinguere perfettamente il ponticello, l’ippocastano, la panchina di legno sottostante all’albero e il colore delle foglie, la mente cominciava a prendersi gioco di lui, collocando il suo angelo nei posti in cui il suo ricordo si faceva più vivido. Allora, ogni volta, egli era costretto ad indietreggiare, a picchiare con forza il bastone contro la corteccia dell’ippocastano, a sbraitare, ad accasciarsi.
Jane.
Quel pomeriggio aveva pensato di uscire a fare una passeggiata, ma l’odore della pioggia lo aveva trattenuto dall’incamminarsi, provocandogli un nuova fruizione di rabbia che gli pervase l’itero costato e lo immobilizzò alla poltrona.
Era ormai diventato estremamente irritabile e scostante, molto più di quel che era mai stato in precedenza, molto più di qualsiasi altro uomo vivente, poiché aveva coltivato, giorno dopo giorno, un odio profondo per la vita. Non desiderava altro che liberare la sua anima da quella carne di uomo morto e storpio. Tante volte era stato sul punto di farla finita, di espiare peccati e colpe a suon di rivoltella, eppure non lo aveva fatto; e non perché fosse in qualche modo attaccato alla vita, no, bensì perché in cuor suo custodiva la segreta speranza di rivederla, di ritrovarla o semplicemente di avere sue notizie.
Non poteva continuare a vivere per molto senza il suo angelo, eppure non poteva morire senza nemmeno vederla un’ultima, agognata, volta.

- Signore, vi ho portato il tè. – annunciò con voce gentile Mrs Fairfax, evidentemente provata da quegli anni drammatici.
- Non mi pare di averlo chiesto. Portatelo via. – ribatté secco, senza nemmeno indirizzarle un’occhiata.
- Ma signore, non avete neppure fatto colazione quest’oggi. – fece la donna con un tono vibrante di preoccupazione.
- Al diavolo la colazione. Al diavolo il vostro tè. Andate via! – ordinò il padrone con ferocia.
A quelle parole, l’anziana signorotta non poté far altro che indietreggiare timidamente e abbandonare la stanza. Si diresse verso la sprovvista cucina e si concesse il tè che sarebbe spettato al padrone. In quel mentre rifletté molto sulla triste situazione in cui vivevano e sebbene lei riuscisse a vivere dignitosamente, sopportando le controversie, il povero Mr. Rochester, nonostante il suo polso, era sprofondato nelle fiamme dell’inferno. Niente più lo divertiva, il lento ma significativo riaffiorare della vista lo aveva lasciato indifferente. Nulla era più importante. Mangiava solo quando riusciva a ricordarsene,  parlava solo per imprecare, viveva ma era come se si limitasse ad esistere. Tutto questo, per quanto comprensibile, rattristava parecchio la povera Mrs. Fairfax, la quale avrebbe tanto voluto essergli d’ausilio, proteggerlo, trovare una soluzione a quella lente e logorante distruzione.
Mentre sorseggiava quel tè ormai tiepido, la povera donna scoppiò in lacrime calde e si andò a sedere dinnanzi alla finestra, aspettando che piovesse e sperando che la pioggia riuscisse a pulir via tutto quel dolore.
Poche stanze più in là, Mr. Rochester aveva terminato di scolare interamente il calice di porto, si morse le labbra per inumidirle ulteriormente e si liberò della coppa gettandola all’interno del caminetto acceso.
Batté con forza un pugno sulla stoffa ruvida di uno dei braccioli della poltrona e si portò col busto in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e mettendosi la testa tra le mani.
Le dita tormentavano i capelli scuri e arruffati e le mascelle gli si contraevano come ad esternare l’amarezza incubataglisi persino nelle ossa.
Ripensò al suo volto, come faceva sempre, ripensò al volto di Bertha mentre si concedeva alle fiamme e con una cattiveria che lo disgustò, si ritrovò a desiderare che le fosse morta prima, molto prima di distruggerlo, di impedirgli di sposare la sola donna che mai gli avesse trasmesso gioia.
Adesso, però, era tardi anche per sperare. Jane, probabilmente, aveva fatto della sua vita qualcosa di meraviglioso, perché lei poteva ancora farlo e sicuramente ci sarebbe riuscita, avrebbe ancora amato e sarebbe stata una donna più felice di quella che sarebbe mai potuta essere con lui.
Quella era l’unica consolazione che gli rimaneva, l’unico appiglio in un’esistenza tetra, l’unico motivo per rimanere vivo, poiché non si sarebbe mai arreso all’idea di non poter guardare e constatare con occhi terreni il nuovo mondo di Jane, un giorno o l’altro.
Ma cosa gli faceva pensare che si sarebbe ritrovati? La vita gli aveva forse concesso di poter essere tanto fiducioso? Non gli era sempre stata terribilmente avversa? Non lo aveva sempre ucciso di tante e minuscole morti?
Stordito, si gettò nuovamente all’indietro e si lasciò avvolgere da una sensazione d’improvviso torpore.
Sperò per un attimo che quello annunciasse il sopraggiungere della morte, quindi si stiracchiò meglio e attese. Attese. La morte non arrivava, il sonno nemmeno. Le ore e i minuti e i secondi continuarono a trascorrere con devastante lentezza, tutt’intorno gli sembrava di vedere spettri, esseri sudici, ratti, sozzeria. Si sollevò di nuovo, si mise in piedi e arrancò disperatamente verso un mobiletto alla sinistra del camino.
Quando lo raggiunse, vi si poggiò con tutta la pesantezza della sua stazza e si curvò, aprì uno dei cassetti e ne rimescolò l’interno con mani tremanti. Poi, finalmente,  trovò quel che cercava, se ne somministrò il più possibile e dopo poco cadde a terra con un tonfo sordo.





Quella sera stessa, in un altro angolo d’Inghilterra, Jane Eyre condivideva un umile pasto caldo con i suoi amici di Moor House. Era una di quelle sere piene d’allegria, in cui il vocio di Mary e Diana bastava per riempire l’intera casa.
- Jane! Allora? Diteci cosa ne pensate! Credete che siano stati degli acquisti avventati? – chiese con euforia Diana.
- Oh, io… - prese del tempo per riflettere sulla cosa giacché la moda costituiva un vero enigma per la sua mente semplice. – Oh, credo che il vostro giudizio basti. Aggiungendo il mio contribuirei solo a condurvi al cattivo gusto. Sapete che non ho spiccate qualità in materia.
- Suvvia! – gridarono in sincrono le due sorelle. – Noi ci fidiamo di te, di qualsiasi cosa si tratti. E poi hai tanto buon gusto, Jane, non essere modesta. – aggiunse con garbo Diana.
- Non crederò nemmeno per un istante a queste adulazioni. – rispose con un sorriso ironico sulle labbra- Ma dato che vi farebbe così piacere conoscere la mia opinione e io odio non soddisfarvi, vi dirò che trovo i vostri abiti davvero deliziosi.
- Grazie, Jane. – fecero di nuovo in coro. – Non lo dici per compiacerci,  vero?
- Non vi direi mai qualcosa che non penso solo per compiacervi. – rispose risoluta ma con garbo.
- Oh, non vedo l’ora di indossarlo! – sospirò Mary.
- A chi lo dici! Non siamo per niente abituate a ricevere persone importanti o ad andare alle feste, quindi la visita di Sir. Watson è motivo di grande entusiasmo per noi. – aggiunse con aria sognante Diana.
- Ragazze, contegno. – intimò loro la voce glaciale di St. John.
Le due ragazze, constatando la reazione del fratello, decisero di zittirsi e limitarsi ad abbandonarsi a frivole conversazione solo nella loro mente. Nel frattempo, Jane rivolse uno sguardo di malcelato disappunto a St. John, il quale lo ricevette in silenzio senza chiedere spiegazioni di sorta. Continuarono a cenare, tutti e quattro in perfetto silenzio e solo ogni tanto vi era uno scambio fugace di sguardi tra le due sorelle, che non riuscivano a colpevolizzarsi per la loro euforia giacché provarne era sempre stato un evento piuttosto raro.
-Quando arriverà il vostro ospite? – domandò Jane per armonizzare nuovamente la tavola.
Le due ragazze quasi risposero, ma si scambiarono un breve sguardo di intesa e ritornarono con la testa sul piatto, aspettando che fosse St. John a rispondere alla domanda.
- Domani, nel pomeriggio. Spero che voi, Jane, abbiate il piacere di presenziare. Fate parte della nostra famiglia, d’altronde.
- Siete certo che la mia presenza non risulti di troppo? – chiese improvvisamente preoccupata.
- Niente affatto! Sono certo che farà piacere anche a Sir. Watson conoscervi e so che lui vi piacerebbe, perché nonostante sia un uomo di una certa elevatura sociale ha sempre conservato una straordinaria bontà d’animo. Non scorderò mai come lo conobbi. Credo che gli fui amico dal momento stesso in cui lo vidi. – spiegò St. John, addolcendo i toni.
- Cosa gli garantì la vostra immediata amicizia? – domandò incuriosita, mentre Diana e Mary ascoltavano con gli occhi strabuzzati e delle arie profondamente interessate.
- Ve l’ho detto. La sua bontà d’animo. Lo conobbi durante uno dei miei viaggi in Irlanda, anni addietro. In quel periodo nel piccolo villaggio in cui mi ero sistemato si era da poco diffusa una crudele epidemia di tifo.
Molte persone disagiate persero la vita e noi, con i nostri mezzi, riuscivamo a dare una mano d’aiuto solo ad una piccola percentuale. Quando l’epidemia si estinse, rimasero in canonica una mezza dozzina di bambini, ormai tutti orfani e ancora completamente ignari delle sorti delle loro famiglie. I mezzi di sostentamento di cui disponevo erano ben miseri e presto diffusi un’accorata richiesta d’aiuto.
I gentiluomini delle vicinanze non mossero un dito e i bambini, indeboliti dalla scampata malattia, esigevano sempre maggiori cure; cure che io potevo limitatamente assicurar loro.
Proprio quando credei di essere perduto venne a farmi visita un gentiluomo ospite in una delle grandi case dei dintorni, un amico stretto del più importante possidente della zona. L’uomo capì subito le terribili condizioni in cui riversavano i bambini e senza spendersi in troppe parole mi assicurò che si sarebbe preso cura di loro finché Dio glielo avesse permesso. Il giorno dopo caricò in una carrozza tutti e sei bambini e li portò con sé nella sua tenuta di Dublino. Per finire, mi lasciò una generosa somma di denaro per aiutarmi a risollevare le mie condizioni e da quel momento cominciammo una strenua e amichevole corrispondenza.
Dopo dieci anni ha finalmente accettato il mio invito ed io non potrei essere più soddisfatto. Uomini così si incontrano invero di rado. – concluse il racconto e un sorriso gli rigò il volto.
Le donne della tavola ascoltarono la storia con molto trasporto e quando fu terminata si scambiarono dei sorrisi. Anche Jane sorrise e desiderò conoscere presto un uomo di tal fatta, il quale sarebbe stato di certo un esempio per tutti loro.
Ad un tratto, però, il sorriso le morì sulle labbra e lasciò cadere la posata sul piatto creando un leggero tramestio che bastò a scuotere tutti i convitati. Si sentì improvvisamente pervasa da un malessere, da un’aurea lugubre, come se un presentimento le stesse aleggiando sulla nuca, un presentimento di morte, un presagio oscuro. Si curvò sulla tavolo e si portò le mani sul viso  tentando di scacciar via quella sensazione. St. John scattò in piedi e le si avvicinò affettuosamente per sincerarsi delle sue condizioni fisiche. Le due ragazze rimasero immobili temendo una qualche disgrazia, e solo quando le udirono pronunciare quelle parole trassero un sospiro di sollievo e le carezzarono le braccia da entrambi i lati.
- Scusatemi.  – fece sollevandosi e cercando di rassicurare tutti con uno sguardo.
- Non vorrete tornare a casa vostra in queste condizioni? – domandò perentorio St. John.
- Vi assicuro che sto bene. – ribatté lei ancora stordita, mentre barcollava verso l’appendiabiti per poi indossare il suo soprabito.
- Permettetemi di accompagnarvi, almeno. – continuò con premura l’amico.
- Davvero, posso farcela. Una breve passeggiata non mi arrecherà alcun danno, anzi, forse mi aiuterà a riavermi del tutto. – concluse risoluta.
- Come volete. – l’assecondò St. John con aria un po’ contrariata, poi la seguì fino all’uscio e le baciò una guancia prima di lasciarla andare.


 
Durante tutto il tragitto Jane non smise di avvertire quella terribile sensazione e nella mente continuava a vorticarle un solo nome, un solo volto. Poi, improvvisamente, sentì delle forti fitte allo stomaco e un pensiero tremendo le ferì la mente come un’accetta: Edward. Il laccio.
Era come se potesse sentire il lento e invisibile logorio del laccio che li univa, come se dall’altra parte stesse tirando con un vigore spropositato. Cosa stava succedendo? E se lui stesse morendo?
Cominciò a tormentarsi con ancora più lena e quando giunse all’interno della proprio casa si lasciò andare rigidamente sulla poltrona. Vide la piccola fiammella che rimaneva del fuoco del pomeriggio ardere nel camino ed in quel momento il laccio parve irrigidirsi di più e tirare, tirare vigorosamente.
Fissò quel che rimaneva del fuocherello con occhi vacui, mentre una lacrima, scivolandole silenziosa sul viso, mutò il suo presagio in certezza.
Questo, però, non cambiava le cose. Qualsiasi stesse accadendo a Thornfield lei sarebbe dovuto restare al suo posto e aspettare lentamente la fine di quel supplizio.
Avrebbe ritrovato il suo Edward in un po’ posto che non è fatto né di materia né d’aria.
Si sarebbero ritrovati, lo sapeva, come anime affini fatte di fiato e nulla più.

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Capitolo 3
*** Un motivo per vivere (Parte I) ***


 

- Signore! Buon Dio, Signor Rochester! – Mrs. Fairfax, impallidendo, si precipitò a capofitto sul corpo privo di sensi di Mr Rochester e iniziò a tastargli il polso, a scuoterlo, ma senza ottenere risultati. Mr. Rochester sembrava totalmente incosciente, forse morto. Mrs. Fairfax sapeva che quando qualcuno appariva privo di vita era necessario tastargli il polso per assicurarsi delle sue condizioni. A cosa servisse, però, non lo aveva mai inteso perfettamente, quindi rimase a terra vicino al corpo del padrone senza saper che altro fare: sapeva di dover chiedere aiuto, ma al tempo stesso la sola idea di lasciarlo da solo le insinuava nell’animo un’angoscia non indifferente. Poi, rendendosi conto della stoltezza del suo atteggiamento, corse a chiamare lo stalliere, che si trovava appena fuori dalla cucina, quindi sarebbe bastato attraversare solo una stanza e la sua agonia sarebbe terminata. Si sentiva terribilmente responsabile dell’accaduto, in quanto aveva sicuramente innervosito Mr. Rochester introducendosi nella sua solitudine con quello stupido tè.
Dunque, corse fuori dalla piccola dimora in cui abitavano da quando Thornfield non era diventata altro che un ammasso di cenere, e chiamò a gran voce il nome dello stalliere, che in un attimo le fu davanti e la pregò di spiegargli cosa l’agitava. Mrs. Fairfax blaterò qualcosa di sconnesso, ma disse quanto bastava affinché Jason si precipitasse nella stanza in cui troneggiava, sul pavimento, il corpo di Mr. Rochester.
Il giovanotto, forse più in agitazione della vecchia signore, issò il corpo con notevole sforzo e, praticamente strascicandolo sul pavimento, lo condusse lentamente verso la poltrona sulla quale, poco dopo, riuscì a sistemarlo non senza avvertire taglienti dolori alla schiena. Nel frattempo, Mrs. Fairfax girovagava intorno al perimetro della stanza torcendosi il cuore con sempre più asfissianti rimproveri riguardo la condotta che aveva azzardato nel pomeriggio.  Quando Jason corse a chiamare il medico del villaggio, la vecchia donna si posizionò in ginocchio vicino alla poltrona in cui sedeva il suo padrone, e congiunse le mani a mo’ di preghiera, chiedendo al buon Dio di risparmiarlo giacché era un uomo così buono e giovane che non meritava una morte tanto crudele, in quanto ignota.

Circa una mezz’ora dopo, Jason tornò accompagnato da un trafelato Dottor Cox che più allarmato che mai prese a destreggiarsi con attrezzi, a tastare Mr. Rochester da tutte le parti ed infine chiese al giovanotto di aiutarlo a trasportare il corpo esanime fino alla camera da letto.
Quand’ebbero disteso Rochester sul letto,  il dottore pregò lo stalliere di accompagnare fuori dalla stanza la vecchia signora, giacché si presuppone dovesse attuare delle pratiche poco consone alla presenza di una donna. Non senza preoccupazioni, la donna acconsentì ad uscire dalla stanza e appena fuori si sedette su di una sedia in attesa di poter rientrare a vegliare sul povero signor Rochester. Lo stalliere la pregò di tranquillizzarsi e si congedò dalla casa per andare a terminare il suo lavoro, ma chiese alla signora di fargli avere al più presto notizie inerenti alla salute dell’infermo o non si sa cos’altro.
Il tempo, lì fuori, sembrava non trascorrere più e Mrs. Fairfax finì con l’appisolarsi stringendo in mano il ventaglio che fino a quel momento le aveva permesso di contrastare le forti vampate di calore causate dalla paura e dall’ansia. Se il signor Rochester fosse morto non le sarebbe rimasto nessuno, la signorina Adele era lontana, e da tempo non aveva più notizia della cara signorina Eyre. Tutte le persone che le erano più care l’avevano abbandonata e, adesso, il pensiero che anche il singnor Rochester potesse fare lo stesso era oltremodo intollerabile. Era ormai talmente vecchia che la vita le avrebbe riservato nient’altro che solitudine e tristezza  al pensiero degli spiacevoli eventi che si erano susseguiti nella tenuta che per lei aveva rappresentato tutta un’esistenza.
Il sonno della buona signora venne presto interrotto dallo schiudersi della porta della stanza che conteneva la risposta ai mille interrogativi che si era posta fino a quel momento, e quando vide nel volto del dottore un’espressione complessivamente serena trasse un sospiro di acuto sollievo.
- Posso scambiare due parole con voi, Signora? – domandò il dottore asciugandosi la fronte con un panno.
- Ma certo, come sta il signor Rochester? Vi prego, non annunciatemi nulla di triste.
- Il Signor Rochester si rimetterà presto, ma potrebbe incorrere in una spiacevole fine se voi non eseguirete le direttive che debbo impartirvi. – fece con tono grave.
- Tutto quello che volete sarà fatto.  – rispose la donna con voce tremula.
- Ebbene, il vostro padrone ha ingerito una portentosa quantità di laudano che avrebbe rischiato di ucciderlo se il suo fisico prestante non lo avesse preservato.
- Oh, Santo cielo! Che Iddio abbia pietà di lui! – bisbigliò quasi in lacrime.
- Vi prego di non agitarvi – la rassicurò il dottore- piuttosto dovete cercare d’infondere nel vostro padrone più serenità di quanta ne abbia mai ricevuta. Spronatelo a vivere i suoi interessi, circondatelo di gente: sono sicuro che voi che lo conoscete meglio saprete come agire per garantirgli delle ore serene. Purtroppo, quando un uomo come il Signor Rochester mette la propria vita dentro una boccetta di laudano, sono poche le cose che possano restituirgli la voglia di riprendere in mano la propria esistenza.
- Volete dire che potrebbe ricorrere di nuovo a quel liquido nefasto? – domandò la signora, sgranando gli occhi e stringendo il ventaglio sul petto con sempre maggiore apprensione.
- Lo farà sicuramente. – rispose realista l’uomo – Ma se riuscirete a dargli un solo motivo per rimanere su questa terra, salverete una povera anima dalle fiamme dell’inferno.
- Buon Dio del Cielo! – abbassò lo sguardo e prese ad annuire con fare ritmico. – Farò quanto posso, lo farò! Oh, povero signor Rochester!

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