Il ritorno della Terra e la ribellione della Luna

di bimbarossa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Soglia ***
Capitolo 2: *** Gli anni in tasca(prima parte) ***
Capitolo 3: *** Gli anni in tasca(seconda parte) ***
Capitolo 4: *** Impatti ***



Capitolo 1
*** Soglia ***


Tokyo, Giappone


3 Agosto 2014


La donna stava appoggiata alla porta verde bottiglia che accedeva al loro appartamento. Forse non si accorse dell'uomo alto e della bambina raggomitolata tra le sue forti braccia, o come probabilmente gli passò per la testa più tardi, fece finta di non captare la loro presenza sul pianerottolo per far si che lui potesse osservarla meglio, quel profilo cesellato e puro come una statua greca, gli zigomi alti, la pelle eburnea come latte cagliato e infine quella rigogliosa massa di capelli che brillavano nella penombra del corridoio.

Essi avevano uno strano colore, come se il rosso cinabro si fosse unito all'arancione fluorescente, e lo stupendo risultato fosse stato spolverato da una pioggia dorata che li rendeva luminosi come un faro nelle tenebre.

Mamoru sentì il corpicino di ChibiUsa che si tendeva, tra le sue braccia. A 14 anni di età era ancora poco più di una bambina e se la sua crescita arrestata non era una sorpresa ciò non gli impediva, in fondo al cuore, di provare una tremenda pena per lei e per ciò che sarebbe potuta diventare.

Le diede un piccolo buffetto sulla guancia, come a dirle che andava tutto bene, che la creatura dagli occhi color terra che li aspettava, in attesa e inattesa, non le avrebbe fatto del male. Ma gli occhioni di sua figlia non manifestavano nessun segno di timore bensì solo di meraviglia, come se stesse contemplando una delle fate che erano raffigurate nei suoi libri di racconti.

Mamoru si avvicinò, con il passo felpato di Tuxedo Kamen che aveva dovuto rispolverare per l'occasione dopo anni di passi fermi e misurati da medico che passeggia tra le corsie dell'ospedale dove lavorava.

Eppure aveva la strana sensazione di essere goffo come ChibiUsa quando aveva appena imparato a camminare. Più si avvicinava a quella donna e più sentiva che qualcosa in lui, quel qualcosa che lo aveva tenuto saldo, contenuto nel suo bozzolo di serenità e fiducia in se stesso dalla morte dei suoi genitori, si stesse sbriciolando sotto lo sguardo laser della donna con i capelli rossi che lo squadrava con quella serenità e fiducia in se stessi che aveva appena perso.

Si sentiva derubato! Ecco cosa, lei lo aveva derubato!Lo aveva appena derubato della sua vita tranquilla, delle sue certezze faticosamente ritrovate dopo la resurrezione avvenuta 21 anni prima per opera di Usako.

Adesso, dopo tutti questi anni lei si rifaceva viva, per pretendere la sua quota, ciò che le era dovuto. Per prendere il seme di stella che apparteneva a Mamoru Chiba certo, ma che ugualmente lui aveva ereditato da qualcuno che secoli prima si era sacrificato, ed ora ritornava, chissà per quale assurdo motivo. Perché lei doveva essere morta, anche se la gabbia toracica che si alzava e si abbassava smentiva quella convinzione.

Quella che gli stava di fronte era Earth, la sua antenata, la sua nemesi, la sua salvatrice.

Salve a tutti, devo avvertire coloro che leggeranno questa storia che essa si allaccia all'altra mia fanfic Le cronache delle Principesse combattenti, in quanto il personaggio di Sailor Earth fa lì la sua prima apparizione,in particolare nei capitoli L'età della rosa e L'età della Terra. Inoltre molti avvenimenti saranno le conseguenze (vedi L'età del passaggio) e il prologo della seconda parte della suddetta serie poiché questa storia si colloca tra L'età del Coniglio e L'età del Teschio che sono tuttora in fase di scrittura. Perciò le due fanfic sono strettamente collegate anche se totalmente indipendenti; mi auguro che ci abbiate capito qualcosa nella nebulosa Tau che è la mia creatività,altrimenti me ne scuso e vi assicuro che diverrà più chiaro in seguito.

Spero che vi piaccia e che ci siano molti commenti!

Bimbarossa

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Capitolo 2
*** Gli anni in tasca(prima parte) ***


18 Marzo 2015


Città del Capo, Sudafrica,ore 16,15




Il mare quel pomeriggio era leggermente agitato ma nonostante questo, e nonostante già si alzasse da sud un vento freddo e autunnale la spiaggia era ancora piena di gente.

Forse la strana calca di persone era dovuta al sole splendente che emanava gli ultimi tepori di quella lunga e calda estate africana, oppure perché l'attenzione di tutti era calamitata dall'enorme yacht di un bianco immacolato che beccheggiava pigramente seguendo il rollio delle onde, che sembravano cullarlo con una dolce ninnananna.

Ma almeno un'occupante della barca non la pensava allo stesso modo. Anzi, la nausea che invadeva Haruka la stava snervando.

Non aveva mai sofferto il mal di mare e non era proprio sicura che la causa potesse essere imputata a questo.

A dire la verità era dalla notte prima che non si sentiva bene. A dire la verità era da parecchi giorni che non si sentiva bene. Che non si sentiva se stessa.

Era sempre inquieta, distante, nervosa e irascibile. Sembrava davvero l'adolescente che era stata 21 anni prima invece che la donna di 39 anni di successo che era adesso, l'immagine perfetta che mostrava al resto del mondo.

Infatti la persona che stava osservando davanti allo specchio della cabina della Warrior Princess non era la proprietaria della scuderia automobilistica Young Talents, la famosa manager che appariva su tutte le riviste patinate inseme alla sua compagna, Michiru Kaiō celebre violinista; no, quella era una sconosciuta, anzi neanche. Era la troppo conosciuta se stessa che aveva ritrovato, nemmeno senza tanti complimenti o scrupoli 21 anni fa, quando aveva smesso di fare la guerriera.

Ed era stata felice di questo.

Perché era potuta ritornare quella persona che era prima di Michiru ma con Michiru, stavolta.

Un rimpianto magnifico che sapeva di libertà. Niente guerre, niente mostri, niente ricerche impossibili e dolorose. Niente sacrifici e lotte contro il mondo per il mondo.

Solo amore, e il piacevole e indolente lasciarsi andare alla deriva sull'oceano. L'oceano che era la sua Michiru-chan.

Ma adesso tutto si era capovolto di nuovo. Di nuovo sogni che la tormentavano. Ma se quelli di una volta erano stati incubi di Apocalisse e distruzione questi erano ancora peggiori.

Erano peggiori perché non c'erano creature maligne da sconfiggere, nessuna presenza fisica, o perlomeno la promessa/minaccia di un nemico fisico da combattere.

Il sogno, sempre lo stesso, che la ossessionava da qualche mese riguardava se stessa. E Michiru.


La violinista faticò non poco ad indossare il bikini giallo, il suo preferito, quel pomeriggio.

Di solito era sempre Haruka che glielo allacciava da dietro ma era inspiegabilmente sparita sopraccoperta senza dire una parola.

Quella vacanza in Sudafrica che aveva programmato prima dell'inizio del campionato automobilistico si stava rivelando un disastro.

Il tremore delle mani le rese più difficile allacciare il pezzo sopra del costume e ogni volta che pensava di rinunciare e sceglierne uno meno complicato richiamava alla memoria l'espressione di Haruka quando glielo vedeva addosso e ritentava.

Doveva mettersi quel bikini. Doveva farlo a tutti i costi.

Quando si era svegliata quella mattina, tra le braccia magre di Haruka si era accorta di quanto lo fossero magre. Erano così esili, così trasparenti. Come se la loro proprietaria stesse per sparire. O stesse per diventare invisibile, come il vento.

Lo spettacolo dell'alba sudafricana, ricordava, l'aveva distolta per un attimo dai suoi pensieri. C'erano talmente tanti colori, tutti quei gialli e bianchi. Era si una pittrice di talento ma non aveva immaginato che ci fossero così tante sfumature di bianco. Avrebbe voluto imprimersele per poterle poi riportarle sulla tela; avrebbe voluto imprimersi il volto di Haruka che dormiva, per una volta dopo mesi, serenamente, senza quegli incubi che la tormentavano, di notte, e di cui non faceva parola, con lei, al mattino.

Se avesse voluto confidarsi, dopo tutto quel tempo sicuramente Haruka lo avrebbe fatto. Il problema era che la sua compagna, la sua metà, la persona con cui divideva l'esistenza e il cuore, per la prima volta le aveva sbattuto la porta in faccia. L'aveva, pezzo dopo pezzo, notte dopo notte, incubo dopo incubo, allontanata, sputata fuori da se stessa, come si fa con qualcosa che ci può danneggiare, con qualcosa che ci fa paura, con qualcosa contro cui abbiamo lottato e che ha perso mentre noi abbiamo vinto. Ma Haruka non si stava comportando come una vincente, mentre Michiru era sicura di avere perso.


Mosca,ore 18,15


Aveva perso. Rei si sentiva una vera perdente. Certo, il bilancio di 21 anni di vita passati nella carriera diplomatica era sicuramente ottimo, almeno così l'avrebbe vista suo padre. E doveva ammettere anche lei che era diventata una delle più influenti donne di Mosca. Eppure aveva perso. Aveva perso tempo.

Quella sera, mentre fuori dall'ambasciata la tempesta di neve infuriava e bloccava quasi tutte le strade, Rei Hino si guardava allo specchio e sentiva il tempo scivolarle tra le dita affusolate e ben curate, dita che tremavano leggermente mentre cercava di mettersi il rossetto che avrebbe completato la sua mise per l'uscita a teatro.

Aveva perso tempo perché l'obbiettivo che si era data quando aveva lasciato il Giappone non lo aveva raggiunto, ne tanto meno sfiorato.

Non aveva dimenticato. Non era stata dimenticata.

Il pensiero andò alle lettere che invadevano la sua scrivania, lettere scritte in caratteri hiragana, non nell'alfabeto cirillico che ormai le era diventato famigliare. Lettere di Usagi, e di Setsuna e Hotaru, lettere e disegnini di una ChibiUsa che ogni mese la invitava a venirla a trovare, magari portandole anche tanti regali. Mamoru no. Mamoru non le aveva mai scritto, non le chiedeva mai di tornare. Perché lui sapeva e capiva.

Pensò all'ultima volta che era stata a Tokyo. Ormai erano passati due anni, e non ne prevedeva altre a breve termine. Si rendevano conto di quello che le chiedevano? Si rendevano conto della sofferenza di quelle sporadiche visite?

All'improvviso un rumore soldo la fece trasalire. Il rossetto era caduto nel lavabo di porcellana, lasciando sbavature rosse come scie di sangue dopo un crimine, e provocando un'eco assordante nel bagno immacolato.

Il rumore del sangue.

Il rumore del sangue che poteva sentire pulsare in testa mentre si appoggiava pesantemente nel lavabo freddo e liscio.

Non voglio ricordare! Non devo ricordare!

Ma i pensieri, come traccie di sangue dopo un crimine la portavano invariabilmente al sangue versato e al crimine compiuto, da lei, su di lei.

Un rumore dabbasso la riscosse. Non era mai stata così grata e così felice di rivedere suo padre.

Scese di sotto dopo avere pulito il lavabo in modo maniacale per non fare rimanere più nessuna macchia di quello che era successo. Se fosse stato così facile anche per i ricordi!

Suo padre, ormai settantenne, era rimasto comunque un bell'uomo, giovanile e piuttosto mondano; ma questa volta aveva esagerato. Questa volta ne aveva scelta una più giovane di lei di dieci anni.

Sarebbe stata Svetlana o Nadja?

No, quella biondona che se lo teneva stretto al braccio nel suo vestito rosso così scollato da far temere che si sarebbe congelata all'istante non appena uscita nel clima impietoso di Mosca si chiamava Olga. Non appena li raggiunse l'ultima amichetta di Takashi Hino la squadro dalla punta delle scarpe di velluto viola all'acconciatura semplice che Rei preferiva sempre per andare a teatro. Uno sguardo gelido, e di pura invidia.

Perché Rei, benché avesse ormai 37 anni non li dimostrava affatto.

Da quella strana e misteriosa sera dell'incoronazione, avvenuta nel balcone di Usagi e Mamoru sotto la Luna, tutte loro avevano smesso di invecchiare. Quindi, nonostante alla sua età si fosse considerate non più delle ragazze ormai, la sua carnagione perfetta, la lucentezza dei capelli e il viso privo di rughe sconcertavano e affascinavano in molti, tanto che dàma Hino era divenuta la più corteggiata di Mosca.

Di conseguenza, ogni amichetta sempre più giovane che suo padre si era fatto, confidando nel facile confronto che doveva risolversi a suo vantaggio con l'unica donna di casa, si ritrovava invece spiazzata dalla situazione; e tutti i regali, tutte le feste, tutti i vantaggi che una relazione con uno degli ambasciatori più in vista della capitale potevano dare, non rivaleggiavano con il portamento, con la classe, con l'eleganza di quella figlia che le metteva in ombra e che le surclassava con una facilità disarmante.

Perciò prima o poi, al massimo reggevano qualche mese, ognuna di loro spariva, magari seducendo un diplomatico con una moglie vecchia e flaccida, lasciando il sempre più acido e collerico Takashi Hino di nuovo a caccia di prede, il cui numero si assottigliava ogni volta di più.

E Rei ne gioiva. Perché quando era fuggita dal Giappone aveva preventivato anche questo. Aveva già programmato la sua ritorsione.

Tanto tempo fa, al tempo di Usagi, al tempo delle fuku e dei mostri, non avrebbe mai pensato di avere un lato così vendicativo.

Ci pensava spesso nelle lunghe notti russe, insieme ai ricordi, meravigliosi e orribili che la visitavano spesso.

Olga comunque, doveva essere poco più che ventenne. Dio mio, fino a dove voleva spingersi suo padre?

Rei non stette a chiederselo, li salutò con un cenno, si fece aiutare ad indossare da Sergey il pesante cappotto viola in tinta con il suo abito e il manicotto per proteggersi dal freddo e uscì fuori con un sospiro che subito si trasformò in una nuvola di vapore argentea.

L'ambasciata giapponese era molto vicino al teatro Bol'shoi, quindi decise di andarci a piedi vedendo che la tempesta di poche ore prima si era ridotta notevolmente.

Che cavolo! Si era scordata che le strade di Mosca a marzo dopo il disgelo diventavano un pantano. I primi tempi, non essendo abituata ad un fenomeno simile,aveva trovato difficile destreggiarsi e doveva portare sempre un cambio perché ogni volta si trovava con le scarpe e i pantaloni sempre pieni di fango.

Quella sera però, con l'imprevista tempesta proveniente da nord scesa nella capitale a disgelo già iniziato, anche quella viscida fanghiglia marrone si era congelata e Rei, la cui tranquillità era stata messa a dura prova con la scena nel bagno e dal suo odiato genitore con la sua ultima amante fu contenta che altro sudiciume non si fosse aggiunto alla sua anima già lordata da altri errori, suoi e di altri.

Appena arrivata al Bol'shoi scortata dal fidato Sergey, fu subito condotta al suo palco privato dove prese posto su una delle tre poltrone che dovevano ospitare lei, suo padre e la sgualdrina Olga.

Vuole qualcosa da mangiare, o da bere, dàma?” Sergey con il suo accento russo-giapponese rivolse un'occhiata al carrello che se ne stava in un angolo poco illuminato del palchetto. Lei non lo aveva neanche notato. Era proprio distratta quel pomeriggio!

No, niente da bere ma prendo un pezzo di kalech, se non ti dispiace!”

Non aveva molto fame. Si sentiva lo stomaco in una morsa, in un grumo spiraliforme di tensione e sentimenti repressi per troppo tempo. In più c'era qualcos'altro che non riusciva a identificare. O meglio che non riusciva più ad identificare.

Un' altro favore Sergey.....”, la preoccupazione e l'ansia sostituiti dall'amarezza, ”togli ogni traccia di wodka per mio padre!”


Chissà perché ogni volta che sentiva le Danze Polovesiane provava un senso di pace e calma. L'opera di quella sera era tratta dal Principe Igor ma si era focalizzata sulle figure delle danzatrici polovesiane piuttosto che sull'intera storia. Certo, i puristi della musica classica avrebbero storto un po' il naso e infatti, oltre all'orario e al clima l'originalità dell'autrice, una kazaka che aveva conosciuto anni prima, avevano impedito al teatro di riempirsi completamente.

Suo padre, che era uno di quelli, inaspettatamente aveva voluto accompagnarla, insieme alla sua amichetta.

Sicuramente per metterla di pessimo umore, e ci era riuscito! Ma il merito non andava solo a lui e alla biondina che si tirava dietro ovunque.

Aveva una strana sensazione, una strana inquietudine. Anni prima, in una vita precedente, avrebbe interpellato il Sacro Fuoco; però ora sembrava che tutto il freddo e il gelo russo avessero coperto con la sua coltre di neve mista a fango non solo i suoi peccati e i suoi rimpianti del passato, ma anche il suo ancor più antico potere divinatorio.

Quel potere che in un giorno d'estate giapponese di tanti anni prima le era stato rivelato da due neri corvi dalle penne lucide e puntute come stiletto. Le due piccole guerriere di Koronis apparse in un momento di profonda crisi mistica adesso erano sparite, portate via dal vento del Nord, cacciate via, proprio così, da dàma Rei Hino. Per sopravvivere. Per sopravvivere senza calore. Per ottenere, nonostante il senso di perdita, un'effimera vittoria.


Los Angeles,ore 06,15


Tutte le sue vittorie poteva vederle ogni volta che apriva gli occhi.

Minako si svegliò di soprassalto, sudata e ansimante. Le luci dell'alba e gli uccellini che cantavano fuori, nel gigantesco patio della sua villa, cozzarono talmente tanto con l'incubo da cui era appena uscita che si chiese quale fosse la vera realtà, e in quale le convenisse restare.

Non appena riuscì a focalizzare la parete che le stava di fronte vide la sua gigantografia e con un sorriso amaro si rese conto che la sua fuga dalla realtà, non si sa quale, era avvenuta molto tempo prima.

Un movimento debole e chiaro, come la luce che proveniva dalla finestra, scosse il letto.

La donna si girò velocemente; una figura maschile, abbronzata, muscolosa, profondamente addormentata le si parò davanti, riempiendole la visuale.

Dovette fare un immenso sforzo per non urlare e non alzarsi di scatto.

Per un attimo, solo per un attimo quella pelle scura, che emanava lo stesso calore, l'aveva confusa, colpita dritta al cuore.

Ma non poteva essere lui! Non sarebbe potuto essere lui neanche se lo avesse voluto. E lei non lo voleva, vero?

Doveva essere così, poteva essere così.

Lei poteva tutto. Minako Aino era una grande star del cinema, conosciuta in tutto il mondo. Poteva permettersi tutti gli amanti che voleva, senza neanche ricordarsi del loro volto e del loro nome.

Per esempio, questo chi era?

Si ricordava solo che lo aveva abbordato in una delle numerose feste che si tenevano nelle serate di Los Angeles, uno dei tanti che facevano parte del solito codazzo sulla scia delle grandi star del panorama di Hollywood. Non era il primo e non sarebbe stato l'ultimo.

David? Marcus? Roberto? Si, Roberto de Vega. Ecco come si chiamava l'uomo. Era un regista alle prime armi che pretendeva la grande Minako Aino nel ruolo della protagonista nella sua opera prima. Che illuso!

Osservandolo per la prima volta poté notare che la pelle scura, i lineamenti del viso, marcati e larghi, il tatuaggio in spagnolo, lo potevano catalogare come di origine messicana, o comunque latina.

Invece l'altro, che per un momento si era sovrapposto a questo nella sua mente confusa dal sonno e dai postumi della festa, anche se avesse passato il suo viso al setaccio non avrebbe mai potuto delinearne un profilo geografico.

L'altro, l'innominabile uomo che nonostante i millenni continuava ad amare, sembrava essere stato senza provenienza, senza genealogia. Nessun accento, nessun carattere fisico o comportamentale che ne potesse indicarne il passato. E il futuro, pensò con rimpianto.

Chissà dov'era adesso. L'ultima volta lo aveva visto su quel balcone illuminato dalla Luna, con Usagi incoronata e Minako dilaniata, dal ritorno di Lui, dal fatto che il legame con la sua migliore amica fosse cambiato, mutato, senza spiegazioni che potessero andare bene o che fossero semplici da digerire.

E con altrettante spiegazioni negate se ne era andata via da lì, per cambiare, per non essere più la sosia di Usagi, la sua controparte quasi identica da usare nei casi di emergenza. Per non essere più Sailor Venus, l'eterno giustiziere che da Londra a Tokyo non aveva fatto altro che combattere contro tutto e tutti. Ora l'unico ruolo che recitava, l'unica parte che accettava, era quella estemporanea e fugace del personaggio di turno, l'unica finzione che era in grado di sopportare.

Una metamorfosi che si sarebbe dovuta compiere a qualsiasi prezzo.

Pensò con sarcastico disprezzo all'uomo che dormiva di sopra mentre con passo strascicante e stanco si dirigeva nel salotto mega tecnologico al piano inferiore.

Sul tavolino davanti allo schermo gigante si potevano ancora notare bicchieri e bottiglie mezze vuote, macchie che si allargavano sul suo prezioso tappeto che proveniva da un posto sperduto in Medio Oriente,per finire con la carrellata dei peggiori vizi hollywoodiani, i resti polverosi e bianchicci di varie sniffate, di Roberto e sue. Non indugiava molto in quella pratica, eppure questo non poteva certo discolparla.

Piegandosi per pulire, il suo riflesso le si palesò molesto davanti.

Maledizione! Era sempre lei, ancora identica alla ragazza che era in Giappone, era ancora identica a se stessa.

Non un solo mutamento, un segno che il tempo fosse passato, che le azioni che aveva messo in pratica contro se stessa per se stessa avessero lasciato un'impronta, un orma, un ringraziamento, una punizione.

Si buttò sfinita sul divano. Una volta aveva letto un libro, Il ritratto di Dorian Gray. Beh, quel tizio era stato dannatamente fortunato. Non perché il suo alter-ego nel dipinto assorbiva le sue nefandezze e scelleratezze, ma perché almeno quel dipinto era la prova della sua trasformazione, della sua evoluzione, anzi involuzione, che nel bene o nel male voleva dire che era vivo, che agiva attivamente sul proprio destino. Lei non aveva nemmeno questo. Non le era stata inflitta neanche quella penitenza.

I secoli sarebbero passati e lei sarebbe rimasta sempre giovane e bella. Fuori.

C'era un senso di ingiustizia in tutto quanto, l'ombra scura di una di quelle creature che aveva eliminato per anni. In questo caso però era dentro di lei. Era lei. Minako Aino la super diva.

Si passò la mano sui capelli sciolti. Da quando non metteva più il nastro rosso di una volta?

Frugò freneticamente nel suo armadio disturbando il sonno del regista cocainomane nel suo letto.

Lo trovò in fondo, nella zona più sperduta di quello che sarebbe potuto essere un piccolo salottino se non avesse ospitato tutti i suoi vestiti.

Se lo rigirò tra le mani, quasi estasiata di quanto fosse ancora morbido al tocco. Neppure questo era cambiato come la sua proprietaria, sebbene, e fortunatamente, la sua essenza, a differenza di lei che si sentiva marcia e corrotta dentro, fosse splendidamente intatta.

Ora più che mai, con quel brandello color sangue tra le mani si sentiva vulnerabile, in balia della nostalgia del passato. Come un acrobata che si affanna a non cadere nel vuoto e con gli occhi puntati verso l'altra sponda, che lui crede la salvezza, aveva anche lei barcollato per 21 anni, sospesa e tesa verso un obbiettivo che adesso, alla luce dell'alba di quel giorno speciale, sembrava così effimero, fallace, ingannevole, simile ad un paesaggio maestoso e senza limiti che poi si rivela uno scenario di cartone.

Se allora la sua meta, la sua sponda, la sua ancora era illusoria, che cosa era reale? Cadere nel vuoto?

E una sensazione di voragine e di panico si spalancò davvero in lei quando due braccia muscolose la avvolsero e sentì un sonoro bacio schioccante sulla guancia.

Buongiorno Minacio, come stai amore mio?”

Come si permetteva quel balordo? Che cosa stava facendo? E per il sacro monte Fuji che cosa stai facendo lei?

All'improvviso, una rabbia cieca si snodò e si annodò contemporaneamente in lei, come se un fiocco rosso interiore che non sapeva di avere la stesse strozzando in una stretta di dolore e piacere.

Io mi chiamo Minako! Hai sentito pezzo di idiota? Mi-na-ko, e sono ancora qui, dopotutto.”

Con una forza che non sapeva di avere e che avrebbe suscitato l'approvazione di Makoto, lo spinse fino alla porta, ancora mezzo nudo, che protestava in inglese e spagnolo.

Dopo che ebbe buttato fuori tutto di lui, dai vestiti spiegazzati ai rimasugli sul e dentro il suo corpo con una doccia, si diresse verso lo specchio.

Era vero, era ancora lì. In tutta la sua stupefacente e giovanile bellezza fisica. Eppure un luccichio negli occhi azzurro chiaro brillava, ostinato e caparbio. Una luce che rifiutava di corrompersi, per quante cazzate lei decidesse di fare.

Cominciò ad applicarsi la maschera come ogni mattina.

E in quel momento tutto, fuori e dentro di lei, tremò.

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Capitolo 3
*** Gli anni in tasca(seconda parte) ***


Parigi Francia, ore 15,00



Tutto sembrava tremare, dentro e fuori.

L'applauso scrosciante che proveniva dalla massa scura davanti a lei faceva vibrare l'intero studio.

I fari abbaglianti delle luci stroboscopiche la accecarono per un lungo attimo, e faticò non poco a scacciare le immagini impresse nella retina come un negativo fotografico, karmico, simbolico.

Quel pubblico che l'acclamava era la sua folla, la sua creatura, la sua dannazione.

Makoto Kino, da ben 21 anni, veniva cibata e cibava gli spettatori che la seguivano, fedelissimi e nutrienti come la migliore delle crème brulée.

Fece alcuni passi avanti nei tacchetti verde pastello che Amélie le aveva scelto quella mattina, quando avevano appurato quali ricette dovessero affrontare durante la puntata.

Era completamente vestita in verde. Non quel verde carico, scuro, smeraldino che ricordava ed indossava tanto tempo prima, ma un verde chiaro, color pastello, che le faceva pensare più ad una casalinga occidentale, disperata o meno, degli anni Cinquanta.

Con un tocco veloce si passò la mano sulla collana di perle, emblema di una domatura portata a termine, e poi passò ai capelli.

Quella era la differenza più sostanziale, a cui ancora non si era abituata. Per quanti anni fossero passati, per quante volte avesse ripetuto quel gesto nella speranza mai ammessa che fosse tutto un sogno, continuava a sentire, a percepire, a desiderare la sua lunga coda riccioluta.

Ma ogni volta incontrava solo il vuoto, lo stesso vuoto d'aria che si formava sempre nel suo stomaco il primo minuto che entrava in uno studio davanti alle telecamere.

Così le dita si allungavano, si tendevano ad incontrare una crocchia rosso ruggine stretta e compressa, una morsa che si allungava e si tendeva fino alla sua gola e oltre.

Finalmente la macchia confusa e nera divennero volti e bocche. A quel punto, in quel preciso punto del palco in cui poteva vedere che la creatura d'ombra davanti a lei si era frazionata, dipartita nella più famigliare forma di persone, di uomini e donne, allora poteva respirare liberamente.

Era davvero reale. Era reale davvero.

In quei 21 anni non aveva agognato altro. Il suo sogno, la sua più grande ambizione si era avverata e sapeva solo lei quanto aveva dato in cambio.

Pensò al Giappone, pensò a se stessa come giapponese. Tutta la forza, la durezza, il coraggio, la temerarietà che la caratterizzavano, tutta la spigolosità racchiusa nei caratteri katakana che aveva usato nella sua adolescenza, tutta la caparbietà che entrava dentro di lei come un fulmine in un cielo sereno, tutto questo era stato rinunciato.

Proprio così. Era stato rinunciato.

Ogni aspetto di lei che prima l'aveva aiutata a sopravvivere a mostri e catastrofi, ora si era staccato, volontariamente e coscientemente, senza rancore o rimorso apparente. Da solo. Era stato rinunciato; come se sapesse che lì, in Francia, nella sua nuova vita, nel suo sogno realizzato, non sarebbe più servito.

E come sarebbe potuto essere il contrario?

Aveva imperniato la sua nuova esistenza su tutto ciò che era dolce, morbido, tenero, arrendevole.

Ciò che prima mordeva, addentava, pungeva come una rosa spinosa, adesso si compiaceva di essere smembrato, dilaniato dal quel pubblico sadico, senza pietà proprio in virtù della sua amorfosità, della sua sovrana mutevolezza.

Oggi gli indici di ascolto potevano premiarti, domani ti potevano affondare.

Tu dovevi dargli ciò che chiedeva; nel suo caso, dolci a profusione, in ricette talmente astruse che non sarebbero mai state eseguite dalle casalinghe che la guardavano.

La parte ribelle di lei in Francia non sarebbe mai durata. Non avrebbe mai potuto portare a termine l'Istitut National de la Boulangerie Pàtisserie, non avrebbe mai potuto arrotondare talmente le vocali di quella lingua strana, ne avrebbe mai potuto pensare a Suave Douceur come nome per il suo programma.

Aveva dovuto reinventarsi, rimodellarsi, riplasmarsi in una nuova nazionalità, per trarne forza e rifugio.

Poiché in un giorno di 21 anni prima quella che si faceva chiamare Sailor Jupiter, la guerriera del coraggio e della protezione, aveva perso entrambi.


Ci vuole proprio coraggio per non assaggiare un dolce simile. Credetemi, io l'ho provata ed è una vera delizia!”

Claudette, la co-conduttrice, era già vicino al bancone e stava arringando il pubblico, come un avvocato che cerchi di convincere una giuria.

Era la solita prassi, di ogni puntata. Si cominciava con quel senso di aspettativa, poi lei si metteva a cucinare mentre la bionda francese che le era stata affibbiata e che non aveva mai sopportato parlava, e parlava, e parlava; e sorrideva, sorrideva, sorrideva, nel suo incessante chiacchiericcio che doveva essere la cronaca di quello che Makoto stava eseguendo.

Come stava appunto pensando poco prima, il suo sogno si era avverato ma con un prezzo altissimo, compreso sopportare Claudette.

Oggi la nostra Makoto, che ricordiamo viene direttamente da Tokyo, ci preparerà il dolce alla menta. Non fatelo se volete dimagrire!”

Makoto trattenne un brivido di piacere, e un impulso mostruoso a colpire Claudette con un pugno al contempo.

Come al solito, non appena poteva, quell'oca sottolineava la sua provenienza, come se questo fosse il peccato più grave mai commesso. Come poteva un'orientale, una che mangiava sempre pesce crudo, capirci qualcosa della sofisticata cucina francese?

Quell'atteggiamento diffidente non era per la prima volta che lo affrontava, e non sarebbe stata l'ultima, solo che quell'arpia ci metteva dentro un sarcasmo del tutto personale che le urtava particolarmente i nervi.

Eppure Makoto aveva trovato il modo per vendicarsi, almeno per quella volta.

In realtà la ricetta del dolce da presentare quel pomeriggio era del tutto diversa, molto più elaborata e complicata, magari con noci che provenivano dal Borneo o pesche della Florida; una scelta della produzione che lei non aveva mai approvato.

Nonostante questo,Makoto quel giorno sentiva che non avrebbe potuto, che non avrebbe permesso che il suo programma venisse usurpato da altri, tanto meno da Claudette. Quel giorno speciale sarebbe stata lei la protagonista assoluta, si sarebbe riappropriata del suo sogno, interamente.

Infatti, Claudette, dici bene! Oggi, care amiche che mi state guardando, vi farò vedere un dolce semplice e gustoso da preparare per le vostre amiche, per i vostri figli e anche per la persona che amate. Ma soprattutto per voi stesse!” si mise un grembiule e cominciò a stendere una pasta sfoglia in una teglia, ”se in una giornata piovosa, o quando siete tristi e sole e volete consolarvi, allora prendete la crema di nocciole e quella al cioccolato bianco. Poi spalmatela sul fondo della pasta. Ecco così!” Con gesti rapidi e veloci, e senza il timore di sporcarsi, Makoto si cimentò nell'operazione, con Claudette che la guardava con un misto di rabbia e di languore che si sforzava inutilmente di nascondere.

Ora amiche mie, dovete solo prendere qualche pancake e imberlo ben bene nella nostra menta fresca e verde brillante. Vi consiglio di inzupparlo molto se volete che si senta il sapore. E a noi non piacciono le cose insipide e scialbe, vero?” Guardava la folla ma si rivolgeva alla bionda che non smetteva un attimo di osservarla in cagnesco. “Successivamente posizionate i nostri succosi pancake sulla pasta sfoglia con il cioccolato bicolore spalmato sopra e...”, cosa stava accadendo maledizione?

Makoto si sentiva le mani appiccicose e verdi. Le guardava e le riguardava, e in un colpo solo mille anni erano spariti, cancellati.

Si trovava di nuovo sulla Luna, sul Lacus Gaudii, con quelle stesse mani, appiccicose e verdi di sangue, il sangue dell'uomo che aveva amato e che nonostante tutto continuava ad amare; il sangue che era sgorgato dalla ferita mortale che gli aveva inflitto, che lo aveva liberato e condannato insieme, assieme a lei.

Doveva riprendersi! Era qui, nel presente, in Francia. La Luna era lontana, lontana come la sua Usako che non vedeva da anni, che non proteggeva da anni.

Scusatemi amiche mie, mi ero distratta un attimo! Ora la parte finale. Richiudete il nostro fagotto con un'altra pasta sfoglia preparata in precedenza e mettetelo nel forno fino a quando non vedete che è pronto. Mi raccomando, per una buona cottura fate prima dei buchetti con una forchetta, per fare respirare il dolce!” E anche lei doveva respirare.

Si sentiva come se le pungesse la gola mentre la crocchia in testa sembrava stringersi sempre di più. Che Amélie le avesse messo troppe forcine?

Alzò la testa e vagò con gli occhi per lo studio. Si sentiva osservata, il che era strano perché era su un palco con milioni di telespettatori che la guardavano.

Eppure si sentiva osservata, dentro l'anima, da qualcuno che poteva vedere dentro di lei fino ad arrivarci davvero alla sua anima.

Sopo quando prese coscienza di questo si rese conto che lo aveva sempre saputo, che lui era sempre stato lì, per tutta la puntata, per tutta la sua vita in quel paese straniero. Era stato lì, a vegliare su di lei per tutti quei 21 anni.

L'uomo con i capelli rossi e la cicatrice sulla guancia era tornato, così come era tornato l'altro che però non si era mai fatto vedere. Uno presente e l'altro assente, ma mentre quello presente aveva fatto di tutto per nascondersi quello assente, l'uomo che amava le stelle, non aveva mai lasciato la sua mente, per quanto Makoto facesse per dimenticarlo.

Ganimede appuntò le sue iridi nere su quella che una volta era una principessa e un comandante, e Makoto Kino, per tutta risposta svenne.


Tokyo, Giappone, ore 23,15


Se non avesse mangiato qualcosa sarebbe svenuta.

Hotaru Tomoe era completamente distrutta; dalla giornata faticosa di una tipica infermiera all'Aiiku Hospital, dal fatto che era tardi e non aveva messo niente nello stomaco da ore, dall'incontro che aveva avuto quel pomeriggio. Un incontro che cercava e temeva ogni volta.

Appena entrata nel suo appartamentino si accorse che non era sola; non perché vedesse una figura distinta o per un brivido di paura e pericolo. No, aveva sentito riannodarsi dentro di lei quel filo, caldo e pieno di tepore che sentiva sempre quando era con le sue compagne, un legame a cui aveva sempre pensato, sempre aspirato, in ogni sua breve e fugace apparizione in quel mondo per cui nata per distruggere.

Le piacevano le lampade! Hotaru Tomoe ne era una collezionista, di quei paralumi così belli e discreti nella loro luminosità.

Uno di questi, quello che proveniva da un negozietto di Firenze, era acceso, e dava alla stanza un chiarore fioco ed evasivo. Proprio come la persona che se ne stava seduta comodamente su una poltrona, dall'altra parte della stanza, completamente in ombra.

Dovresti mangiare di più Hotaru-chan, sei pallida!”

Setsuna Meiō, o la sua voce ad essere precisi, bucò le tenebre che la circondavano e fece sorridere la ragazza con il i capelli neri come gaietto.

Era quello che stavo per fare...vuoi farmi compagnia?”

Non ho molta fame, e poi sono preoccupata per te. Sembri sconvolta!”

Gli occhi viola di Hotaru si socchiusero. A Setsuna-san era impossibile nascondere qualcosa.

Ci fu un clic e poi l'abat-jour vicino alla poltrona su cui era seduta la Signora del Tempo si accese e illuminò la sua figura.

Improvvisamente, e solo in quell'attimo, la ragazza si accorse di quale legame, di quanta affinità ci fosse fra quella che era Sailor Pluto e le tenebre.

E di quanto altrettanto distacco da esse.

Sembrava quasi che non fosse stata la luce della lampada a permettere di vedere il suo profilo deciso e bellissimo, ma che fosse invece l'oscurità medesima, che prima la nascondeva, a delinearne ora le fattezze, continuando tuttavia a rimanere intorno a lei, a delimitarne i contorni, come se ne fosse attratta e, certamente dalla sua forza interiore, respinta contemporaneamente.

Perché sei venuta qui?” il tono di Hotaru era diventato più piccato e seccato di quando avesse voluto.

Sai perché sono qui, sai per chi sono qui. Sai per chi siamo qui, tu ed io. Per la stessa persona che ti ha sconvolto, la stessa persona che ti fa tanta pena e per cui ti dai tanta pena.”

ChibiUsa.”

Setsuna annuì in silenziò, e il buio si diradò un poco, come se quel nome puro e innocente lo avesse spaventato, lo avesse sfidato.

Oggi lei e Usagi sono venute in ospedale per incontrare Mamoru. A volte lo fanno. Credo che Usagi voglia accertarsi che suo marito non si allontani troppo.”

Mamoru è più lontano di quanto lei pensi; di quanto lei, e lui, sopportino. Non dovremmo impicciarci del loro matrimonio, ma se i problemi di Usagi e Mamoru dovessero protrarsi e compromettere il futuro di Crystal Tokyo saremo costrette ad intervenire.”

Hotaru si buttò, anche se con la solita grazia che la contraddistingueva, sulla poltrona davanti alla donna dai capelli scuri come alghe.

ChibiUsa però mi inquieta. Proprio così, mi inquieta. La bambina capricciosa, diffidente e triste che ho visto oggi non è più la ragazzina solare che ho incontrato un giorno ventoso di 23 anni fa nel parco. E che rimpiango.”

Ti sbagli. Non lo è ancora. Quella che tu hai visto oggi assomiglia più al Coniglio, il soprannome che le avevano dato, e che le daranno i Black Moon. Ed è davvero un coniglio, un essere spaventato, sempre all'erta, in attesa di qualcosa.” Setsuna si interruppe per schiarirsi la gola da un rantolo sospetto. “ Quel qualcosa che troverà nel suo viaggio nel passato, quando incontrerà, e comprenderà, il passato dei suoi genitori. Il passato di se stessa.”

Di che stai parlando Setsuna? ChibiUsa ha già fatto quel viaggio, i Black Moon sono già stati sconfitti!”

Certo, sono stati sconfitti nel 30° secolo, grazie a Small Lady e al suo viaggio temporale. Non solo. Dopo quella vicenda ChibiUsa è riuscita a trasformarsi, ad avere dei poteri, ha contribuito nella faccenda del Death Moon Circus in maniera determinante.”

Una pausa, e poi la voce ieratica, ultraterrena della Guardiana del Tempio prese il posto di quella comprensiva, umana di Setsuna Meiō.

Small Lady rimarrà tale per altri 900 anni, racchiusa nel suo corpo di bimba,” ad Hotaru sembrò quasi una maledizione, anche se non c'era niente di più lontano da quello che Sailor Pluto provava per la sua protetta, ”durante il periodo di massimo splendore di Crystal Tokyo ribelli provenienti da Nemesis attaccheranno la nostra patria e ChibiUsa, per salvare sua madre tornerà nel 20° secolo per trovare Sailor Moon e il Cristallo d'Argento del Passato.”

Per la prima volta in quella sera speciale gli occhi di entrambe le donne si incontrarono; occhi viola spaventati e ormai consci di una terribile verità, e occhi color malva che ormai quella terribile verità l'avevano accettata da un pezzo.

Solo nel 30° secolo i Black Moon saranno sconfitti, solo nel futuro la Sailor Moon del passato, la ragazzina di 14 anni di un tempo prenderà consapevolezza del suo regale dovere, solo tra 900 anni ChibiUsa potrà crescere, sbloccando se stessa dalle sue paure con...”

Con la tua morte.”*

Setsuna Meiō ritornò in tutta la sua presenza, in tutto il suo dolore.

Già.”

Si alzò e andò alla finestra. La Luna era piena, bianca, tonda come un sorriso. Un sorriso che sapeva di lacrime. Lacrime amarissime.

Quando Demand cercherà di fare entrare in contatto il Cristallo d'Argento del Passato e il Cristallo d'Argento del Futuro che verrà trafugato da Small Lady io interverrò fermando il tempo. E morirò. Solo così la ragazzina che hai incontrato nel parco 23 anni fa potrà esistere. Solo così il potere latente della mia piccolina potrà uscire e permetterle di perdonare suo padre, di perdonare sua madre, di perdonare se stessa. Solo con il mio sacrificio lei potrà crescere.”

Le sue labbra si incurvarono dolcemente in un piega rara nel suo volto, quasi allegra. ”Un prezzo modesto da pagare, non ti pare?”

Quindi stai affermando che noi Guardiane dovremmo lasciare che i Black Moon prendano il potere su Nemesis e sferrino un attacco a Crystal Tokyo nel 30° secolo?”

Non solo, gli antenati della Famiglia Nera stanno già calcando il suolo terrestre. Sono in mezzo a noi, forse anche in Giappone. Non sanno che sono portatori della piaga che ci metterà in ginocchio tra 900 anni e forse non lo sapranno mai,” Setsuna sospirò pesantemente, come se l'intero mondo fosse sulle sue spalle, ”si Hotaru-chan, dobbiamo lasciarli sguazzare impunemente nelle loro ideologie terroristiche e malvagie. Perché c'è in gioco non solo il futuro e il presente ma anche il passato!”

Comincio a capire quello che vuoi dire. Si chiama paradosso temporale, vero? Se ChibiUsa non avesse avuto motivo di venire nel passato, se i Black Moon non avessero mai attaccato la nostra patria, lei non avrebbe mai conosciuto Usagi, e Mamoru, e me. E non mi avrebbe mai salvato.”

Hotaru si strinse nello scialle giallo arancio che si era messa addosso durante la conversazione. Era una serata fredda, gelida, dentro e fuori l'anima. Di entrambe.

Forse Mistress 9 avrebbe preso il sopravvento e io avrei distrutto le Terra!”

Setsuna-chan si sporse fino a toccare la sua mano. ”No, non sarebbe mai avvenuto questo. Tu sei, e rimarrai Sailor Saturn, la guerriera che porta alla rinascita.”

Hotaru la guardò con gratitudine ma anche con un cipiglio fermo, comicamente deciso e pronto a tutto.

Prima non mi hai risposto. Perché sei qui?”

La sua compagna appoggiò le mani sulle ginocchia per alzarsi di nuovo, stancamente. Ma stavolta non si diresse alla finestra per osservare la Luna, ma andò verso il televisore che aprì di malavoglia. Sulla rete nazionale, a quell'ora tarda avrebbero dovuto trasmettere film, o programmi per adulti, invece c'era un'edizione speciale del telegiornale con i sottotitoli che capeggiavano in rosso.

Per chi si fosse perso la prima parte del nostro speciale vogliamo ricordare che la redazione seguirà minuto per minuto l'evento più spettacolare degli ultimi anni. Il fenomeno, che tutti gli scienziati del mondo stanno monitorando dovrebbe avvenire tra circa dieci minuti. Siamo in collegamento sia con Mauna Kea alle Hawaii che con l'Osservatorio Astronomico Nazionale Giapponese a Mitaka e...”

Setsuna abbassò il volume fino a che le persone nello studio sembrarono personaggi di un film muto. Il timer sulla parte alta a destra dello schermo segnava le 23,35 mentre un piccolo ma inesorabile countdown si portava via i secondi e la tranquillità dal volto della Signora del Tempo.

Per questo sono qui. Ecco, credo che ci sia una piccola complicazione.”

Hotaru era scettica. Quando Setsuna-san parlava di complicazioni poi il mondo era sempre in pericolo.

Ma ancora possiamo aspettare,” scrutò in giro per la stanza, esaminando ogni dettaglio, ogni particolare per ricavarne una trama lunga 21 anni.

Parlami di te. Sei ancora un'infermiera?”

Hotaru-chan roteò gli occhi con un'aria melodrammatica e sbuffò sonoramente.

A me piace il mio lavoro e non ho nessuna intenzione di cambiarlo. Il medico lo lascio fare a Mamoru-chan, lui è nato per quello.”

Mamoru-san è nato per essere re.” il tono era lapidario, con una venatura di malinconia e di un sentimento represso e non corrisposto, la cui natura Hotaru, sia per il carattere schivo di ambedue sia per le implicazioni titaniche che ne sarebbero derivate, non avrebbe mai sondato.

Anche Amy-san è nata per salvata vite, eppure adesso comunica solo con i morti.”

Setsuna afferrò il telecomando ma prima di spingere il tasto per alzare nuovamente il volume affermò, con la stessa certezza delle sue altre profezie: ”A volte ci si rivolge ai morti per parlare ai vivi.”


Darmstadt, Germania, ore 15,30


Le due persone si lasciarono il freddo e il vento di quell'inverno che non voleva finire fuori dall'ingresso che immetteva nella gigantesca struttura.

L'edificio che ospitava la sede dell'Agenzia Spaziale Europea si estendeva in orizzontale sulla Robert Bosch Strasse, e le molte bandiere di varie nazionalità garrivano nella tempesta che si era abbattuta sul sud-ovest della Germania.

Pioveva a dirotto e le due strane figure, una alta e allampanata, l'altra piccola ma dal portamento fiero ed eretto, avevano i soprabiti completamente bagnati e pieni di goccioline che risplendevano sotto le applique che costellavano i soffitti degli innumerevoli corridoi della base. Quelle luci rendevano i capelli scuri della donna di una sfumatura quasi turchina, e l'uomo che l'accompagnava la guardava di sottecchi affascinato e perplesso.

Passarono numerosi controlli fino ad arrivare ad una porta a due ante, ultramoderna e trasparente, al di la della quale si potevano notare varie persone che si affaccendavano dietro diversi monitor e computer.

L'ennesima guardia all'entrata li fermò per controllare il loro pass.

Buon pomeriggio Herr Ōzora, come va? Questo tempo non aiuta di certo!” si era rivolto all'uomo dai capelli chiari con un evidente tono amichevole, segno che era una faccia conosciuta in quell'ambiente. Inoltre la conversazione si svolse in tedesco, anche se la guardia non poteva sapere che la donna il tedesco lo parlasse frequentemente da 21 anni.

Hai ragione Karl, ci avrebbe proprio danneggiati se non fossimo già partiti penalizzati rispetto agli asiatici e agli americani. Pazienza, vorrà dire che osserveremo il fenomeno con XMM-Newton e in diretta dalle Hawaii.”

Prese la donna per il gomito, come se avesse fretta di portarla dentro, ma Karl fu irremovibile.

Il suo pass grazie!”

Stavolta aveva usato l'inglese, la lingua ufficiale lì dentro in quel crogiolo di persone provenienti da tutto il mondo.

Ummm, Mizuno. Amy Mizuno. Va bene, tutto a posto, potete passare.”


Puoi passare Amy! Ehi ma mi senti?”

La donna dai capelli corti si riscosse improvvisamente dallo stato di torpore che la invadeva da quella mattina.

Appena si era alzata e aveva visto i nuvoloni neri che minacciavano l'orizzonte si era resa conto che quella giornata era speciale.

La sua compagna di viaggio, Helda-san, professoressa di biotecnologia all'Università di Stoccarda e sua collega e amica da molti anni, le stava facendo un cenno per avanzare nella fila che si profilava davanti al buffet della colazione che offriva l'albergo.

Quel viaggio a Darmstadt si stava rivelando molto più faticoso del previsto. Il maltempo e il pensiero sgradevole di avere rimandato un sacco di impegni che poi si sarebbero accumulati sulla sua scrivania, e per ultimo anche la sensazione di qualcosa di strano nell'aria,l a rendevano estremamente nervosa e agitata.

Eppure lei era sempre stata la più tranquilla del gruppo, quella che manteneva la calma anche nelle situazioni più aggrovigliate.

Con il suo minicomputer, il suo cervello superdotato e una buona dose di buonsenso riusciva sempre a risolvere i problemi delle sue compagne, a risolvere i problemi per combattere contro chi voleva distruggere il mondo, a risolvere i problemi di se stessa e dei dubbi che potevano attanagliare una ragazzina di 14 anni con tante ambizioni e un destino da guerriera.

Ma ora, a metà di quel pomeriggio scuro e tetro le sembrava quasi di non poter pensare con la dovuta lucidità, con il solito raziocinio che in quei 21 anni aveva perfezionato, limato, acuminato come solo Amy Mizuno sapeva fare, fino a farlo diventare duro e secco come il ghiaccio, come l'incisione a Y che praticava sui suoi pazienti.

Perché la ragazza di 14 anni che voleva salvare delle vite, come faceva sua madre, ora invece imperniava tutte le sue energie, tutta la sua fredda passione verso persone che non potevano più essere salvate, almeno non fisicamente.

Amy Mizuno, splendida e famosa ricercatrice, nonché detentrice di una cattedra in biologia all'Università di Stoccarda era anche un famoso medico legale, che collaborava con la polizia per risolvere i casi più macabri e difficili, ma che dedicava la stessa attenzione, la stessa perizia alla vecchietta che era stata trovata morta dopo tre settimane in casa senza che nessuno, compreso suo figlio, se ne fosse accorto o ne avesse denunciato la scomparsa.

Ripensando a quel caso, si ricordò che dall'autopsia aveva rilevato che la donna era caduta, forse per prendere qualcosa da un armadio o per dare da mangiare ai suoi due gatti, ma era morta solo cinque giorni dopo di disidratazione.

Non sapeva perché un episodio simile le si fosse affacciato alla mente proprio quel giorno, ma le metteva addosso un senso di disperazione che neanche il più atroce dei delitti le avrebbe ispirato.

Lei non era molto diversa da quella vecchina, lei non era molto diversa da un essere solo e abbandonato a se stesso.

Un po' come lo era stata prima di conoscere Usagi, quando passava per i corridoi del liceo senza che nessuno le chiedesse come stava, o se volesse dividere il pranzo con lei. Ed in entrambi i casi era soltanto responsabilità sua.

Ma se prima poteva dare la colpa alla sua timidezza, al suo carattere introverso, ora non aveva scuse.

Si era autoesiliata, confinata nella sua torre d'avorio, fatta di libri, formule matematiche, cadaveri da aprire e capire, tutto nella speranza che ci fosse una maniera per difendersi nel suo castello medioevale con tanto di fossato, e nel contempo essere pronta all'attacco, quando questo fosse certamente avvenuto, per opera di due occhi verdi come zoisiti, verdi come quelli di un gatto che gioca con il suo topo preferito.

Ed Amy non era una persona che se ne stava ad aspettare impotente senza erigere delle barricate spesse e invalicabili.

Una come Amy Mizuno prendeva in considerazione tutte le possibilità, tutte le strategie attuabili e sceglieva la migliore.

Quella di essere e rimanere sola ed abbandonata come quella vecchina era la migliore; lo era stata 21 anni prima e continuava ad esserlo.

Rifletteva su questo mentre passeggiava per le vie di Darmstadt, e non si accorse dell'uomo che la fissava da un pezzo dalla vetrata di una caffetteria.

Poi un rumore di passi la raggiunge, un rumore innocuo che neanche le fece voltare la testa se una voce, una voce stranamente famigliare non l'avesse chiamata per nome, in giapponese.

Ehi sei proprio tu! Mizuno-san vero? Amy Mizuno.”

Si voltò più per la lingua che aveva usato, una lingua che non sentiva da anni ma che usava spesso per richiamare alla mente le formule o i teoremi matematici più difficili.

Tutto si aspettava, ogni faccia del suo passato in quei pochi secondi venne presa in considerazione, ma lui proprio non rientrava nelle statistiche.

"Ōzora-san!”

Kakeru Ōzora era lì, davanti a lei, certamente invecchiato in quei 23 anni che non si vedevano ma sempre lo stesso, con i capelli chiari e l'espressione di eterno sognatore che ricordava e che, in quel momento, invidiava.

Per il sacro Monte Fuji sei bellissima come ti ricordavo!”

Anche tu stai molto bene, davvero!” Certamente stava meglio della prima volta che lo aveva visto, quando lei e le altre lo avevano soccorso in mezzo alla neve, dopo il suo viaggio oniricamente reale in uno spazio, anzi nello spazio in cui lui non sarebbe mai potuto andare, e che Luna gli aveva invece regalato, gli aveva sacrificato.

Dopo quell'episodio avevano continuato a sentirsi ogni tanto, soprattutto lei che a volte lo andava a trovare, quando era in Giappone con la sua fidanzata Himeko, per parlare di astronomia e di ingegneria spaziale.

Senti, io stavo bevendo un caffè mentre aspetto il gran momento, perché non vieni anche tu? Sarai eccitata quanto me, non è così?”

Ed in effetti Kakeru sembrava l'euforico, giovanile ragazzo che aveva conosciuto tanto tempo prima, lo stesso ragazzo che contro ogni teoria accreditata dai migliori astrofisici credeva che sulla Luna ci fossero creature intelligenti, e che avrebbero potuto comunicare con noi se solo le avessimo ascoltate.

Senza attendere una sua risposta la portò quasi di peso dentro il locale e la fece sedere al tavolo.

Due Sachertorte e due caffè forti, molto forti, grazie.” Dopo che ebbe ordinato anche per lei dedicò tutta la sua attenzione alla donna che gli stava davanti.

Mamma mia, sei uguale all'ultima volta che ti ho vista! Se così non fosse non ti avrei immediatamente riconosciuta. Dimmi tutto, come stanno le altre tue amiche? Non ricordo i loro nomi, manco dal Giappone da tanto quindi perdonami! Allora, la bionda con i codini me la ricordo, Usagi giusto? E' la ragazza che possiede, no anzi dubito che ci sia qualcuno che possa possedere una creatura tanto straordinaria......è l'amica di Luna, no?” Kakeru-san interruppe quel fiume in piena con una diga improvvisa e improvvisata, una smorfia di disappunto, come se non tutti i conti con il passato fossero chiusi, ermeticamente sigillati; un'espressione che lei aveva ogni volta che guardava il suo minicomputer.

Stanno tutte bene, anche Luna. Però è da molto che non li vedo. Con le lezioni all'Università e il mio lavoro......”

Sei un medico come avevi sempre desiderato?”

Amy cominciò ad affettare la Sachertorte come se dissezionasse il cadavere di un serial killer.

Si, sono un medico!

Grandioso! In quale branca ti sei specializzata? Medicina interna? Chirurgia generale?”

Medicina legale.”

Ah.”

Scese un silenzio imbarazzante; le conversazioni in tedesco degli altri clienti avevano preso il posto dei suoni giapponesi, che però rimasero nell'aria come bolle di nebbia.

Kakeru-san stava per dire qualcosa ma si era trattenuto con una certa fatica. Uno come lui, che era andato contro la comunità internazionale degli scienziati per difendere le sue opinioni, ora si stava sforzando di andare contro la sua natura. Una natura che non poteva prescindere dal dire sempre quello che pensava. Ma poi, per un motivo misterioso, decise di cambiare idea.

Mi dispiace, forse non ti piacerà quello che ti dirò ma non posso farne a meno. Hai tutto il diritto di arrabbiarti, in fondo non ci vediamo da anni e non sono il tuo migliore amico, anche se mi piaci, mi piaci molto Amy Mizuno.”

Dimmi pure, ma quello che dirai non potrà mai scalfire le mie convinzioni, ne le mie decisioni.”

Si, è giustissimo. ”Fece una pausa, e tossicchio come per provare se la voce gli tenesse.

Andrò dritto al punto. Ebbene, non capisco come una persona come te, con una volontà, uno spirito, una forza interiore così forte, così dedita agli altri esseri viventi, possa avere scelto una strada che porti solo in un freddo obitorio. Tu sei un medico, un medico che cura, che guarisce le persone, quelle che hanno ancora una speranza. E i morti non ne hanno più, hanno perso tutto.”

Ma non il rispetto, e la possibilità che qualcuno parli per loro. E poi i morti con cui ho a che fare almeno non possono ritornare.”

Kakeru era trasalito. ”Ma che dici? Tutti i morti non ritornano!”

La donna che gli stava di fronte e che aveva aperto la Sachertorte facendone uscire un liquido grumoso e arancione, sorrise di un sorriso irreale, quasi grottesco se la bellezza e la purezza di quegli occhi azzurri come ghiaccio alla deriva non lo avessero mitigato.

Fidati Kakeru-san, alcuni morti ritornano, e quando lo fanno sono i vivi a pagare.”

L'uomo abbassò la testa, senza rispondere. Amy-san era molto cambiata. Non fisicamente, ma dentro lo era eccome. Nonostante questo però lui non poteva rimproverarle nulla, ne giudicarla.

Chi era Kakeru Ōzora per criticare una paladina della giustizia? Lei e le sue amiche lo avevano salvato, anzi avevano salvato tutta la Terra dall'essere freddo che era stata Kaguya. Ma ora Amy aveva deciso di non salvare più nessuno.

Hai detto che stai aspettando qualcosa quando ci siamo visti. Di cosa parli?”Amy stava cercando di rimediare, di alleggerire la tensione che lui aveva contribuito a creare impicciandosi di questioni non sue.

Pensavo che fossi qui anche tu per lo stesso motivo. Una scienziata come te non avrebbe faticato ad ottenere un pass per l'ESA.”

No, non ho niente a che fare con l'Agenzia Spaziale Europea. Adesso mi dedico solo alla biologia e alle sue varie ramificazioni e uso più il microscopio per guardare l'infinitamente piccolo piuttosto che il telescopio per l'infinitamente grande.”

Forse è questo il problema, cara Amy. Ma non lo disse ad alta voce, non avrebbe fatto lo stesso errore.

Io invece guardò sempre verso l'alto, sopra di me!” il suo sembrava quasi un rimprovero che Amy-san incassò con quella sua aria da erudita che sa comunque di essere nel giusto.

Comunque mi pare di capire che non sai niente del fenomeno di questo pomeriggio. Sarà eccezionale, imperdibile. Perché non vieni con me all'ESA? Vedresti qualcosa di unico e di irripetibile.”

L'entusiasmo di Kakeru era contagioso, o forse era il fatto di tornare a parlare nella sua lingua madre che la rendeva così elettrizzata, eccitata come quando entrava in una libreria nuova.

Di che si tratta? Non sono molto aggiornata sull'argomento e gli ultimi giorni li ho passati con gli appunti per la lezione di domani alla Technische.”

Gli occhi dell'uomo ammiccarono mentre si sporgeva con un'aria da cospiratore verso di lei per non farsi sentire dagli altri avventori, nonostante parlasse in giapponese.

Di uno scontro fra titani.”


*Questo argomento l'ho approfondito nella one-shot Il complesso di Elettra, che spiega dettagliatamente i fatti che ho ripreso dal manga.

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Capitolo 4
*** Impatti ***


La stanza era piena di nebbia.

Ma non era una stanza come tutte le altre. Non era una nebbia come tutte le altre.

Usagi volse lo sguardo da destra a sinistra, da sinistra a destra, e quello che vedeva erano pareti di un fragile marrone scuro, come quelli di molti locali malfamati di Tokyo in cui Haruka-chan qualche volta la portava, con Michiru che fissava sdegnata gli avventori mezzo ubriachi e i muri impregnati di fumo e di poster pieni di liceali nude.

Gli sguardi di fuoco che la violinista lanciava alla sua compagna per averla trascinata lì divertivano immensamente Usagi, che aveva goduto di quelle piacevoli serate (piacevoli per tutti tranne che per Michiru-san!), anche perché apprezzava gli sforzi di quelle due, soprattutto di Haruka di farla sorridere il più possibile, di farla svagare il più possibile, ora che le sue amiche più care erano lontano, troppo lontano per ricreare quella piacevole compagnia di gruppo che aveva sempre contraddistinto la sua adolescenza di paladina della giustizia.

Sì, Usagi aveva goduto di quelle gradevoli serate, ma non era stata la stessa cosa, non sarebbe mai stata la stessa cosa, quella calda sensazione di unione, di affinità e affiatamento totale che condivideva con le quattro ragazze che erano diventate quasi dei fantasmi nella sua mente. E di fantasmi sembrava fatta quella nebbiolina che imperniava tutta la stanza, di una consistenza che sarebbe potuta risultare, percepire, opprimente se solo non avesse avuto la chiara sensazione che se avesse voluto, con un semplice soffio di fiato, l'avrebbe potuta spazzare via, per sempre.

Sentiva odore di otsunami, e anche di sakè, di sudore maschile e di angoscia sopita a tutti i costi. Proprio odori di una bettola della peggior specie, si disse dentro di se, all'interno dell'Usagi che in quel momento sognava con la consapevolezza di sognare. Un brusio di voci rendeva tutto più realistico e surreale al contempo.

Poi dal nulla, o forse la nebbia si era diradata quel tanto per farle vedere davanti a se, sorse dal pavimento un enorme tavolo da biliardo, uno di quelli che ci sono sempre nei telefilm americani ma che non sono molto comuni in Giappone, una larghissima lastra di ardesia della migliore fattura, lucida, scintillante, come un occhio maligno nell'angolo più buio di una stanza di notte.

Il verde del ripiano in confronto sembrava più acceso del dovuto, un effetto che le provocò un inspiegabile disagio, un misterioso senso di disastro incombente che veniva direttamente verso di lei, nei panni magari della figura immobile dall'altra parte del tavolo, completamente irriconoscibile, interamente grigia come una persona senza lineamenti, come un'anima senza pace.

Eppure c'era qualcosa di scattante, di felino in quell'ombra, qualcosa che le ricordava Haruka-chan, o certe volte anche Makoto. Una potenza latente, che rimaneva sopita fino a quando la persona amata non era in pericolo e questa forza veniva fuori per proteggerla, per custodirla, per amarla meglio, per amarla di più.

Ma non erano nessuna delle due, perché quelle spalle possenti e larghe, quei fianchi stretti e quelle braccia muscolose potevano appartenere solo ad una figura maschile.

E Usagi conosceva solo un uomo che possedesse quella particolare caratteristica, quel particolare dono.

Il volto di Mamoru bucò la nebbia come un faro, il suo faro, il suo eterno punto di riferimento, la sua eterna metà della mela.

Mamoru, il padre di sua figlia, la guardava dall'altra parte di quel tavolo lunghissimo e senza fine; Mamo-chan, l'uomo con cui divideva il letto ogni sera, la squadrava come se non la riconoscesse, o come se non volesse più riconoscerla.

Ma Usagi poteva sbagliarsi. Sì, sicuramente si sbagliava, da una tale distanza quel cipiglio fermo e deciso che aveva sempre nascondeva il profondo amore che aveva per lei, il legame forte come l'acciaio che li univa da secoli e secoli.

Doveva essere così, lei doveva essersi immaginata l'amarezza della piega della bocca, il luccichio freddo degli occhi che non sembravano neanche più di quell'azzurro che l'aveva fatta imbambolare la prima volta che lo aveva visto, che l'aveva fatta innamorare nel medesimo istante in cui aveva guardato nelle iridi del suo alter-ego Tuxedo Kamen.

Per un attimo Usagi tornò nel passato, e si diede della cretina. Come non aveva potuto riconoscere Mamoru nel suo salvatore che interveniva ogni volta in suo soccorso, quando ancora era una paladina della giustizia? Come era potuta essere così stupida e ingenua? A 14 anni si commettono molti errori certo, ma la verità era stata così limpida, così netta, stampata nelle profondità di quel blu meraviglioso che solo una rimbambita come lei non aveva potuto scorgerla subito. Tanto tempo perso che non era stato riguadagnato, nemmeno in quegli anni di matrimonio.

Il rumore di qualcosa che scattava la riporto alla realtà del sogno, e l'istinto e i riflessi di Sailor Moon vennero fuori contro la sua volontà.

La lunga stecca di legno che venne lanciata rabbiosamente verso di lei fu presa prima che la colpisse direttamente in faccia, anche se il contraccolpo la fece vacillare.

Quando Usagi capì che era stato proprio Mamoru a lanciarle quel bolide comprese anche che era stato lanciato ben altro.

Un guanto di sfida, uno schiaffo morale e passionale, una rivincita che aveva aspettato 21 anni per essere dichiarata. Per essere accettata. Da entrambi.


Amy Mizuno sapeva che quella era un sfida e l'aveva accettata.

Kakeru-san l'aveva messa alla prova portandola all'ESA, per vedere quanto lei fosse appassionata, per vedere quanto lei fosse cambiata.

E lo era, ma forse non quanto si aspettava, o forse non dove si aspettava.

Infatti l'amore per l'astronomia, per il cielo nero pieno di misteri da esplorare, da sondare, era rimasto intatto, custodito in una parte di lei, la parte più segreta del fortino che aveva costruito attorno a se stessa,con se stessa, con le sue ossa, con il suo sangue, con il suo preziosissimo cervello pieno di nozioni e formule matematiche, con il suo cuore pieno di paura e nostalgia. Per il passato scritto da un pezzo e per il futuro, scritto e scolpito da ancora prima.

Mentre rifletteva sul perché avesse deciso di seguire l'impulso folle di guardare in alto quando per 21 anni aveva invece solo osservato vetrini e campioni di tessuto anatomico, sentì Kakeru avvicinarsi a lei, accompagnato da altre due persone, uno vestito con una cravatta perfetta e inamidata, polsini accurati e camice immacolato con tanto di logo dell'ESA, e l'altra che era il suo opposto, capelli biondi e arruffati, top al limite della decenza e jeans a vita bassa.

Amy, ti presento il dottor Roger Griffin, della Royal Society di Londra e la sua collega, Angelina Rojas dell'Istituto Nazionale Spagnolo. Fanno entrambi parte del programma che eseguirà le rilevazioni del fenomeno. Li ho voluti nella mia squadra perché sono i migliori, come te.”

Sì, ma io non faccio parte del tuo team. Sono solo un'ospite,”ci tenette a puntualizzare la donna con il caschetto turchino.

Dettagli trascurabili, credimi.” Kakeru sembrava talmente sicuro di se stesso, così a suo agio in quell'ambiente accademico che aveva sempre disprezzato che Amy si chiese chi fosse cambiato di più, se lei o lui.

Piacere Amy, puoi chiamarmi Angie se ti va! Kakeru è sempre così entusiasta, che a volte dimentica che anche gli altri hanno i loro piani e i loro progetti!”

La bionda spagnola, a dispetto del suo nome angelico non sembrava affatto tale. C'era una diffidenza nel suo comportamento, come se Amy avesse invaso il suo territorio, e un po' era così, anche se ciò era avvenuto inconsapevolmente e per colpa non sua.

Greg invece si limitò a darle la mano, molto formalmente e con una stretta ne forte ne debole. Tutto in lui sembrava guardingo, in attesa di fare le dovute valutazioni per potere emettere un giudizio, un atteggiamento tipicamente inglese.

Amy si chiese come Kakeru-san fosse finito con quei due, come avesse potuto scegliere uno snob che se la tirava e una versione antipatica di Haruka in salsa spagnola.

Ma anche lei doveva valutare, prima di emettere le sue di sentenze; magari le loro qualifiche erano così eccellenti da sopperire al resto. E poi neanche lei era un grande esempio di simpatia e socievolezza allo stato puro.

Allora ragazzi, manca poco ormai. Controllate gli schermi e i vari collegamenti con XMM-Newton e Mauna Kea. Voglio che il segnale sia più che ottimo. Angie, tu invece sposta l'obiettivo di Chandra sul quadrante nord-ovest per vedere dove è il nostro amico e se è puntuale per l'appuntamento.” Kakeru sparava ordini a raffica, tutti i colleghi avevano gli occhi appuntati sui monitor dei computer, con i dati che sfilavano, sopra le scrivanie che riempivano la stanza, mentre gli schermi giganti sulla parete più lunga, quelli per le riprese via satellite e dallo spazio, mandavano bagliori rossi, gialli e azzurri, bande colorate che si riflettevano sui volti, sulle facce, come tante maschere di speranza, di paura, di eccitazione.

Ok, ancora pochi minuti ragazzi! Angie, come va con il nostro amico?”

Sempre puntato sull'obiettivo, dritto al bersaglio.”

Bene, meglio così.”

L'uomo aveva la sguardo sollevato, ma Amy poté notare quasi una nota delusa nella sua voce, la stessa di quella di un bambino che vuole vedere i fuochi d'artificio ma invece che colorati e dalle forme complesse, si ritrova con qualche sprazzo di bianco e qualche scintilla, nulla più.

Come ti stavo dicendo al bar, si tratta di un evento molto raro, direi unico. Per la posizione della Luna in questo momento, con un perigeo molto avanzato, un record quasi. E poi anche per il luogo in cui avverrà il contatto. Proprio il quadrante nord-ovest, vicino Demonax, lo vedi?”

Kakeru si piegò verso un computer su una scrivania, spingendo il suo occupante che infastidito dovette farsi più in là.

Qui c'è il limbo lunare,” fece vedere ad Amy la zona così chiamata della Luna vicino ai suoi bordi, ”l'impatto avverrà tra la metà illuminata e quella oscura. Sarà disastroso. Non posso usare altra parola se non disastroso Amy, davvero. Un vero cataclisma di dimensioni titaniche. Erano secoli che sulla Luna non impattava un asteroide di quella portata. 2014-QC è grande più di tre kilometri, 3'272 metri se vogliamo precisare, di puro ferro spaziale, tanto per complicare la situazione.”

Amy sentì gli occhiali scivolarle sul naso e dovette faticare a rimetterli a posto con tutta la nonchalance possibile.

Sei sicuro che sia così massiccio? Un asteroide ferroso di quelle dimensioni sulla Luna è un evento eccezionale, mostruoso.”

Vuoi i dati che abbiamo su 2014-QC? Roger, manda su questo terminale i dati sul nostro amico, e anche la ricostruzione 3D dell'impatto, nonché la versione Armageddon.”

Versione Armageddon? Cos'è?”

Le mani di Kakeru-san tremarono leggermente nel muovere il mouse del computer, poi una fila di dati indecifrabili se non da un esperto, riempirono il monitor di cifre e statistiche.

Sai, quando abbiamo scoperto 2014-QC un anno fa, la NASA e tutte le agenzie spaziali del mondo si erano messe in allerta. Nella scala Torino eravamo arrivati a 8 vista la traiettoria, praticamente una collisione con la Terra era data quasi per scontata. Siamo molto più grossi della Luna, con una maggiore forza gravitazionale. Avrebbe colpito noi, era più che sicuro e stavamo quasi per fare progetti tipo arche di salvataggio per milioni di persone, o cernita di semi e animali per la sopravvivenza delle specie che sarebbero morte. Ma poi ha deviato.” Kakeru scrollò la testa ancora incredulo. “2014-QC ha deviato il suo percorso, e punta alla Luna.”

Amy sentì un brivido lungo la schiena, come di chi è stato appena sfiorato da un proiettile mortale, e lo avesse visto passare radente a sé al rallentatore.

Allora Armageddon è stato scongiurato, no? Fammi guardare queste equazioni.” Non avrebbe mai dovuto dare retta a Kakeru-san. Non avrebbe dovuto farlo!

Riconosceva quella sensazione, l'adrenalina che le scorreva nelle vene, la possibilità di usare dati e cifre per risolvere un problema che minacciava l'intero pianeta.

Amy Mizuno in quel momento si sentiva di nuovo un'eroina!

Fece spostare ancora più in là il sempre più incattivito assistente che occupava quel terminale, il quale decise di alzarsi e di lamentarsi direttamente con un altro membro di quel progetto. Cosa che fece raggiungendo Roger Griffin, che se ne stava da solo ed isolato dal suo mentore per cui nutriva una strana forma di possesso e di adorazione assoluti, mentre questi neanche lo considerava da quando la donna nipponica era entrata li dentro.

Ma chi è quella tizia giapponese? La conosci per caso? Il capo sembra pendere dalle sue labbra, e non ha detto niente quando quella mi ha spinto via dalla sedia!”piagnucolò.

Roger Griffin guardò nella direzione di colei che aveva portato tanto scompiglio, i capelli scuri dai riflessi bluastri che risaltavano su quel collo così esile, eppure fiero, forte, che sarebbe rimasto sempre fermo su se stesso, magari anche rigido, sulle sue posizioni e davanti a chiunque.

Per un attimo l'inglese perse la sua imperturbabilità, gli occhiali che si appannavano leggermente che resero le sigle sui monitor incomprensibili e trascurabili.

C'era qualcosa di misterioso in lei, qualcosa che andava al di là della sua sconcertante bellezza, dello spirito intelligente e arguto che traspariva da tutta la sua persona, dalla fama che si portava dietro.

Sì, Roger Griffin sapeva chi era Amy Mizuno; era famosa in tutta la Germania dopo il caso del serial killer di Bonn che lei aveva contribuito a catturare.

Ma quell'idiota di Jérȏme non poteva saperlo. Era appena arrivato lì da un paese sperduto dell'Alvernia, e si sa che i francesi non vanno mai al di là del piacere del vino, della carne e della bella vita.

Roger Griffin si rimise gli occhiali sul naso, dopo averli puliti ben bene senza tracce di quella caduta di stile e aplomb che non si poteva permettere.

Quel Jérȏme era solo un tecnico, un passacarte pescato per sbaglio. Non avrebbe mai capito lo spirito granitico, profondamente radicato sulla ricerca interiore, magari un po' tetro che condividevano le culture anglo-teutoniche e la lontana eppur vicina tempra giapponese.

Rammollito! Dovrò fare un rapporto a Kakeru per farlo licenziare al più presto.

Al di là di queste considerazioni che facevano perno sulla sua naturale presunzione da membro altolocato della Royal Society e da qualcosa che non voleva sviscerare proprio in quel momento, quel qualcosa che era nato dall'incontro con gli occhi azzurri di Amy Mizuno, Roger Griffin era preoccupato. Ed eccitato.

Sentimenti che sembravano animare chiunque in quella stanza, correnti misteriche e crepitanti che andavano oltre le invidie, le attrazioni, il senso di possesso e il broncio idiota del francesino che aveva l'aria di un cane bastonato.

Non si sarebbe staccato molto presto dalla gamba del suo nuovo padrone, così l'inglese, le mani in tasca e la postura di un soldato inattaccabile, invulnerabile a qualunque nemico, si diresse verso il gruppo principale, la figura della giapponese che si avvicinava, che oscillava, e la sua voce morbida e piacevole che snocciolava stime e dati matematici.

Non importava.

Niente di tutto questo importava, l'apocalisse interiore che si stava srotolando coattivamente come un film al rallentatore dentro la sua testa di scienziato non era niente in confronto all'apocalisse di materia e roccia esplosa che si sarebbe svolto di lì a poco sulle loro teste.

Gli occhiali brillarono maliziosi, e maligni, e diffidenti, mentre numeri scuri e timer inesorabili sfilavano senza posa riflessi su di essi, in uno scivolare altrettanto malizioso, altrettanto malevolo, e di una indifferenza finalmente compiuta e totale.


La maschera di indifferenza che alterava il suo volto era finalmente compiuta, e totale.

Usagi, in qualche mondo alieno a se stessa e alla realtà al di fuori del suo sogno, sapeva che Mamoru aveva covato quell'espressione all'interno di se stesso per mesi, per anni. E aveva infine deciso, lì e proprio lì, di smascherarsi mettendosi quella maschera, per sfidarla, per turbarla, per allontanarla.

Per un attimo la compassione prevalse, perché Usagi sapeva che una buona parte della responsabilità di quel mutamento era imputabile a lei; ma poi il brillio di quel tavolo così verde, e il freddo intenso che cominciava ad insidiarsi nel suo corpo e dentro il cuore, come se la nebbia si stesse raffreddando, solidificando in un blocco di cemento pesante sul suo petto, divennero talmente fastidiosi, talmente frustranti che una collera stranissima, non da lei che era la paciera in persona, dilagò piano, dolcemente. Cerchi concentrici e sottili in un lago che fino ad adesso era stato tranquillo. Troppo.

Che succede Mamo-chan?”

Non avrebbe voluto metterci tanto sarcasmo, ne sentiva addirittura l'eco in quella malfamata distesa desolante e desolata che ne amplificava il tono ironico; ma se l'era cercata lanciandole quella stecca addosso che avrebbe potuto anche farle male!

Gioca.”

Un suono così flebile eppure feroce non lo aveva mai sentito, neppure nel peggiore dei mostri che aveva affrontato in passato.

Andiamo Mamo-chan, sai che non so giocare a biliardo!” Rise, la rabbia che veniva vaporizzata dall'assurdità della conversazione. Sì, il suo Mamoru non le avrebbe mai chiesto una cosa simile sapendola tanto imbranata in quella disciplina, quindi doveva essere qualcun altro. O qualcos'altro.

Gioca, ho detto!”

L'uomo, il suo uomo, si chinò in avanti, la luce della nebbia che gli illuminava i capelli scuri come ebano appena lucidato, e liberò le biglie colorate che erano improvvisamente comparse sopra quella visiva tortura color smeraldo dalla loro prigione triangolare che le teneva unite, che le teneva forzatamente legate.

Cos'hai Usa, non vuoi giocare con me?”

Mamoru sogghignò, e persino con la consapevolezza che niente era reale, quella piega maligna della bocca le diede un senso di tradimento, una pugnalata in mezzo alle scapole.

Se quello fosse stato un anime di quelli che lei e ChibiUsa seguivano in televisione nelle serate in cui Mamo-chan lavorava e loro lo aspettavano alzate (ChibiUsa si rifiutava categoricamente di dormire senza prima avere ascoltato le storie del suo papà sulle strane operazioni che eseguiva con la mascherina e il bisturi che tanto la terrorizzavano e la eccitavano!), in quel momento la sua faccia sarebbe diventata blu, poiché sentiva il viso congestionato da una rabbia aperta, pronta ad esplodere persino in un sogno, anzi proprio perché erasolo un sogno.

Non mi piace che mi chiami così, te l'ho sempre detto!”

Stridula, troppo stridula e patetica che sei Usagi!

Non seppe con certezza se questo fu un pensiero suo o di Mamoru, o di entrambi, o di colui che era il regista oscuro di quella dimensione artefatta e allucinante.

Ti chiamo come voglio Usa.” Si mosse lentamente, la stecca che danzava con abilità dentro le sue mani, dentro le sue braccia.

Usagi per un secondo pensò che desiderava prepotentemente essere al posto di quella stecca da bigliardo, anche a costo di essere uno strumento per colpire e da colpire, di essere quasi toccata con amore dall'uomo davanti a lei, in un modo che le ricordava loro due ai tempi di Silver Millennium, un modo che non si era più ripresentato, nemmeno mille anni dopo.

Ora che ci pensava, ora che poteva davvero permettersi di pensarci perché protetta dall'illusione onirica così rivelatrice da non rivelare neanche il più imbarazzante dei segreti, doveva ammettere con se stessa che Endymion era molto diverso da Mamoru, che era sempre stato diverso da Mamoru.

Ora che i confini dei ricordi del passato si facevano confusi per rendere tutto più chiaro grazie al fatto di essere dentro ad un sogno, sì, Endymion, e lei Serenity, erano molto diversi da Usagi e Mamoru.

Forse perché quel legame era appena nato, e per questo più saldo, non logorato dal tempo e dalla quotidianità, o forse perché doveva essere più saldo dato che il loro mondo stava andando in pezzi e la guerra bruciava tutto e tutti; si ritrovò ad invidiare Serenity, ad invidiare il fatto che non dovesse pensare ad altro che ad amare, circondata dalle sue amiche e da un regno splendido e perfetto.

Non aveva dovuto fare la casalinga lei! Non aveva avuto un marito quasi assente che aveva smesso di confidarsi (a pensarci bene Mamoru non era mai stato un gran conversatore né uno che condivideva i suoi pensieri più intimi con chicchessia), né una bambina che non sarebbe cresciuta per altri novecento anni, anni che si sarebbero dipanati nell'attesa degli splendori di Crystal Tokyo e dell'attacco dei Black Moon, con tutto quello che conseguiva.

Uno scatto, uno schiocco secco e duro la fece sobbalzare, dentro nel sogno, e fuori, nel letto con la trapunta piena di conigli in cui era sdraiata, i capelli biondi e splendenti sciolti in onde lunghissime e che brillavano alla luce della Luna piena,la quale entrava a fiotti bucando il buio come un laser bianco.

Una angelica statua crisoelefantina, in cui l'oro dei capelli e l'avorio della pelle ne risaltavano la purezza, l'innocenza senza limiti e senza pecche.

Questo pensava l'uomo appoggiato pesantemente allo stipite della porta della camera; una figura in ombra, una figura stanca e pallida, di un pallore molto diverso da quello del satellite sopra le loro teste che invece splendeva su tutti loro. Su di lei.

Non avrebbe dovuto essere così bella, non poté fare a meno di pensare buttando la testa all'indietro e facendola aderire al duro legno giapponese che era freddo tanto quanto lui.

Impossibilitato a smettere di guardarla, impossibilitato a smettere di desiderarla, impossibilitato a smettere di essere arrabbiato, furioso con lei, l'uomo in nero che dentro di sé portava l'energia del Sole, si rese conto che una semplice palla di grigia materia, bucherellata come un cuore ferito, era più potente, dannatamente più potente di un solo singolo raggio di quell'astro tanto splendente al centro del Sistema Solare.

Un Davide che avrebbe potuto schiacciare il suo gigante quando lo avesse voluto.

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