La donna invisibile

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Questa storia è dedicata a meiousetsuna che, oltre a essere una fantastica autrice, è anche - cosa questa persino più importante - una persona deliziosa, che ho conosciuto grazie a efp e che continuo ad apprezzare sempre di più ogni giorno che passa. Una cosa che lei mi ha raccontato sulla sua vita mi ha fatto venire in mente la soluzione per un intoppo narrativo sul quale mi ero bloccata: setsuna, il riferimento è nell’epilogo e sono certa che lo troverai senza fatica.
Il racconto si sviluppa come un what if? molto drammatico, partendo da un episodio della seconda stagione di WC e portando alle conseguenze estreme ciò che si è fugacemente visto nelle scene iniziali della puntata; è costruito come se fosse un film, con brevi flash che disegnano le singole scene, e non ha un andamento temporale lineare dato che - dopo il prologo - la prima scena è cronologicamente tra le ultime e la narrazione procede “per salti” avanti e indietro.
Ovviamente è stato scritto senza fini di lucro e i personaggi rappresentati non mi appartengono, fatta eccezione per quelli frutto della mia insana immaginazione.
 
 
 
 
 
La donna invisibile
 
PROLOGO
 
Questa è la storia più triste che io abbia mai sentito!
E se ve lo dico io che di tristezza me ne intendo dovete credermi: mi chiamo Sean O’Hearne - ma tutti mi chiamano semplicemente Red per via del colore mei miei capelli - e per quarant’anni ho fatto il secondino a Rikers, trascorrendo la mia vita chiuso in gabbia, innocente in mezzo ai criminali, fianco a fianco con ladri, stupratori e assassini.
Uomini spesso malvagi, a volte sfortunati; sempre e comunque vinti.
Me la raccontò il detenuto della cella numero 21 poco prima di morire, accoltellato nel corso di una rissa furibonda scoppiata durante l’ora d’aria e che - si disse - aveva lui stesso provocato, andando a stuzzicare due tagliagole di origine russa provvisoriamente appoggiati qui in attesa di processo.
Lo ricordo come fosse ieri, disteso sul lettuccio di ferro dell’infermeria e coperto completamente da un semplice lenzuolo bianco macchiato di rosso in più punti; lo conoscevo da anni, gli ero in qualche modo affezionato, eppure non ebbi il coraggio di scoprirgli la faccia, né tanto meno di toccarlo. Era immobile, già freddo.
E totalmente, disperatamente solo: mi venne in mente che in tutto il tempo che aveva passato a Rikers nessuno mai gli aveva scritto una lettera, né era venuto a trovarlo. Nessuno: né una donna, né un amico e neppure un parente.
Solo una volta si era presentato a colloquio un tipo bassino, pelato, con l’aria sfuggente: aveva chiesto di vederlo, ma lui si era rifiutato senza spiegarne il motivo.
Qualche mese più tardi mi confidò che quello era stato il suo socio, il suo migliore amico, l’unico che dopo quel che era successo non gli aveva voltato le spalle; il solo che non gli avesse gridato in faccia che era stato un vigliacco. O che, se pure lo avesse pensato, non aveva avuto il cuore di dirglielo apertamente.
Nonostante ciò lo aveva mandato via senza una parola, un abbraccio, un sorriso: la verità era che la loro amicizia ormai apparteneva a un mondo finito per sempre e parlare con lui sarebbe servito solo a ricordargli ciò che era stato, ciò che aveva avuto e irrimediabilmente perso.  
E questo era - all’evidenza - troppo doloroso per lui, oltre che del tutto inutile.
La sua esistenza, accartocciatasi su se stessa, si era poi frantumata in schegge di dolore che alla fine lo avevano trafitto.
Rimasi accanto a lui, in silenzio, fino a che non arrivò il medico legale.
Era stato trasferito qui dopo avere passato gli ultimi anni della sua vita entrando e uscendo dal carcere: non appena finiva di espiare la pena e rimetteva piede fuori, subito faceva tutto il possibile per rientrarvi di nuovo.
Il suo certificato penale era quasi un’enciclopedia del crimine: violazione di domicilio, falsificazione di banconote, ricettazione e poi truffe di ogni genere.
Da ultimo non era stato più capace nemmeno di quelle e si era dato ai furti nei negozi; i quattro soldi che riusciva a mettere insieme così se li beveva avidamente e il giorno dopo era punto e a capo. Di denti in bocca gliene erano rimasti pochi, ma che importava? Mangiare non era indispensabile e per bere i denti non servivano…
Era passato molto tempo da quando aveva avuto un tetto sopra la testa: quando non era dentro viveva per strada, con le ossa inzuppate dalla pioggia d’inverno e calcinate dal sole in estate.
Immagino ci fossero alcuni negozianti che, spinti dalla compassione, gli consentivano di dormire nel retrobottega, salvo perquisirlo quando al mattino se ne andava perché era logico che tentasse di rubare qualcosa.
Magari a volte qualcuno si impietosiva vedendolo così malridotto e gli allungava un biglietto da dieci dollari; altre i derubati preferivano non denunciarlo, ma il giorno dopo lui ci riprovava, come spinto da un demone che gli divorava l’anima.
Come se l’unico posto in cui volesse vivere fosse la prigione: sì, proprio così, quell’uomo voleva concludere i suoi giorni in galera e - buon Dio!- alla fine ci riuscì.
Diceva che da giovane era stato un artista, che c’erano musei che ancora esponevano copie di quadri famosi rifatte da lui talmente bene che nemmeno quei tronfi parrucconi dei cosiddetti esperti d’arte se n’erano accorti!
Beh, se anche fosse stato vero, quel tempo doveva comunque essere passato da un pezzo, giacché quando lo conobbi le mani gli tremavano talmente tanto che a stento riusciva a mangiare da solo.
Prima di arrivare qui aveva trascorso alcuni anni ad Auburn, dove - me lo disse tempo dopo un collega che lavorava lì all’epoca - gli altri detenuti lo avevano preso in odio per la sua collaborazione con l’F.B.I., rendendo la sua vita lì un vero inferno.
Il dottor Di Maio, che lo visitò per i controlli di routine al suo ingresso a Rikers, mi raccontò che il suo corpo era uno spaventoso reticolo di cicatrici: di una in particolare - un orrendo taglio lungo oltre dieci centimetri che gli deturpava l’anca sinistra - si meravigliò che la ferita non l’avesse ucciso. Se la sua pelle era martoriata, la sua anima non stava certo meglio; solo che quelle cicatrici erano esteriormente invisibili e quelle ferite potevano essere curate con ancora maggiore difficoltà.    
Ho fatto per tanto tempo la guardia carceraria e ne ho viste di tutti i colori: non mi è difficile immaginare cosa abbia passato in quel periodo, quando la sua scelta era tra il subire l’ennesimo stupro oppure il ritrovarsi un’altra volta con una costola fratturata o le labbra spaccate.
Lo so: i detenuti diventano delle bestie con quelli che considerano infami o, peggio ancora, spie e sono certo che nulla gli sia stato risparmiato.
Nonostante tutto, però, pareva che per lui la prigione fosse un’esperienza meno terrificante della libertà che l’attendeva fuori: almeno dietro le sbarre c’erano regole, orari, gerarchie precise. In galera non era costretto a pensare al futuro, a scegliere come vivere; no, la libertà non faceva più per uno come lui, divorato dalla paura e dal rimorso.
Dentro non sei tu che vivi la vita, è lei che vive te e tu non puoi fare altro che subirla: mi sono fatto l’idea che questo fosse tutto ciò che la sua anima vinta era in grado di sopportare.
Ricordo un uomo scarno, curvo, più vecchio dei suoi anni: uno sul quale la sorte si era abbattuta come un uragano, spezzandone la fibra.
Eppure qualcosa in quel miserando ubriacone ancora tradiva ciò che un tempo doveva essere stato: dietro quegli occhi blu acquosi, assenti, talvolta avevo scorto un brillio che era ancora giovane e vivo e affascinante, sebbene sepolto dentro a un corpo che ormai era poco più che un rottame.
Ultima flebile traccia di passata bellezza, di un fascino che il dolore aveva quasi completamente cancellato.
Mi raccontò cosa accadde una notte che io ero di servizio e lui non riusciva a dormire a causa del caldo e delle zanzare: da allora non l’ho mai dimenticato, come non sono riuscito a scordare la sua faccia mentre parlava con me, i suoi occhi gonfi e le palpebre macchiate di rosso conficcate nel volto grigio… vi è mai capitato di vedere quello sguardo assente e disperato?
E la sua voce a tratti stridula, a tratti incrinata, eppure carica di dolcezza in alcuni momenti; un paio di volte, quando tutto si faceva insopportabilmente vivo nel suo ricordo, si fermò e pianse un poco, quieto, senza singhiozzare.
Poi ricominciò.
Sono passati anni da allora, adesso sono vecchio anch’io e la memoria è il mio mondo: ogni tanto ripenso a lui, al vecchio ladro di Rikers e alla sua vita spezzata.
C’era stata un’epoca in cui lui era stato giovane, bello e felice.
Un tempo lontano in cui aveva il mondo ai suoi piedi: una bellissima casa, vestiti eleganti, un lavoro rispettabile e soprattutto degli amici che gli volevano bene e lo avevano aiutato a cambiare, diventando una persona migliore.
Non posso rammentare tutti i loro nomi, ma due… sì, mi sono rimasti in mente, perché erano quelli che ripeteva più spesso e che pronunciava con maggiore rimpianto: si chiamavano Peter ed Elizabeth e questa è la loro storia.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


CAPITOLO PRIMO
 
 
Le porte del pronto soccorso del Trinity General si spalancano con il consueto clangore metallico: i due paramedici trascinano la lettiga fuori dall’ambulanza appena arrivata a sirene spiegate e la consegnano nelle mani dei medici accorsi precipitosamente.
L’uomo che vi giace sopra ha il volto terreo, i capelli scuri appiccicati sulla fronte madida di sudore; trema e si lamenta debolmente prima di perdere ancora una volta conoscenza. Una mascherina di plastica, appannata a causa del suo respiro affannoso, gli copre in parte il viso; sulla guancia sinistra e accanto alle labbra la pelle è macchiata di gocce di sangue.
Rosso, rosso dappertutto: sugli abiti che i primi soccorritori gli hanno lacerato sul petto, sulle garze, sui guanti di lattice, sui camici azzurro cupo.
I medici parlano il loro linguaggio spaventoso e incomprensibile.
“Palpitazioni, 120 battiti,
tachicardia sinusale”
Quasi grida, la dottoressa bruna.
“Polso 124, debole.
Preparate un catetere centrale e un infusore rapido”.
Le parole escono a scatti, senza altro senso che quello di tentare di salvare una vita.
“Trovate un'altra vena e dategli
un’unità di zero negativo!”.
Il giovane medico si terge il sudore dalla fronte, visibilmente agitato.
“Dobbiamo entrare subito, preparate Emergenza 1”.
“Che ne pensi?” chiede secca la dottoressa al collega.
“Dobbiamo entrare subito” ripete solo l’altro.
 
 
DIECI ORE PRIMA
 
“Buongiorno, tesoro!”.
La voce di Peter Burke riempì allegramente la piccola cucina inondata di sole e strappò un sorriso a Elizabeth che, quella mattina, di sorridere non aveva proprio voglia: aveva passato infatti una brutta notte, rigirandosi tra le lenzuola e cercando di vincere il senso di oppressione che le serrava il petto. Come se non bastasse, mentre si vestiva aveva avuto un paio di giramenti di testa che l’avevano costretta a sedersi e a respirare profondamente aspettando che quella fastidiosa sensazione di disorientamento passasse.
Si era appena accostata al tavolo pensando che non sarebbe riuscita a mandare giù nemmeno un acino d’uva, che il marito con aria trionfante le mise davanti un piatto e una tazza colma di caffè nero bollente.
“La signora è servita” scherzò il federale.
“Uova e prosciutto alla…” fece una pausa cercando le parole e poi concluse allegramente: “Alla Mr. Suit!”.  
Elizabeth fissò il cibo e la bocca le si riempì di saliva, mentre una nausea prepotente quasi le toglieva il fiato.
Si alzò di scatto.
“Scusa, ma stamattina non ho proprio fame…” disse con un mezzo sorrisetto,  sperando che il suo tono dispiaciuto riuscisse ad attutire la delusione che vide disegnarsi sul volto del marito.
Peter le si avvicinò, girò intorno alla tavola e si sedette di fronte a lei.
“Cos’hai?” le domandò, premuroso, abbracciandola “Qualcosa non va?”.
 La donna scosse la testa e sorrise di nuovo, questa volta più apertamente.
“No, tutto ok” rispose “Sono solo un po’ agitata per il catering di oggi: sai che alla festa per la raccolta fondi ci sarà anche il candidato sindaco in persona?”.
“Andrà tutto alla grande!” esclamò lui, afferrando la forchetta e servendosi dal piatto che la moglie aveva rifiutato.
 “E comunque” aggiunse dopo aver mandato giù un primo, generoso, boccone “spero che la fame entro stasera ti sarà tornata, perché avevo pensato di cimentarmi con il mio celebre brasato al barolo e, per contorno, con delle fantastiche pommes à la pôele.Sempre che io riesca a capire esattamente cosa diavolo sono”.
“Cosa? Per il Ringraziamento?” fece lei, sorpresa e al tempo stesso divertita “Quindi niente tacchino ripieno, niente salsa di mirtilli, patate dolci, etc… ?”.
“Ah-ah” annuì il federale, bevendo un sorso di caffè “Quest’anno si cambia!”.
 
***
 
“La prego, devo passare, sono un suo amico!” l’uomo urla, i vestiti imbrattati di sangue e l’aria stravolta.
“Non posso farla entrare” replica l’infermiere in tono asciutto; di gente straziata dall’angoscia ne ha vista molta più di quanta chiunque riuscirebbe a sopportare, eppure ogni volta mantenere il distacco che gli hanno insegnato è terribilmente difficile.
“No, la prego: lavoro insieme a lui, devo passare!” ripete, implorante.
“Capisco” dice l’altro e, senza aggiungere nulla, si allontana a passo svelto lungo il corridoio.
“Io, io devo parlare con qualcuno...” si guarda intorno smarrito e poi, vedendo sopraggiungere un medico, gli corre incontro e gli si appende al braccio. Ma prima che possa chiedergli qualcosa quello lo blocca con un formale: “Mi dispiace, non posso aiutarla”.
“Non mi dice che succede?” la voce dell’uomo, ormai incrinata dal pianto, è una  disperata preghiera.
“Trovi qualcuno, la prego!
Oh, mio Dio...”
 
SEI ORE PRIMA
 
Quella per la Burke Première Events era una grande occasione: per una società così  giovane, infatti, occuparsi del party di raccolta fondi in favore di uno dei candidati alla carica di sindaco voleva dire acquisire visibilità e conquistare nuovi clienti tra i danarosi ospiti della festa.
Anche per quel motivo Elizabeth era tanto agitata mentre controllava per l’ennesima volta che i fornitori avessero effettuato le loro consegne come previsto e che tutto fosse esattamente come il signor Sheridan  aveva richiesto.
Aveva ormai imparato da tempo che i gusti del cliente (specialmente se si tratta di uno degli uomini più potenti dello Stato) non vanno contestati né giudicati, che li si deve seguire e basta… eppure tutto quel rosso - color amaranto le decorazioni alle pareti, i centrotavola composti di rose scarlatte e gerbere del medesimo colore, persino i cocktail di benvenuto (a base dell’immancabile sciroppo di granatina) e i vassoi degli antipasti, ornati da grappoli di ribes rosso - era veramente troppo vistoso e aveva il potere di fare aumentare la sensazione di inspiegabile ansia che si sentiva addosso da alcuni giorni a quella parte.
D’altro canto, quella era tradizionalmente la tinta simbolo del partito repubblicano ed era del tutto ovvio che il tipo ne volesse a bizzeffe per invogliare gli elettori a scegliere proprio il candidato che lui sosteneva, nonché a sganciare una discreta sommetta per finanziarne la campagna elettorale.
“Signor Sheridan” esordì fiera Emily, la sua assistente con l’apparecchio ai denti e orecchie deliziosamente a sventola, mostrando al corpulento magnate del mattone il risultato di due settimane di telefonate affannose e scambi di e-mail al vetriolo con una ditta di Seattle particolarmente recalcitrante a vendere loro - anche se per un prezzo maggiorato - l’intero quantitativo importato quel mese dal Giappone della costosissima carne Kobe, pregiata razza di bovini che (come aveva letto Elizabeth su internet, senza che ciò le facesse sembrare meno spropositato il prezzo di quella roba) crescono molto lentamente e dispongono addirittura di un massaggiatore che li cura ogni giorno per aumentare la morbidezza delle loro solenni lombate.
“Come le avevamo promesso, siamo riusciti a procurarci tutto ciò che lei ci aveva richiesto” esclamò la ragazza con aria trionfante.
 “Ecco, assaggi, senta che meraviglia: altro che caviale, questa è l’ultima moda in fatto di cucina raffinata!” continuò porgendogli, avvolto in un elegantissimo tovagliolino di tela di Fiandra, un crostino imburrato e ricoperto di paté di carne Kobe rigorosamente cruda.
“Oh cavolo, no! Non adesso, non adesso!” pensò Elizabeth sentendo che proprio in quell’istante la stava assalendo un nuovo attacco di nausea, provocato evidentemente dall’odore - che, in verità, lei aveva trovato fin dall’inizio disgustoso - della carne triturata e piena di spezie, spalmata sulla tartina.
Cercò di resistere mentre la bocca le si riempiva del sapore acido del fiele, ma la vista di quell’immonda poltiglia rossastra sul raffinato pezzetto di pane tostato à la française le diede il colpo di grazia.
“Scusate” disse a mezza voce, incapace di aggiungere altro e trattenendo a stento i conati di vomito.
Corse verso il bagno e fece appena in tempo a entrarvi che ebbe bisogno di chinare la testa nel lavandino perfettamente lucido; sporcò la pregiata superficie di marmo rosa e poi rimase immobile, piegata in due, col respiro affannoso e la vista annebbiata, senza riuscire a capacitarsi di cosa le fosse accaduto.
 
***
Pamela Smith sapeva esattamente come muoversi: in fondo, aveva lavorato lì fino a tre anni prima e conosceva tutti gli angoli di quella dannata banca come le sue tasche.
Tirò su la zip della tuta da lavoro blu e, spingendo con energia il carrello della ditta di pulizie presso la quale di era fatta assumere da qualche mese, entrò nel seminterrato della City Bank of New York.
Arrivò indisturbata fino all’ascensore interno, premette il pulsante di chiamata e tirò fuori un oggetto scuro abilmente occultato dietro alle scope e ai flaconi di detersivo che occupavano il carrello: come aveva avuto modo di imparare a sue spese anni addietro, passando di là si potevano tranquillamente evitare i metal-detector.
Già - pensò con un sorriso tirato - nonostante tutto ciò che era successo all’epoca nessuno aveva mai risolto quel problema e la falla nel sistema di sicurezza dell’istituto non era stata colmata.
Meglio per lei.
Proprio così: molto meglio.
Lasciato il carrello, s’infilò nella cabina dell’ascensore e schiacciò il pulsante che l’avrebbe condotta al piano dove si trovavano le casse e l’ufficio del direttore; durante il tragitto si tolse la tuta blu, rivelando sotto di essa il tailleur scuro e la semplice camicetta bianca che le avrebbero consentito di confondersi in mezzo alla folla dei clienti e magari persino di essere scambiata per un’impiegata.
Riconsiderò mentalmente il suo piano: conosceva a memoria i gesti che avrebbe dovuto compiere, aveva studiato tutti i dettagli per circa un anno sapendo che avrebbe avuto solo questa occasione e che non poteva sbagliare.
Trovare la pianta della City Bank e studiare il posto più opportuno per agire non era stato difficile, mentre le ci era voluto un sacco di tempo per conquistare la fiducia di chi, alla fine, era riuscito a procurarle ciò che le serviva per mettere in pratica il suo progetto.
L’uomo - del quale ovviamente non avrebbe mai saputo il nome - si era a sua volta introdotto lì poche ore prima spacciandosi per un tecnico della manutenzione e, come le aveva confermato con un SMS convenzionale sul cellulare usa e getta che lei aveva comprato per l’occasione e subito dopo buttato in un cestino secondo le istruzioni, aveva predisposto il necessario perché il suo piano potesse compiersi.
Le era costato tutto ciò che aveva, tutto ciò che le era rimasto, ma non importava.
Un anno della sua vita - della sua stupida, inutile vita - era stato dedicato da Pamela Smith alla realizzazione della vendetta contro l’uomo che quell’esistenza aveva distrutto.
Premette le labbra carnose in una linea esangue e trasse un respiro profondo: l’avrebbe pagata. Eccome se l’avrebbe pagata.
 
***
 
“Non so come tu abbia fatto a convincermi, Emily” mormorò Elizabeth tenendo gli occhi sul pavimento nel tentativo di non fissare il piccolo stick bianco e blu che aveva appena appoggiato sul lavello del bagno: “È inutile, tra l’altro mi sento molto meglio”.
“Sarà stata solo un’ipoglicemia, perché ho saltato la colazione” aggiunse.
L’altra si strinse nella spalle e rispose: “Quando io ho avuto giramenti di testa e nausea ho fatto subito il test”.
“Sì” fece Elizabeth e incrociò le braccia per smetterla di tamburellare nervosamente con le dita sul piano del lavandino “Ma… non è possibile e, comunque, questo mese ho avuto il ciclo”.
“Beh, magari erano solo delle perdite” ribatté l’altra con un sorriso, osservando quanto la sua amica (che per inciso era anche il suo capo) fosse timida riguardo a queste cose, mentre per tutto il resto le era sembrata sempre così spigliata e allegra.  
“E poi” aggiunse con aria maliziosa “cosa vuol dire non è possibile? Non credo che il signor Burke sarebbe contento di sentirti dire una cosa del genere!”.
La frase strappò a Elizabeth un sorriso ancora un tantino velato di imbarazzo; sospirò e non rispose, considerando che talvolta tre minuti sono un tempo infinitamente lungo a passare.
“Sai” continuò Emily, guardando in viso l’amica “mi sono sempre chiesta come mai tu e Peter non aveste avuto figli: siete la coppia più affiatata che conosco!”.
Lei scosse leggermente la testa, si staccò da muro e iniziò a camminare avanti e indietro misurando quello spazio ristretto con passi rapidi e veloci.
“Non appena ci siamo sposati, ci sembrava troppo presto e volevamo goderci il matrimonio” rispose con un sospiro “Poi, quando abbiamo deciso che eravamo pronti, non sono venuti e adesso…” si interruppe un attimo ed Emily non poté fare a meno di notare il tremito che le aveva attraversato la voce.
“Adesso, per la verità, si tratta di una cosa alla quale non stavo più pensando; mi ero abituata all’idea che saremmo stati per sempre solo io e Peter” concluse, meditabonda.
“Si dice che proprio quando non ci pensi più, allora arriva!” ribatté la ragazza con un ampio sorriso.
Guardò l’orologio: ormai il tempo fatidico era trascorso, eppure Elizabeth ancora non si decideva a prendere in mano l’astuccio, quasi che avesse in cuor suo timore di scoprire il risultato.
Emily aveva visto giusto: la sua collega era attanagliata dalla paura.
Dalla paura di non essere rimasta incinta nemmeno stavolta, perdendo quella che forse poteva essere l’ultima occasione per avere un figlio, ma anche dal timore di tutto ciò che avrebbe significato se il test fosse risultato positivo: un cambiamento totale della propria vita, delle priorità, dei ritmi di lavoro e forse - cosa che più la preoccupava - del suo rapporto con Peter, al quale non avrebbe più potuto dedicare tutte le sue attenzioni come faceva adesso.
E lui, lui come l’avrebbe presa? Ne avevano parlato - com’era ovvio - all’inizio del loro rapporto e sembrava che Peter desiderasse profondamente avere dei figli.
Poi, col passar degli anni e vedendo che non ne erano venuti, era stato come se anche lui pian piano si fosse distaccato dall’idea, al punto da non ricordare più nemmeno da quanto tempo non avevano sfiorato l’argomento con serietà.
Se fosse stato vero - si domandò - lui ne sarebbe stato davvero felice, oppure avrebbe solo fatto finta per assecondare i desideri di lei?
Per questo e per tutti gli altri stupidi e inutili interrogativi che le affollavano la mente, esitava.
Curiosa com’era, Emily al contrario non seppe resistere alla tentazione di sporgersi verso lo stick del test di gravidanza: aveva giurato a se stessa che sarebbe stata discreta, ma quando vide il risultato sul display non riuscì a trattenere un gridolino di gioia.
Lo afferrò e, senza pensarci su nemmeno un istante, abbracciò Elizabeth con tutte le sue forze.
“È diventato rosa! Sei incinta!” gridò.   
“Avanti, prendi il telefono e chiama subito tuo marito!”.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


CAPITOLO SECONDO
 
 
Pamela Smith percorse con passo tranquillo i corridoi silenziosi che l’avrebbero condotta fino al salone principale della banca; non aveva bisogno di chiedere indicazioni perché conosceva perfettamente la strada.
In fondo, aveva lavorato lì per quasi dieci anni prima di… Prima che arrivasse quel maledetto bastardo in gessato blu, col suo sorriso di plastica e la sua aria da bravo ragazzo. L’aveva ingannata proprio per bene, quel figlio di puttana: l’aveva colta alla sprovvista puntando sull’indiscutibile ascendente che aveva sulle donne e lei aveva abboccato come un’idiota.
Quante volte, negli ultimi anni, era tornata con la mente a quella mattina di maggio che aveva sconvolto per sempre la sua vita, facendola crollare miseramente come un castello di carte! Da allora, ogni momento delle sue giornate vuote era stato scandito dall’avversione per quell’uomo: aveva innalzato nel suo cuore un altare all’odio, lo aveva sacralizzato, solennizzato ogni ora, ogni minuto, con tutte le sue forze.
E oggi finalmente avrebbe avuto la sua vendetta.
Scivolò silenziosa senza che nessuno le prestasse attenzione; già, quella non era mai stata un novità, fin dai tempi della scuola.
Infatti, chi avrebbe mai notato una come lei, una cicciona di colore e adesso per giunta anche piuttosto in là con gli anni? Praticamente un essere invisibile nella migliore delle ipotesi; da prendere in giro nella peggiore.
E di occhiate di scherno, di risatine cattive, di mormorii vigliacchi dietro le spalle ne aveva dovuti subire tanti all’epoca, quando i colleghi - dal direttore fino all’ultimo inserviente - le avevano rinfacciato di essere una stupida che si era lasciata fregare e che aveva messo in difficoltà col suo comportamento l’intera società.
Arrivata a destinazione, le bastò un’occhiata per inquadrare la situazione e capire come avrebbe dovuto muoversi.
Attese qualche istante che i due agenti della vigilanza interna si mettessero a chiacchierare tra loro come facevano spesso: erano sempre i due che aveva conosciuto, ossia il vecchio Stanley, che non avrebbe fatto male a una mosca, e quel grassone antipatico di Morgan che una volta ci aveva pure provato, salvo poi andare a raccontare in giro che era stata una sua iniziativa quando lei l’aveva respinto.
Ingoiò per l’ultima volta rabbia e fiele, attraversò l’ampia sala dove di trovavano le casse, tirò fuori dalla giacca la massiccia Glock scura, sollevò il braccio destro sopra la testa e sparò due colpi verso l’alto.
“Fermi tutti!” gridò con la sua voce più potente “Stendetevi a terra, mani sul pavimento!”.
Puntò l’arma contro i due vigilantes che, distratti com’erano, non avevano avuto la prontezza di reagire e intimò loro di posare le loro pistole a terra, calciandole poi lentamente verso di lei.
Morgan la riconobbe e per Pamela leggere lo sbalordimento e il terrore su quella insulsa faccia pelosa fu il primo momento di autentico piacere da molto tempo a quella parte; sempre tenendoli sotto tiro li obbligò a legarsi a vicenda, impiegando le loro stesse manette, al tubo metallico che correva lungo la parete sud dell’edificio.
Una volta finito, contemplò il successo della propria azione: dieci, forse quindici persone tra dipendenti e clienti giacevano terrorizzate a faccia in giù sul pavimento, con i palmi delle mani ben appoggiati per terra. Nell’ampia sala dalle alte volte finto-gotiche regnava il più completo silenzio: un silenzio carico di tensione palpabile, rotto solo da qualche gemito appena soffocato.
Senza dire una parola Pamela girò dietro a una delle casse, scavalcò la commessa stesa bocconi, che trattenne visibilmente il fiato mentre lei le si avvicinava, e premette il bottone rosso dell’allarme che sapeva trovarsi proprio sotto la scrivania.
Poi afferrò il telefono più vicino, sistemò la cornetta tra il viso e la spalla e con la sinistra compose il numero che aveva imparato a memoria a forza di ripeterselo nella mente un’infinità di volte.
Non appena dall’altra parte udì le parole “F.B.I., desidera?” disse con voce chiara e senza alcuna esitazione: “Voglio parlare con Neal Caffrey”.
 
***
 
“Quattro unità di zero negativo” ordina il chirurgo, con un tono che non ammette esitazioni e non tradisce alcuna emozione.
“Fluidi in circolo” risponde solerte l’infermiera.
“Maledizione” mormora il medico, chino sul paziente che lotta per sopravvivere “Devo intubarlo, ma non riesco a vedere le corde vocali: c’è troppo sangue”.
Sistema la lampada che pende dall’alto per avere più luce, tenta ancora una volta e dopo qualche istante riesce finalmente a infilare la cannula.
“O-ok” dice senza sorridere; si volta verso il monitor per controllare i segni vitali e guarda di nuovo la sua squadra.
“Al mio tre” aggiunge secco.
In quattro afferrano contemporaneamente i lembi del telo verde sul quale è adagiato l’uomo privo di sensi.
 “Uno, due, tre” conta rapido il dottore.
“Sì, adesso” esclama, dando il segnale agli altri.
Con perfetto sincronismo sollevano il corpo del paziente dalla barella e lo adagiano sul tavolo operatorio.
Fuori, oltre le porte basculanti, un ragazzo di colore vestito in maniera un po’ troppo seria per la sua età stringe una giovane donna bruna che nasconde la faccia contro il suo petto, come se non avesse il coraggio di guardare davanti a sé.
“Non preoccuparti, Diana, si rimetterà” azzarda lui: vorrebbe rassicurarla, ma non riesce a celare il tremito che gli attraversa la voce.
La giovane solleva il viso rigato di lacrime, ma ancora non ce la fa a dirigere lo sguardo verso i medici al lavoro
“Oddio…” mormora.
 
 
QUATTRO ORE PRIMA
 
“Buongiorno, sono ancora Elizabeth Burke” esclamò ormai spazientita la giovane donna “Non mi metta di nuovo in attesa, la prego, vorrei sapere dov’è mio marito e perché non riesco a parlare con lui!”.
Maledisse mentalmente l’incolpevole ragazza che le aveva risposto, rimpiangendo che la segretaria di Peter non fosse più la simpatica signora Sevigny, andata in pensione un paio di mesi prima e sostituita da quella che, dato il momento, le pareva senza appello solo un’insensibile stronza che non capiva le ragioni della sua urgenza.
“Mi dispiace signora” rispose quella, mantenendo senza sforzo un tono assolutamente professionale “Ma al momento sono tutti in riunione, c’è stata un’emergenza e sono molto indaffarati… ha provato sul cellulare?” chiese.
Elizabeth sospirò sconfortata.
“Certo che ho tentato di chiamarlo sul telefonino, tesoro!” avrebbe voluto risponderle “Ma l’ha spento e anche quelli di Neal e degli altri non danno segni di vita”.
Chiuse la comunicazione e si lasciò cadere pesantemente sul divano: non appena avevano scoperto la novità, infatti, Emily aveva insistito perché lei se ne tornasse a casa a riposare.
Sulle prime Elizabeth aveva rifiutato, dato che quella festa era un’occasione importante per la sua società e ci teneva a essere presente; poi però, dato che lì era tutto a posto mentre lei continuava a non sentirsi bene e avvertiva anche un leggero dolore al fianco destro, aveva finito per seguire il consiglio dell’amica.
Adesso, semisdraiata in salotto, con un cuscino dietro la schiena e un bicchiere di succo di frutta posato sul tavolino (quattro dita di vino rosso sarebbero state senza dubbio più efficaci per calmarla ma, per come si stavano mettendo le cose, immaginava che ne avrebbe dovuto fare a meno per un bel po’ di tempo), accarezzava distrattamente Satchmo e tentava di rimettere in ordine le idee.
Un bambino: incredibile, lei e Peter avrebbero avuto un bambino. Oppure una bambina, chissà. O magari due gemelli: ricordava che sua madre le aveva detto che in famiglia c’era stata una zia che aveva avuto una gravidanza gemellare.
Sorrise alla stranezza delle immagini sbucate fuori dalla sua immaginazione: sarebbero stati pronti a gestire quella nuova esperienza? La loro unione ne sarebbe uscita rafforzata oppure, come era accaduto a qualche sua amica, i nuovi ritmi imposti dalla presenza di un bebè avrebbero trasformato lo slancio in noia e l’ardore in abitudine?
E Peter che papà sarebbe stato? Lui, che di recente le era sembrato così poco a suo agio con i bambini, faticava proprio a figurarselo mentre cambiava pannolini e preparava pappine…
Si guardò intorno: in quella casa, nella quale erano stati una coppia felice, adesso avrebbero affrontato una nuova avventura diventando una famiglia.
Una vera famiglia.
Era spaventata, certo, ma Elizabeth era anche immensamente felice: negli ultimi tempi si era sforzata  - forse in maniera inconsapevole - di convincersi che non avere avuto un figlio non era poi una cosa così importante, che tante coppie vivevano bene anche senza, che lei era fortunata perché aveva Peter e un lavoro che la gratificava. Lo aveva fatto per combattere la delusione strisciante che le pungeva il cuore ogni mese e ancora di più tutte le volte che, incontrando un’amica con prole al seguito, si sentiva chiedere con aria allusiva: “Allora, novità?”.
Trasse un respiro profondo, arruffò affettuosamente il pelo sulla testa di Satchmo, che le aveva appoggiato il muso sulla coscia come a volerle esprimere in tal modo la sua comprensione, e si alzò.
Doveva parlare assolutamente con Peter e, se non ci fosse riuscita a telefono, l’avrebbe fatto di persona.
Il che, tra parentesi, sarebbe stato molto meglio considerata l’importanza della notizia che stava per dargli.
Non voleva perdersi la sua faccia per niente al mondo, quando l’avesse saputo.
E neppure quella di Neal.
***
 
“Signora Burke, mi dispiace…”
La giovane segretaria in tailleur grigio, non appena la vide entrare nell’ufficio, si alzò dalla scrivania e le andò incontro con passo svelto “Suo marito e il signor Caffrey sono appena usciti: come le dicevo, c’è stata un’emergenza”.
La donna non nascose una smorfia di disappunto: l’unica volta che doveva dire una cosa importante a suo marito sembrava essere diventato impossibile riuscire a contattarlo e che tutto l’universo congiurasse contro di lei per impedirle di parlargli!
A un tratto una fitta piccola ma penetrante all’addome le strappò un gemito semi-soffocato e la costrinse ad aggrapparsi al bordo di una scrivania.
“Signora, si sente bene?” esclamò la ragazza che l’aveva vista impallidire improvvisamente.
Prima che potesse rispondere, udì la voce familiare di Hughes alle sue spalle “Oh Elizabeth” disse, avvicinandole una sedia “È un bene che lei sia qui, devo parlarle di  una cosa che riguarda Neal e Peter”.
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


CAPITOLO TERZO
 
 
Peter Burke levò gli occhi al cielo, fissando per un istante l’elicottero che volteggiava rumorosamente sopra alle loro teste.
Lui e Neal avanzarono oltre le transenne dietro alle quali si assiepava una piccola folla di curiosi e giornalisti; un cronista tentò di forzare il cordone di sicurezza e corse loro dietro brandendo il microfono come un’arma per rivolgergli anche solo una domanda, ma fu immediatamente bloccato e risospinto in modo brusco al suo posto da due robusti agenti in divisa.
All’interno del perimetro tracciato fuori dalla banca e sui tetti degli edifici circostanti già si era appostata almeno una cinquantina di S.W.A.T. nelle loro tute nere, con elmetti e fucili di precisione.
Un uomo sulla quarantina, giacca scura e aria marziale, andò incontro ai due e si presentò brevemente, stringendo loro la mano: era il capo del Distretto di polizia competente per territorio e aveva ricevuto il compito di coordinare le operazioni insieme alle squadre speciali.
“In quanti sono là dentro?” domandò Peter, indicando con la testa la banca alla loro sinistra.
“Non posso dirlo di preciso” rispose l’altro “forse una dozzina, o forse di più… sappiamo solo che i dipendenti avevano appena riaperto dopo la pausa pranzo quando la donna è entrata sparando e ha fatto stendere tutti a terra”.
“Siete riusciti a scoprire chi è?” chiese Neal.
Il poliziotto scosse il capo con forza: “No, si sa solo che è una donna di colore, armata e molto pericolosa”.
“Non ha preso i soldi né chiesto una macchina per fuggire, ma ha azionato lei stessa  l’allarme e preteso unicamente di parlare con l’F.B.I.”.
Fissò il giovane uomo elegante che aveva davanti e concluse: “In particolare con il signor Caffrey”.
Neal annuì; quella faccenda gli era sembrata strana fin dall’inizio e lo aveva spaventato non poco.
Una donna nera di mezz’età che rapina una banca e poi vuole parlare con lui? In ufficio avevano visionato i filmati delle telecamere di sorveglianza nel cui circuito informatico Diana era riuscita a infiltrarsi prima che lei le disattivasse, ma quel viso non gli diceva assolutamente niente: per quanto si sforzasse, non ricordava di averla mai conosciuta.
“Adesso ci ha detto che libererà un ostaggio a patto che lei entri in banca, solo e disarmato” aggiunse il detective con aria grave.
Il truffatore deglutì in silenzio: ecco, ciò che aveva temuto stava diventando realtà.
Andare lì dentro senza un’arma, in balia di una donna che verosimilmente lo odiava sarebbe stato - era evidente - un vero suicidio. Ma come tirarsi indietro a rischio di mettere a repentaglio la vita di tanti ostaggi innocenti?
Al di là della sua apparenza sfrontata, non era mai stato un uomo particolarmente coraggioso e anche quando si era sforzato di affrontare le difficoltà della vita (anzi, persino le volte che era riuscito a superarle), l’aveva sempre attanagliato la paura di non farcela.
Paura di finire in prigione, terrore di ritornarci, paura di perdere le persone che amava e panico all’idea di non riuscire a superare la loro perdita: era un aspetto del suo carattere che tendeva ovviamente a celare dietro atteggiamenti da spaccone, ma chi lo conosceva bene - e Peter era forse la persona che lo conosceva meglio sulla faccia della Terra - non poteva non averlo colto.  
Guardò il federale e la sua espressione sicura ancora una volta ebbe l’effetto di calmarlo almeno un po’: decisamente lui sapeva cosa fare in situazioni del genere ed era certo che non gli avrebbe mai chiesto di compiere una follia.
No, chiunque altro l’avrebbe fatto… Kramer di sicuro, forse anche lo stesso Hughes, ma non Peter: Peter gli voleva bene e aveva più volte rischiato la vita e la carriera per proteggerlo.
Lo sguardo che gli rivolse era una muta domanda, segnata dall’incertezza: di nuovo si rivolgeva a lui chiedendogli tacitamente sostegno e aiuto.
Per tutta risposta l’agente congedò il poliziotto con un deciso “Ci dia un momento, per favore”, a seguito del quale il tenente senza aprir bocca si allontanò di qualche passo per farsi aggiornare dai suoi sulla situazione.
Rimasti soli, Peter intercettò lo sguardo del truffatore, gli appoggiò per un istante la mano sul braccio - quel tocco durò solo una frazione di secondo, eppure fu sufficiente a tranquillizzare quasi magicamente il giovane - e senza smettere di fissarlo in volto gli disse soltanto: “Devi fidarti di me”.
Fiducia.
Quante volte negli anni che avevano trascorso lavorando fianco a fianco si era chiesto se il federale si fidasse fino in fondo di lui e quante si era detto che la fiducia è una strada a doppio senso, che va percorsa andando l’uno verso l’altro: non poteva pretendere che Peter iniziasse a fidarsi di lui se lui per primo non era capace di fare altrettanto.
In quella circostanza Neal fu consapevole una volta di più che se c’era al mondo qualcuno cui avrebbe affidato la propria vita, quel qualcuno era senza dubbio Peter Burke.
Annuì e disse a mezza voce: “Peter, io…”
“Ascoltami” esordì l’altro in tono deciso.
“Signori, purtroppo c’è una novità!” lo interruppe bruscamente il poliziotto con cui avevano parlato prima, che si era di nuovo avvicinato a loro a passo svelto e con evidente concitazione.
“Quella donna ci ha fatto sapere che ha piazzato delle microcapsule contenenti spore di antrace all’interno dell’impianto di aerazione della banca e le ha collegate a piccole cariche esplosive: se il signor Caffrey non andrà da lei solo e disarmato entro cinque minuti azionerà gli ordigni e quel veleno si spargerà in tutto l’edificio”.
“E non ci sarà scampo per nessuno di coloro che sono all’interno” aggiunse, con gli occhi sgranati per l’angoscia.
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


CAPITOLO QUARTO
 
 
Clang
Il proiettile, deformato dall’impatto e sporco di sangue, produce un distinto suono metallico quando viene lasciato cadere all’interno della bacinella: la dottoressa Conrad impugna senza un tremito le pinzette che l’hanno appena estratto dal corpo palpitante dell’uomo che sta tentando di strappare alla morte. Sa che sta lottando per sopravvivere, che il suo organismo cerca di superare oltre alle lesioni prodotte dalla ferita anche il terribile trauma di un intervento così lungo e delicato.
Ma allo stesso modo è consapevole che la pallottola ha provocato danni molto seri e che forse tutti i suoi sforzi saranno ancora una volta vani; lo sa, eppure questo pensiero non la ferma e nemmeno le impedisce di continuare a sperare, perché altrimenti non avrebbe senso fare il suo lavoro.
Si ripete questo concetto come un mantra ogni volta che, come adesso, vede una persona giovane e sana, coperta di tubi, rischiare di soffocare a causa del proprio stesso sangue.     
Rosso: prima di iscriversi a medicina per lei era solo un colore. Non quello che preferiva magari, né quello che avrebbe scelto per la propria auto, ma comunque una tinta che quasi tutti associavano alla passione, al fuoco ardente del desiderio, persino all’amore romantico.
Per lei, al contrario, nulla di tutto ciò: sapeva che era una reazione esagerata e infatti non l’avrebbe mai confessato a nessuno, nemmeno sotto tortura, eppure ora il rosso le ispirava un’istintiva repulsione, anche se le si presentava sotto forma di un sontuoso mazzo di rose o di un abito di qualche celebre stilista italiano.
Decisamente, aveva visto troppo sangue perché il suo cervello riuscisse a considerare ancora il rosso solamente una tinta innocua, un colore come tutti gli altri.
“L’addome si riempie di sangue!”.
La voce allarmata del suo assistente la riporta bruscamente alla realtà.
Fissa nuovamente il monitor ed esclama, come fra sé e sé: “La pressione sta scendendo ancora…”.
Sa esattamente cosa sta per avvenire e infatti non fa nemmeno in tempo a dire: “Prepararsi per massaggio cardiaco!” che subito un bip prolungato rivela che il cuore del paziente si è fermato.
Ormai è una lotta contro il tempo.
“Carica a duecento!” dice, senza riuscire a impedirsi di gridare.
 
TRE ORE PRIMA
 
“Dunque, Neal, sono certa che non ti ricordi di me. Non è così?” la voce di Pamela Smith è tagliente come una lama e altrettanto gelida.
È immobile, in piedi davanti a lei, le mani sollevate all’altezza delle spalle, completamente indifeso: lei lo guarda cercando di capire se quello che le sta accadendo sia proprio reale, oppure solo l’ennesimo sogno di vendetta.
Fissa i suoi occhi blu che ormai hanno perso ogni traccia di sfrontatezza, il bel volto pallido e l’abito troppo elegante che lo fa sembrare del tutto fuori posto in quel momento e si rende conto che sì, è possibile e sta succedendo davvero.
Esattamente come nei suoi sogni.
“Senza dubbio hai dimenticato la mia faccia un istante dopo essere uscito da qui con una valigetta piena di contanti o magari persino prima, mentre usavi il badge che mi avevi sfilato per accedere al caveau.
Non mi sorprende: sono sempre stata una donna invisibile.
Io al contrario ricordo una per una le parole che avevi usato e che quel bastardo del direttore Morris mi riferì, consegnandomi la lettera di licenziamento: “Passando dal seminterrato di possono eludere i metal-detector, i dipendenti dovrebbero essere più vigili e portare il tesserino appeso al collo e non appuntato sul petto…”.
“I dipendenti dovrebbero essere più vigili, brutto figlio di puttana, è vero?” aggiunge, ormai urlando.
Poi sembra riprendere il controllo, freddamente gli spiana contro la canna della pistola e ghigna: “Così sono abbastanza vigile per i suoi standard, signor Caffrey? O forse dovrei dire signor Nick Halden?”.
Il truffatore deglutisce a fatica e con lo sguardo vaga lungo le pareti di fondo della vasta stanza, sperando di scorgere con la coda dell’occhio Peter: hanno deciso che lui sarebbe entrato dalla porta principale e avrebbe distratto la rapinatrice il tempo necessario affinché le squadre speciali trovassero gli ordigni e gli artificieri li disinnescassero, mentre il federale gli avrebbe coperto le spalle, intervenendo in caso di necessità.
Tempo: doveva prendere tempo e dargli la possibilità di piazzarsi in un punto dal quale avrebbe potuto tenere sotto controllo la situazione.
Neal si guarda nervosamente intorno, fissando gli ostaggi stesi sul pavimento, nell’affannoso tentativo di farsi venire un’idea; cosa ancor più difficile dato che adesso ricordava la circostanza di cui la donna gli aveva parlato (alcuni anni prima gli era stato effettivamente chiesto di testare la tenuta dei sistemi di sicurezza delle banche della città sfruttando le sue abilità di ladro), mentre la sua faccia continuava a non dirgli assolutamente nulla.
“Io-io” dice alla fine, cercando di non far trasparire il tremito che gli incrina a voce “Ho fatto solo ciò che mi è stato ordinato dall’F.B.I., non avrei certo potuto dire di no o mi sarei giocato l’accordo sulla libertà vigilata…”.
“Vuoi forse dire che non ti sei divertito a prendermi in giro con la tua bella faccia d’angelo? Che non te la sei goduta nemmeno un pochino, eh? Non avevi dubbi che per uno fino come te sarebbe stato un gioco da ragazzi fregare una come me: una semplice, stupida, ignorante grassona che ha sempre dovuto elemosinare le attenzioni degli altri e certamente sarebbe rimasta abbagliata dal tuo sorriso?”.
Neal abbassa lo sguardo; ha compreso di trovarsi di fronte a una persona disturbata, stravolta, che potrebbe veramente essere capace di tutto. Ma allo stesso tempo la palese disperazione che la anima l’ha toccato nel profondo e sente che deve capire, non solo conquistare secondi preziosi.
Così risponde: “Che cosa ti è successo?”.
Quella domanda anziché calmare Pamela produce l’effetto di farla infuriare ulteriormente: gli si avvicina infatti di un altro passo e toglie la sicura alla pistola, puntandogliela nuovamente contro.
“Non tentare i tuoi giochetti con me, hai capito?” gli urla quasi sulla faccia.
“Pensi che io sia così stupida da credere che davvero ti interessi di me?”.
Serra le mascelle - le narici frementi di rabbia, il respiro affannoso - e Neal per una frazione di secondo teme che veramente gli sparerà, che premerà quel maledetto grilletto e lo manderà a fare i conti una volta per tutte con il Dio dei truffatori.
Solleva istintivamente le mani come a volersi proteggere e dice con voce spezzata: “Ti prego, spiegami: io non riesco a capire…”.
Dopo un istante di silenzio Pamela fa un passo indietro e il suo braccio armato impercettibilmente vira verso il pavimento: Neal capisce che sta abbassando la guardia, che è riuscito a indurla a parlare con lui.
La donna adesso scuote il capo, gli occhi le si sono riempiti di lacrime: è evidente che ricordare le causa un dolore lacerante. Eppure vuole - vuole disperatamente - che lui sappia, che la veda, che si renda conto di come ha distrutto la sua vita.
“Dopo quella mattina io ho perso tutto” dice, quasi sull’orlo dei singhiozzi.
La sua voce sale di tono istante dopo istante e alla fine diventa un grido disperato e rabbioso, un soffio ferino di belva infuriata: “Mi hanno licenziata perché non ero stata abbastanza vigile, abbastanza rigida nel chiederti le credenziali, perché mi ero fatta infinocchiare al punto da averti addirittura prestato il mio tesserino…”.
Pamela è ora trasfigurata dall’odio: tutto in lei  - gli occhi, la voce, le labbra - esprime un furore senza ritorno.  
“Te lo ricordi adesso, bastardo?” grida agitando davanti a Neal la pistola, mentre con la sinistra stringe spasmodicamente il telecomando che azionerà le micro-cariche esplosive: “Ricordi quando mi dicesti che il badge non ti funzionava bene perché era il tuo primo giorno di lavoro e io come un’idiota ti aprii la porta usando il mio?”
 “Ti troverai bene qui” ti dissi - povera deficiente! - “Per ora va alla grande” mi rispondesti. Certo che ti stava andando alla grande: eri riuscito a fregarmi in un batter d’occhio!”. 
“Tu mi hai distrutto la vita: ho perso il lavoro e non sono più riuscita a trovarne un altro perché mi sentivo un’inetta, un’incapace… ho cominciato a bere e così mia figlia è stata affidata ai servizi sociali”.
“Mia figlia: sono due anni che non me la fanno vedere perché dicono che sono una persona instabile! Hai idea di cosa significhi? Lei…”.
Lacrime amare le bagnano il viso, ma lei le asciuga col dorso della mano e continua.
“Lei era così piccola” mormora “e aveva solo me al mondo”.
“Io non ho più nulla da perdere, niente per cui valga la pena vivere: ma adesso è arrivato finalmente il momento di saldare i conti”.
“Aspetta!” ripete il truffatore indicando con un movimento del capo gli ostaggi “Lascia almeno andare loro, non hanno niente a che fare con te, né con me. Non hanno nessuna colpa di ciò che ti è successo…”.
Pamela piega appena la testa di lato, il viso adesso solcato da un sorriso velenoso: “Nessuna colpa? E io che colpa ne avevo se il sistema di sicurezza della banca faceva acqua da tutte le parti? E mia figlia, eh, che colpa poteva mai avere lei?
Loro non c’entrano? Non me ne frega niente: nessuno è innocente e tutti devono sapere quello che tu mi hai fatto! Tutti devono pagare per ciò che ho passato nella mia vita”.
Fissa lo sguardo per un momento sul telecomando, la smorfia che le stira le labbra dipinte è maligna come una ferita fresca: “Tra poco inizieranno i fuochi d’artificio e finalmente tutti sapranno chi sono: non sarò più una donna invisibile”.
“Ma… prima il piacere”.
Adesso Pamela è vicinissima a Neal: tra loro solo il suo braccio teso.
Il truffatore sente il cuore martellargli all’impazzata nel petto, alza lo sguardo oltre la donna armata e i suoi occhi incontrano quelli di Peter, che nel frattempo le si è silenziosamente avvicinato alle spalle impugnando la pistola: lo vede e la speranza e il sollievo lo fanno, istintivamente, sorridere per una frazione di secondo.
Quando si rende conto di avere commesso un’imperdonabile leggerezza è troppo tardi.
 

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


EPILOGO
 
Elizabethaveva sempre avuto simpatia per Reese Hughes, eppure quel pomeriggio se avesse potuto farlo sparire d’un colpo con uno schioccar di dita l’avrebbe certamente fatto, senza rimorsi.
Infatti, dopo averle spiegato che Peter e Neal erano dovuti intervenire per aiutare la polizia a sventare una rapina in banca, l’aveva parcheggiata su una poltroncina nel proprio ufficio senza darle altre notizie, tutta sola a chiedersi cosa mai potessero avere a che fare suo marito e Neal con un rapinatore di banche.
Nella bella stanza luminosa tutto era in perfetto ordine e la segretaria di prima si era già affacciata almeno due volte per chiederle se poteva portarle un caffè, ma nonostante ciò Elizabeth si sentiva inquieta e smaniosa. 
Non avrebbe saputo dirlo con esattezza, ma avvertiva intorno a sé una calma insolita: era appena una sfumatura, eppure sentiva che quella era una calma anormale, che conteneva un sentore di morte. L’aria si era fatta immobile e stagnante, come se stesse per accadere qualcosa, ed era un’impressione così chiara da averne paura.
Come se non bastasse, il dolore al fianco anziché placarsi le pareva persino più intenso, tanto che stava cominciando seriamente a preoccuparsi che qualcosa nella gravidanza non andasse come doveva.
Perciò, quando la porta si spalancò con un rumore che riecheggiò come una fucilata nelle sue orecchie, balzò in piedi e non riuscì a trattenere un grido strozzato.
Ma prima che Hughes, precipitatosi nella stanza come una furia, riuscisse a spiegarle il motivo di tutta quell’agitazione, fu percorsa da un brivido che l’attraversò tutta come una spada gelata, davanti agli occhi le calò d’improvviso un velo oscuro, le gambe le si piegarono e scivolò sul pavimento priva di sensi.
 
***
 
Un istante. Un solo istante. La sessantacinquesima parte di uno schiocco di dita.
Una piccola, microscopica briciola di tempo, solo un’infinitesimale goccia nell’oceano delle nostre esistenze.
Per qualcuno tutti i fenomeni esistono in ciascuno degli istanti di una vita individuale, e perciò ogni istante contiene in sé un illimitato potenziale: in un singolo, infinitesimale, momento è contenuto ogni possibile sviluppo dell’esistenza di un uomo e tutti questi attimi ridottissimi fluiscono ininterrottamente dal passato, al presente, al futuro attraverso un tempo che non ha né inizio, né fine.
 
Per tutti gli altri, in fondo, cosa può mai significare un istante? Niente.
Le nostre giornate sono composte da un numero incalcolabile di queste minuscole particelle, alle quali di solito nessuno attribuisce un particolare valore: in alcune occasioni, invece, la distanza tra la vita e la morte può essere percorsa in un istante.
Un istante fu tutto ciò che Pamela Smith impiegò per capire cos’era accaduto e, accecata dalla rabbia, voltarsi verso il federale stringendo saldamente la pistola.
Nel medesimo istante Peter Burke le si scagliò contro, riuscendo a strapparle il telecomando e a farlo rotolare lontano sul pavimento ma perdendo, nel far questo, la propria arma che scivolò tra i piedi di Neal.
Un istante durò lo sguardo che il federale - da dietro l’arma che la donna gli puntava contro - rivolse al truffatore, il quale aveva recuperato la pistola levandola poi verso Pamela.
Uno sguardo che silenziosamente voleva significare: “Sparale. Sparale adesso!”.
Ma Neal esitò, immobile e come eternato dalla paura.
Esitò solo un istante prima di premere a sua volta il grilletto, ma fu un istante di troppo.
 
***
“È ancora in fibrillazione”.
La dottoressa Conrad solleva le piastre dal torace del paziente e volgendo il capo verso il collega dice: “Quanto tempo è passato?”.
L’altro leva lo sguardo per un attimo sul grande orologio che occupa la parete di fronte e risponde con voce spenta, già consapevole delle conseguenze di ciò che sta per dire: “Ventidue minuti…”.
La donna scuote il capo e sospira rumorosamente.
“Asistolia” conferma l’infermiera, china sul monitor.
“È inutile” esclama la dottoressa “Basta”.
A un tratto, abbandonata dalla speranza che l’aveva animata fino ad allora, pare tremendamente stanca.  
Si morde appena le labbra e, sfilandosi con un gesto che ormai è divenuto abitudine i guanti di lattice intrisi di sangue, guarda a sua volta il quadrante sul muro bianco e appone la sua personale lapide sull’esistenza di un uomo: “Ora del decesso: “19.06”.
 
***
 
Ce la farà. Ce la deve fare.
I pensieri di Elizabeth sono confusi - quando si è ripresa e ha saputo, di nuovo la vista le si è annebbiata e con essa il cervello - ma l’unico che conserva lucidità è questo: ce la farà, ce la deve fare.
Non sa con esattezza quanto tempo prezioso ha perduto rimanendo svenuta: persino guardare l’orologio richiede una calma che lei in quei momenti non possiede.
Eppure sa che ce la farà, perché lei sta andando in ospedale e corre anche se non dovrebbe, anche se le fitte sono diventate insopportabili, anche se il respiro le si spezza in gola e il cuore le schizza fuori dal petto.
Ce la farà perché lei arriverà in tempo per dirglielo, perché una volta che l’avrà saputo lui lotterà con ancora più forza.
Ce la deve fare perché dovrà essere accanto a lei quando il bambino nascerà.
L’atrio dell’ospedale è l’ultima tortura: è quasi arrivata.
E non importa se fa male, se la vista le si appanna, se il dolore ormai la piega in due e quasi le impedisce di camminare.
Non importa nemmeno se sente che adesso sta sanguinando.
Lui è più importante di tutto, anche della vita che è cresciuta dentro di lei e che forse le sta sfuggendo.
Nella nebbia confusa delle sua angoscia distingue appena le porte della sala operatoria.
Ma non importa, null’altro importa.
È arrivata.
 
FINE

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