Ce n'est qu'un au revoir, mes frères.

di Seehl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Overture~ ***
Capitolo 2: *** Crescendo e Diminuendo~ ***
Capitolo 3: *** Intermezzo~ ***



Capitolo 1
*** Overture~ ***


0. Overture~







Sono il tipo di persona che apprezza le piccole cose della vita. Quelle cose che altri ignorano, o catalogano come banali. Come se ci dovessero essere per sempre, come se ci fossero dovute. Loro cosa vedono? Cosa vedono quando guardano un parco, vedono tanti alberi? Forse si soffermano anche sul cielo, per qualche attimo. Il giusto per controllare che non stia per piovere. E poi passano oltre.

Io no. Io vedo tanti alberi, e li contemplo uno a uno. Avete mai notato i rami che si intrecciano, quanti colori diversi, e quante tonalità di verde possono avere le foglie?, e quando si staccano, danzano con il vento fino a cadere a terra. Avete mai provato a contare le venature sul tronco di una quercia? I fili d’erba a terra, tutti gli insettini che svolazzano, saltellano, cantano, tutti i tipi di margherite, nontiscordardime e i semplici altri fiorellini colorati che si possono trovare? Mai notato quante forme può prendere una sola nuvola, con un po’ di vento? In qualche minuto diventa tutto e niente, un crogiolo di forme con un senso o meno, che vanno a rendere tutto il cielo più interessante. E vogliamo parlare di tutto quello che abita il cielo? Dagli aerei agli uccellini, dal sole agli aquiloni? Tutto questo, in un parco. E le persone vedono solo tanti alberi e l’azzurro di un cielo terso.

Non sono uno scrittore, non sono un pittore, non sono nient’altro che un musicista. Ma un musicista è artista quanto uno scrittore e un pittore, vero?, perciò mi posso dire artista e farla finita, dare un senso a questo libricino che sto scrivendo.

La vita è bella.

La vita è bella, e mi sento stupido a sperare nell’immortalità. Se fossi immortale potrei godere di ogni attimo, di ogni novità propostami dal Creato. Ma le vie del Signore sono incomprensibili a noi semplici uomini, e chi sono io per biasimare Dio di qualunque cosa?

Mi guardo intorno, io non sono niente, neanche un puntino, nell’immensità dell’universo. Questo mi ha sempre spaventato. Quello che sono è tanto visto dai miei occhi, ma magari a Dio non importa niente di me (e vi assicuro, quand’ero bambino non c’era cosa che mi terrorizzasse di più).

Ma Dio alla fine non c’entra. Anche se ogni strada è tracciata, anche se non esistono coincidenze, Dio non c’entra. Sono le azioni che facciamo noi, a influenzare tutto.

Non so cosa io abbia fatto, per meritare la meraviglia di vita che ho avuto. La mia famiglia mi ha sempre sostenuto, ho trovato l’amore della mia vita, amici importanti, anzi, più che importanti, ho anche un figlio, ho tutto, tutto quello che un uomo può desiderare.

Forse ho ottenuto tutto troppo velocemente.

Io non voglio morire. Ho paura della morte, ho paura di sparire e di far sparire tutto quello che so, che ho imparato, che ricordo. Di perdere la musica, i volti, le voci, le lettere, tutto quello che importa. Non ho mai chiesto niente, se non di poter continuare a vivere.

Tre mesi cosa sono, per una persona, un niente. Volano via, trascinati dal vento e dalla fretta di ogni giorno. Tre mesi. Ho passato 35 anni godendo ogni singolo attimo, e la prospettiva di avere soltanto tre mesi di vita mi terrorizza. Ma il dottore è stato chiaro in proposito- i dottori sono sempre chiari in proposito-, tre mesi se non fossi andato immediatamente a farmi intubare in qualche ospedale.

Sì, certo.

Cosa avrei guadagnato? Tre mesi in più, sotto pillole e antidolorifici, sei mesi di sofferenza per chi mi sarebbe dovuto stare vicino, per Dani, per Cooper, per Federico e per Andrew e per Dennis e per Moni e per mamma e papà e per tutti. Sei mesi di ansia. Ogni giorno, ipoteticamente l’ultimo.

Per questo ho deciso di tenerlo per me. Il dolore è stato tanto, ma.. ma non m’importa. Ho vissuto questi tre mesi, ogni attimo, ogni avvenimento. E nessuno ne ha saputo nulla. Ce l’ho fatta. Dovevo soltanto.. continuare a respirare. Fino alla fine. Continuare a mettere un piede davanti all’altro, a forzare un sorriso e ad essere me stesso.

Questo tumore mi ucciderà, presto, ma non è riuscito a farmi diventare un vegetale.

E quindi scrivo questo libricino. E lo scrivo perché è difficile tenermi tutto dentro. Da bambino avevo un diario segreto e ci scrivevo solo quando ero arrabbiato, l’essere umano ha bisogno di sfogarsi. Probabilmente non ti conosco, tu che stai leggendo, o comunque non ho idea di chi tu sia. Di chi potrebbe trovare e leggere il mio ‘diario segreto’.

Ma se stai leggendo, se mi conosci, le mie parole non stanno volando come le foglie in autunno, ignorate dai più. C’è ancora chi trova il tempo di leggere un libricino.

Quando morirò sarò solo. Non ci sarà nessuno dei miei amici, e forse non ci sarò più neppure io. Chi può sapere cosa ci sarà dopo? Sperare fa male. E’ meglio aspettarsi la solitudine e il buio, piuttosto che la morte di chi amo. Però come si fa a non impazzire, nella solitudine?

E allora grazie.

Grazie perché non sono solo.










NdA~

Io non sono la migliore scrittrice in circolazione, lo so, shh, non c'è bisogno che me lo diciate. 
Questa storia nasce come un regalo di compleanno, come ho scritto nell'introduzione. 40 pagine di complessi e lacrime. Le pagine più dolorose che io abbia mai scritto.
Ma è completa. Ciò significa un aggiornamento alla settimana! Ditelo che mi amate. -e nessuno la lesse.-

Che altro dire. Grazie di cuore a tutti quelli che hanno sopportato la mia insonnia e i miei capelli strappati, aka mia madre, il mio gatto e Lole stessa, e un grazie infinito, gigantormico e stritolante(?) alla mia Allade che ha accettato di leggerla prima di Lole, questa cosa, che ha pianto, che ha accolto René tra i suoi personaggi preferiti, che ha deciso di farne una storia a parte per renderlo felice, almeno in una Alternate Universe.
Grazie, Alla. Davvero. Non te l'ho dimostrato abbastanza bene, ma avevo bisogno che tu la leggessi prima di chiunque altro, sta roba.

Penso di aver finito con le parole inutili. Daje che non scriverò più NdA fino alla fine, giuro. Era tanto per allungare il prologo che, giuro, su word sembra più lungo. Fuuuck. (?) Ma insomma.
Se volete lasciare un commento, ben venga. Io la metto qui perché mi piace pavoneggiarmi delle cose che mi vengono bene, grazie, grazie, il mio ego ha solo bisogno di altri complimenti.

Bene, me ne vado. A bientot~!

Sil~

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Capitolo 2
*** Crescendo e Diminuendo~ ***


1. Crescendo e diminuendo~

 











Era giovedì mattina e mi ero svegliato col chiodo fisso di dover donare il sangue. Così. Tanto per. Perciò mi ero alzato presto, mi ero diretto alla parrocchia, e lì mi avevano rifiutato, dicendomi anzi di andare al pronto soccorso, perché avevo dei valori sballati, vai a capire cosa. Ovviamente, tutto mi immaginavo, tranne che un tumore al cervello.

I dottori hanno quel modo tutto loro di parlare. Ti visitano, poi si siedono mettendo qualcosa tra te e loro, come ad esempio una scrivania. Afferrano con due dita la stanghetta degli occhiali, e li tolgono, tenendoli comunque in mano. L’altra mano va a massaggiare piano una tempia.

Poi alzano gli occhi. Incerti. Alcuni (di solito i più giovani) si mordono anche il labbro inferiore. E ti osservano. Per quelle che sembrano ore, e che magari sono davvero pochi attimi. Ma tu non lo sai, sei in attesa di sapere cos’hai. Perché hai i valori sballati. Perché non puoi donare il sangue.

Allora esordiscono con un ‘signore..’, e l’esitazione nella voce che prevede qualcosa di grave. Ancora, però, non te ne rendi conto. E poi arriva la rivelazione.

‘Signore, lei ha un tumore al lobo frontale.’

Ah, meraviglioso. Fantastico! Grazie mille, dottore, ora vado a dire a quelli della parrocchia che non è niente e che posso donare-.. aspetti scusi, ripeta un momento, ha detto tumore al lobo frontale?

‘Sì. Bisogna procedere immediatamente con degli esami per definirlo, poi dovrà fare la chemioterapia.’

Ti crolla il mondo addosso. Magari avevi programmato un’intera vacanza, e il dottore viene a dirti che dovrai passare il resto della tua vita attaccato a una flebo. Per quel poco che ti resta. Quant’è, tralaltro?

‘Tre mesi scarsi, se non ci sbrighiamo con la terapia.’

Ah, meraviglioso. Fantastico.

E con la terapia?

‘Sei mesi, sette.’

Al che, mi sono girato e sono uscito dallo studio medico. Il dottore mi conosceva, sapeva com’ero fatto. Non mi avrebbe seguito né costretto a fare niente, non poteva e non avrebbe potuto neanche se non mi avesse conosciuto, se ancora conosco i miei diritti.

 

Mentre camminavo verso casa, ricordo che pensavo soltanto a come l’avrei detto a tutti. Come avrei esordito? ‘Ciao ragazzi, ehilà, sapete, sono stato dal dottore e beh, ho un tumore al cervello! Ma state tranquilli, ho ancora tre mesi tutti per me!’

No, proprio no. Pensavo, pensavo, e più le ipotesi si accalcavano nella mia testa, più mi convincevo che non c’era motivo di allarmare nessuno. D’altronde, in quel momento mi sentivo più che bene. Quindi deviai, e tornai in parrocchia, stavolta senza fermarmi davanti al banchetto di donazione del sangue. Mi diressi direttamente dentro, accolto dalla freschezza dell’ambiente. Ricordo che l’odore dell’incenso era piuttosto forte, e che c’erano tante candele accese. Sorrisi. Per tutte le preghiere lasciate a bruciare davanti all’altare. Chissà chi simboleggiavano quelle luci tremule. Chissà quali amici, quali familiari, avevano deciso di affidare a una candelina bianca l’onere di arrivare sino in cielo, a mostrare a Dio la luce. Chissà quali problemi stavano affrontando e quali dolori stavano passando. Per un attimo pensai di accenderne una per me, per poi cambiare idea. Sarebbe stato.. strano. E parlare con Dio era più utile che lasciargli segni che, magari, avrebbe frainteso o non capito.

Mi inginocchiai quindi sulla prima panca a destra, giunsi le mani a preghiera e osservai le mie nocche diventare bianche. Tremavo. Alzai lo sguardo, e contemplai il crocefisso, che ricambiò il mio sguardo con sguardo disperato. Lo stesso sguardo da duemila anni, ormai.

Da bambino ricordo che chiesi a mia madre perché avessero ucciso Gesù, se Gesù era una persona così meravigliosa come ce la raccontano i vangeli. E mia madre non seppe rispondermi. Da allora sono convinto nell’infinità della crudeltà umana, che arriva ad uccidere anche un Dio, nella sua ottusa intolleranza.

Anche in quel momento, negli occhi del Cristo, c’era una sofferenza incomprensibile. Strinsi di più le mani. Troppo presto avrei compreso quella sofferenza, e lo sapevo anche allora.

Rimasi nella semioscurità della chiesa per mezz’ora, circa. Non c’era nessuno, a parte me, la gente normale non va a pregare il giovedì mattina. Ci va di domenica, come si conviene, come è scritto nelle sacre scritture. Io sono sempre stato dell’idea che, andando a pregare in giorni anomali, Dio avrebbe dato più tempo all’eccentrico che si fosse rivolto a lui. Sempre convinto. Povero Signore, pensate voi: ogni domenica, milioni di voci da ascoltare tutti insieme. Ci credo che non ci sono più tanti miracolati come ai primi tempi cristiani.

Quando mi alzai dalla panca, non avevo risposte, ma tante domande. La prima di tutte, ‘perché a me?’. Seguita da ‘che cosa ho fatto di male?’ e ‘cosa dirò a Dani?’

Presi quindi la strada di casa, e guardavo il cielo, e vedevo le nuvole. Per il mondo non era cambiato niente, era soltanto un René Flumeur che sarebbe morto di lì a tre mesi. Al mondo non importava. Al mondo non importava mai niente, no? .. ma anche io facevo parte di quel mondo.

All’improvviso trovai la forza di tenermi tutto dentro. Finché al mondo non fosse importato, non sarebbe importato neanche a me. E’ così che funziona l’essere umano, vive nell’indifferenza. Ci avrei almeno provato.

Perciò sorrisi. Ricordo che sorrisi, e anzi, scoppiai a ridere, e feci una giravolta, e alzai le braccia al cielo, e ringraziai il Signore, o le nuvole, o il sole, o il vento, o qualunque cosa ci fosse lì sopra.

Ringraziai, e cominciai a correre, ridendo, perché potevo ancora farlo, potevo ancora godere dell’aria sulla faccia e dei capelli svolazzanti. Potevo ancora prendermi gioco della morte, burlarmene anche!, e godermi ogni singolo istante.

Fu con questo zelo che entrai in casa, oh, me lo ricordo. Entrai urlando, ridendo forte, girando su me stesso, cadendo rovinosamente sul tappeto. Per poi ridere ancora.

Dani, attirato da tutto quel trambusto, uscì dalla camera. Mi guardò a terra e rise anche lui, quella risata che era tutto, la composizione più bella del mondo, una nota dopo l’altra di pura estasi musicale. Dio aveva fatto un capolavoro, con quel ragazzo.

Mi girai a contemplarlo, perché è di questo che si parla. La perfezione la vedi e la riconosci, e non puoi che contemplarla. La mia personalissima perfezione si chiamava Dani Kharolyi, e in quel volto giulivo incorniciato da una cascata di riccioli mori, i suoi occhi mi catturavano. Sempre.

Occhi furbi, guizzanti. Come acqua. Ribollivano di emozione, liquidi, ridenti, di quell’indefinibile colore tra il verde, il grigio e l’azzurro. Il colore di un fiume.

E in quegli occhi c’era tutto il mio mondo. Un mondo bellissimo, che stava per finire. Questo pensiero mi fece incrinare il sorriso, ma per poco, perché al suo, di sorriso, era impossibile non rispondere.

‘René!’, mi chiamò. Il mio nome tra quelle labbra, come vibravano le sue labbra sulla ‘r’, lo schioccare della lingua sui denti per pronunciare la ‘n’. E ancora sorrideva. ‘René, sei caduto, che è successo stavolta?’

Oh, che è successo. Giusto. Non ci avevo pensato. Mi persi un momento a fissare un punto oltre la sua spalla, poi mi tirai su, spolverandomi le ginocchia, e incrociai le braccia.

‘E’ successo che da oggi in poi registreremo la nostra musica, ecco cosa è successo!’ buttai lì, tanto per dire. Lui sembrò pensarci su un secondo, forse si chiedeva se l’avrei anche voluta vendere. Sciocchezze! La nostra musica, venduta? Non sarebbe più stata nostra.

Però sarebbe stato qualcosa da conservare, da tenere per sempre, da riascoltare anche dopo. Qualunque cosa fosse successa nel suo futuro, lui doveva avere qualcosa di mio a cui aggrapparsi. Perciò mi sbracciai e ripresi a vaneggiare.

‘Pensa, la registriamo, e poi ci miglioriamo, e raggiungiamo la perfezione!, e poi la riascoltiamo. Sempre! Io vorrei poterti ascoltare anche quando non ci sei.’

A questo punto lo vidi arrossire. Le guance che si coloravano, lo sguardo distolto e il labbro morso piano, sotto il sorriso. Gli piaceva, come idea, lo vedevo. E piaceva anche a me.

‘Direi che si può fare, perché no..?’

La prospettiva di registrarci aveva annullato ogni brutto pensiero di morte e di sparizione. Saltai su, pimpante e felice, e gli circondai il collo con le braccia, stampandogli un bacio sulle labbra. A lui brillavano gli occhi, fosse stato anche solo il riflesso dei miei nei suoi. Era felice e lo ero anche io.

Tre mesi, bene o male, sembravano tanti, allora. Ma tre mesi sembrano sempre tanti, chiedetelo a qualunque studente in vacanza estiva. A giugno ci sono tre mesi per i compiti e il ripasso, e dopo un battito di ciglia è già settembre.

 

‘Sai, René, penso che dovremmo chiedere a Dennis di aiutarci con questi microfoni, ho paura di fare un pasticcio da solo-‘

‘Tranquillo Dani, posso farlo io senza alcun problema!’

Evidentemente non si fidava, perché sorrise, scosse la testa e andò a bussare, due volte e mezzo come ogni volta, alla porta della stanza di nostro figlio. Non ricevendo alcuna risposta. Lo vidi accostare l’orecchio al legno. Probabilmente stava ascoltando la musica al massimo, non aveva di certo intenzione di essere disturbato da due genitori imbranati. La mia teoria venne confermata dal sospiro di Dani: sicuramente l’aveva sentito canticchiare, o strimpellare una delle sue chitarre.

Abbassò la maniglia e aprì la porta di uno spiraglio, con sguardo colpevole. Come se non avesse diritto ad entrare prima di sentire un ‘avanti’ da parte di Dennis.

Ripresi ad armeggiare con i fili dei microfoni, confidando moltissimo nelle mie capacità di fonico.

Cinque minuti dopo, Dennis era accanto a me a tentare di spiegarmi che i fiocchetti non servono a far passare più velocemente l’energia. Protestai. Anche i microfoni hanno un loro modo di agghindarsi. Mio figlio fece una risatina e scosse la testa- quello l’aveva sicuramente ereditato da Dani.

Beh, di certo non aveva niente di nessuno di noi due. I capelli rossicci scivolavano lunghetti alle spalle, adattissimi a scapocciare durante i concerti metal, e gli occhi a volte grigi a volte azzurri brillavano di curiosità. Forse si stava chiedendo come avessi fatto a fare un gattino con quei fili.

Dani si era dissociato a prescindere. Non ci avrebbe capito nulla comunque, lasciava a me l’arduo compito di decifrare il linguaggio di Dennis.

‘.. e alla fine lo colleghi al computer e poi lasci fare tutto al cd. Semplice, no?’

‘Aspetta, mi sono perso al fiocchetto.’

‘Ma papà!’, e una risata. Ero così felice di sentirlo ridere. Stava bene. Aveva due padri musicisti che spesso giravano senza una lira in tasca, eppure era contento, e non si faceva problemi. Ero fierissimo di come l’avevo cresciuto, da una cesta al ragazzo indipendente e presuntuoso che avevo davanti.

Alla fine, fece lui tutto il lavoro, e assistette anche alla prima registrazione, per spiegarci come salvarla. Non penso sia necessario precisare che fu presente a tutte le seguenti registrazioni, perché nessuno dei due aveva ben capito dove finisse la registrazione, una volta salvata.

 

Accadde qualche giorno dopo, quando avevo più o meno capito come funzionassero tutti quei microfoni e file e cose del genere. Dani lasciò il suo prezioso violino sul divano, si stiracchiò, e annunciò che si sarebbe fatto una doccia. Annuì, pensieroso.

‘Lo salvi tu il disco, ora?’

‘Mh! Se non ce la faccio chiedo a Dennis.’

‘Non lo troverai, è andato a fare le prove con Charlene e gli altri due.’

Oh, nessun’altro in casa. Guardai Dani sparire nel bagno, accendere l’acqua, e attesi di sentirlo canticchiare un motivetto. Certo che si fosse infilato nella doccia, presi il microfono e ci battei sopra con un dito. Poi continuai a registrare quel famoso disco, schiarendomi la voce.

‘Riascolterai questa musica e non ti aspetterai niente del genere, ma sappi che ti amo. Ti amo davvero, davvero tanto, Dani. Sono felice.. di essere tuo marito e di avere avuto il privilegio di incontrarti e di passare la mia vita con te.’ Rimasi in silenzio per qualche secondo. Poi abbassai gli occhi. ‘Ti amo e ti amerò sempre. Qualunque cosa accada. E non potrò mai smettere di ringraziarti, per tutto quello che hai fatto per me, per tutto- per tutto l’amore che mi hai regalato. Grazie. Ti amo. Ti amo.’ Un altro momento di silenzio. ‘.. Ti amo.’

Poi armeggiai per far smettere il registratore, rischiando anche di legarmi a terra col filo del microfono che stava tentando di tenermi con sé per la vita. Riuscii a spegnerlo dopo qualche imprecazione. Salvai la registrazione tra le tante che avevamo già fatto, e mi considerai soddisfatto, per quel giorno.

Dani rimase in doccia per un altro quarto d’ora abbondante, che io passai a cercare la nutella in giro per casa. Evidentemente qualcuno l’aveva mangiata tutta, e quel qualcuno ovviamente non ero stato io.

 

‘Tornerai, stasera?’ mi chiese Dani, guardandomi annaspare nell’armadio per trovare una camicia decente. Il problema era che in quel momento non ne avevo la più pallida idea. Voglio dire, uscivo con Coop e Fed, quindi potevamo stare in giro mezzora, oppure tutta la notte, e tutto il giorno dopo, e tutta la notte del giorno dopo, dipendeva da quanto ci stavamo divertendo.

Tirai fuori una splendida camicia verde cachi a fiorellini gialli, alzai gli occhi e scossi la testa con sguardo sconsolato.

‘Non ne ho proprio idea. Ma stavolta ti faccio sapere!’

‘Seeh, vabbeh. Chiamerò io, nel caso fossi preoccupato. Piuttosto, sei sicuro di voler mettere quella camicia?’

‘Certo. Perché no?’

‘Pfft.. niente, niente.’

Una cosa che non ho mai accettato di Dani era la sua crociata contro i miei capi di vestiario. Come se fossero così osceni. Ho visto Federico ubriaco, posso affermare che non sono il peggiore su questo mondo.

Mi sedetti accanto a Dani, mezzo vestito e mezzo no, e gli passai un braccio attorno alle spalle.

‘Lo sai, Dani?’

‘Mhhn?’

‘Ti amo.’ Osservai le sue reazioni, curioso e divertito allo stesso tempo. ‘E penso che tu abbia appena scoperto qualche nuova variante del rosso, sai?’

Mi regalò un meraviglioso sorriso e un bacio sulla guancia.

‘Vai da quegli altri o farai tardi, su!’ mi incitò, quasi spintonandomi. Finii di vestirmi con una risata. Feci per prendere le scale, ma la sua voce mi fece arrestare per qualche attimo.

‘E, René?, anche io ti amo. Ti amo.’

Scesi di corsa e con un sorriso ebete stampato sulla faccia.

 

E’ proprio vero. Quando sei felice, non pensi più alle cose brutte, anche se loro sono sempre appollaiate al tuo fianco. Se sai che stai per morire non puoi farci molto, conviene davvero vivere col sorriso e basta. Pensavo fosse difficile, ma in quei primi giorni non lo era affatto.

Arrivai al Bar di Coop con una manciata di minuti di ritardo, lo trovai intento a lucidare un bicchiere col sorriso da barista stampato sulla faccia. Di Federico, nemmeno l’ombra. Mi accomodai davanti al mio migliore amico, che mi ammiccò. L’unica persona in tutto l’universo capace di ammiccare con un solo occhio. Mi aveva raccontato di tutto sulle cose che erano successe all’occhio mancante, come se lo fosse perso e come avesse comprato, o rubato, o fabbricato anche, quello di vetro che c’era adesso. Non che credessi ad ogni cosa che mi raccontava, eh, però erano racconti così belli che crederci era una delizia.

Mollò il bicchiere, si passò una mano tra i capelli rossicci e allargò il sorriso.

‘Sei in anticipo sul ritardo di Federico. Vuoi un po’ di acqua frizzante?’. Di nuovo l’ammiccamento.

Annuii, poi mi guardai intorno. C’erano i clienti abituali che chiacchieravano tra di loro e con Len (il biondo, lui no?, il marito di Cooper!) dietro al bancone,  poi c’era un gruppo di ragazzi che vociava in un tavolino accanto alla finestra, bambini che si inseguivano tra gli sgabelli o che contemplavano la porta del magazzino prima di spingerla con reverenza e fiondarvisi dentro.

Il magazzino di Cooper era una meraviglia. Dentro, c’era davvero di tutto, libri, principalmente, ma anche moltissime altre cose. Pensate a qualcosa, qualunque cosa. Bene, dentro al magazzino c’era.

Cooper si vantava di aver avuto un mostro di Loch Ness per un periodo, chiuso qualche piano più giù nella pozza che ora era un parco acquatico per formiche, ma nessuno gli credeva. Io sì. Io credevo in tutte quelle cose che potevano essere davvero in quel magazzino.

Ci ero entrato più volte, da solo o con Cooper, e ogni volta avevo trovato cose strabilianti: ricordo il giorno in cui trovai il baule delle cose a cui teneva di più, e lo aprimmo insieme. C’era anche Federico. Dentro, lettere, un carillon, giocattoli, costumi.. mi ero innamorato.

Gli copiai l’idea. Trovai un vecchio baule nella soffitta di papà, e lo confiscai, mettendoci dentro, a caso, tutto quello che mi sembrava avere un valore di qualche genere, anche solo affettivo: cartoline, lettere, vestiti vecchi, fotografie ingiallite e nuove, un vecchio giocattolo, dei disegni sbiaditi, spartiti che non avevo mai tentato di leggere.. Probabilmente ci sarà dentro anche questo libricino. Ma comunque.

Cooper mi osservò con occhio indagatore, sventolandomi davanti una mano. Mi ero perso a vagare per il ricordo del magazzino, perciò stava sicuramente cercando di riportarmi alla realtà. Sbattei gli occhi, sorrisi, mi girai, e mi trovai davanti a due sfere verdi e fosforescenti. Lenti a contatto, sì, ma facevano un bell’effetto sul volto di Federico, che sorrise e mi fece ‘buh’. Finsi (più o meno) di essermi spaventato e lo abbracciai forte, di slancio, affondando il naso nei capelli arcobaleno che si tingeva con tanta pazienza una volta ogni due giorni, per tenerli sempre brillanti. E lo erano, oh, se lo erano.

Rise forte, una risata sicura, calda, e mi scompigliò i capelli.

‘Ciao, piccoletto!’, anche se ero di un anno più grande, sì.

Cooper lasciò il bicchiere nell’acquaio, si avvicinò al biondo e lo abbracciò da dietro, appoggiando lentamente le labbra al suo collo. L’altro si paralizzò, per poi rilassarsi tra le sue braccia.

‘Ci vediamo più tardi, Len.’

‘Vedi di non tornare a notte fonda, perché non ti aprirò.’

Cooper rise, lasciò il suo uomo e scavalcò il bancone, spostando lo sguardo da me a Federico.

‘Allora, qualche idea per la meta di stasera?’

Sapevamo tutti e tre dove saremo andati.

 

.. ecco, a dire la verità, non lo sapevamo affatto. Però quel giorno, incredibilmente, avevamo una direzione. Dovevamo svoltare a destra, a sinistra, a destra, a destra, a destra, a sinistra e poi fermarci e vedere dov’eravamo arrivati. Il piano era semplice, se il posto non ci piaceva, si continuava senza una meta. Ma, almeno inizialmente, una meta l’avevamo.

Eravamo uno strano gruppetto, noi tre. Uno con i capelli arcobaleno e gli occhi sparafleshosi, più orrendi accostamenti di vestiti che non voglio davvero ricordare. Un altro che era un pirata mascherato da maggiordomo. E infine io, che tra capelli sventolanti e argentati e occhiali da sole inutili perché già imbruniva, non potevo essere acconciato peggio.

Ci accomunavano tre cose, principalmente. La prima e la più importante, era la devozione che avevamo per i viaggi. Nessuno dei tre era capace a rinunciare a un paese straniero, conosciuto o meno, da visitare in lungo e in largo. Cooper viaggiava da sempre, io dai diciotto anni e Federico dai venti. Eravamo carichi di aneddoti da raccontarci vicendevolmente, e non sprecavamo mai l’occasione per dare sfoggio delle nostre conoscenze linguistiche pari a zero.

La seconda cosa, era la nostra data di nascita. Federico era nato il 16 novembre ’83, Cooper era nato il 17 novembre ’81, e io ero del 18 novembre ’82. In sequenza un po’ disordinata, ma sempre in sequenza. Scoprire questa cosa ci aveva resi pazzi di gioia, perché potevamo festeggiare tutti e tre insieme il compleanno. Lascio ai posteri l’arduo compito di immaginare una festa di compleanno festeggiata noi tre. Esatto, esatto- no, non così tanta gente, eravamo sempre quattro gatti- oh, sì, da bere ce n’era sempre in abbondanza. Praticamente nessuno ricordava mai niente, se non che ci si era divertiti molto.

La terza e ultima cosa, ma non la meno importante, erano i mocassini che avevamo ai piedi quando uscivamo tutti e tre insieme. Federico li aveva verdi, li spacciava per mocassini di pelle di coccodrillo ma sapevamo tutti che non era vero, e che erano soltanto squamosi e viscidi. Cooper ne aveva a milioni, di mocassini, però quando usciva con noi si superava. Li metteva spaiati, uno rosa e uno giallo, con i lacci slacciati. I miei erano dorati, e quasi brillavano al buio. Ero estremamente fiero di quei mocassini, che si adattavano perfetti alla camicia verde cachi fiorellini gialli. O almeno così ero convinto.

Ora mi viene da chiedere quanta gente sia inorridita vedendo oltraggiato il comune senso dello schifo al nostro passaggio. Ma va beh, sono affari loro e della loro scarsa voglia di divertirsi.

Noi quella sera volevamo divertirci eccome.

E ovviamente, non ricordo niente di niente, se non un osceno boa di piume fucsia che improvvisamente è entrato nel mio campo visivo per non uscirne mai più.

 

Quando Dani era fuori e Dennis usciva, o viceversa, io mi accoccolavo alla mia arpa. Lei sapeva molte, molte cose. Mi aveva sentito sussurrare, mi aveva letto nel pensiero, mi aveva fatto sentire bene. La mia arpa non è mai stata soltanto uno strumento, l’ho sempre considerata una sorellastra. Pizzicavo distrattamente le sue corde, pensando alla vita, cercando di evitare l’argomento morte. Ma lei ci tornava sempre, con un fa diesis grave che mi incitava a pensare alla sofferenza che sarebbe subentrata. Lei era preoccupata per me. Era preoccupata, e me lo faceva presente con vibrazioni spaventate. Sembrava dirmi, chi mi suonerà se tu muori?, chi potrà mai toccarmi come mi toccavi tu?

La mia amante, la mia amante esigente e superba, preoccupata per la mia salute. Era l’unica a cui lo permettevo, perché oltre che trillare brontolante non poteva fare altro.

E mi divertiva. Il suo persistere, lasciarsi pizzicare solo per poter dare voce alla sua saggezza nei miei confronti. Lei sapeva cosa avrei provato, cercava di farmi capire che era troppo. Come avrei potuto sopportare? Da solo? A un certo punto era talmente disperata da dirmi che per qualunque cosa, sarebbe stata lì per sorreggermi. Lei, fatta del più pregiato legno, lucidata ogni tre giorni, con le corde perfettamente accordate, mai saltate una volta, si offriva di diventare il mio letto di morte.

Quando me lo disse mi commossi. E la presi tra le braccia e la suonai, perché era ciò che voleva, e la sentivo vibrare felice, e si sentiva soddisfatta del suo sacrificio.

E dire che a volte mi vergognavo di lei. Mi capitava, di guardarmi le dita e chiedermi perché sembrassero fatte apposta per suonare proprio l’arpa. Non avrei potuto suonare nessun’altro strumento, e non perché ci avessi provato: semplicemente perché lei me lo comunicava ogni volta che la pizzicavo giocosamente.

L’arpa mi aveva riempito di problemi, sempre. Da bambino, quando ancora mi inceppavo tra le corde per distinguerle, i miei compagni di classe che le maestre insistevano a farmi chiamare ‘amici’ non smettevano mai di prendermi in giro. Mi dicevano che l’arpa era uno strumento da donna, che quindi io ero una donna. Ho sempre cercato di non ascoltarli, ma a volte era troppo difficile. Quando ci si abitua ad un certo comportamento e ad un certo nomignolo, non si prova più neanche a toglierselo.

Io ci provavo sempre a farmi amici gli altri bambini. Spiegavo loro che l’arpa era uno strumento che poteva accompagnare qualsiasi arco, ottone o fiato, cercai di suonare per loro, per far sentire la dolcezza della musica che poteva uscire da quelle corde, e loro, per tutta risposta, ridevano. Mi additavano.

Ma l’arpa mi diceva di non arrendermi. L’arpa mi ha sempre sostenuto. Mi è stata accanto qualunque cosa succedesse. L’arpa mi tirava su e mi permetteva di sfogarmi sulle sue corde, mi regalava vibrazioni positive quando non volevo fare altro che piangere.

In realtà, mi vergogno ancora di lei. Non tanto come quando ero bambino, ma sicuramente moltissimo- abbastanza da fingermi un suonatore di cornamusa. Dani non mi crede quando dico che l’arpa mi mette il broncio. Dice che sono solo io che sono sfaticato. Ma lei ha sempre provato dei sentimenti, lei ha sempre odiato il mio imbarazzo, e amato il mio sorriso.

In quel periodo, tirò fuori il meglio, per me e per Dani. Voleva il mio sorriso a tutti i costi. Suonavo, e lei mi suggeriva dove pizzicare, dove l’improvvisazione avrebbe portato la musica al paradiso. Se ne accorse anche Dani, che si congratulava con me (ingiustamente) e con lei (che tutta pomposa si prendeva i complimenti) alla fine di ogni suonata. Prima di avvinghiarmisi contro, ovviamente.

La musica ci ha sempre fatto strane cose. La prima volta che abbiamo suonato insieme, io ho percepito un orgasmo. Forse non fisico, ma so che ero nell’estasi che precede l’orgasmo fisico, perciò è come se avessi avuto un rapporto con Dani quando ancora non eravamo che conoscenti.

E l’arpa ha sempre saputo di aver rivestito un ruolo importantissimo nella mia vita insieme a Dani. E quanto se n’è vantata! Ma ha sempre avuto ragione, quindi perché non ascoltarla?

Dopo ogni registrazione, Dani mi prendeva - o io prendevo lui, a scelta - e facevamo l’amore. Ovunque noi fossimo, a casa, sul palco, al bar a suonare il sabato sera, in giro insieme, dopo la nostra musica avevamo bisogno di sentirci, di toccarci, di riscoprirci ogni volta.

Perché il corpo di Dani mi era nuovo ad ogni tocco.

Passavo le dita sul suo volto e scoprivo nuove rughette di espressione, scivolavo lentamente sul collo, e sul petto, e scoprivo per l’ennesima volta un punto sensibile che gli strappava un ansito. Era il mio ‘do’. Appena sentivo la prima nota, cominciavo a suonarlo.

Lui non era un’arpa, non conoscevo accordi e note di un Dani. Le ho scoperte improvvisando, e non ho mai visto del disappunto sul suo volto.

Dani vibrava sotto il mio tocco. Si contorceva, si inarcava, e un altro rumore, un nuovo rumorino musicale da associare a qualche tocco particolare. I versetti, i mugugni trattenuti, tutte espressioni di contentezza ed eccitazione. Ed ero io il suo suonatore. L’unico che avrebbe saputo suonare Dani.

Quando finivamo, si arrotolava stringendosi a me. E io non volevo che poterlo sentire vicino, la sua pelle sulla mia, i respiri che si scontravano ritmicamente, lenti, le labbra che si toccavano, sporadiche e timide, e le sue risate imbarazzate.

Io ho sempre avuto bisogno di lui e lui di me. Ci siamo trovati. Ed eravamo così perfetti, così.. fatti l’uno per l’altro. Mi ritrovo a chiedermi se troverà qualcun altro con cui dividere la sua vita e il suo violino. Datemi pure dell’egoista, ma io vorrei che Dani rimanesse sempre e solo mio.

Lui è mio.

 

Sono una persona molto, molto, molto socievole, io. Nel senso che posso seriamente fare amicizia con chiunque senza troppi indugi. Non esistono conoscenti e sconosciuti, a me piace conversare con chiunque. Anche perché senza sconosciuti che conoscenze potremmo avere?

Nessuna, esatto. Più o meno è così che ho conosciuto tutte le persone che sono importanti nella mia vita, con un ciao e un discorso improvvisato a caso.

Quando ho conosciuto Dani, ero a Budapest da più o meno un paio di settimane, e assistevo a questa conferenza su vattelappesca cosa, ero lì solo per dei panini gratis che il volantino stava promettendo. Non era approfittare, era semplicemente l’ultima spiaggia per non morire di fame, avendo io lasciato il portafoglio in camera come sempre.

E d’un tratto, ricordo che niente aveva più senso. Adesso, a ripensarci, non so neanche dire con esattezza cosa mi fosse preso. Però ero disperato, e lui, che cercava semplicemente un posto dove sedersi per seguire la conferenza, si fermò e mi chiese se andasse tutto bene.

La scintilla, e tutto mi fu chiaro- beh, non subito, certo. Appena ho cominciato a parlargli ho capito che non aveva bisogno di nessuno che non fossi io, nella sua vita. Però, in quel momento, nel momento in cui per la prima volta ho visto quegli occhi, ho sentito il bisogno di stargli accanto per un po’.

Abbiamo suonato per la prima volta, insieme, nell’albergo, quella sera.

Non avevo mai provato un’emozione così grande come quella che provai quando il suo violino si unì alla mia arpa. Non suonammo niente di conosciuto, solo improvvisazione, eppure fu l’improvvisazione meno improvvisata del mondo, perché io guardavo lui e lui guardava me, e poi chiudeva gli occhi e raggiungeva note altissime, stridenti e malinconiche, e io lo accompagnavo e lui accompagnava me e- Dio. Dio, quella musica. Quella musica fu la cosa più bella dell’universo. Lui era nella mia testa, capiva le mie note, io ero nella sua testa, capivo il suo dondolare ritmico. Ci capivamo, lui mi capiva.

Dopo quella magia, ci siamo abbracciati. Mi innamorai in quell’istante, quando capii che anche lui aveva provato tutte le sensazioni che avevano attraversato il mio cuore durante quella musica.

E lui è rimasto a dormire lì, perché ormai, dopo quella musica, potevamo anche dividere un letto senza problemi. Il giorno dopo abbiamo suonato ancora, e ancora il giorno seguente, e così finché Dani non ha dovuto prendere un treno.

Ero in stazione, e c’era anche lui, e i suoi occhi erano lucidi. E piangeva. Odiavo vederlo in lacrime, in quel momento, perché volevo piangere anche io. E gli dissi, ‘Se questa è l’ultima immagine di te che mi lasci, quando ci rivedremo sarà impossibile per me riconoscerti!’, e lui sorrise, anche se piangeva, ed era bellissimo.

Ma io non sono tipo da lasciare le persone senza un regalo di addio. Tirai fuori dalla tasca una sacchetta, gliela porsi con un sorrisone. Non si sarebbe dimenticato di me così facilmente.

La aprì, curioso, tirando fuori una catenina, a cui era legata un’arpa d’oro, piccolina, ma bella. Particolare. Lo vidi sciogliersi, sorridermi ancora, e abbracciarmi più forte.

‘Non ti dimenticherò mai.’

‘Lo so! Ora vai, che sennò il treno parte senza di te.’

Dani annuì, e salì a sedersi al suo posto.

Fu allora che realizzai, vedendo la sua schiena, i suoi riccioli sventolare lontano da me, quanto fosse importante per me quel ragazzo. Salii sul treno senza neanche pensarci, conseguenze, multe, bah!, cosa potevano importarmi?

Lo trovai seduto al suo posto, il ciondolo già al collo. Mi schiarii la voce, lui si voltò e mi guardò con sguardo interrogativo.

‘Dimenticato qualcosa?’

‘Sì.’ Mi avvicinai, e sorrisi. ‘Te.’

Poi l’ho baciato. E lui non se l’aspettava, ma aspettava quel momento da sempre, perché mi si strinse addosso senza commenti e partecipò più che entusiasticamente al bacio.

Oh, se ricordo quel momento. Il mio cuore batteva a mille, quello di Dani anche più veloce. Gli presi la mano, e mi sedetti accanto a lui, mentre lui mi si accoccolava addosso per la prima volta. La sua testa sulla mia spalla. Il suo sorriso sornione e gli occhi ancora rossi di pianto, e io che mi scusavo e gli accarezzavo i riccioli. E lui era felice. E lo ero anche io.

Pensavo ora.. a quanto la mia vita è stata felice. Anche chi mi è stato intorno è stato felice, almeno per un po’. Ho portato un sorriso a tutte queste persone che sono tanto importanti per me. La mia vita è completa, alla fine. C’è un motivo per cui Dio mi ha intimato di uscire di scena, se continuo a rimanere in vita non saprà più cosa farmi fare.

 

Capitano quei giorni in cui ci si sveglia male e basta, e non ci si può fare niente. Uno di quei giorni arrivò e com’era arrivato passò via, perché quella mattina, inaspettata e puntuale, venne a farci visita Monique.

Monique era la mia unica ragione di vita prima di Dani e Dennis. La mia sorellina, otto anni meno di me e un fisico gracilino, sempre malata, sempre esposta, sempre in pericolo. La sorellina che dovevo proteggere a tutti i costi.

Moni è sempre stata il mio angioletto custode. E anche quella mattina, fece ciò che le veniva meglio, cioè, farmi stare bene.

Entrò in casa con il suo sorriso, che si trascinava dietro un calore che non potevo trovare in nessun altro, e con gli occhi spalancati di chi ha una notizia da comunicare. Mi prese le mani e rise forte, e mi abbracciò, e rimase accoccolata alla mia spalla. Sentivo il suo sorriso sulla mia pelle, lo potevo percepire. Era una sensazione spettacolare.

Alla fine non aveva nessuna notizia da comunicare, soltanto tanta felicità di vedermi di nuovo. A suo avviso, era passato troppo tempo ‘dall’ultima volta che abbiamo passato del tempo tra fratelli’. Si fece offrire un caffè e rimase a chiacchierare con me per tutto il giorno, di tutto. Si fece suonare la sua ninnananna preferita, cantammo insieme le canzoncine con cui eravamo cresciuti (sotto lo sguardo divertito di Dani e Dennis, che forse neanche capivano come potessimo passare dal francese al tedesco all’olandese in due arpeggi), poi riprese a parlottare, di come tutto stesse andando bene, dell’università, del futuro da cantante che Nancy le stava offrendo. Io ascoltavo tutto affascinato.

La sua voglia di vivere era seconda solo alla mia. Eravamo cresciuti insieme, quindi mi sembrava una considerazione molto stupida, ma ogni volta che la vedevo mi sentivo rinascere. E quando si hanno due mesi e poco più di vita, è una grande, grandissima cosa.

Lei, con la sua camicetta azzurra e la gonna lunga, i capelli legati in una coda bassa e le ballerine rigorosamente senza tacco, lei meritava tutto quel benessere e tutta quella vita che stava vivendo egregiamente. ‘La grinta dei Flumeur’, disse una volta Dani, facendo ridere tutta la mia famiglia. Chi ero io per poter interrompere tutto con la mia morte? Lei stava rendendo fieri mamma e papà, e stava rendendo fiero me.

E la mia morte le avrebbe lasciato una ferita impossibile da guarire.

Mi sentii un fratello indegno. Lei non sembrò sentire la mia debolezza, e continuò ad illustrarmi il programma che aveva in mente per quell’estate. Sarebbe tornata a Sanremo con Nancy, e voleva sapere se anche Dani ed io eravamo interessati. Le dissi che glielo avremmo comunicato, ma con la testa ero da un’altra parte. E qui probabilmente se ne accorse, perché mi si avvicino, mi prese le mani, e sorrise. Semplicemente, sorrise.

Solo lei era capace di tirarmi su da una brutta mattina, solo lei riusciva a farmi tornare il buonumore dopo un pensiero demotivante come la mia stessa morte.

La ringraziai, stringendola tra le braccia, e lei fece finta di non capire. Fece una faccia buffa e mi salutò con la mano, e sparì per le scale, inciampando negli svolazzi della gonna ad ogni scalino.

 

Ricordo che la visita di Moni mi fece provare tanta nostalgia per la mia infanzia, e di conseguenza, per mamma e papà. Non dovetti pensarci molto; presi Dani e Dennis e andammo a pranzo dai nonni come ogni famiglia normale fa la domenica a pranzo.

Mio padre apriva sempre alla porta, perché mamma era troppo impegnata a cucinare, o a leggere, o a fare qualunque altra cosa, conscia che tanto avrebbe aperto papà. Anche quella volta, fu lui ad aprire e ad abbracciare tutti e tre con un sorriso che volava da un orecchio all’altro. Da mio padre ho preso molto, anzi, probabilmente tutto fuorché il suo naso. Lo notavo ogni volta che sorrideva, che faceva una battuta, che rideva, che alzava gli occhi al cielo pensando a qualcosa che poi si rifiutava di dirci perché non avremmo capito del tutto. Papà era sempre a casa, a parte quando andava a suonare l’organo in chiesa. Poteva suonare qualunque cosa, mescolava i registri in nuove combinazioni per cimentarsi in qualcosa di mai provato, premeva con forza sui tasti consumati del vecchio organo, per far sentire al mondo la passione e il fervore che metteva nella musica di preghiera. Per il resto, non suonava nient’altro. Aveva provato il pianoforte, ma non gli dava tutte le emozioni che invece un organo, rimbombante e potente, poteva lasciargli. Così aveva abbandonato l’idea di suonare altro, e si limitava a suonare per ogni liturgia possibile.

Mamma era in cucina, ovviamente, dato che pranzavamo da loro. Si stava dando da fare con il gulasch perché da quando le avevo detto che a Dani piaceva molto, eccola lì, ogni visita era sempre a base di gulasch. E di tutti i dolci possibili e immaginabili per la felicità di tutti, ma va bene.

‘Constaaance, ci sono tuo figlio e famiglia!’

‘E’ tuo figlio, se non mi porta il nipotino, Gerard.’

‘Ho detto che c’è anche il resto della famiglia!’

‘Ma potevi dirlo subito! Dennis, tesoro!’

Osservai Dennis farsi abbracciare dalla nonna con un sorriso imbarazzato, mentre Dani seguiva il profumo di pranzo fino alla cucina e io seguivo lui stringendogli la mano.

Dato che mia madre era una cuoca provetta, primo, secondo, contorno e dolce vennero spazzolati in quattro e quattr’otto. Dennis parlava a mio padre di come stesse andando il gruppo, e mio padre gli offrì il garage per le prove. Dennis quasi lanciò un grido, perché lo sapevamo tutti che cercava un posto per le prove da mesi. E ora lo aveva. A momenti si lanciava al collo di mio padre. Mamma, invece, discuteva con Dani di come andassero le cose con me - tutti mi hanno sempre considerato un pericolo pubblico, ma io non faccio niente di male, lo giuro! - e lui sorrideva, e esaltava la vita con me al puro paradiso. Quanto lo amavo.

Era tutto perfetto. Niente poteva intaccare la mia felicità, avevo la pancia piena, un tavolo di persone che amavo e che discutevano di cose piacevoli, e sentivo quel torpore che viene quando mangi troppo, con annessa la voglia di andare a mettermi a dormire da qualche parte.

In quel momento assonnato, mi chiesi se sarebbero comunque andati a pranzo dai miei genitori, Dani e Dennis. E poi, improvviso, il pensiero più doloroso di tutti. Come sarebbero andati avanti?

Seguito da un peggiore. Sarebbero andati avanti?

Dennis di sicuro. Era forte abbastanza da riuscire a tirarsi su dalla tristezza. Ma Dani..? Chi sarebbe stato accanto a Dani? Chi lo avrebbe stretto forte, chiudendogli gli occhi e asciugandogli le lacrime?

Dani non era forte abbastanza, e non potevo pensare di smollare la responsabilità di tenerlo in vita a mio figlio. Mi paralizzai, letteralmente, con gli occhi spalancati ad osservarmi le scarpe, perso nelle visioni che stavano attraversando la mia mente, e giunsi alla stessa conclusione a cui ero arrivato mentre Moni chiacchierava, qualche giorno prima.

Quando me ne fossi andato, la mia famiglia si sarebbe fratturata.

Nessuno fece caso al mio improvviso silenzio, perché non era raro vedermi perso nel nulla ad analizzare qualcosa che mi era stato detto, e a quel tavolo tutti mi conoscevano abbastanza da sapere per certo che non c’era nulla di grave nel mio comportamento.

Ma non riuscivo a togliermi dalla mente l’espressione di Dani quando avesse scoperto che stavo per morire. La vedevo, cristallina. Ancora immaginaria, sì, ma chiarissima. La smorfia sul suo viso.. i suoi occhi spalancati.. persino il sussulto del suo corpo, mentre ancora cerca di capire. Anzi. Di non capire.

Scossi la testa più forte possibile e mi chiusi nel bagno, senza permettere a nessuno di entrare. Da fuori si chiesero cosa stesse succedendo, poi Dani ipotizzò che stessi inventando qualcosa di rivoluzionario e tutto finì in una risata.

Io trattenevo a stento le lacrime.

 

E’ vero, sono un piagnucolone e tendo a fare la vittima. Questo libricino ne è la prova, no?, e beh. E’ una parte di me, del me che tutti considerano tanto bravo e meraviglioso e amichevole e altruista e cose così. Io non mi ci sono mai visto.. ho sempre creduto di sfruttare le persone.

Alla fine, io le sfrutto davvero, le persone, come ogni altro essere umano. Tutti noi pretendiamo qualcosa da altri, che sia una parola gentile, o una serata insieme. E’ una pretesa che facciamo per, magari, scaricare un po’ di stress. Ma è una pretesa.

Io ho preteso amore, ho preteso amicizia, ho preteso tante cose. Se andate a dirlo a Dani lui vi risponderà che non è vero. Che io sono una persona speciale e meravigliosa e che anche lui mi ama, perciò è reciproco, non ci sono pretese nella nostra relazione. Ma lui non capisce il mio punto di vista.

A dire la verità, penso che nessuno capisca davvero quello che mi passa per la testa. C’è chi mi asseconda, sì, c’è anche chi mi accompagna nelle mie follie, ma non è vera comprensione. Magari loro pretendono di capire, quindi si fanno in quattro per cercare di pensare come me. Forse. Non lo so.

Non so più niente.

Rileggendo quello che ho scritto finora, vedo che non c’è filo logico. Non c’è assolutamente niente di quello che volevo scrivere. Che poi, cosa volevo scrivere? Una lettera d’addio a tutti quelli che mi hanno amato? E’ una cosa molto vigliacca, lasciare che sia la carta a parlare, mentre mi lascio morire.

No, non è una lettera d’addio. E’ uno sfogo, un diario. Nasce come tale, così deve rimanere. Sto scrivendo così tante cose inutili, ma forse ho solo bisogno di rivivere ogni momento di questo poco tempo che mi è rimasto. Sì, dev’essere così.

L’essere umano è debole e ha paura. Io ho paura, ho tantissima paura, della morte, del nulla o di Dio, di qualunque cosa ci sia dopo. O non ci sia dopo.

Vorrei poter sapere cosa mi aspetta. Potrei andare più preparato, potrei spirare con un sorriso sul volto, in quel caso. E’ come quando vai sulle montagne russe per la prima volta. Non ti aspetti niente di troppo eccessivo e poi stai male per tre giorni, oppure ti aspetti chissà cosa e ti ritrovi su un bruco mela. Sì, la vita è un’enorme montagna russa. E rende, come paragone. Tutti corrono, fanno a botte per arrivare primi, e chi se la prende comoda non riesce a salire sulla giostra.

L’unica differenza è che nelle montagne russe della vita manca un pezzo di rotaia, e ogni vagoncino crolla nel vuoto della morte.

Vorrei tanto poter fare un giro di prova sul bruco mela.

 

Una volta ci sono andato, al luna park, ero con il governo. Ce l’avevo trascinato contro la sua volontà, in quei giorni che sembravano dover essere solo l’inizio di una lunga, lunghissima vita.

Andy non era molto d’accordo, di fuori. Comunque non mi avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi esaltato, né spaventato. Salimmo insieme sulle montagne russe e non saprei dire chi dei due abbia urlato di più. Forse io- comunque, la sua versione sarà sempre contro di me.

Andy mi vuole bene. Non so come mai, non so quale strano legame ci sia tra noi due. L’ho conosciuto per caso, come ho conosciuto tutti. Sul tram, lui guardava fuori e sembrava che non pensasse a niente, però aveva dei mocassini bellissimi. Erano neri. Con le borchie. E le fibbie arancioni. Mi ero deciso a chiacchierare con lui fino ad accompagnarlo a casa, ma più camminavamo, più mi rendevo conto che stava girando in cerchi. Come se non volesse che io sapessi il suo indirizzo.

C’è da dire che non avevo proprio niente di meglio da fare, quel giorno. Continuai a seguirlo impassibile, inventandomi qualunque cavolata per insistere con le chiacchiere, e lui mi guardava stranito. Probabilmente aveva del lavoro da fare, a casa, e io gli stavo impedendo di arrivare.

Fantastico! Stavo regalando un po’ di tempo libero a un impiegato superimpegnato. Anche se non mi sembrava un impiegato. Aveva una bella giacca smanicata e una bella cravatta, e non camminava ingobbito come tutti, nossignore. Era.. un passo regale. Sicuro. Di chi sapeva mettere un piede dopo l’altro.

Alla fine sbottò, dicendomi di andarmene. Per tutta risposta, allargai il sorriso più possibile, gli smollai un biglietto col mio numero e l’indirizzo del bar di Cooper, e me ne andai canticchiante.

Oh, ci avevo preso. Il giorno dopo, all’orario di apertura, Coop si ritrovò Andy alla porta, che guardava l’orologio, nervoso. Forse era in ritardo al lavoro.

Mi ero ripromesso di passare da Cooper comunque, quel giorno, quindi arrivai avanzando con tutta la tranquillità del mondo, e lui mi fulminò da sotto gli occhiali da sole.

‘Allora, cosa vuoi da me? Sei un terrorista o cosa?’

Rimasi un momentino interdetto.

‘Sono un fiume, non so se i fiumi siano terroristi.’

Alzò gli occhi al cielo e fece per andarsene.

‘Aspet- Mi chiamo René! E tu?’

‘.. Andrew.’

Da quel giorno, molto lentamente, cominciammo a vederci, al bar, o in giro, al parco. Lui aveva localizzato casa mia, e a volte lo vedevo girare con noncuranza per il mio quartiere. Era una cosa esaltante. Dani mi dava del pazzoide, e poi rideva.

Quando ci incontravamo per strada ci salutavamo formalmente. Un paio di domandine necessarie, poi lui se ne andava per la sua strada e io per la mia. Piano piano, queste domandine diventarono sempre più intime, e le conversazioni sempre più lunghe, tanto che dovemmo metterci a sedere su una panchina, una volta. Rimanemmo nel parco per un paio d’ore.

E diventammo migliori amici. Piano, eh!, con tutta la tranquillità del mondo. Per una relazione non c’era bisogno di correre. Un annetto, circa, ma neanche. Qualche mese. Che era tanto, per i miei standard di esaltazione. Era presente al mio matrimonio, e lo costrinsi ad essere mio testimone.

Ora.. ora ci parlo più o meno ogni giorno, via telefono o via sms, o in qualunque modo io riesca a raggiungerlo,  e cerco di passare con lui più tempo possibile, perché è sempre impegnato e ha tanto da fare. Però è mio amico, e uno dei migliori. Perché Andrew Watson non da la sua fiducia a chiunque, o almeno così mi ha detto. Come mi ha detto tante tante cose. Che inizialmente erano bugie, ma sono sicuro che ha smesso di mentirmi, dai suoi occhi e dal sorriso che mi fa quando mi vede.

Avevamo davvero poco tempo, quelle volte, e quando dico ‘poco’ intendo davvero poco. Qualcosa come una manciata di minuti per prendere un caffè assieme e aggiornarci velocemente sulle nostre vite.

Lo incontrai esattamente un mese dopo aver scoperto di essere terminale. E non gli dissi niente del tumore, come avevo già progettato. Gli raccontai della musica registrata, della band di Dennis che andava a gonfie vele, di come tutto stesse andando per il meglio. Lui non sorrise, intrecciò le dita e mi guardò storto. Continuai a restare allegro e a raccontare aneddoti a caso, e lui continuava a non sorridere.

‘Va tutto bene, vero René?’

‘E quindi Cooper ha- .. certo che sì! Perché chiedi?’

‘… tanto per.’

Ero pietrificato, me lo ricordo. Andy era bravo, a capire le persone, anche troppo bravo. Mi chiedevo come facesse, a ‘dedurre’ tutto quello che ti passava per la testa. E non avevo pensato al fatto che avrebbe potuto leggere i miei sentimenti verso la morte. Il suo sguardo mi trapassava. Cercai di concentrarmi sui suoi capelli rossi, o sul cameriere dietro di lui, ma sentivo che mi analizzava, freddo, e che sapeva ogni cosa. Più o meno. Restammo in silenzio per secoli. Lui analizzava, io trattenevo il respiro.

‘.. Hai smesso di parlare, che c’è?’

‘Oh-uhm-ecco- mi stavi fissando.’

‘Cerco di capire cosa non vuoi dirmi.’

Eccolo. Sapeva. Sapeva tutto, o avrebbe saputo tutto in pochi secondi. Io non potevo permetterlo, ma non sapevo neanche come fermarlo. Distolsi lo sguardo e feci per alzarmi, ma lui mi bloccò, tenendomi saldo per la manica.

‘Ok, ok. La smetto.’ disse. I suoi occhi continuavano ad analizzarmi, però, come se la bocca non avesse detto niente. ‘Però lo sai che qualunque cosa, a me puoi dirla, vero?’

Deglutii, per poi annuire. Sembrò soddisfatto, così chiuse gli occhi e girò il suo caffè.

‘Stavi dicendo, di Cooper?’

Mi aveva provato tutto quello che poteva essere ancora incerto. Un Andrew avrebbe lottato con unghie e denti per sapere il mio segreto, ma lui si fidava di me. E io stavo tradendo la sua fiducia.

Improvvisamente mi sentivo un mostro, perciò accusai un malessere e me ne andai, la mani affondate nelle tasche, mentre sentivo il suo sguardo seguirmi, come indeciso se lasciarmi andare o no.

Mi lasciò andare.

Io tornai in chiesa, il tempo veloce di recitare un’Ave Maria. Poi rientrai in casa.

 

°*°*°*°*°*°*°

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Capitolo 3
*** Intermezzo~ ***


2. Intermezzo~



 

Per il resto del mondo a me conosciuto erano giorni tranquilli, quelli del mio secondo mese. Dennis spesso portava i membri della band a casa nostra per la ‘merenda’, e poi passavano le ore a comporre in camera sua. Dani non intuiva niente, e continuava a vivere come se niente fosse. Canticchiava mentre rimetteva a posto la libreria, mi osservava mentre cucinavo e cercava di imitarmi, si sedeva in poltrona e scriveva, o leggeva, o suonava il violino.

Io passavo le ore a guardare fuori dalla finestra. Contemplavo la bellezza della vita, cercando di nascondere il pensiero della paura della morte. Nessuno se ne accorgeva, comunque, ero solo con le mie paure. Mi guardavo le mani, aspettandomi da un momento all’altro di vederle sfocate, o tremanti; sfioravo ogni cosa in punta di dita. Quant’era diverso toccare il velluto della poltrona, ora che era una cosa che non avrei potuto fare per sempre! E com’erano diversi il legno della libreria e quello della finestra!

Cominciavo a fare caso a tutto quello che ci sfugge, che mi era sfuggito, nonostante fossi così osservatore. Guardavo le pieghe della tenda e del tappeto, ascoltavo il rumore della casa. Il rubinetto del lavandino non era chiuso bene, una goccia cadeva ogni diciassette secondi. La lavatrice rombava, in un duetto con la lavastoviglie poco lontana. La risata di mio figlio saliva, forte e chiara, tra le risate dei suoi amici nella camera. Dani stava intonando un motivetto, mentre chiudeva uno sportello. Il tappo del barattolo di nutella, quando veniva svitato, faceva ‘pop’. Non ci avevo mai, mai mai fatto caso.

Anche gli odori erano diversi. C’era il profumo del disinfettante nel bagno, e c’era il deodorante spray che avevo tanto insistito per comprare - profumava di mughetti! - e che poi non avevo mai davvero considerato e apprezzato. C’era il profumo di dolci in cucina, e c’era l’odore di Dani in camera nostra. Il miglior profumo del mondo.

Ogni cosa era nuova. Importante- anzi, che dico!, indispensabile. Reimparai a camminare lentamente, cercando ogni particolare. A parlare piano per ascoltare il resto. Dani si stupì moltissimo della mia improvvisa fiaccagine. Mi guardava ciondolare per casa, indagatore. Sembrava volesse assolutamente capire cosa mi ‘stesse succedendo’.

‘Non sei più iperattivo! Che ti succede?’ buttava lì, con una risata. Io rispondevo con un sorriso, e scuotevo la testa. E continuavo a godermi ogni cosa, senza pensare che Dani potesse preoccuparsi per me.

Invece lo stava facendo. Me ne accorsi quando Cooper mi chiese la stessa cosa, un paio di giorni dopo. Allora non potevo più godermi tutto senza attirare l’attenzione. Dovevo tornare in me? Quel me faticoso e saltellante e infantile e seccante? Non mi preferivano calmo com’ero?
Evidentemente no. Perciò ammisi con un sospiro di essere stato piuttosto stanco, e che appena avessi ripreso un po’ di riposo sarei tornato come nuovo.

Cooper mi parve soddisfatto, e così anche Dani. Io, però, non sapevo come fare. Non ero iperattivo per scelta, se avevo un bisogno impellente di correre fuori alle tre cercando la pietra filosofale, lo facevo. Non mi inventavo le cose, come molti pensavano, solo per attirare l’attenzione.

Le cose le facevo sul serio.

Perciò, mi trovai a dover fingere di avere impellenti bisogni di correre in giro e fare rumore a casaccio. A loro andava bene così, in fondo nessuno capiva mai il collegamento che c’era tra una cosa e un’altra, quando parlavo. Potevo uscirmene con qualunque cosa, e nessuno ci avrebbe fatto troppo caso.

Era perfetto!

E dannatamente faticoso.

 

Una di quelle sere, Dennis ci comunicò che sarebbe stato fuori per la notte, quindi Dani ed io decidemmo di passare un po’ di tempo insieme, a passeggiare sotto le stelle. Era una cosa che non facevamo da un po’, con la musica e nostro figlio e impegni di altro genere.

Quella sera si stava bene. Tirava vento, ma non troppo, abbastanza da rendere fresca l’aria senza disturbarci scompigliandoci i capelli. Una leggera brezza, che sembrava messa apposta per scacciare l’afa di quella sera di inizio giugno.

Camminavamo vicini, Dani aggrappato saldamente al mio braccio con entrambe le mani, io che tenevo la mano sinistra nella tasca della giacchetta. Avanzavamo lentamente, senza fretta. Intorno a noi, le macchine correvano avanti e indietro, come le persone e le luci, ma le stelle se la prendevano comoda, e noi con loro. Nessuno avrebbe potuto mettere fretta al passaggio della luna, solo Dio. Ed ero certo che Dio non mi avrebbe fatto scherzi di quel genere- voglio dire, me ne aveva già fatti abbastanza, no? ..

Dani era l’addetto a guardare i miei piedi affinché non inciampassi in qualcosa. Io ero troppo intento a stare col naso all’insù per curarmi di evitare di rompermi l’osso del collo.

L’universo era così bello. In città non si vedeva bene, sì, ma si vedeva. Puntini che squarciavano il nero della notte, puntini di luce brillante, lontanissimi da noi, eppure così vividi. Così magici.

Mi piacevano le stelle e mi piacevano le storie che si potevano tirare fuori dalle costellazioni. Io non ne sapevo nulla, però, era Cooper l’esperto che a volte provava a insegnarmi qualcosa. Ma ogni notte le stelle si rimescolavano, non riuscivo più ad identificarle.

Ce n’era una che riconoscevo sempre, era vicina alla Luna e splendeva, splendeva come non si sa cosa. Cooper mi aveva detto che era Venere. Quindi, praticamente non era una stella. Ma nel suo non essere una stella era speciale. Alzai la mano, indicandola.

‘Dani, quella è la nostra stella.’ Affermai. Lui alzò gli occhi e seguì il mio dito con la fronte corrugata, fino a trovare cosa stavo indicando. Poi si volto con fare interrogativo.

‘Perché proprio quella?’

‘Perché non ricordo le altr- perché splende più delle altre. E perché è vicina alla luna, sì.’

Non nascose una risata, mentre si riaccoccolava sul mio braccio.

‘Va bene, va bene. La nostra stella. ..’

‘.. Se dovessimo essere separati per qualunque motivo, ci basterebbe guardare la stessa stella nello stesso momento. Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, bene o male.’

Dani annuì, assorto. L’idea gli piaceva di sicuro. Continuammo a camminare lentamente.

‘Perché dovremmo essere separati, René?’

‘.. beh, non lo so, magari.. magari ti offriranno un lavoro e tu andrai lontano per seguirlo..’

‘Rinuncerei al lavoro, come lo faresti anche tu. Non c’è motivo di separarci, stiamo bene così.’

Rimasi in silenzio, ma affrettai il passo. E lui se ne accorse.

‘.. René, c’è qualcosa che non va?’

‘No, va tutto perfettamente. Tutto.. tutto perfettamente.’

E lui capiva che non era così. L’aveva capito eccome- non che ci volesse molto. Potevo provarci quanto volevo, ma dannazione, stavo sempre morendo di un tumore al cervello.

Mi strinse il braccio e non commentò ulteriormente. Lo amai, per quello spirito di fiducia, e mi odiai profondamente, perché come con Andy la stavo tradendo.

A un certo punto, i nostri occhi si incontrarono. Io li avevo abbassati sui miei piedi e lui alzati alle stelle, nello stesso momento e, puff!; si incontrarono. Tenni alto il contatto visivo per qualche secondo. Poi tirai fuori il miglior sorriso che potessi fare in quel frangente, e girai su me stesso.

‘Torniamo a casa? Ho improvvisamente voglia di fare l’amore con te.’

Inutile cercare di descrivere le migliaia di tonalità di rosso che prese la sua faccia. Sorrise, imbarazzato come non mai, e annuì piano.

‘Va bene. Non capirò mai come tu possa- ah, lasciamo perdere.’

C’era da dire che ero già stanco. Non avevamo camminato molto, eppure ero affaticato. Soltanto l’idea di fare dell’altro movimento mi stancava, ma l’avevo proposto io. E poi, alla fin fine, non mi sarei tirato indietro per niente al mondo.

Così, ci ritrovammo accoccolati, dopo. Lui si era raggomitolato sul mio petto, io prendevo possesso della parte di letto non occupata da lui. Ci respiravamo addosso lentamente, lui sul mio collo, io sui suoi capelli. Stavamo bene, comodi, al caldo ma non troppo. Quel che basta per stringersi e coccolarsi.

Dani si addormentò quasi subito. Percepii il suo respiro farsi leggermente più pesante, le sue braccia stringermi meno forte. Io rimasi a guardarlo, impassibile, anche se ero stanco.

Da addormentato, Dani era ancora più bello. Rilassato, con un sorriso stampato sul volto. Se ti addormenti con un sorriso, vuol dire che sei felice, e lui era felice grazie a me. Ero lusingato da quel complimento silenzioso che tutto Dani stava cercando di regalarmi.

La stanchezza, però, ebbe il sopravvento pochi minuti dopo. Crollai, il naso affondato tra i ricciolini e gli occhi che si chiusero sull’immagine del lenzuolo azzurro.

Ma non stavo sorridendo.

 

Il fiume è prosciugato. L’aria è secca. Gli alberi sono appassiti, l’erba è gialla. Non ci sono fiori, non c’è un punto di colore da nessuna parte. Solo i colori del morto.

Non si sente un suono, non un uccellino, non una voce, non un clacson, non una nota. Niente di niente. Lo statico di una fotografia d’epoca.

Poi un movimento. Dal letto del fiume, dei fili neri escono strisciando. Non sono fili, sono lombrichi. Grossi, grassi lombrichi che si nutrono della vita che è rimasta, di quel poco e niente di vita che c’è in quello scenario. E sono paralizzato. E non posso muovermi.

I lombrichi strisciano verso di me, veloci, famelici. Sono così vivo, per loro. Se sapessero quanto mi manca non si avvicinerebbero nemmeno.

No, aspetta..! Si sono fermati. Non è me che vogliono. Abbasso gli occhi per controllarmi, e sono un tronco. Un tronco appena appassito. Le foglie non si sono ancora staccate tutte. Sono un salice, un salice piangente.

Ma non c’è più acqua per permettermi di piangere.

E all’improvviso, brucia. La mia testa brucia. Il fuoco è ovunque, divampa, mi divora e mi danza intorno, e cattura le foglie, i rami, tutto di me. E mi brucia. Diventerò cenere! Non c’è nessuno che mi può aiutare? Nessuno? Aiuto! Aiuto! Ho bisogno.. di aiuto..

 

Mi svegliai di soprassalto, un sussulto terrorizzato. Dani con me, anche più spaventato di quanto non fossi io. Si agitò per qualche attimo, poi piantò gli occhi nei miei, interrogandomi con lo sguardo.

‘.. era solo un brutto sogno, Dani. Solo un brutto sogno..’

‘Un brutto sogno che ti ha fatto quasi urlare. René, non va tutto bene. Sono giorni che ti comporti in modo strano! Dimmi cosa succede!’

‘Non succede niente!’ Bugie. ‘Sto bene.’ Bugie! ‘E’ solo che sono un po’ stanco.’ Bugie!

Mentire a Dani, io! Mentirgli così spudoratamente.

Ero nel panico, però. Non potevo fare altro. Presi un respiro forte, e tirai un sorriso che, però, non doveva essere molto convincente, visto la smorfia con cui mi rispose Dani.

‘.. Ti faccio una camomilla?’

‘No, no! Non preoccuparti, ti prego. Vado a prendere una boccata d’aria, torno subito.’

Mi alzai dal letto e presi un pantalone di tuta qualunque, per poi uscire a passi strascicati, guardando di fuori. Le stelle, alle.. che ore erano? Le tre?, alle tre e ventiquattro di notte, si vedevano meglio. Le macchine passavano con meno frequenza, tre ragazzi si erano accampati nel giardinetto sotto casa, e probabilmente erano ubriachi o fatti, viste le risate che arrivavano fino a me.

Le stelle continuavano a brillare. Il vento, per dimostrarmi che non dovevo avere paura, che era stato solo un sogno, venne a scompigliarmi il ciuffo amorevolmente.

Io piangevo. Piangevo perché non volevo morire. Piangevo perché non voglio morire. Piangevo perché c’era un mondo, lì fuori, che stava vivendo la sua vita, e io andavo dritto verso la mia morte.

Un dottore non dovrebbe dirti che stai morendo. Un dottore dovrebbe guarirti in modo definitivo. Un dottore dovrebbe assisterti fino a dire ‘ecco, ora non morirai più per questo tumore!’, e sorridere. E farti sorridere. E far sorridere la tua famiglia.

Forse io non gliel’avevo permesso, al dottore. E, alla fine, non era sicuramente colpa sua se mi stava succedendo ciò che stava succedendo. Non c’era motivo di rimpiangere la mia scelta di tenere il silenzio. Stava andando tutto a gonfie vele.

La testa mi girava e sentivo il bisogno di rientrare, ma non ero ancora pronto. Non con gli occhi gonfi di pianto.

Dani non sarebbe uscito. Lo conoscevo bene, lo conosco bene, se gli dico che voglio uscire da solo, vuol dire che ho i miei motivi. E poi, poteva essere qualunque cosa. Di certo non gli sarà passato neanche per un secondo nel cervello che io stessi morendo.

Mentre riflettevo e piangevo, la mia voce, un po’ incrinata dal pianto, intonava incerta l’unica canzone che sapevo completamente a memoria.

Ce n’est qu’un au revoir, mes frères, ce n’est qu’un au revoir, ouì, nous, nous reverrons, mes frères, ce n’est qu’un au revoir..’

Forse fu questo ad attirare fuori Dani, dopo un po’. Forse la mia voce era cresciuta d’intensità e lui si stava chiedendo cosa fosse successo. Arrivò a passi felpati, e mi si avvicinò silenziosamente, tanto silenziosamente che non smisi di cantare e di piangere.

Non disse niente. Mi abbracciò da dietro, appoggiando il volto alla mia schiena. Sussultai, interrompendo qualunque cosa stessi facendo, e lui strinse più forte.

Dopo qualche altro attimo di silenzio, ripresi a cantare, più calmo. E lui respirava, e mi stringeva, e io potevo sentire quanto mi era vicino, quanto mi amava, quanto voleva dannatamente potermi aiutare e quanto si sentiva impotente nei miei confronti.

Terminai con l’ultima strofa, mi girai e me lo strinsi al petto. Lui ricambiò la stretta restando in silenzio, anche se i suoi occhi compensavano le domande che la sua bocca non stava facendo. Ci lasciammo cullare dal vento per un po’: era piacevole, ed era il tipo di serata che cercavo quando volevo stare solo con lui.

Lo sentii brontolare qualcosa contro il freddo, mentre mi trascinava in casa. Quale menzogna, fuori si stava benissimo. Mi fece sedere a letto e mi portò una tisana e della nutella. Non bevvi né mangiai nulla, semplicemente mi rimisi sdraiato, e lui si sdraiò con me.

‘Se l’incubo ritorna ci sveglieremo di nuovo insieme, va bene, René?’

‘.. Ti amo, Dani.’

In quel momento, non c’era nient’altro da dire.

 

Avevo smesso di fare gli incubi. Continuavo a fingere di stare bene, e forse ci stavo riuscendo. Anche Dani si era convinto che avessi mangiato pesante, o qualcosa di simile, quella sera. Non mi chiedeva più con così tanta frequenza se stessi bene, si limitava a fidarsi di me.

Una mattina, mi raggiunse in salotto tenendo il cordless, lo sguardo rilassato. ‘E’ per te’, una chiamata di qualcuno, che male poteva esserci?

‘René?’

Il male di un Andrew che aveva scelto di non fidarsi più, giusto. Mi paralizzai, giusto il tempo di prendere fiato e cercare di rilassarmi sulla poltrona.

‘Andy! Cos’è, hai del tempo e possiamo vederci?’ dissi, cercando di sembrare esaltato come al solito.

‘Più o meno.. volevo parlarti.’

Oh, di solito ero io che volevo parlare con lui, non il contrario. Io cominciavo a dire roba, e lui si faceva catturare e chiacchierava volentieri. Ma non era mai, mai successo che fosse lui a dovermi dire qualcosa.

‘.. va bene! Al telefono o..?’

‘Questo devi dirmelo tu. Al telefono o in faccia?’

Restai di nuovo in silenzio. L’Andy che conoscevo e che avrebbe insistito per farmi rispondere era scomparso, dall’altra parte della cornetta c’era soltanto silenzio. Aspettava.

‘.. Sei tu che devi parlarmi.’, azzardai, ‘scegli tu come ti è più comodo.’

Dani mi guardava fisso, con gli occhi mi suggeriva di invitarlo a casa per un caffè. Scossi la testa, lui scrollò le spalle e uscì dal salotto.

‘.. C’è qualcosa che non vuoi dire a nessuno. E ti fa stare male.’ Sibilò. Avrei dovuto pensarci, avrei dovuto pensarci! Potevo nascondere qualunque cosa a chiunque, ma non ad Andy! Mi maledissi.

‘Non- non è vero. Non c’è niente.’ Mormorai in tutta risposta, con la voce calma. Dani non doveva tornare in salotto e ascoltare.

‘Sì, ma questo ‘niente’ ti fa stare male! Io non..’ Una pausa. ‘Io non voglio che tu stia male. Ecco.’

I sentimenti che provai di fronte a quella dichiarazione non possono essere descritti, fu un misto tra il dolore della bugia e la felicità di saperlo così amico, così vicino, così attento a me anche con tutto quello che aveva da fare. Sospirai, passandomi due dita sulla fronte.

‘Perché vuoi saperlo a tutti i costi?’

‘Per lo stesso motivo per cui tu mi hai seguito per ore chiacchierando del più e del meno. Perché ci tengo a te e perché sei mio amico.’ Era infervorato. ‘Spero tu sia soddisfatto, ora.. ora dimmelo. Per favore.’

‘.. Tu però devi promettermi di non dirlo a nessuno.’ Mi ero alzato, e avvicinato alla finestra. Guardavo fuori, stringendo forte il cordless in mano, e riflettevo sulle conseguenze della mia confessione.

‘A chi dovrei dirlo, René? Sfogati. Tra me e te. Prometto.’

Lasciai passare altri secondi, in cui cercavo disperatamente qualcosa a cui attaccarmi. Un punto di inizio per spiegargli che stavo morendo. E mi resi conto che non c’era modo di ‘cominciare l’argomento’. Avrei potuto dire soltanto qualcosa di crudo, una stilettata al cuore. Ho un tumore al cervello e mi resta un mese e mezzo di vita. Qualcosa di simile, giusto?

‘.. Ho paura del tempo che sta passando. Non riesco a fermarlo. Scorre troppo velocemente e io mi ritrovo a- a rimpiangere cose che non ho potuto fare o cose che non riuscirò mai più a fare. Sì. Ecco.’

Non era del tutto una bugia. Forse. Beh, comunque, non la peggiore che fosse uscita dalla mia bocca in quei giorni. Sentii l’atmosfera rilassarsi leggermente. Andy sembrava non aver neanche lontanamente pensato alla mia prossima morte. Decisi di continuare su quel falso pensiero, che poi non era tanto falso, ma va bene.

‘Hai paura di perdere ciò che hai?’ chiese. Annuii, poi mi resi conto che non poteva vedermi e risi piano.

‘Sì. Una stupidaggine. Solo che mi dà da pensare.’

‘Ma René, non c’è niente da rimpiangere e niente di difficile. Ti basta togliere le pile dall’orologio.’

Non pensavo che Andy fosse il tipo da dire una cosa del genere. Probabilmente lui non avrebbe mai tolto la pila dal suo, di orologio, troppi impegni e troppe riunioni e troppo lavoro. Ma io che ero uno spirito libero, un fiume impetuoso, non avevo bisogno di tempo. Chi poteva fermarmi, una diga?, l’avrei buttata giù. E Andy questo lo sapeva. Probabilmente mi disse di staccare solo perché era consapevole che io, al contrario di lui, potevo benissimo permettermelo.

‘.. Hai perfettamente ragione. Penso che lo farò! E mi godrò il tempo che non passa.’

‘Bravo! .. Sono felice che non fosse niente di serio.’

‘Sono felice di avere un amico come te, disposto ad ascoltare anche queste cose stupide. Grazie.’

‘Non ringraziarmi. Dato che non è nulla di urgente, scappo, ho da fare. Alla prossima!’

‘Sì, ecco, sì- adieu.’

‘Quanto sei melodrammatico.’

Attaccò, e l’eco della sua risata finale risuonò per qualche secondo nella mia testa. Staccai il telefono dall’orecchio, osservando la schermata arancione spegnersi lentamente. Poi mi asciugai sbrigativamente le lacrime, rimisi a posto il telefono e andai ad abbracciare Dani.

 

Di Dani amavo tutto, e con ‘tutto’ intendo davvero tutto. Dani era perfetto nel suo camminare con i piedi storti, a papera. Non avanzava a falcate troppo larghe, camminava lento, niente e nessuno potevano mettergli fretta. Dani era perfetto col profumo che si metteva ogni mattina, usciva dal bagno e profumava di buono, di Dani. Impregnava le pareti, i soffitti, i mobili, me, ed era sempre bello prendere una maglietta e sentirla profumata di lui. Dani era perfetto nei suoi gesti e nelle sue espressioni. Quand’era felice, e sorpreso, spalancava la bocca, portava le mani a coprirla, e aveva le pupille dilatate e il sorriso che sostituiva l’espressione impreparata. Quando era imbarazzato, distoglieva lo sguardo con un rossore sulle guance che variava d’intensità a seconda del motivo dell’imbarazzo: un complimento equivaleva a un leggero rosa, quando gli chiedevo di fare l’amore prendeva tanti bellissimi colori, forti e vividi. Dani era perfetto quando parlava, il tono di voce basso, per mettere a proprio agio l’interlocutore. Parlava e mentre parlava accompagnava il discorso a volte con le mani, a volte con gli occhi. Gesticolava in modo eccentrico, oppure lo dimenticava e restava perfettamente immobile. Quando era al telefono non stava mai fermo, camminava per tutta casa, si appoggiava a un muro, poi riprendeva ad avanzare, parlando e ascoltando, e parlando ancora, e fermandosi ad ascoltare. Dani era perfetto anche quando cantava, e quando canticchiava e basta. Mi piaceva sentirlo intonare qualche nota incerta mentre faceva altro, ma quello che adoravo davvero era sentirlo cantare a piena voce. Lo sguardo portato in alto, la concentrazione per mantenersi dritto, le mani che guidavano le note, si alzavano verso l’alto se la canzone era impegnativa e alta, si abbassavano in caso contrario. Si dirigeva da solo, dirigeva l’aria e le corde vocali, e il diaframma, e la bocca spalancata in una ‘o’ anche quando cantava una ‘a’, come i cantanti lirici italiani. Ed era bravo, oh, se era bravo. Sarei stato le ore ad ascoltarlo, e a cantare con lui. A volte stonavamo; le nostre voci erano strumenti che non riuscivamo del tutto a controllare. In quei casi Dennis usciva dalla camera con uno sguardo disperato, e ci intimava di fare silenzio. Lui sì che aveva l’orecchio assoluto. E allora Dani rideva, vergognandosi della stonatura, e io ridevo con lui. Gli brillavano gli occhi.

Dani era perfetto quando suonava. Sapevo a memoria il rituale. Apriva la custodia del violino, lento, controllando i movimenti per non rovinarla, estraeva lo strumento tenendolo con ferma delicatezza, per impedire di farselo sfuggire dalle mani, poi lo intersecava nell’incavo tra spalla e collo. Tenendolo con una mano, le dita che già andavano a pizzicare le corde per verificare che fosse accordato, l’altra mano prendeva l’archetto. Terminato di preparare lo strumento, si preparava lui: divaricava leggermente le gambe, stiracchiava le spalle, chiudeva gli occhi e inclinava il collo facendo ondeggiare piano i ricciolini. Poi posava l’archetto sulle corde e suonava un’ottava verso l’alto e verso il basso. Valutato che tutto era al suo posto, cominciava la magia. A malapena seguivo le dita che si rincorrevano, sfrenate, sul legno. Incedeva con decisione, eppure con eleganza, e l’archetto si muoveva aggraziato secondo i suoi desideri.

Mentre la musica lo circondava e le note gli risuonavano nelle orecchie, sorrideva. Era un processo lento: prima accennava un sorriso, tirando su un angolo della bocca. Poi l’altro. Poi stendeva le labbra in un’espressione soddisfatta, poi tirava fuori la lingua, la mordeva piano, e il sorriso era improvvisamente più ampio. A volte, se la musica era perfetta, priva di stonature, e originale, rideva.

Rideva piano, sì, per non disturbare il suo strumento e le sue braccia che erano automi, però rideva. La musica poteva renderlo felice quanto lo rendevo felice io, e questo faceva felice me. Il violino non l’avrebbe mai abbandonato.

Dani era perfetto qualunque cosa si mettesse addosso: Dani era perfetto con un completo, era perfetto in pigiama, era perfetto in camicia e pantaloni, era perfetto con una mia felpa, era perfetto con un cappello ed era perfetto con degli occhiali, da sole o meno, era perfetto in costume da bagno ed era perfetto anche nudo. A volte mi interrogavo su come potessero stargli dei vestiti da donna, ma lui non era mai stato d’accordo con le mie insistenti richieste di farglieli provare.

Dani era perfetto con me e per me. Dani sapeva come farmi stare buono, come farmi stare bene, come farmi stare. Dani sapeva, punto, sapeva tutto di me e sapeva come farmi cambiare umore in pochi attimi. Dani mi ascoltava, Dani aveva la pazienza di seguire i miei discorsi anche se non ne seguiva il filo, Dani mi accompagnava in ogni missione impossibile che io mi mettevo in testa di compiere, Dani sopportava la mia insonnia, la mia iperattività, il mio continuo bisogno di affetto.

Dani, in sostanza, mi amava.

Ed era tutto ciò di cui avevo sempre avuto bisogno. Per lui avrei rinunciato a Cooper, ad Andy, a Federico. A mamma e papà. A Dennis, anche. A Moni, sì, anche a Moni. Alla musica. Alla nutella. Qualunque cosa, pur di averlo con me. E anche lui avrebbe rinunciato a qualunque cosa, e sarebbe stato con me in ogni frangente, anche il più spaventoso, povero, pericoloso o difficile. Me l’aveva promesso mentre ci scambiavamo le fedi nuziali, e anche molto prima, quando mi aveva preso le dita e aveva risposto al mio ti amo.

 

Era fine giugno, Dennis e gli altri ragazzi del gruppo avevano organizzato un concerto di mezza estate, e io ero impaziente di vedere mio figlio sul palco. Anche perché sarebbe stata la prima e l’ultima volta, sicuramente. Quella sera l’incubo che mi aveva soltanto sfiorato per tutto il tempo precedente cominciò a prendere spaventosamente forma, e in modo troppo veloce.

Ero seduto accanto a Dani, nella sala c’erano amici, conoscenti, ragazzi della scuola di Dennis, un mucchio di persone che avrebbero apprezzato la musica di quel gruppo qualunque cosa avessero suonato, e questo mi rassicurava sul buon esito della serata. Pensavo all’umore di Dennis che sarebbe volato alle stelle, e sorridevo tra me e me.

Faceva caldo, il vociare delle persone accompagnava dolcemente la calma che c’era in quel luogo. Strinsi piano la mano di Dani, sorridendogli e appoggiandomi alla sua spalla.

Per un momento, per un singolo, misero, momento, mi dimenticai di quello che stavo passando. Ma non archiviai soltanto, me ne dimenticai proprio. Era tutto troppo bello e troppo perfetto per pensare a qualunque cosa.

Dani aveva risposto alla stretta, forse intenerito. Si inteneriva sempre quando esprimevo effetto a caso. Era una cosa che io adoravo di lui, perché a mia volta anche io mi lasciavo stupire dalla sua dolcezza. Il nostro rapporto era un continuo stupirci vicendevolmente, e andava bene così.

Dennis salì sul palco per primo, con un sorriso smagliante e la chitarra al collo. Salutò la sala come se fosse una folla infinita, e cercò nelle nostre espressioni l’approvazione che gli avrebbe dato la carica giusta per cominciare. Lo seguì Charlene, la sua migliore-amica-da-sempre, con cui aveva cantato, ballato, suonato, fatto di tutto. Charlene era stata benedetta da una voce splendida, e quindi immediatamente reclutata nella band che andava formandosi. Appresso a lei, salirono i loro ‘nuovi amici’, la batterista Jude e il bassista Mathias. Praticamente, si erano conosciuti su un forum musicale, e si erano trovati per suonare tutti insieme. Si erano piaciuti, e così era andata. Dani non lo sapeva, ma io ero a conoscenza dell’attrazione che Dennis provava nei confronti della sua nuova batterista. A me lo aveva detto. Mi aveva chiesto di raccontargli come avessi fatto colpo su Dani, pensate un po’.

Ero certo che, con la ragazza che nascondeva un certo timore per il palcoscenico dietro il montare dei piatti aggiuntivi alla batteria, a Dennis sarebbe bastato essere se stesso per conquistarla in un battibaleno. Peccato che lui non ne fosse del tutto convinto.

Afferrò il microfono, si schiarì la voce e presentò la band, i componenti e le cover che avrebbero eseguito. Tutte canzoni a me anonime, a parte un paio che dimostravano che qualcosa da me l’aveva imparato. Cominciarono con una canzone che doveva scaldarli tutti quanti, e ci riuscì indubbiamente. Charlene agitava i capelli, le guance rosse per lo sforzo di cantare al meglio, mentre Dennis le faceva il controcoro dal microfono secondario. Li guardavo impegnarsi al massimo e vedevo in mio figlio il me bambino.

Giuro che mi commossi. E Dani se ne accorse, e ridacchiò, e mi schioccò un bacio sulla guancia.

Suonarono tutta la scaletta, alcuni del pubblico si erano alzati e cantavano con loro, Dani ed io rimanevamo al nostro posto, a battere le mani più forte possibile alla fine di ogni canzone.

Alla fine, Dennis fece un cenno agli altri, riprese possesso del microfono primario, e piazzò gli occhi su di noi.

‘Ora, dato che i miei fantastici genitori stanno per festeggiare il loro quindicesimo anno di matrimonio, avremmo una sorpresa per loro.’, e ammiccò. Sentii Dani paralizzarsi, incuriosito; io mi sporsi avanti, cercando di intuire cosa potesse essere la sorpresa.

La sorpresa era ‘you’re the one that I want’, la canzone di John Travolta e Olivia Newton. Una di quelle canzoni cult ‘da vecchietti’, che Dennis tendeva a schifare quando veniva messa a tutto volume in salotto, e che Dani ed io non ci risparmiavamo mai di ballare.

‘Sarebbe una specie di vendetta perché me la fanno ascoltare troppe volte alla settimana, e non solo, ballano pure.’ Risate. ‘Ora ballerete perché il vostro adorato figliolo vi ha fatto una sorpresa e ve lo chiede. Su, in piedi!’

Come se per me fosse un problema. Un momento, ed ero in piedi. Dani sembrava più restio, fui costretto a trascinarlo al centro della sala con la forza, e lui rideva, ed era tutto rosso, e non voleva assolutamente perché ‘stai scherzando vero oddio che cosa imbarazzante René lasciami’.

Ovviamente non lo lasciai.

Dennis sbuffò, incrociò le braccia, e chiese ad altri volontari dal pubblico di venire a ballare per tirare fuori il ballerino che era in Dani. E probabilmente era una cosa programmata che tutti sapevano a parte noi, perché subito Cooper sbucò dal nulla trascinandosi un Len più imbarazzato di Dani, e Federico aveva due scope, una per mano, perché sapeva perfettamente che Len sarebbe fuggito, checché Cooper ne dicesse.

Alcuni ragazzi si alzarono per venire a ballare, e alla fine lo spazio tra pubblico e palco non era poi così tanto vuoto. C’era da dire che chiunque fosse al faro centrale faceva di tutto per mettere in evidenza me e Dani, e a me andava benissimo, ma Dani continuava a balbettare che non se la sentiva. E non ne potevo più- insomma, conosco Dani, sapevo perfettamente come poteva scatenarsi anche davanti a una folla, col violino, perché non ballando? Solo perché nessuno dei due era veramente capace su un ballo di Grease?

Gli presi il volto tra le mani e lo baciai, accompagnato da un coro di ‘uuuh’ degli idioti nel pubblico. (Cooper e Federico.)

Dani si rilassò immediatamente tra le mie braccia. Io lo facevo stare così bene. Era tutto merito mio. Mi sentii ancora più motivato a ballare, quando mi staccai dalle sue labbra, lasciando il naso e la fronte sui suoi. Lui sorrise, sospirò, e annuì.

Per il primo minuto, in cui tutti ridevano, cantavano, ballavano, battevano le mani, fischiavano, combattevano con le scope, non pensavo a niente. L’adrenalina e la voglia di vivere che mi scorrevano dentro, facendomi battere forte il cuore, non mi preoccupavano: era tutto normale, per me. Ballavamo, Dani si era attaccato alle mie spalle perché gli avevo pestato i piedi e cercava vendetta, Dennis aveva una voce quasi migliore di quella di John Travolta e tutto era meraviglioso.

Finché non vidi tutto buio, e mi bloccai sul posto. Immobile. La musica c’era, la canzone anche, il vociare pure non era scomparso, ma non vedevo nulla. Mi feci prendere dal panico, girai su me stesso, caddi a terra con un tonfo. Qualcuno rise, Dani si chinò su di me, preoccupato.

Ero cieco. Ero cieco e non avevo neanche fatto in tempo ad imprimermi i lineamenti di Dani nella mente. Annaspai, agitando le braccia, cercando di formulare una frase di senso compiuto. Poi presi a sbattere velocemente le palpebre, e piano piano rimisi a fuoco la stanza. Il volto di Dani era lì. Una smorfia preoccupata, ma era lì.

Ero talmente sollevato che risi forte. Mi rialzai, gli ripresi le mani, e ricominciai a ballare. Vidi il sospetto sparire dalla sua faccia e il sorriso tornare a splendere. E lo contemplai, quel sorriso, e quel volto. L’ho già detto, Dani era tutto perfetto.

La canzone continuò per dieci minuti buoni, ripetendo gli ultimi accordi per chissà quanto. Tutti erano troppo presi a divertirsi per notare che sarebbe dovuta essere finita da un po’- e poi perché finirla, se tutti si divertivano?

Quando l’ultimo accordo di chitarra svanì nell’eco degli amplificatori e la voce di nostro figlio annunciò che il concerto era ufficialmente finito, ringraziando tutti gli astanti e offrendo una birra a tutti al bar di Cooper, mi girava la testa, quindi mi accasciai su Dani, e ci rimasi per tutta la sera, anche al bar, dove ‘una birra’ si trasformò nel continuò del concerto, solo offerto dalla radio mezza rotta di Coop e dagli eventuali aspiranti cantanti che provavano il karaoke.

Il ballare non mi aveva provato tanto quanto il panico del buio, ma preferii non rischiare ulteriormente e rimasi piuttosto calmo, a parlare, a ridere e, se necessario, anche a cantare. E la testa mi girava.

Non sono un idiota e non lo ero neanche allora. Se il mio corpo mi faceva quegli scherzi, voleva dire che non mancava molto. Un mese, anche di meno, secondo il calendario che avevo sfogliato mentalmente. Quando Cooper mi offrì una birra, la buttai giù in un sorso solo.

Avevo tanta, tanta paura.

 

Nei giorni seguenti la paura non scemò, anzi: ogni cosa che facevo, anzi, ogni cosa che provavo a fare, mi costavano tutte tanta fatica. ‘Tanta’, poi. Ero all’inizio, ancora non sapevo quanto sarebbe diventato difficile. Quanto impossibile mi sarebbe stato anche solo alzare la testa senza provare fitte lancinanti ovunque. Ma non lo sapevo, e la mia infermità parziale mi provocava tanti problemi quanti sospetti da parte di Dani, che aveva ripreso con le inquisitorie domande di ‘va tutto bene?’, a cui dovevo dolorosamente mentire.

Probabilmente Dani si confidò di nuovo con Cooper, che se ne uscì con l’idea peggiore che potesse farsi venire in mente. Un viaggio, noi due, Dani e Len, in roulotte in giro per l’Europa. Per staccare un po’ la spina. Mi vedeva sempre stressato e non era normale, e si sentiva in dovere di farmi rispuntare il sorriso.

Beh, ovvio che accettai. Primo, non avrei mai detto di no a un viaggio con Coop. Secondo, René non avrebbe mai detto di no a un viaggio con Coop. E io dovevo rimanere René. Continuare a sentirmi René. Anche senza i balzi, le corse, le urla e le missioni impossibili. René, René, René.

E’ assurdo doversi concentrare per non sbagliare una battuta che devi inventare sul momento. Davvero assurdo. Per rimanere te stesso devi fare uno sforzo enorme, e gli altri neanche lo noteranno. Lo fai per egoismo, perché non vuoi affrontare la loro sofferenza.

Io mi sentivo in colpa, per il tumore. Come se, poi, fosse colpa mia. Non avrei retto i loro sguardi, quindi preferivo soffrire da solo. E me ne vergognavo, e avevo tanto bisogno di aiuto. Ma nessuno poteva davvero aiutarmi, solo Dio, e Dio si era dimenticato di me, in quel momento.

Quindi sì. Annunciai a Dani della vacanza improvvisata, e lui ne fu entusiasta. Probabilmente lo sapeva già. Ma non m’importava, io non sapevo che loro sapevano di sapere- oh, vabbeh, quello.

Dennis non poteva essere più felice.

‘Ma state via quanto vi pare, ho 16 anni, so badare a me stesso.’ Sguardo troppo angelico e voce troppo innocente. Qualche festino e chissà quanta gente in casa nostra, in quelle due settimane. E io non l’avrei mai saputo. Scossi la testa, e tornai a pensare come un René felice per un viaggio.

Potevo farcela. Dovevo resistere poco, poco ancora. E il mal di testa non era ancora così incontrollabile.

Misi nella valigia tanta roba inutile che però volevo avere con me. Roba che non mi sentivo di abbandonare così, subito, senza un ultimo saluto. L’album di fotografie, ad esempio. L’arpa. Dani protestò, mi disse che non ci sarebbe stata occasione di suonarla e che magari non ci sarebbe stato spazio nella roulotte, ma non volli sentire ragioni. Lasciarla? E impedirle di starmi vicina fino alla fine? Oh, non me l’avrebbe perdonato mai. E Dani sapeva che quando mi mettevo in testa qualcosa, era quella. Scosse la testa, sorrise, e mi permise di portare tutte le stupidaggini che mi passavano sotto mano.

‘Finii’, chiudendo il borsone, e mi buttai ad angelo sul letto, aspettandomi che Dani mi seguisse. Lo fece, ma con più calma, e mi si appallottolò accanto.

‘Tra quanto arriva Coop?’

‘Tra un paio d’ore. Abbiamo tempo.’

Annuii, carezzandolo distrattamente. Mi guardavo intorno, salutavo ogni oggetto con lo sguardo. Ciao tende con cui ho giocato a nascondino. Ciao malvagia abat-jour terrorista. Ciao tappeto inciampatore. Ciao baule dei ricordi, ciao armadio delle camicie orrende, ciao lettone azzurro. Dani era troppo impegnato a godersi le coccole per realizzare che il mio sguardo era perso molto più lontano, nell’abbandono e nella paura che ne conseguiva.

Dopo un po’ mi alzai, con sommo disappunto di Dani, che mi guardò storto mentre barcollavo verso il salotto. Mi guardavo intorno, e salutavo. Ciao stereo magico. Ciao televisione mezza rotta. Ciao libreria. Ciao angolo della musica. Ciao finestra sulla strada. Ciao poltrona di Dani, ciao mia poltrona. Ciao divano di Dennis e amici. Camminai per tutta la casa, salutando con la mente tutto quanto. Dani mi seguiva, incerto sul da farsi. Forse mi aveva preso per un sonnambulo psicopatico, e tutti sanno che i sonnambuli - soprattutto quelli psicopatici - non vanno disturbati dal loro vagabondare.

Andai a bussare alla porta di Dennis, che aprì con sguardo incuriosito.

‘Già andate-‘, non gli feci finire di dire nulla che lo abbracciai. Forte. Lui, non capendo, cercò lo sguardo di Dani dietro alle mie spalle, per capire cosa stesse succedendo. Dani scrollò le spalle e si picchiettò un dito sulla tempia, e Dennis ridacchiò e mi strinse forte.

‘A che devo questo slancio d’affetto? E’ per l’altra sera? Non devi ringraziarmi, pà, ho cantato volentieri quella robaccia, per voi.’

‘Sì che devo ringraziarti!’, feci, infervorato. Lo lasciai e lo presi per le spalle. Era alto quanto me. ‘Sì che devo. Devo ringraziarti perché sei il figlio migliore del mondo, e sono fiero che tu sia cresciuto così bene. Così felice. Io sono- io sono felice di essere tuo padre, ecco. Grazie, Dennis.’

Dennis scoppiò di nuovo a ridere, copiò la mia posa e mi mise le mani sulle spalle.

‘E grazie a te, allora, papà, perché sei il papà più figo che si può chiedere. Grazie.’, e un sorriso.

Ora, mi darete del sentimentalone, ma scoppiai a piangere sulla spalla di mio figlio e lo strinsi più forte possibile. Cullandolo, anche. Non si oppose, anche se era una cosa che non facevo da anni. Quand’era piccolo gli piaceva essere cullato. Mi strinse a sua volta e rimase in silenzio, lanciando un’occhiata inquieta a Dani, che alzò gli occhi al cielo e tornò in camera.

‘Sei il mio bambino e ti amerò sempre più di qualunque cosa.’, mormorai. Non rispose. Rimanemmo fermi in quella posizione infantile per qualche minuto. Mi stupii che non si fosse scostato o qualcosa del genere, il Dennis che conoscevo l’avrebbe fatto. Quando ci dividemmo, stava sorridendo.

‘E tu sei sempre così melodrammatico. Tra due settimane torni, non morirà nessuno.’

Il mio cuore si fratturò leggermente. Una crepa. Un ‘crack’ solitario, in mezzo al mio petto. Singhiozzai, sorridendo, nascondendo la malinconia nelle lacrime commosse di prima, e feci un passo all’indietro.

‘No, infatti. Però.. volevo che lo sapessi.’

‘E ora lo so. Grazie, papà.’

‘Grazie a te. Di tutto.’

 

In quell’ora e mezza che mancava al rendez-vous con Cooper, feci un giro di telefonate di saluti. Chiamai a casa, rispose papà. Ancora una crepa nel mio cuore, mentre rideva e mi augurava un buon divertimento, e poi chiamava mamma per passarmela. L’ultima volta che sentivo la voce di mio padre.

Mamma si industriò a fare la mamma. Mi disse di portare cose calde, perché saremo andati sulle montagne, e soprattutto lo spazzolino da denti. E io risi. Perché non potevo piangere, non dovevo piangere, e dovevo sembrare sempre il solito René. Probabilmente ci riuscii, perché quando attaccammo era giuliva come sempre.

Una madre non dovrebbe sopravvivere a suo figlio. Chi sarebbe stato lì a tenere in piedi lei, se gli altri dovevano tenersi in piedi da soli? Morendo, avrei causato un mucchio di danni. Il senso di colpa continuava a serpeggiare nella mia mente.

Chiamai Moni, la lasciai parlare per venti minuti buoni, poi le chiesi di cantare con me la ninnananna che le suonavo di solito, anche se al telefono, e lei cantò. La seguivo a bassa voce, perché era la sua, di voce, che volevo ricordare. Cantava tanto dolcemente. Altre lacrime gratuite sulle mie guance.

‘Devo- Devo chiamare altre persone, ora.’

‘Oh! Giusto! Scusa se ti ho tenuto tanto al telefono. Mi mancherai tanto, fratellone.’

‘Anche tu, Nick.’

‘Allora a tra due settimane!’

‘Sì. A tra due settimane. Adieu..’

Quando salutavo con ‘Adieu’, tutti mi davano del melodrammatico. Perché non capivano, o cosa?, .. fatto sta che anche stavolta mi sentii rispondere con una risata. Poi il tuu tuu della linea occupata.

Guardai angosciato gli ultimi due numeri che dovevo assolutamente chiamare. Andrew e Federico. La scelta non era tanto difficile, perché tanto al primo sarebbe succeduto il secondo, ma l’idea di mentire ancora, e di salutarli definitivamente, mi distruggeva.

Non c’era ritorno. C’era soltanto quell’ultima chiamata.

Respirai forte e composi il numero di Andy. Suonava libero. Lasciai squillare cinque volte, finché non subentrò la segreteria telefonica. L’avevo già salutato, lui, teoricamente. La segreteria era un modo molto utile per non farlo insospettire ulteriormente.

‘Ehi, Andy!, .. senti, io parto con Cooper. Torno tra due settimane, e stavo salutando e- vabbeh. Volevo dirti che ti voglio bene. E che sei un grande, grande, grandissimo amico, e che tutto quello che hai fatto per me mi è sempre rimasto nel cuore e non avrei potuto desiderare niente di meglio da parte tua perché mi hai dato tutto, anche la tua fiducia, e- e non lo so. Ti voglio bene. Davvero, te ne voglio tanto tanto tanto. E non darmi del melodrammatico! Volevo solo che lo sapessi. .. ok, scusa se ti ho intasato la segreteria. .. A-Adieu.’

Mi tremò la voce per tutto il tempo, ed ero convinto di aver sbagliato tutto. Forse si sarebbe preoccupato anche di più. Forse avrebbe mobilitato tutti e mi avrebbe fatto tornare a casa e confessare a tutti quanti il mio ‘segreto’. Sperai davvero, con tutto il mio cuore, che non accadesse. Poi chiamai Federico.

Avevo tre quarti d’ora abbondanti da dedicargli, e avevo tutte le intenzioni di farli durare il più possibile. Federico sapeva stare al telefono le ore, perché in gelateria alla fine si annoiava, quando non poteva mangiare con qualcuno o servire bambini curiosi di assaggiare i suoi gusti strani. Quindi, quando sentì la mia voce, si trasformò, la voce rinvigorita, la lisca che lo faceva inceppare sulle s e sulle r perché parlava troppo veloce. Fu una chiamata allegra, ma non ricordo di cosa parlammo, ad essere sincero. E’ tutto parecchio confuso, quando non sai più cosa sta succedendo e l’unica cosa a cui pensi è che quella è l’ultima chiamata che puoi fare al tuo migliore amico. Gli dissi che gli volevo tantissimo bene, e lui rispose che anche lui me ne voleva, anche se ero uno svitato, un cretino, perché ero il suo René. E che aveva scoperto dei ballerini coreani che facevano dei balletti meravigliosi, e che appena fossimo tornati avremmo dovuto passare qualche pomeriggio ad impararli a memoria e a costringere Andy ad impararli con noi. Annuii, e sorrisi, e tentai di essere ottimista ed esaltato all’idea.

Alla fine mi intimò di portargli un sacco di souvenir e cartoline, come aveva già detto a Cooper, ma due di tutto è meglio. E io gli dissi che sì, gli avrei portato tutto quanto. Attaccai, non prima di averlo salutato con l’adieu di circostanza. Lui non mi diede del melodrammatico, anzi, si mise a cantare ‘ce n’est qu’un au revoir’, gorgogliando e uccidendo il francese. E riuscii a ridere seriamente, per una volta in quella giornata. Dani mi comunicò che avevamo ancora una decina di minuti, perciò presi l’arpa e, pizzicandola lentamente e a caso, suonai l’Ave Maria di Schubert, mentre lui canticchiava appoggiato a me.

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