Legend

di Opalix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nightingale's Song ***
Capitolo 2: *** Doomed ***
Capitolo 3: *** Bloody Flowers ***
Capitolo 4: *** This Battle of Mine ***
Capitolo 5: *** New world, old story ***
Capitolo 6: *** In Loving Memory ***
Capitolo 7: *** Storm in heaven ***
Capitolo 8: *** Scent of Rain ***
Capitolo 9: *** The Point of No Return ***
Capitolo 10: *** Cursed ***
Capitolo 11: *** Forget Me Not ***
Capitolo 12: *** Phoenix Tears ***



Capitolo 1
*** Nightingale's Song ***


PROLOGO

“Nonna, ma che fai dormi?!?”
Due occhioni azzurri la fissavano da più vicino di quanto sarebbe educazione osservare una persona; erano due occhioni ridenti e dolci, che sbucavano al di sotto di una zazzera rossa e spettinata.
La vecchietta rivolse una smorfia di affettuoso fastidio al ragazzino che ghignava a pochi centimetri dal suo viso rugoso. I cuscini del divano su cui riposava erano caldi contro la sua schiena, una coperta di lana avvolgeva i piedi infreddoliti… e qualcosa di un po’ troppo pesante le stava schiacciando le vecchie gambe acciaccate.
“Levati dalle mie povere gambe, bis nipote… hai così fretta di ereditare?” chiese, scorbutica e viziata quanto una vecchia quasi centenaria ha diritto di essere. Fresche risate infantili accolsero la sua uscita. “Nonna Hermione” si rivolse ad una ragazza accoccolata su una sedia con un libro tra le mani e lunghi riccioli bruni a coprirle il visetto serio.
“Tieni a bada queste pesti, Sabine. E prendimi un’altra coperta, per cortesia.”
Sabine sospirò, appoggiando a malincuore il libro sul tavolo; balzò giù dalla sedia e distribuì scappellotti alla coppia di gemelli dai capelli rossi con salomonica equità.
“Ahi!!” si lagnarono quelli all’unisono.
Sabine, ignorandoli, prese una coperta dalla cassapanca vicino al caminetto e la porse alla bisnonna.
“Eppure non è freddo, nonna. Sei sicura di star bene?” chiese, premurosa. La sua voce era pacata e dolce, lo sguardo pensieroso regalava una luce di mistero a quegli occhi scuri.
“Tranquilla, tesoro. Non è ancora la mia ora…” rispose la nonna con la solita ironia. Poi si rivolse a voce più alta alle due piccole pesti che scarabocchiavano un grosso album da disegno, sdraiati pancia sotto sul tappeto: “Sono ancora abbastanza in forze da farmi rispettare. A letto voi due! Sono già le dieci e mezzo.”
“Ma nonna!!!!” esplosero quelli, alternandosi nel parlare quasi che la natura li avesse dotati di due parti separate dello stesso cervello. Hermione sorrise dentro di se, e le sue labbra screpolate si piegarono in quella smorfia malinconica e remota, tipica di chi ha troppi anni dietro le spalle. Troppi anni e troppo zeppi di ricordi.
“Siamo…”
“…in vacanza!!!”
“Ci hai fatto fare i compiti…”
“…per TRE ore…”
“….stamattina!”
Hermione afferrò la bacchetta magica che nascondeva tra le pieghe della vestaglia. All’improvviso i due ragazzini saltarono in piedi, strillando come se il tappeto avesse preso fuoco sotto il loro stomaco.
“Non vale!!!”
“Noi non possiamo usare…”
“…la magia!”
La nonna ridacchiò.
“Non ho mai rispettato le regole! A letto! Due giorni dalla nonna non significa due giorni allo sbaraglio. Se non vi faccio fare i compiti vostra madre strillerà, e mi farà venire il mal di testa.”
“Mamma strilla sempre…”
“…sempre!!”
“A dormire! Voglio le luci spente entro dieci minuti!”
Mentre i due bambini si allontanavano brontolando sottovoce, Hermione sorrise alla maggiore delle bisnipoti, persa di nuovo nel suo libro. Maledizioni leggendarie. Hermione sospirò, osservando lo spicchio di luna la cui luce azzurrognola filtrava dalle tende immacolate.
“Sabine, sii gentile, prepara due tazze di tè… poi vieni a sederti con me e lascia perdere quel mattone polveroso. Avrai tempo di leggere a scuola. Ora voglio raccontarti una storia che non troverai su quel libro.”

“Memory,
All alone in the moonlight
I can smile at the old days,
Life was beautiful then.
I remember the time I knew what happiness was!
Let the memory live again.”
“Memory” from “Cats” (musical, 1981)

Ne ho viste ormai migliaia di lune sfilare silenziose in questo cielo, nella mia lunga vita. Sono stata una ragazzina testarda, una donna innamorata, una moglie, una madre, una nonna. Sono stata tutto questo, ed altro, altro ancora… sono stata, e potrei essere ancora, una strega potente, volitiva, intelligente. Ma sono anche stanca, ora, e so che presto potrò riposare, là dove ormai tutti stanno aspettando soltanto me.
Se ne sono andati tutti ormai… la prima è stata Calì, gli occhi accecati dalle troppe visioni e i capelli, un tempo neri come la pece, divenuti candidi come neve. Poi se n’è andato Harry, dopo essere passato da una giovinezza di guerra turbolenta ad una lunga vecchiaia di pace, ha fatto impazzire le infermiere del San Mungo fino all’ultimo giorno della sua travagliata vita. Draco l’ha seguito di poco, andandosene in silenzio, mentre pescava trote al fiume… incantando la canna da pesca perché era ormai troppo vecchio per tenerla sollevata. Poi Ginny, il cui ritratto vigila ancora sui corridoi dell’Ospedale che ha diretto per così tanti anni con successo. E Luna, stanca e annoiata, ha deciso di raggiungere il marito. E infine il mio Ron, solo due anni fa… forse esausto di avere ormai solo la propria vecchia moglie per giocare a scacchi di sera.
Sono rimasta da sola, sono l’ultima ancora qui a vedere i figli a cui abbiamo donato un futuro, nascere, crescere e diventare forti. Quello che sarebbe stato il
tris-nipote di Ginevra Weasley è nato solo pochi mesi fa, un marmocchietto dagli occhioni chiari a cui hanno dato il solenne nome dell’antenato: Draco Malfoy.
Sono rimasta solo io per raccontare ancora quella storia: una storia che ho raccontato a mio figlio. E a sua figlia dopo di lui. E ai suoi figli. E a tutti i loro fratelli quando è giunto il momento. Una storia che vale la pena raccontare prima che le parole trasmesse e trascritte la trasformino definitivamente. Una storia di amore, dolore, maledizioni e magia… la vita di persone che ormai sono divenute impalpabili, luminose leggende.

“Come my love I'll tell you a tale,
Of a boy and girl
And their love story.
And how he loved her, oh so much,
and all the charms she did possess.”
“Storybook Love” from “The Princess Bride” (film, 1987)

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CAPITOLO 1: NIGHTINGALE’S SONG

È strano come un dolore intenso possa portare una persona a rivelare la sua vera grandezza.
Le storie delle azioni più grandi, e delle emozioni più intense, iniziano sempre nella tragedia, perché è nel dolore e nell’amore che l’essere umano può trovare la forza più grande: quella di affrontare il destino, sfidarlo a duello… e vincere. E vivere.
Anche se, quando il dolore ti avvolge come un velo nero, separandoti dal mondo e soffocando ogni tuo respiro, è difficile ricordarsi cosa significa quella parola: vivere. I giorni scorrono lenti, come acqua stagnante nel fossato di un castello preso d’assalto, lasciandoti il tempo di filtrare da quell’acqua ogni singolo ricordo, ogni momento della tua vita passata che ora ti sembra sfocata e scintillante come un sogno… e ogni ricordo ha una punta, fredda e acuminata, che infligge al tuo cuore un’ennesima ferita.
A volte è soltanto la speranza a tenerti sveglio, a impedirti di impazzire. E per quanto sottile, invisibile come la seta del ragno, quel filo di speranza è forte, resistente, e non ti lascia cadere.
La speranza era ciò che io ero riuscita a conservare. Pur nella paura, pur nella rabbia e nel senso di disgusto che mi veniva da quell’ingiustizia così atroce… io speravo: avevo qualcosa a cui guardare, un obiettivo, una luce, leggera come la fiamma tremolante di una candela, ma pur sempre una luce.
Ginny non aveva più nemmeno quello.

“Certainties disappear
What do we do for our dream to survive?
How do we keep all our passions alive,
As we used to do?”
“You must love me” from “Evita” (film, 1996)

Grimmauld place, numero 12, era stata attaccata.
No, nessun traditore. Solo una mente troppo delicata per sopportare le torture… poiché, morto il custode segreto dell’Ordine, chiunque di noi avrebbe potuto rivelare l’indirizzo del luogo posto sotto l’Incanto Fidelius; questo, noi non lo sapevamo, l’abbiamo imparato a nostre spese.
Lavanda era entrata nell’Ordine della Fenice dopo che i mangiamorte avevano attaccato la sua famiglia, uccidendo la madre babbana e il padre mezzosangue. Il destino aveva tenuto Lavanda lontana da casa quella notte, in vacanza dall’amica del cuore, Calì. Piena di rabbia e di dolore, si era unita a noi “militanti”, nella mente solo il desiderio di una vendetta che il suo carattere passionale non le permetteva di ignorare. Ma non era, non sarebbe mai stata, una donna forte: piegata dalle torture dei seguaci dell’Oscuro Signore, le sue labbra si erano lasciate sfuggire una strada e un numero, per poi morire nell’orribile consapevolezza di aver consegnato tutti noi nelle mani dei nemici
. Abbiamo perso amici, amori e fratelli in quell’attacco. Troppi cadaveri da piangere, troppe lacrime avevano inzuppato quella cenere.
Dean, proteggendo Calì dal fuoco appiccato agli arazzi della grande sala.
Ernie e Padma, nel tentativo di respingere un gruppo di Dissennatori, periti in un incubo in cui tutto era freddo e privo di luce.
Moody, troppo vecchio sebbene non volesse ammetterlo.
Hagrid.
Arthur… Si. Anche Arthur Weasley.

Noi eravamo in prima fila, come sempre. Coraggiosi e stupidi, ignoravamo le proteste di chiunque: noi volevamo combattere, esserci, fare la nostra dannatissima parte, sempre e comunque. A qualsiasi costo. E il costo, quel giorno fu alto, troppo alto.
Ero al suo fianco, come sempre, quando fu colpito. Non so quanto urlai, mi sentivo sdoppiata: da una parte continuavo a combattere come una furia, dall’altra vedevo il mio Ron cadere, colpito da due, tre, quattro… non saprei dire quanti incantesimi, tutti insieme. E lo chiamavo, lo chiamavo, e lui non rispondeva, calpestato dai mangiamorte che lo credevano morto e non si curavano di lui.
Non era morto. Il suo grande cuore si rifiutava di smettere di battere: si era solo addormentato, imprigionato in un sonno dal quale sembrava non volersi più svegliare. Fu così che lo raccolsi, per salvarlo dal fuoco che i mangiamorte avevano appiccato.
Da così poco l’avevo per me, da così poco ci eravamo resi conto dei nostri sentimenti… e già me lo portavano via. E io raccolsi il suo corpo addormentato, insieme ai brandelli del mio cuore spezzato, nella mente solo la speranza di trovare un modo per farlo guarire…
Ma sto divagando, lo so: sono prolissa, è sempre stato un mio difetto.
Questa non è la mia storia, in realtà, e non è di me che devo raccontare. Sebbene ognuno di noi può aver fatto la differenza in quei tragici momenti, ci sono persone le cui scelte sono destinate ad avere effetto sull’esistenza di molti, e Ginny era sicuramente una di quelle persone. Fece la sua scelta; forse inconsciamente, di certo senza immaginare le conseguenze… ma scelse.
Scelse di rimanere accanto alla madre, rendendosi utile in un momento così triste per Molly; scelse di prestare la sua mente e le sue braccia, nel trasferire noi tutti e il quartier generale ad Hogwarts, dove Minerva continuava testardamente ad insegnare ai pochi studenti rimasti; scelse di restare vicina all’amica Calì, che la morte di Lavanda aveva lasciata vuota e disperata. Scelse di restare con me, aiutandomi a cercare un modo, una cura, un incantesimo per risvegliare Ronald.
Notti e notti passate a leggere fino a farsi dolere gli occhi, il viso sepolto tra pagine ingiallite di libri polverosi, senza un lamento, gli occhi bruni e il dolce sorriso che davano forza e sostegno a me, a Molly, agli amici, a tutti… senza che ne rimanesse per lei. All’inizio era stato il dolore per la morte di Arthur a cancellare la maliziosa insolenza da quel viso che era stato uno dei più ammirati di Hogwarts, poi era stata la delusione a far apparire troppe ombre sui suoi lunghi silenzi.
Nessuno giudicava Harry, certo, nessuno sentiva di averne il diritto. Lui era… Harry, con i suoi mille errori e mille sensi di colpa, con quel peso sulle spalle che sembrava schiacciarlo così tanto che non avrebbe mai più potuto far alzare quella sua maledetta scopa. Eppure tutti noi, a cui Ginny regalava una battuta di spirito o, nostro malgrado, una risata… tutti noi abbiamo pensato in quei momenti che Harry stesse compiendo l’ennesimo sbaglio. Ma, come ho detto, Ginny aveva scelto la propria strada, ed Harry, straziato da quegli omicidi dei quali si sentiva indirettamente responsabile e dalla “perdita” del suo migliore amico, aveva trovato un brandello di pace nelle attenzioni affettuose di un’altra ragazza.
Forse, se Ginny gli fosse stata accanto, Harry sarebbe tornato sulla sua decisione di starle lontano “per proteggerla”. O forse no. Forse quel grande amore adolescenziale era comunque destinato a sbiadire alla luce azzurrognola della prima luna.
Luna – si, proprio lei – era sempre stata con noi. Silenziosa, sognante, dolce con chiunque. La sua amicizia con Harry sembrava essere l’unica cosa reale e concreta della sua strana esistenza. Nell’ultimo anno era sbocciata in una ragazza troppo particolare per essere considerata bella, ma di certo affascinante sotto la stravaganza che la distingueva dalla massa. Non aveva la delicata bellezza di Ginny, nè i regolari lineamenti esotici di Calì: era uno scricciolo biondo, dai grandi occhi azzurri come il cielo, capace di donare un sorriso gentile a chiunque, nessuno escluso. Soprattutto ad Harry. Disperato, Harry accettò quel conforto, incurante, o forse immemore, dei motivi che lo avevano allontanato da Ginny.
E così le conseguenze di quella scelta – così naturale, così semplice: la famiglia, il dovere, gli affetti – trasformarono Ginny in un’anima insonne, che vagava tra i muri spettrali del castello, tra i libri della grande biblioteca, cercando una solitudine che un tempo non avrebbe sopportato. I fratelli impegnati nella guerra, la madre disperata di non vederli più tornare, Ronald immobilizzato da un sonno incantato, ed Harry perso, per sempre, ancora… cosa restava per la piccola Weasley?
E Ginny scelse, di nuovo: scelse di non combattere più, di restare al castello in attesa, restare con la madre e con Madama Chips nell’infermeria, impegnando quella forza, che sembrava non servirle più per se stessa, nel curare i membri dell’Ordine… e chiunque altro arrivasse chiedendo aiuto.

“…viene il momento in cui non vi è che disperazione, e invochi la Dea, e sai che non ti risponderà perché non c’è, non c’è mai stata, non vi è altra Dea all’infuori di te, e tu sei sola.”
Marion Zimmer Bradley
“Le nebbie di Avalon”

Hermione aprì la porta d’ingresso, sbadigliando. Un’alba rosata rischiarava il cielo sopra le cime dei grandi alberi della Foresta Proibita, riscaldando l’aria frizzante della notte; il prato, qualche gradino sotto i piedi scalzi della ragazza brillava di gocce di rugiada, quasi che il mondo volesse compensare lo scintillio delle piccole stelle che impallidivano all’arrivo del giorno. Dalla casa, che un tempo era stata di Hagrid, veniva un profumo di sapone e biscotti, mescolato all’aroma pungente di qualche pozione che riposava in attesa della prossima luna.
Con le tazza di caffè fumante in mano, Hermione abbracciò con lo sguardo il pendio della collina verde scuro e la sagoma del castello di Hogwarts che si stagliava contro il cielo appena schiarito, mentre mille ricordi passavano tra sue lunghe ciglia appena abbassate.
Rientrò in casa e lasciò la tazza nell’acquaio, prima di aprire, come ogni mattina, la porta della stanza in cui Ron riposava, immobile e addormentato, ormai da più di un anno. Il corpo, da cui si emanava la luminescenza azzurrognola e argentata degli incantesimi che lo mantenevano in vita, dormiva su un letto privo di coperte, serio e composto come di certo non era stato da “vivo”. Il viso era rilassato, i capelli folti e rossicci spettinati sul cuscino candido, e le lentiggini spiccavano sulla pelle chiarissima. Un vecchio libro di incantesimi era ancora aperto sul comodino… residuo dell’ennesimo tentativo andato in fumo con cui Hermione, ormai disperata, aveva tentato di risvegliare Ronald.
Una volta ripulita di tutte le polverose carabattole ammucchiate negli anni, la casetta che era stata di Hagrid, si era rivelata un luogo ideale per Ron: abbastanza lontano da Hogwarts perché gli antichi incantesimi che impregnavano le pietre del castello non interferissero con la magia che lo teneva in vita, ma abbastanza vicino perché Hermione, che non voleva lasciare il ragazzo, riuscisse ad essere coinvolta in ogni progetto o azione dell’Ordine. Ma il cervello della ragazza sembrava ormai disponibile per gli affari del mondo solo per una piccola, misera frazione, mentre gran parte della sua mente era concentrata solo nell’aggrapparsi al filo di speranza che, ormai sottilissimo, teneva Ron allacciato ad una parvenza di vita.
Il chiarore magico della stanza di Ron rendeva traslucide le venature del legno che rivestiva le pareti, trasformando quell’angolo della casetta, in un luogo irreale e separato dalla realtà: rigonfia di dolceamari ricordi infantili, la stanza si era trasformata in santuario del dolore, sul quale Hermione regnava come solitaria sacerdotessa.
Una cascata di riccioli vermigli ricadeva sul braccio abbandonato di Ronald, a fianco del quale Ginny si era addormentata, seduta sulla poltrona con la testa posata sul materasso, le braccia incrociate sotto la guancia e la schiena tutta storta, che di certo le avrebbe fatto un male tremendo una volta sveglia.
“Gin!” chiamò, Hermione con una punta di impazienza.
La ragazza si mosse, aprendo gli occhi dolci e scuri, che nemmeno la mancanza di sonno era in grado di cerchiare. Si stiracchiò, lamentando soltanto con una smorfia l’indolenzimento della schiena.
“Che mal di testa…” mormorò invece, strofinandosi gli occhi e la fronte.
“Sono gli incantesimi. Te l’ho detto mille volte di non addormentarti qui” la rimproverò Hermione, senza curarsi di abbassare la voce. C’era voluto molto tempo prima di riuscire ad assimilare il fatto che avrebbe potuto entrare strillando in quella stanza senza che il sonno di Ron venisse minimamente disturbato.
“Non l’ho fatto apposta!” si giustificò Ginny, “sono crollata dal sonno.”
Hermione tolse la bottiglia vuota dall’impalcatura di ferro che sosteneva la flebo, e la sostituì con una nuova; un liquido color amaranto iniziò a scendere goccia a goccia lungo il tubo, per poi sparire nel braccio di Ron. Mentre controllava scrupolosamente le stato dell’ago, Hermione accarezzò con dolcezza la mano del ragazzo e allacciò per un breve istante le proprie dita alle sue. Poi si allontanò verso la porta e fece cenno all’amica di seguirla.
“Forse lavori troppo in quell’infermeria, Gin” disse, mentre versava una tazza di caffè e la porgeva a Ginny.
Ginny scrollò le spalle, pescando un biscotto dal barattolo sulla credenza e inzuppandolo nel caffè nero, sotto lo sguardo disgustato dell’altra.
“Faccio il mio dovere. E comunque non mi pesa” tagliò corto.
Ma non era così facile zittire Hermione.
“Allora forse sono i tuoi vagabondaggi per il castello a pesarti. Conosci più stanze e corridoi di quanti ne abbiamo esplorati io ed Harry.”
Il che, pensando al passato dei due – tre, con Ron – amici, era tutto dire. Ginny sfoderò il ghigno Weasley, così identico a quello del fratello da provocare una fitta dolorosa nel petto di Hermione, e trangugiò il caffè d’un sorso.
Vo per monti e valloni/Vo per orti e roveti/Vo per fiumi e canneti/Vo tra vampe e burroni/Rapido come s’alza/Luna di balza in balza…(*)” cicalò con allegria forzata, dirigendosi verso la porta.
Hermione la richiamò indietro, esasperata.
“Ginny! Dove vai!”
Ginny agitò una mano mentre saltellava giù dai gradini.
“A vagabondare...! Grazie per la colazione!”

Hermione rimase da sola, a fissare i fondi del caffè nella propria tazza, pensando distrattamente che, chissà, magari quella poltiglia nerastra era davvero in grado di indicare la direzione che stava prendendo il futuro. Si alzò e si diresse di nuovo verso la “stanza di Ron”, un libro sottobraccio ed in mano un’ennesima bottiglia di pozione ricostituente.
Si sedette sulla poltroncina, ancora impregnata del calore e del profumo di Ginny: menta e timo delle pozioni disinfettanti, mescolati al delicato sentore dell’erica che fioriva in quel periodo, colorando di rosa cupo il prato dietro all’ala nord del castello.
“Mi preoccupa tua sorella, Ronald… sarebbe ora che ti svegliassi, perché io non so proprio più cosa fare con lei.” mormorò, fissando le palpebre abbassate di Ron, quasi sperando di vederle spalancarsi. Così, da un momento all’altro. “E perchè fare l’infermiera non mi piace, lo sai benissimo” aggiunse con un sorrisetto amaro.
Aprì il libro polveroso e le ritornò in mente la filastrocca con cui Ginny l’aveva salutata. Scosse la testa: un passo di una commedia di Shakespeare. E Ginny l’aveva recitato a memoria, con la giusta metrica, senza sbagliare una sillaba. Doveva averlo letto, e più di una volta, per ricordarlo così prontamente.
Se fosse stata lei, Hermione So-tutto-io Granger, a rifugiarsi nei libri dopo un dolore o una delusione, si, quello sarebbe stato normale. Ma Ginny… Ginny Weasley, la Cacciatrice, la ragazza di Potter, l’ammirata e forte Ginny! O forse Ginevra la romantica, capace di affidare le proprie confidenze ad un diario maledetto, di aspettare per anni l’amore della sua vita, e vederselo scivolare via dalle dita al primo soffio troppo forte di tempesta. Quale delle due era la maschera e quale l’essenza di quella fata sbiadita, vagante tra serre abbandonate e corridoi polverosi?

“…sorge proprio sul limitare della brughiera; ci sono quasi cento stanze, in maggioranza chiuse a chiave. Ci sono quadri, mobili antichi e cose che si trovano lì da tanto tanto tempo, c’è un grande parco tutto intorno, e giardini, e alberi con rami che toccano il suolo… alcuni almeno. Ma non c’è altro.”
Frances E. Burnett
“Il giardino segreto”

“Ginny, per tutte le mandragole, vattene a mangiare!”
Madama Chips riusciva a tirare fuori un tono di voce tremendamente fastidioso quando si impegnava. Ginny chinò la testa rossa sull’ultima benda che aveva ripiegato con cura e allungò la mano verso il calderone in cui bolliva la rimpolpasangue appena terminata, pronta da imbottigliare. “Ginny!” strillò ancora la vecchia infermiera.
La ragazza alzò le mani sopra la testa e fece due passi indietro.
“Ok, ok… ma quella è da mettere nelle bottiglie prima che si raffreddi”
Molly Weasley arrivò alle spalle della figlia, portando un carico di lenzuola lavate e ripiegate.
“Lo farò io, tesoro. Tu vai a cena, è proprio ora. Non hai nemmeno pranzato per stare su quella dannata pozione antilupo, ti ho vista.”
“Non è vero.”
Negare, negare e, ancora una volta, negare.
“Invece si. Stai facendo più del tuo dovere piccola, ora vai a cena con i tuoi amici.”
Si. A cena con gli amici.
Ginny represse una smorfia di esasperazione e obbedì in silenzio, lasciando le due donne sole nell’infermeria quasi buia. Mentre usciva strappò la retina che imprigionava strettamente i riccioli quando lavorava in infermeria, lasciandoli liberi di ricadere, lunghi e lucenti, sulle spalle.
Davanti al portone della sala grande di Hogwarts esitò, con la mano sulla pesante maniglia. Non ne aveva voglia, non aveva per niente fame, e no, dannazione, non voleva entrare in quella sala, per essere guardata come un eroina dai pochi nanerottoli che ancora frequentavano la scuola, mentre camminava a testa alta verso il tavolo dei professori… il tavolo dell’Ordine. No, non voleva vedere le occhiate che Bill lanciava, furtivo, alla luna piena che spuntava. Non voleva sentire Charlie chiederle, come ogni santissimo giorno, se aveva novità sulla maledizione di Ron. Non voleva vedere Harry. Né Luna. Né la pietà negli occhi di tutti gli altri.
Non voleva entrare e sentirsi un fenomeno da baraccone, quando tutto quel mondo non era altro che un petardo colorato in attesa di esplodere. Non voleva sentire gli sguardi posarsi solo per un istante sulla sua schiena, quasi che fosse fatta di vetro così sottile da infrangersi al primo soffio di brezza. Non voleva sentirsi così nuda, non voleva avere l’ennesima certezza che tutti, nessuno escluso, ritenevano di “capire esattamente cosa la povera piccola Weasley stesse provando”.
Non voleva sentire che guardavano lei, e poi guardavano Harry, poi di nuovo lei, e poi Harry, ancora, con quel rimprovero compassionevole tra le labbra strette in una smorfia severa.

Fece un passo indietro e si voltò per allontanarsi, quasi di corsa.
L’eco dei suoi passi rimbombava per i corridoi vuoti e sulle lunghe scalinate che portavano ad ogni momento ad un piano diverso. I ritratti di maghi antichi e sconosciuti la guardavano passare, incuriositi, risvegliandosi dal loro annoiato torpore: nessuno studente sgattaiolava più nei corridoi proibiti, ormai… e gli studenti erano talmente pochi che la maggior parte delle aule e delle sale del castello era vuota e inutilizzata. Nei suoi vagabondaggi notturni, Ginny aveva trovato vecchie aule, ripostigli, stanze piene di ricordi e tesori e ampie sale dalle pareti coperte di librerie polverose, piegate dal peso di testi ingialliti che, evidentemente, qualcuno non aveva ritenuto abbastanza importanti per essere trasportati nella biblioteca.
“Signorina Weasley!” berciò la vecchia Dilys, agitando la bacchetta tra gli strappi della tela.
Ginny sobbalzò solo per un istante, presa alla sprovvista, ma si ricompose immediatamente e salutò la vecchia preside con una scherzosa reverenza. La vecchietta scosse i boccoli grigi, ridacchiando.
“Sta lontana dal quadro del vecchio Theseus, cara, è un po’ irritabile stasera”, poi aggiunse a voce più bassa, “La tenda della finestra è strappata e sono due notti che non riesce a dormire per la luce della luna piena.”
“Quel vecchio lunatico…” concesse Ginny con intensa partecipazione, “Grazie professoressa, buonanotte!” e regalò alla vecchietta un sorriso prima di scomparire tra le ombre del corridoio.
Girò alla larga del ritratto del vecchio centauro, più che altro per evitare di essere ritenuta personalmente responsabile del fatto che “quei dannati umani sottosviluppati non erano nemmeno capaci di cambiare una tenda, figurarsi di vincere una guerra”… e si ritrovò in un secondo corridoio laterale, illuminato e rinfrescato da una fila di finestrelle aperte dalle quali la vista si allargava sul pendio della collina, sulla casetta di Hagrid e sulla Foresta Proibita. La luce era ancora accesa nella vecchia casetta e Ginny mormorò una buonanotte per Hermione e Ron, prima di lasciar vagare lo sguardo sulla scura foresta: al di sotto di quelle folte chiome verdi, nel pieno rigoglio della primavera, creature leggendarie e pericolose conducevano la loro vita, spiavano i ridicoli sforzi degli umani di cambiare il loro destino… la loro magia palpitava nella notte, salendo fino alla luna, enorme nel cielo blu cobalto, e alle stelle che raccontavano leggende con i loro disegni di luce.
Voltando le spalle alla notte, percorse il corridoio e si ritrovò davanti ad un ritratto dalla tela lisa e consunta, talmente antico e sbiadito che i lineamenti della donna sembravano sfocati, appena accennati. Non parlava, la signora del dipinto, mai: quasi tutte le notti Ginny si soffermava a guardarla, interrogandola con lo sguardo o con le parole, ma lei, la “principessa del gelsomino” come Ginny l’aveva soprannominata, non le aveva mai detto chi era. Il viso era pallido e opalescente sullo sfondo scuro del quadro: il blu della notte, il verde delle foglie e la luce azzurra della luna erano interrotti solo dal biancheggiare di mille fiori del gelsomino, attorcigliato ai sostegni dell’altalena su cui la donna era seduta. La tunica stessa era di un verde-bluastro, così scuro da confondersi con le foglie della pianta. Una cascata di capelli di un biondo intenso e lucente si agitava leggermente, come se il ritratto fosse stato dipinto in una giornata ventosa, e gli occhi della donna brillavano di un turchino smagliante tra i colori sbiaditi della tela.
Come ogni sera la ragazza bionda rivolse a Ginny un sorriso amaro e malinconico, al quale Ginny rispose, con la stessa rassegnata malinconia. Inconsciamente, aveva preso ad imitare quello sguardo antico, che accenna a tutti i sentimenti del mondo e non ne esprime nessuno, e quella piega delle labbra in un sorriso che non tocca gli occhi, incapaci di contenerlo perché una marea di ricordi sembra averli riempiti con le onde inesorabili della tristezza… onde che erodono la spiaggia del dolore, trasportando la sappia nelle profondità dell’anima, imprigionandola laggiù senza farla mai sparire davvero. Quello sguardo che lascia gli amici perplessi, che chiede, eppure allontana l’amore di chi vorrebbe donartelo… perché tanto sai quell’amore non ti sarà sufficiente, quindi preferisci non averne nemmeno una goccia, per non soffrire di più.
L’uccellino, posato sul braccio della donna, arruffo le piume grigie del dorso, che alla luce della luna parvero argentate per un istante. Era un usignolo, dalle piume lucide e lo sguardo curioso.
“La tua Signora non può parlare, piccolo… perché tu dovresti poter cantare?” mormorò Ginny con affetto, prima di allontanarsi e sparire oltre una pesante porta di legno scuro, che cigolò sinistramente nel silenzio mentre si richiudeva.

La stanza era quasi perfettamente quadrata, con un enorme caminetto ad angolo da una parte e una porta ad arco sulla parete opposta a quella da cui Ginny era entrata. Con un movimento della bacchetta e un mormorio indistinto, la ragazza accese magicamente quattro lampade ad olio, appese a vecchi e arrugginiti riccioli di ferro battuto che pendevano dalle pareti: l’odore dolciastro dell’olio bruciato si diffuse nella stanza e le luci dorate illuminarono l’ambiente. Due poltrone dall’altissimo schienale erano disposte attorno al caminetto, rivestite di velluto così consumato e polveroso che non era possibile dire di che colore fossero un tempo… ma erano comode, una volta che ci si abituava alla polvere di cui erano impregnate, e il caminetto era così grande da scaldare tutta la stanza: per Ginny quel luogo era stato un rifugio tranquillo e sicuro nelle lunghe notti d’inverno. Sul bracciolo della poltrona di sinistra c’era ancora un libro aperto, posato con le pagine verso il basso per non perdere il segno, e altri libri con la stessa copertina di tela color porpora erano ammucchiati sul sedile della seconda poltrona; la scritta “Shakespeare” era impressa sulle copertine in gotiche lettere dorate.
Arazzi strappati ed ingialliti dal tempo coprivano le pareti del salottino. Alla luce delle candele era possibile scorgere, al di sotto dello strato di polvere, i motivi a fiorami e foglie autunnali che circondavano le scene ritratte nei tessuti: un centauro sull’orlo di una scogliera a picco sul mare agitato, druidi incappucciati al centro di un antico cerchio di pietre, una barca dalle vele scure spiegate alla brezza marina.
Ginny si avvicinò alla porta ad arco e fece forza sulla maniglia arrugginita per diversi minuti, prima che essa si lasciasse aprire, con un fastidioso cigolio di vetri sbreccati e ferro arrugginito. Oltrepassando la porta, la ragazza si ritrovò su un ampio loggiato di pietra, riparato dal vento frizzante della sera. Appoggiandosi al muro che cingeva la terrazza, rimase in ombra degli alti merli di pietra, in silenziosa contemplazione della suggestiva vista sull’ala Nord del castello. Amava quel momento, proprio quell’esatto istante: le luci nella torre Gryffindor si spensero una ad una, partendo dal basso, mentre i pochi studenti lasciavano la sala comune per recarsi nei dormitori… nel giro di una manciata di minuti ogni luce del castello si spense, lasciando soltanto la nebbiosa luminosità della notte. I raggi della luna si riflettevano sui vetri delle serre che, da quell’angolazione, sembravano pietre incastonate in un intricato labirinto di muri, siepi e giardini. Poco più sotto, alla base di un ripido pendio ricoperto di erica, il lago risplendeva, calmo, come un grandissimo specchio fatato.
Nel silenzio della notte il trillo di un usignolo risuonò, limpido e argentino quanto la nota di un diapason. Ginny sorrise nel buio.
Intona, usignolo gentile, una melodia sottile… (**)” recitò sottovoce, abbandonando la testa contro la pietra fredda del merlo. Dagli occhi scuri e lucenti scivolò una lacrima che aveva il sapore amaro della solitudine.

**************

(*) Shakespeare, traduzione in rima da “Sogno di una notte di mezza estate”, Atto secondo, Scena prima.
“Over hill, over dale,
Thorough bush, thorough briar,
Over park, over pale,
Thorough flood, thorough fire,
I do wander everywhere,
Swifter than the moon’s sphere”
È la risposa della fata quando Puck, molto burinamente, le chiede “Ahò, fatina, ‘ndo vai?” (libera interpretazione della sottoscritta che, nei panni della fata, avrebbe risposto come molti immaginano, mandando il “folletto screanzato” esattamente dove meritava).

(**) Di nuovo Shakespeare, “Sogno di una notte di mezza estate”, Atto secondo, scena seconda. È la ninna nanna che le fate cantano alla regina Titania.

**********

NdA:
Ancora un cambio di stile, dunque, per questo mio ritorno al Fire and Ice… dopo il gotico/dark di Trapped, sono passata al malinconico di Frost at Midnight, e ora, più per gioco che per altro, ho tentato di cimentarmi nello stile leggendario, o fiabesco, o come volete chiamarlo.
L’idea mi piace, e mi sto divertendo molto a scriverla, sebbene non ci sia nulla in questa storia che non sia già stato scritto e riscritto.
I credits saranno talmente tanti che non avrò la costanza di indicarli tutti, perciò vi faccio già una panoramica di tutte le mie fonti di ispirazione. L’inizio (tra l’altro molto comune tra le fanfiction), è simile a quello del film “Edward mani di forbice” del 1990, mentre il plot di base della storia è ispirato (alcuni forse diranno “copiato”) ad un altro film fantasy del 1985… non vi dico quale, sarà una sorpresa (si accettano scommesse). La storia nel suo complesso sarà anche un collage di riferimenti alle più belle leggende romantiche come quella di Tristano e Isotta, il ciclo Arturiano o il mito della Cerca del Santo Graal… fino ad arrivare a molti libri fantasy e non, come “Il Giardino Segreto” di F.E.Burnett e le opere della mia adorata Marion Zimmer Bradley, quelle della saga di Darkover in particolare.
Spero di riuscire a raccontarvi una bella favola, meno originale degli altri miei scritti più recenti, ma anche meno angosciante… le favole, in fondo, hanno per definizione un lieto fine!
Quindi, come un bravo cantastorie (figura che adoro, come molti avranno già notato), vi do il benvenuto su questo palcoscenico e vi auguro… anzi, MI auguro di riuscire ad emozionarvi ancora una volta!

Come sempre, i personaggi di Hogwarts non mi appartengono, e nemmeno le trame dei film e dei libri da cui ho tratto ispirazione.

Cercherò di aggiornare con una certa regolarità. Se mi diventerà difficile mantenere il solito aggiornamento del finesettimana, passerò ad un aggiornamento bisettimanale, ma vi avvertirò prima.

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Capitolo 2
*** Doomed ***


una dedica speciale alla beta di questa storia, la mia breda! Un bacio!

CAPITOLO 2: DOOMED

La storia che racconto è quella di Ginny Weasley, non la mia. La mia parte in questa storia non è che una parte da comparsa… ma, del resto, siamo tutti comparse in questo mondo: per alcuni il destino si limita a decidere che devono comparire più di altri.
Non è la mia storia e posso solo ripetere fedelmente ciò che ho visto e ciò che ho sentito raccontare da Ginevra stessa, tante volte prima d’ora.
C’erano state tante notti e tante mattine come quelle che ho raccontato, così tante da non poterle contare: notti e giorni che si susseguivano, ripetitivi e angoscianti, marcati solo dall’inesorabile fiorire ed appassire dei fiori sulle colline.
Anche io avevo smesso di combattere: Harry aveva l’intero Ordine accanto a sé, Ron aveva solo me. Non potevo permettermi di stargli lontano, sebbene le speranze di sentire ancora la sua voce divenissero più tenui ogni giorno che passava. Sentivo il peso dei vent’anni che avevo triplicarsi sulle mie spalle, vedevo me stessa trasformarsi lentamente nell’oscura e remota figura di un oracolo da interpellare nel momento del bisogno. Mi ritrovavo ad attendere nel mio sacrario, aspettavo che il viso di Harry comparisse alla mia soglia per parlare, raccontare e chiedere consiglio… e aspettavo sveglia nell’oscurità della notte che i passi leggeri di Ginny risuonassero nel silenzio, rassicuranti quanto il mormorio indistinto della sua voce che raccontava al fratello addormentato sogni e scoperte di una serata in solitudine. A lui, che non era mai stato capace di ascoltare
. Eppure questa non è la storia del Cavaliere Prescelto, non è quella dello Scudiero Fedele, e non è quella della Strega Sapiente. È la storia della Principessa Triste e di un mago rinnegato che arrivò da lontano. Ed è una storia che inizia in una notte di primavera, quando un grido risuonò nella torre per annunciare a tutti che il destino stava per compiersi.

“It is impossible to say when the hands of the gods intervene in the affairs of mortals and to what purpose, but of a surety, there are times when they do.”
Jaqueline Carey
“Kushiel’s Chosen”

Luna andò a chiamarla alle due del mattino.
Vedere Luna saltare giù da una scopa e spalancare la porta d’ingresso, trafelata, con gli occhioni azzurri sbarrati per l’ansia, non era stato un rassicurante risveglio per Hermione. Sentire poi la ragazza strillarle di venire subito perché Calì era impazzita e stava per morire… beh, non aveva migliorato la situazione. Così Hermione aveva ingoiato il proprio odio per il volo, era salita sulla scopa dietro a Luna e si era lasciata catapultare nella stanza che le ragazze occupavano, al penultimo piano della torretta est.
Ma Calì, per la cronaca, non stava affatto per morire.

Erano in molti a dire che, dopo la morte di Lavanda, Calì non era più se stessa. Solitaria e pensierosa, come se avesse perso la parte raggiante di sè, portava avanti la sua vita senza far rumore, senza parlare se non quando era strettamente necessario. Al contrario di Ginny, portava la sua amara disillusione dipinta sul viso dai tratti esotici e scostanti, resi ancora più gravi dai lucidi capelli neri tirati all’indietro nell’acconciatura tipica del paese dei suoi padri.
Con aria assente, apriva bocca solo per consigliare agli altri ragazzi di stare lontani dalle finestre, di non maneggiare oggetti scottanti o di non uscire in una particolare giornata di pioggia. All’inizio tutti avevano considerato quella mania come un retaggio dell’infantile passione per la divinazione, che aveva condiviso con l’amica del cuore… ma la morte di Lavanda, il sacrificio di Dean che aveva l’aveva protetta, e l’abbandono della sorella che era tornata in oriente con la famiglia, dovevano aver risvegliato un talento latente della magia della piccola indiana, che si era rivelata una veggente utile e veritiera. Pacata e silenziosa durante le riunioni dell’Ordine, lasciava cadere spietati consigli con quella voce rauca e assente che pareva provenire dall’oscuro regno delle ombre; consigli che venivano accolti con sbalordimento e inquietudine, spesso troppo incoerenti per poter essere discussi, ma quasi sempre così lineari e inoppugnabili da non poter essere ignorati.
Eppure… eppure, centinaia di piccole profezie azzeccate non avrebbero potuto preparare Hermione per ciò che si era trovata davanti su quel letto disfatto di lenzuola sudate, in quegli occhi neri spalancati verso una scena orribile dalla quale non sembravano riuscire a staccarsi. La trance di una vera veggente, qualcosa che nessun libro poteva preparare ad affrontare.

Calì tremava, seduta rigida sul letto, lo sguardo perso in un punto indefinito a mezz’aria, tra il baldacchino e il soffitto, dove scorrevano immagini così tremende da far sbiancare la sua pelle olivastra; con le unghie si graffiava convulsamente la pelle dei polsi, come se il suo stesso corpo stesse cercando in qualche modo di risvegliarla. Quando le mani salirono al viso, Luna scattò a bloccargliele, per evitare che si facesse male.
“Sangue sulle pietre… sangue…” mormorava, con la voce rauca per la gola troppo secca. “Merlino, no! No!!”
Hermione si avvicinò e cercò di tranquillizzarla con il proprio tocco, cercò di prenderle le mani, ma non ottenne nulla, se non di rendere ancora più acuti gli strilli della ragazza.
“Brilla! Non posso guardarlo, il sangue brilla!!” strillava Calì, cercando di coprirsi gli occhi.
“Calì…” iniziò Hermione, con voce sommessa, “Calì, piccola…”
“La luce di cento stelle brilla in quel sangue!” gridò la ragazza, senza ascoltarla, “fa rivivere le fondamenta del mondo!”
“Quale sangue, Calì?” chiese Hermione, arrendendosi al suo ruolo: se profezia doveva essere, tanto valeva che fosse più comprensibile.
“Sangue…” continuava a mormorare Calì.
“Calì, ascoltami…” mormorò Hermione, inesorabile. “Continua a parlare, Calì: di chi è il sangue?”
“Il sangue brilla!”
“Perché brilla, Calì…?”
Calì si irrigidì e gli strilli si fermarono per alcuni lunghissimi secondi; l’indiana girò la testa verso l’arco buio dell’ingresso della stanza.
“Sei tu che porti la luce…” disse, senza più urlare, sebbene gli occhi rimanessero sbarrati nel terrore.
Luna ed Hermione seguirono il suo sguardo, ammutolite. Nello specchio della porta era apparsa Ginny, pallida come un fantasma, che osservava la scena con le mani premute sulla bocca. La voce di Calì riprese, grave e remota quanto la maschera dorata degli antichi sacerdoti dell’oracolo.
“Tu porterai la luce per la vita del Prescelto, e l’ombra nera della morte che spegnerà la luce splendente. Tu sei la chiave di entrambi i lati della porta. Ma prima che il destino si compia il rinnegato dovrà tornare, nella notte insanguinata… uno straniero rinnegato…”
La profezia si spense in un mormorio, e Calì si afflosciò esausta tra le braccia di Hermione.
Gli occhi di Hermione e Luna erano fissi su Ginny, immobile come una statua sullo sfondo buio del corridoio. Ignorandole, la rossa fece qualche passo indietro, incespicò sulle pietre sconnesse, e corse via.
“Chiudi quella bocca, Luna” mormorò Hermione, con una freddezza esausta che rendeva l’ordine impartito ancora più perentorio, “e va a svegliare la McGrannitt.”
Guardò i capelli biondi e svolazzanti di Luna sparire nello stesso corridoio che aveva inghiottito Ginny, poi stese Calì sul letto con delicatezza e rincalzò le coperte. Sembrava piccola e indifesa come una bambina troppo magra, ora… non si rendeva conto del peso che aveva appena lasciato cadere sulle spalle già provate di Ginny. Che il destino non avesse ancora finito con lei? Che il destino non avesse ancora finito con tutti loro?

“It's only forever
Not long at all,
Lost and lonely!
No one can blame you
For walking away,
Too much rejection
No love injection.
Life can be easy
It's not always swell.
Don't tell me truth hurts, little girl,
'Cause it hurts like hell.”
“Underground” from “Labyrinth” (film, 1986)

Ginny fermò la sua corsa soltanto un istante prima di finire nel lago, piatto come uno specchio alla base della collina. Si lasciò cadere sull’erba e gettò indietro la testa fissando, attraverso il velo di lacrime, gli arabeschi disegnati dalle stelle nel cielo. Il profumo dell’erica si levava dal prato, intenso nell’aria della notte tersa come il cristallo.
Difficile fare ordine tra i pensieri convulsi che ribollivano sotto quelle lacrime amare. Forse, era difficile anche pensare qualcosa.
Perché?
Anche il trillo dell’usignolo sembrava una domanda posta al vento, limpido quasi quanto l’aria stessa, mentre si levava nel cielo.
Ginny immerse le dita nello specchio di acqua e le gocce che sollevò brillarono per pochi istanti alla luce della luna. Cancellò con la mano il riflesso del proprio viso sull’acqua, ma quello riapparve quasi subito, distorto dalle onde circolari che aveva provocato: una macchia bianca opalescente contro il blu scurissimo della notte. Petali rosa galleggiavano pacifici sull’acqua, piovuti dai peschi in fioritura tardiva, i cui rami si protendevano sulla riva ovest del lago.
“Portami con te…” mormorò la ragazza ad un petalo che scivolava alla deriva, verso il centro oscuro del lago, al di sotto del quale anche le sirene, probabilmente, stavano riposando tranquille.
L’usignolo trillò di nuovo, e Ginny alzò la testa, cercandolo con lo sguardo; proprio in quel momento, l’uccellino si alzò in volo dal ramo fiorito di pesco, passando sopra di lei, diretto ai giardini del castello.
Ginny si alzò e si incamminò tristemente nella stessa direzione, risalendo il pendio della collina. Mentre si avvicinava ai giardini e alle serre, altri profumi si mescolavano a quello delicato e selvatico dell’erica, altri colori erano nascosti oltre i vetri e le siepi… Ginny conosceva bene il contenuto di ogni serra, nelle quali si allevavano le piante necessarie ad ogni tipo di pozione medicinale, ma il labirinto di alberi e siepi nascondeva angoli inesplorati, enormi rosai selvatici dal profumo inebriante e siepi incolte dalle coloratissime bacche. Muri ricoperti di edera delimitavano i sentieri, alcuni dei quali portavano agli ingressi delle serre, mentre altri parevano non portare da nessuna parte, e si perdevano in mezzo agli sterpi o tra le pietre di alti muri diroccati.
Una statua di marmo bianco, raffigurante un unicorno rampante, brillava alla luce della luna, emergendo dal groviglio spinoso di un roseto in boccio; in equilibrio sull’unico corno della statua, l’usignolo si pavoneggiava, riprendendo la sua serenata. Ginny sorrise, fermandosi a guardarlo.
Le piume argentee del dorso dell’uccellino scintillarono mentre questi riprendeva allegramente il volo con un ultimo, melodioso trillo, e spariva al di là di un muro di cinta, da quale spiovevano i rami di una pianta rampicante, carichi di foglie a forma di cuore e fiori scuri a campana, grandi quasi quanto il viso della ragazza. Avvicinandosi al muro, Ginny notò che il colore dei fiori era il realtà un rosso molto scuro, il colore che si immagina abbia il sangue alla luce della luna.
Il trillo dell’usignolo giunse ancora, levandosi oltre il muro.
“Non posso seguirti…” disse la ragazza, parlando all’aria.
Cominciò a percorrere il perimetro del muro alla ricerca di un’entrata o un cancello, ascoltando il canto dell’usignolo come se nascondesse l’indizio o l’indicazione per ciò che stava cercando. Il muro terminava contro una colonna screpolata e ricoperta di rami di edera secca; sulla cima della colonna, un vecchio gargoyle di ossidiana levigata osservava minaccioso il vagabondare della ragazza. A poco più di un metro di distanza, una colonna sormontata da un identico guardiano nero sbucava dall’erba alta e incolta; poi il muro riprendeva il suo cammino, altrettanto alto e ricoperto di foglie. L’entrata doveva essere dunque tra le due colonne… eppure lo stesso rampicante carico di fiori sembrava cresciuto, sostenendosi magicamente, fino a bloccare la soglia con un fogliame così fitto da non permettere neppure allo sguardo di oltrepassarlo.
I fiori purpurei emanavano un aroma dolciastro, e i lunghi stami che uscivano dalla corolla erano ricoperti di un polline rosso, luminescente come polvere di rubini. Ginny li sfiorò con la mano e quelli si mossero, come leggere campane al soffio del vento, emettendo un fruscio lieve ed armonioso.
“Immagino non mi lascerete passare, vero…?” sussurrò Ginny.
Quasi in risposta alla sua domanda, il mormorio dei fiori si fece più frizzante e derisorio, spegnendosi nella notte come una risata lontana.
“Già…” sospirò la rossa, voltando le spalle al muro e ai suoi segreti, “…perché dovreste?”

“Oh Harriet, ho avuto un incubo tremendo. Ed è stato terribile quando mi sono svegliata e tu non c’eri. Tu lo sai che la mamma ti vuol bene, vero Harriet?”
Harriet esitò a rispondere. Si sentiva leggermente intontita, come se fosse sott’acqua: le lunghe ombre, la luce verdastra e inquietante della lampada, il vento che muoveva le tende.
“Lo sai quanto ti voglio bene, vero?”
“Si” disse Harriet, ma la voce uscì fioca e lontana come se arrivasse da una grande distanza, o appartenesse a qualcun altro.
Donna Tartt
“Il piccolo amico”

“Minerva vuole vederti, tesoro.”
Ginny alzò gli occhi al soffittò, mentre si asciugava il sudore dal viso con una manica: cominciava ad essere un po’ troppo caldo per lavorare sulle pozioni per una giornata intera, ma la scelta era tra quello e medicare Seamus che era riuscito a farsi mordere da un thestral. Gli ululati strazianti di Seamus nell’altra stanza e i borbottii esasperati di madama Chips, le facevano capire di aver scelto il male minore.
“Mi vedrà stasera a cena”, rispose distrattamente, senza nemmeno voltarsi a guardare la madre.
“Ah, hai intenzione di cenare stasera? Così, per fare qualcosa di diverso?”
L’ironia preoccupata nel tono di Molly era come il fetore di salamandra putrefatta che usciva dal calderone: nauseante.
“Mamma, ti prego…”
“No, Gin, IO ti prego! Questa storia deve finire! Non mangi, non vuoi parlare con nessuno, nessuno sa dove diavolo passi le notti e se anche parli lo fai con l’unico dei tuoi fratelli che non può…”
Molly si interruppe bruscamente, portandosi la mano alla bocca, come se avesse appena detto una cattiveria imperdonabile.
“...che non può urlarmi addosso?” terminò Ginny sottovoce, la bocca storta in una smorfia disgustata.
“Smettila.”
La ragazza si rivoltò come una vipera.
“Smettila tu! Smettetela tutti, dannazione! Faccio il mio lavoro e lo faccio con impegno. Ho vent’anni, mamma: se parlo e con chi parlo sono soltanto affari miei!”
Molly ripartì all’attacco: “Parlare al corpo di Ron non ti servirà a nulla! Nessun consiglio, nessun aiuto… e adesso con questa storia della profezia…”
“Non ne voglio parlare!” strillò Ginny, interrompendola; poi si tolse il grembiule e lo scagliò sul letto più vicino. “Vado dalla McGrannitt…” borbottò, correndo via.

Lo studio della Preside, nonché comandante in carica di ciò che restava dell’Ordine della Fenice, era lo stesso del vecchio Preside e Comandante. Il gargoyle sorrideva sinistro mentre la accoglieva tra le sue ali e la trasportava nello studio; il sole primaverile, entrando dalle ampie finestre, mostrava le anticagli ammucchiate sugli scaffali in tutto il loro polveroso splendore.
La vista dalle finestre, in compenso, era incantevole quanto Ginny la ricordava.
Alla luce del giorno, i giardini si mostravano dall’alto nel loro colorato e selvatico rigoglio, e il sole quasi estivo si rifletteva sui vetri delle serre con l’arroganza gioiosa che la luce della luna non avrebbe mai posseduto. Le rose erano in piena fioritura e tutta la gamma di rossi, rosa e gialli punteggiava il gioco di luci e di ombre sul verde delle piante; l’unicorno di marmo spiccava, così bianco da dolere gli occhi, al centro del rosaio in fiore.
Ginny seguì con lo sguardo il percorso della notte precedente, partendo dalla statua: cercò il muro ricoperto di fiori color sangue, ma al suo posto trovò soltanto verde fogliame senza una sola macchia di colore… eppure eccoli, nerissimi e stonati in quell’esplosione di colori, i due gargoyle di ossidiana, ritti sulle loro colonne a sorvegliare quello che si mostrava dall’alto come un giardino circolare chiuso. All’interno del muro la vegetazione era così fitta che nulla era visibile al di sotto della chioma degli alberi: il giardino chiuso era una macchia di verde che la primavera sembrava non aver toccato, negandogli i suoi colori vivaci.
“Ginevra.”
Ginny represse una smorfia di fastidio alla voce della vecchia professoressa e continuò a guardare fuori, accarezzando con gli occhi il pendio rosato per i fiori dell’erica che si tuffava nelle acque calme del lago.
“Mi hanno detto che voleva parlarmi”, disse.
Minerva McGrannitt sospirò, accomodandosi sulla sedia che era stata di uno tra i più grandi maghi di tutti i tempi. Chi l’aveva conosciuta soltanto tre anni prima avrebbe detto che era una donna diversa: pareva invecchiata di dieci anni in una notte… la notte che si era portata via Silente. E Severus. E tutti quelli di cui non si era saputo più nulla: figli di genitori sbagliati, ai quali era stato chiesto troppo presto di scegliere da che parte stare in una guerra che non avrebbe dovuto riguardarli… c’era chi era stato ucciso per aver rifiutato di seguire le orme di un padre degenere in mantello nero e maschera d’argento, c’era chi aveva chinato la testa per debolezza o per convenienza, o chi non aveva retto la responsabilità e si era suicidato, come il giovane Nott. C’era chi era scappato, forse perchè aveva una famiglia di seconda scelta, come Zabini, o perché intendeva crearsela con le proprie mani. C’erano quelli che erano spariti nel nulla: il figlio di Malfoy, la giovane Miss Parkinson, Anthony Goldstain… quanti ne aveva persi! Quanti non era riuscita a rendere uomini, o donne… quanto era grande il numero di vite contro il cui destino non aveva tentato abbastanza di combattere.
E poi c’erano quelli che erano rimasti.
Ed erano morti.
Oppure erano vivi… ma per quanto ancora? Per quanto, se il fato continuava ad accanirsi in quel modo, rigirando coltelli affilati in ferite che ragazzi di vent’anni non avrebbero mai e poi mai dovuto subire?
“Tu non desideri dirmi nulla Ginny?” chiese, pregando in cuor suo l’anima di Silente, dovunque diamine si fosse cacciata, di decidersi a darle una mano. “So che hai sentito la profezia… non voglio che tu senta il peso della guerra sulle tue spalle più di quanto sia necessario: siamo tutti insieme, ti aiuteremo in ogni modo quando – se – ci sarà una parte che ti è riservata, in questa situazione. Così come siamo tutti vicini ad Harry…”
Ginny la interruppe con un gesto della mano, come a scacciare una mosca fastidiosa.
“Non ho niente di cui parlare” snocciolò velocemente, “e comunque non servirebbe a nulla. Immagino che, se Calì ha ragione, non avrò modo di scansarmi quando il bolide deciderà di colpirmi in testa.”
Minerva sorrise brevemente al paragone con il quidditch.
“Nessuno di noi ne ha la possibilità, bambina: quando si deve giocare, si gioca.”
Probabilmente era la prima volta che Minerva McGrannitt chiamava una studentessa “bambina”; ma la voce, che si era ammorbidito appena, riprese immediatamente l’intonazione severa da professoressa: “Hermione ed io abbiamo analizzato la profezia… è molto criptica, devo ammetterlo, ma se hai qualche idea o se c’è qualcosa che vuoi chiedere…”
“Voglio sapere cos’è quel giardino rotondo” fece Ginny, indicando con la mano tesa un punto al di fuori della finestra.
La professoressa rimase per un attimo interdetta e si avvicinò alla finestra per vedere di che cosa stesse parlando la Weasley; seguì con gli occhi la direzione della sua mano e le labbra sottili si piegarono in un sorriso amaro.
“Il giardino dei fiori notturni…” disse, con voce morbida, addolcendo le parole che erano musicali come i versi di una poesia. “Chi te ne ha parlato?”
“Nessuno” rispose la ragazza, “altrimenti non avrei chiesto.”
“C’è una leggenda su quel giardino: si dice che fosse il giardino privato di Isanhild, una strega straniera che Salazar Serpeverde portò ad Hogwarts dopo un viaggio in Irlanda. Sembra che Isanhild fosse un’erborista e pozionista dal talento eccezionale, altri dicono anche…” il tono della professoressa si raffreddò di un paio di gradi, “che fosse una donna di rara bellezza e addirittura l’amante di Salazar stesso. Nulla è provato ovviamente. E del resto nessuno, a memoria d’uomo, è mai riuscito ad oltrepassare il muro del giardino.”
“Perché?”
Minerva la guardò con aria sospettosa.
“Come mai ti interessa tanto?”
“è qualcosa che sono troppo giovane o troppo stupida per sapere?” ritorse Ginny, con freddo sarcasmo.
La professoressa scosse la testa.
“Assolutamente no! Mi pareva solo strano che con tutto quello che ti succede, tu stessi pensando ad un giardino in cui nessuno entra da almeno mille anni.” Si strofinò la fronte, prima di riprendere a parlare: aveva l’aria stanca e sbattuta. “Beh… tu sai che Salazar lasciò la scuola di Hogwarts, dopo aver discusso con gli altri Fondatori per i criteri di ammissione degli studenti, giusto? Secondo la leggenda, andandosene lasciò anche la bella Isanhild che, impazzita per l’abbandono del suo grande amore, si suicidò nel giardino che adorava, chiudendolo alle proprie spalle con un incantesimo sconosciuto, appreso forse dai druidi della sua madre patria. E le campanule rosso intenso che fioriscono soltanto di notte sul muro di cinta, sarebbero nate magicamente dal sangue versato della padrona del giardino.”
Ginny ascoltava il racconto bevendo ogni parola con gli occhi lucenti di emozione. Ma la professoressa McGrannitt scrollò le spalle, sdegnata da quel romanticismo.
“Le versioni meno fantasiose della storia dicono che Isanhild seguì Salazar nella sua fuga, e sigillò il Giardino dei Fiori Notturni così come il compagno aveva sigillato la sua Camera dei Segreti. E il giardino sarebbe ancora chiuso perché nessuna erede della bella irlandese è mai passata di qui per aprirlo.” Minerva scoccò a Ginny un’occhiata severa. “Non perderci il sonno, Ginevra. Sono solo vecchie sciocchezze. Può anche darsi che il giardino sia chiuso perché un Tranello del Diavolo è cresciuto così tanto da bloccare ogni accesso. Chi può dire cosa coltivassero la dentro mille anni fa...”
Ginny arricciò il naso a tale mancanza di sensibilità, e si allontanò dalla finestra.
“Grazie professoressa…”mormorò, senza convinzione. “Posso andare ora?”
Minerva alzò le mani, sconfitta.
“Come vuoi Ginny… se mai avessi qualche idea, o qualche pensiero a riguardo, ti prego: vieni a parlarne, o vai da Hermione se ti senti più a tuo agio, ma non pensare di essere sola.”
“Si, va bene” concesse Ginny mentre già correva via, quasi che il pavimento dello studio le bruciasse sotto i piedi.

“La verità può essere cattiva e menzognera in molti casi. Per esempio se la si dice soltanto a metà. Se si dice che non si ha voglia di parlare e non si spiega il perché.”
Sergej Luk’janenko
“I guardiani della notte”

Minerva rimase immobile a guardare lo specchio della finestra inondato di sole: pochi istanti prima l’ombra della ragazza combattiva ed esuberante che aveva conosciuto una volta era appoggiata a quel davanzale, pallida e remota come se la luce del giorno rimbalzasse sulla sua pelle che era in attesa soltanto di quella più delicata della luna.
Da un angolo d’ombra alle sue spalle emerse la figura di una donna che era rimasta in disparte durante il colloquio. Morbidi boccoli castani ricadevano sulle spalle, non più crespi come quelli che portava da bambina, le maniche di una camicia maschile blu violacea erano arrotolate sopra al gomito… pochi avrebbero riconosciuto in quella donna alta e seria, la ragazzina che fino a pochi anni prima era stata la compagna, a tratti materna, a tratti nelle vesti della sorellina da proteggere, del Prescelto. Hermione, le mani cacciate nelle tasche dei jeans sdruciti, mosse qualche passo nella direzione della professoressa.
“Immaginavo che non le avremmo cavato niente” disse.
Minerva si girò, sospirando.
“Avresti fatto meglio a parlarle tu.”
“No, sarebbe stata la stessa cosa. In più mi conosce troppo bene: avrebbe capito che non abbiamo cavato un ragno dal buco da quella profezia…”
La professoressa si lasciò cadere di nuovo sulla sedia e prese la testa tra le mani.
“Cosa sarà mai la “luce” che Ginny dovrebbe portare? E chi è questo rinnegato? Chi è che abbiamo lasciato indietro?!?”
“Non lo so.” rispose Hermione per l’ennesima volta. Severus Piton sarebbe stato la loro prima scelta, certo, il rinnegato per eccellenza… peccato che fosse stato ucciso dal Signore Oscuro un anno e mezzo prima. E comunque non vedeva come Piton potesse avere qualcosa a che fare con il destino di Ginevra. “Ci mancava solo l’attesa di un principe azzurro per allontanare di più Ginny” riprese amaramente, “come mai le hai raccontato la storia di quel giardino?”
“Che differenza può fare? Era curiosa.”
Tu sei la chiave di entrambi i lati della porta… e il giardino non è mai stato aperto a memoria d’uomo. Mi chiedo se ci sia un nesso, o se sia solo una coincidenza.”
Minerva scosse la testa.
“Non sognare, Hermione. Se anche Ginny potesse aprirlo, cosa ci può essere di utile per noi in un giardino chiuso mille anni fa da una donna innamorata?”
Hermione annuì in silenzio osservando dalla finestra la macchia verde scuro del giardino privo di fiori.
“Già… che cosa?”

****************

NdA: qui cominciano i riferimenti più evidenti: quello al “Giardino Segreto” di Burnett è abbastanza palese, sebbene come potete immaginare non sarà una comune chiave ad aprire l’ingresso del giardino… siamo nel mondo della magia in fondo! Concedendomi un po’ di romanticismo classico, ho pensato di dare ad un usignolo il ruolo che nel libro è svolto dal pettirosso di Ben.
Per quanto riguarda Isanhild, l’amante del vecchio Salazar (che mi sono inventata di sana pianta), il suo nome è l’antica versione germanica del nome “Isotta” che, come molti ricorderanno, nella leggenda di Tristano e Isotta era una principessa irlandese..

Devo ringraziare tanto le mie “fedelissime” che non mi fanno mai mancare il loro appoggio… ormai conosco i vostri nomi e sapere che la mia firma sotto un nuovo titolo vi fa venir voglia di leggere non può che riempirmi di gioia e soddisfazione.
Sono sempre molto insicura all’inizio di una nuova storia (Savannah, Chiarotta ed Euridice lo possono confermare: strepito e blatero, mi lamento e mi riempio di dubbi… poi chino la testa e scrivo, non c’è altro da fare), quindi mi rincuora tantissimo vedere già tanto interesse al primo capitolo.
Comunque grazie a Aurora (la tua fiducia non sarà mal riposta, spero… sono contenta che i riferimenti che uso siano intriganti), Thaiassa (grazie! Fammi sapere se continua a piacerti!), Klaretta (la signora dei gelsomini avrà un ruolo chiave, direi… quindi non preoccuparti, la conoscerai! Hermione ha un ruolo particolare in questa storia, ma spero di fartela piacere comunque, un bacio!), Cl@u (grazie davvero! Spero che continui a piacerti!), Seiryu (grazie cara! Il riferimento al giardino segreto qui è ancora più palese, spero che ti sia piaciuto!), GIU (! ^__^), fiubi (grazie davvero, una recensione bellissima! Per quanto riguarda il film… beh, lo scoprirai molto più avanti, ma tutto dipende anche dal fatto che tu sia o meno abbastanza “grande” per ricordarlo! ^__^ Spero che ti sia piaciuto anche questo! Baci!)
Un ringraziamento speciale alla cara Saty: con te le parole si sprecano! Pensare che sono anni che mi conosci attraverso ciò che scrivo mi fa sentire molto vicina a te, e il tuo sostegno è molto più importante di quello che pensi per questo mio “hobby”. Hermione avrà una parte particolare, ma molto intensa, in questa storia e spero, sul serio, di fartela amare. Sono contenta che tu abbia apprezzato il cambio di narrazione tra le scene con Hermione e quelle magiche e sognanti in cui Ginny è da sola. A presto, non vedo l’ora di sapere cosa ne pensi! Un bacio!!!!

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Capitolo 3
*** Bloody Flowers ***


CAPITOLO 3: BLOODY FLOWERS

I giorni scorrevano lenti e frustranti, per Ginny: tra un’occhiata incuriosita e una preoccupata, tutti mostravano di sapere della profezia e nessuno osava parlarne. Non con lei, per lo meno… che era passata dal penoso ruolo di “ragazza scaricata da Potter” a quello di oscura protagonista del prossimo futuro e di una guerra che, in realtà, le aveva già strappato fin troppo.
Per una volta, due ragazze erano riuscite ad eclissare il Prescelto nella top ten del gossip: l’ombra di un destino infausto aleggiava su Ginny – e di conseguenza su Calì – come l’artiglio nero di un mostro a sette teste, calamitando l’attenzione e la curiosità morbosa di chiunque. Per quanto riguarda noi – gli amici, ciò che restava della sua famiglia e dell’Ordine – alla preoccupazione per il suo atteggiamento schivo e solitario, si aggiungeva l’angoscia di non poter dare un senso a nessuna delle parole che Calì aveva pronunciato… Calì che, convinta di aver condannato Ginny ad un destino di guerra e dolore, si era chiusa in un silenzio ostinato, colpevolizzando se stessa per le parole che nemmeno riusciva a ricordare.
Non avevamo la più pallida idea di cosa fosse quella luce splendente che Ginny doveva portare (Dove? Da dove?), o del perché quel sangue (il sangue di chi?) brillasse “più di cento stelle”. Non sapevamo chi fosse il rinnegato che il destino avrebbe fatto tornare da noi. E non sapevamo quel’era la “porta” di cui Ginny avrebbe dovuto essere la chiave… né, tanto meno, se l’espressione dovesse essere interpretata nel senso più letterale del termine.
Il collegamento tra il giardino notturno il cui ingresso era bloccato da più di mille anni, e il ruolo di Ginny negli avvenimenti che seguirono, era stato più azzeccato di quanto, a quel tempo, avrei mai potuto supporre… ma, in quei giorni più che mai, tutti noi non facevamo che brancolare nel buio.
Probabilmente Ginny aveva le idee molto meno confuse di me e Minerva. Lei aveva un vantaggio, del resto: lei, Isanhild, la conosceva.

“Reach out for the light
far beyond confines.
You have read the magic lines
leading to the light in your mind...”
“Reach for the light” from “Avantasia – The Metal Opera, Part I” (2001)

Merlino solo sapeva perché se ne stava lì sul pavimento, invece di varcare la solita soglia e trovare le comode poltrone, i libri che amava, il centauro ricamato sull’arazzo che tante volte le aveva tenuto compagnia nelle notti d’inverno.
Le ossa si lamentavano della durezza delle pietre, al di sotto della poca carne che ancora le copriva. Eppure Ginny non sembrava farci caso.
Gli occhi turchini della strega del vecchissimo dipinto la guardavano con il consueto, rammaricato, sorriso… quasi un dirle “vorrei parlarti, vorrei raccontarti la mia storia, non sai quanto vorrei consigliarti ed ascoltarti”. Ma Ginny avrebbe dovuto vivere, e scoprire da sola che il mondo non si inventa mai nulla di nuovo e la storia non fa che ripetersi, non importa quanto tempo sia necessario perchè il cerchio si richiuda.
“Isanhild.”
Scandì il nome con voce chiara, pronunciandolo con il corretto accento nell’antica lingua. La Signora del Gelsomino incurvò lievemente le labbra, la testa inclinata in una specie di silenzioso assenso.
“Dunque anche il tuo destino era legato a quello di un rinnegato…” sospirò Ginny. Nella sua mente prese forma la domanda che da giorni ricacciava indietro, come un pensiero maligno, un rovescio di bile amara di cui non voleva sentir il sapore: chi? Chi era questo rinnegato che doveva tornare da chissà dove, chi era e cosa aveva a che fare con lei? In che modo i loro destini si sarebbero intrecciati? Cosa avrebbe significato quel ritorno per lei?
La ragazza sorrise ad Isanhild, rispecchiandone l’espressione con una fedeltà impressionante quanto involontaria.
“Ci mancava solo questa…” mormorò al nulla.
L’usignolo trillava ancora, gioioso, accogliendo con una serenata l’estate in arrivo. Ginny si addormentò sul pavimento, cullata da quel suono intermittente che richiamava sogni agitati in cui le persone non avevano volti e qualcosa emanava una luce talmente accecante da impedirle di vedere cosa fosse.

Fu probabilmente la luce flebile dell’alba a svegliarla, insieme all’aria frizzante che entrava da ogni spiffero: rabbrividì, mentre sbatteva le palpebre per orientarsi. Raggi di luce entravano dalle finestre alte e illuminavano il ritratto antico di Isanhild, come Ginny non l’aveva mai visto: alla luce del sole, la “Signora del Gelsomino” era soltanto una vecchissima tela strappata, sulla quale si intravedevano macchie di colore a delineare una figura umana appena distinguibile. Il verde sbiadito di quello che Ginny sapeva essere l’abito della donna, si confondeva con il blu-verde dello sfondo, interrotto solo dalla macchia chiara del viso e dei capelli.
La ragazza sfiorò la tela con le dita, gli occhi assonnati spalancati per lo stupore; il sole aveva rivelato la vera età del quadro e, certamente, della donna che vi era ritratta… non vi erano dubbi che fosse lei, la bionda Isanhild ritratta nel suo giardino notturno: una donna che aveva vissuto all’ombra di un mago potente ma rinnegato dai grandi del suo tempo, che aveva scelto di restare con lui lontana dalla fulgida luce di quelli che il mondo chiamava buoni e coraggiosi e che, anche dopo la morte, si mostrava soltanto al riflesso delicato ed ingannevole della luna.
“Dormi bene, amica mia…” sussurrò Ginny, prima di andarsene.

Scese in infermeria e si concesse di lavarsi il viso nel piccolo bagno bianco che profumava di disinfettante: lo specchio rifletteva il bianco della sua pelle, così uguale al colore della parete dietro di lei, e Ginny si chiese distrattamente da quanto tempo non volava con la scopa nella luce calda del sole, da quanto non sentiva la libertà di ridere e stringere gli occhi per guardare il cielo sereno… anche le sue famose lentiggini erano diventate talmente diafane da risultare invisibili.
Madama Chips dormiva ancora nella stanza adiacente l’infermeria e Ginny cercò di fare meno rumore possibile.
In uno dei letti dell’infermeria dormiva un piccoletto bruno, studente del primo anno, caduto dalla scopa alla prima lezione di volo. Un classico. Le ossa di entrambi i polsi si sarebbero saldate perfettamente nel giro della nottata.
Due letti più in là, Seamus russava sonoramente, la spalla destra immobilizzata da bende bianche e strette: il morso del Thestral aveva fatto infezione, quei dannati bestioni che mangiavano carogne non dovevano avere i denti tanto puliti… solo dal giorno prima la ferita profonda aveva iniziato ad avere un aspetto pulito ed in via di guarigione. E pensare che era stato solo il risultato di un infantile gioco acrobatico per far sorridere Calì.
Che Seamus fosse innamorato della bella indiana non era certo un mistero, persino i fantasmi e i ritratti del castello sghignazzavano alle spalle dell’irlandese ex-Gryffindor. Il suo fare il pagliaccio in continuazione per cercare di farla ridere, specialmente dopo l’ultima terribile profezia, richiamavano sorrisi di compatimento da parte di chiunque, ma Calì non sembrava ritenerlo degno nemmeno di quelli: dall’alto della sua scostante tristezza, ignorava ogni tentativo di strapparle un sorriso. Certo, a Seamus bisognava almeno riconoscere il dono della costanza.
Senza svegliarlo, Ginny controllò rapidamente che sotto le bende l’infezione non avesse ripreso a divorare la ferita: era pulita, per fortuna… ma una bella cicatrice di guerra non gliel’avrebbe levata nessuno.
Prese dall’armadietto due bottiglie di pozione ricostituente e si avviò con passo silenzioso fuori dall’infermeria, verso l’esterno del castello.

Silenziosa, nella nebbiolina che si levava dalla terra riflettendo la luce rosata dell’alba, Ginny corse verso la casetta di Hermione e ne aprì piano la porta, attenta a non farla cigolare. Attraversò l’ingresso e controllò che nessun suono venisse dalla stanzetta in cui Herm dormiva, prima di dirigersi verso la stanza, il sacrario protetto da incantesimi in cui Ron riposava e avrebbe riposato per sempre a meno di non trovare il modo di invertire quella fattura misteriosa.
Appoggiò le bottiglie sul comodino e controllò, con sensibilità esperta, che gli incantesimi in grado di mantenerlo congelato in quella parvenza di vita fossero tutti al loro posto, rilucendo come una cascata di polvere azzurrognola sospesa nell’aria sul corpo del fratello. Con la bacchetta sollevata al di fuori di quella luminescenza, mormorò un incantesimo che rese visibile, come se il corpo di Ron si fosse trasformato all’improvviso in un involucro di cristallo, il cuore che si contraeva ritmicamente, lento ma regolare.
“Chissà se il tuo cuore accelera ancora i battiti quando c’è Hermione qui accanto…” mormorò, riabbassando la bacchetta.
Sorridendo alla romantica idea che il fratello, in qualche modo, potesse ancora sentire la vicinanza dell’amore della sua vita, cambiò la bottiglia ormai vuota della pozione, e controllò lo stato dell’ago che portava il liquido dai riflessi verdastri dentro la vena del braccio di Ron.
Soltanto la notte prima, gli aveva raccontato sottovoce della profezia di Calì… e di ciò che sentiva, o meglio non sentiva, a riguardo. Gli raccontava sempre ciò che le succedeva, ciò che pensava: la aiutava a capire. Ron era stato l’unico a cui aveva confidato, in lacrime quanto si fosse sentita tradita da Harry e Luna. Peccato che il fratello non potesse confortarla in alcun modo… ma la luce celeste che irradiava dal suo corpo pallido e immobile le donava quel briciolo di pace senza la quale, dopo la morte del padre avrebbe, probabilmente, rischiato di impazzire.
Svanito il panico del momento, si era accorta che ciò che aveva risposto alla professoressa McGrannitt quando avevano parlato della profezia, non era poi così lontano dalla verità: se quella era la strada che doveva percorrere, non ci sarebbe stato un bivio o un incrocio al quale scegliere la direzione; se nelle stelle era scritto che lei avrebbe avuto una parte nel definire il futuro del mondo, dunque quelle stesse stelle avrebbero illuminato per lei il solo cammino possibile… non restava che aspettare. Non aveva paura. Era soltanto stanca… stanca degli sguardi, stanca dei sussurri. Stanca.
Ciò di cui si era resa conto, parlando sottovoce, con la mano di Ron inerte tra le proprie, era di essere… curiosa. Per quanto sapesse che con ogni probabilità le parole senza senso di quella profezia le avrebbero portato altro dolore, voleva vedere cosa sarebbe successo: aveva di nuovo un motivo per guardare in avanti piuttosto che indietro. Con un desiderio fremente, così infantile da non riconoscersi nemmeno, voleva esserci, partecipare, voleva essere là a vedere ciò che sarebbe accaduto e poter dire “ecco, era questo il significato!”... e, forse più di ogni cosa, voleva che quella guerra, un volta per tutte, finisse.
“Ho conosciuto Isanhild, lo sai?” sussurrò al fratello, sedendosi sul bordo del letto, “in realtà la conosco da tanto… ma adesso posso chiamarla per nome. Vorrei entrare nel suo giardino, non sai quanto! Forse… credo che sarebbe un po’ come poterle parlare. Quel luogo era suo, un posto che le apparteneva, che aveva costruito lei in modo che fosse come lo desiderava… non puoi non lasciare un pezzo di te stesso quando crei un posto perché sia tuo, vero?”
Quel giardino era chiuso da mille anni: che diritto aveva lei di irrompere in esso e turbarne il sonno che avrebbe dovuto essere eterno? E, d’altra parte, se non voleva essere disturbato, perché sentiva la chiamata di quel luogo così intensa da farle dolere il cuore? Perché aveva quella certezza assoluta che Isanhild volesse dirle qualcosa?
Chiuse gli occhi e rivide il viso della donna, con la sua quieta tristezza, con quei luminosi occhi turchini appena velati dall’amarezza rassegnata e silenziosa di chi ha già visto quanto la vita possa farti del male, e ha capito che in fondo, vale la pena viverla lo stesso.
“Buona giornata, fratello…” sussurrò prima di andarsene.

Risalì il pendio della collina ma non varcò l’enorme portone che segnava l’ingresso nella scuola; aggirò invece il perimetro del muro e si ritrovò nei giardini, tra i vetri delle serre su cui danzavano le fiamme rossastre della luce dell’alba.
Saltando sterpaglia e aggirando muri e siepi, si ritrovò sotto l’alta colonna, al di sopra della quale il gargoyle di ossidiana sembrava squadrarla, quel mattino, con sufficienza.
“Antipatico…” gli lanciò la ragazza, con un mezzo sorriso.
Le grandi foglie cuoriformi che bloccavano l’entrata come sospese nel nulla a creare un muro incantato, sembravano più folte che mai. I fiori purpurei erano richiusi saldamente in boccioli verdi dalle sfumature rossastre, grossi come il pugno chiuso di Ginny.
La voce di Calì le risuonò, senza spiegazione apparente, nella testa.
Tu sei la chiave di entrambi i lati della porta.
Forse era qualcosa nel tono con cui le profezie venivano pronunciate, a renderle così facili da ricordare, a farle risuonare nella mente di chi le aveva ascoltate come se ci fossero sempre state, come canzoni perdute nei meandri della memoria le cui parole salgono alle labbra all’improvviso, senza motivo, solo per essere cantate.
Se era la chiave, tanto valeva cercare la toppa.
Prima di farsi prendere dal terrore di un tranello del diavolo pronto a trascinarla tra gli sterpi e strangolarla, infilò la mano tra le foglie con un gesto risoluto.
Per un istante non accadde nulla.
Poi il polso cominciò a bruciare come per mille punture di insetto, mentre i grossi boccioli avevano preso a vibrare e ronzare, una nota stonata nell’aria che sapeva di crudele sarcasmo; la melodia sommessa fu interrotta dallo strillo di Ginny che ritrasse immediatamente la mano. Nulla la trattenne. Ma ora sul polso iniziavano a gonfiarsi centinaia di piccole vescicole rossastre, che bruciavano come l’inferno.
Ginny legò un fazzoletto attorno al polso, in attesa di tornare in infermeria e rimediare qualcosa di meglio. Alzò lo sguardo verso il gargoyle nero e gli scoccò un’occhiata stizzita.
“Se tu potessi parlare, immagino che un ti-avevo-avvertito non me lo toglierebbe nessuno, vero?”
Delusa, la ragazza trascinò i propri passi verso il castello e un’altra giornata di lavoro.

“Never had a very real dream before.
Now I got a vision of an open door.
Guiding me home, where I belong,
dreamland I have come.
Oh where do I go?”
“The Tower” from “Avantasia – The Metal Opera, Part I” (2001)

Di nuovo ferma, in piedi davanti a quel portone a battenti che non aveva alcuna voglia di varcare, con quel sapore amaro in bocca che toglieva ogni desiderio di ingoiare un boccone. Quell’amarezza che si era intensificata, quella morsa allo stomaco che si era fatta soffocante, ora che tutti la guardavano come se da un momento all’altro dovesse far apparire dal nulla la mitica Excalibur, scintillante nella luce rossa del tramonto, e consegnarla al novello Difensore della Britannia… ora che non c’era più solo compassione nei loro occhi, ma anche timore. Ora che non poteva più sopportarlo.
E di nuovo voltò le spalle ai battenti, correndo sulle scale con passo leggero, quasi silenzioso.

Due figure comparvero sul pianerottolo bloccando la sua corsa: rallentò e si spostò di lato per lasciarli passare, pregando le ombre della sera di avvolgerla e nasconderla, nella vana speranza che quei due le usassero la cortesia di tirare avanti senza rivolgerle la parola.
“Gin…”
Gli dei non avevano ascoltato.
Harry staccò frettolosamente la mano da quella di Luna, come facevano sempre quando la incontravano. Come se la loro fosse una storia clandestina, come se si sentissero in colpa di averla fatta soffrire, come se non aspettassero altro di vederla strillare che “potevano farci un pensierino un po’ prima, grazie”.
Ginny sospirò. Era doloroso il modo in cui Harry, per lei, sembrasse brillare sempre di luce propria… e per la sua luce riflessa anche Luna brillava, ora, in accordo con quel nome che era quasi una condanna. Sul viso di Harry, quegli smeraldi pieni di pietà che scintillavano, così trasparenti e grandi, cercarono gli occhi di Gin, che fuggirono, rapidi – angoli d’ombra in cui la luce non riesce ad arrivare.
“Ginny, stai bene?”
Luna non fiatò, come sempre, come per un patto non scritto, ma la stessa compassione riempiva anche quei due spicchi di cielo d’estate, che i capelli biondi troppo cresciuti non riuscivano a celare.
Una spina dolorosa tra una costola e l’altra, là, dove ormai avrebbe dovuto esserci solo la cicatrice appena visibile dei sogni spezzati di bambina … una bambina che aveva fatto solo finta di crescere.
Ma era cresciuta adesso la piccola Ginny Weasley, l’eterna innamorata del grande Potter… oh, se era cresciuta! Abbastanza per capire che era finita, abbastanza per lasciar andare qualcosa che, in realtà, non aveva mai tenuto stretto, abbastanza per rendersi conto di non essere stata… abbastanza.
Ed era cresciuta abbastanza per capire che nonostante cercasse di allontanarsi, nonostante tutto ciò che volesse era vivere e lasciarlo vivere, dannazione… nonostante tutto era di nuovo legata a lui, legata con un nodo strano e misterioso che un maledetto destino marinaio si era divertito a forgiare. Lo stesso destino che gli aveva tolto dal cuore ciò che provava per lei, ora tornava a tessere dall’esterno una trama che li avrebbe di nuovo uniti, personaggi imprigionati tra i fili della tela, protagonisti involontari ricamati su un arazzo dai colori violenti della guerra…
“Certo che sto bene” mormorò la rossa, concisa, facendo per andarsene. Teneva prudentemente nascosto tra le pieghe della gonna il polso coperto di bende candide, al di sotto delle quali le vescicole gonfie pulsavano, brucianti.
“Gin, la profezia… Calì sta malissimo, crede che tu…”
“Harry…” lo interruppe, sollevando finalmente lo sguardo esasperato su di lui. “Non voglio parlarne, non con te. Lasciami in pace, non l’ho cercata io questa cosa…”
“Ginny, non è colpa di nessuno! E non sarai da sola… è questo che volevo dire!”
Ginny salì qualche gradino all’indietro, portandosi idealmente in una posizione di vantaggio. Abbastanza lontano.
“Sì che sarò da sola, Harry” mormorò, pacata e tranquilla.
Un dato di fatto che aleggiava nell’aria, parole velenose che nessuno voleva pronunciare, per le quali non esisteva antidoto se non la rassegnazione… parole che incolpavano chi era già stato più volte condannato in silenzio. Azkaban per chi ha tolto una vita, si, ma nessuna pena esisteva per chi era colpevole di aver calpestato un’anima.
Senza aspettare una risposta che non c’era, Ginny volò su per le scale.
Il tempo avrebbe assolto Harry da tutte le accuse, è vero, ma a quel tempo scappare era l’unica soluzione possibile.

“You have brought me to that moment
where words run dry,
to that moment where speech
disappears into silence.”
“The Point of No Return” from “The Phantom of the Opera” (musical, 1986)

Dormiva così raramente su quel letto che ogni volta stava a rigirarsi per ore, annodando le coperte tra loro, come per abituarsi ad un materasso troppo duro per lei. Buffo: sul pavimento, o sulle poltrone polverose della stanza che ormai considerava ben più sua del piccolo dormitorio della torre, aveva dormito molto più comodamente di così.
Calì dormiva dietro tende tirate nell’alcova dall’altro lato della sala, il suo respiro era corto ed inquieto. Il letto di Luna era vuoto e, per quel che Ginny ne sapeva, su quel copriletto si era posato ormai un discreto strato di polvere… dove Luna avesse passato le notti nell’ultimo anno era abbastanza ovvio. Il pensiero distorse il viso di Ginny in una smorfia involontaria e la ragazza imprecò sottovoce.
Il grottesco gargoyle continuava a deriderla nella sua mente, una risata senza suono ma non per questo meno inquietante su quel grugno deforme di pietra lucente. Come con un tarlo che le rodeva il cervello, Ginny non riusciva a togliersi dalla testa di aver trascurato qualcosa di talmente stupido e fondamentale che il dannato bestione nero avrebbe avuto tutte le ragioni di riderle in faccia sonoramente. E il bruciore intenso attorno al polso destro era lì, pulsante, a ricordarle la sua avventatezza.
Il viso quieto di Isanhild balenò davanti ai suoi occhi chiusi, su quello specchio dietro le palpebre in grado di riflettere pensieri e paure della mente umana che altrimenti non avrebbe potuto dar loro forma; la bellezza remota e distante dell’irlandese si dissolse in una macchia di sole lasciando solo i contorni sfocati che aveva visto apparire sull’antichissima tela, quella stessa mattina. Relegata al chiarore di astri lontani, Isanhild rifuggiva lo splendore arrogante del giorno, condannata a mostrarsi solo alle creature insonni della notte… e se quella maledizione non fosse stata circoscritta al ritratto dell’antica incantatrice? E se anche in vita, centinaia di anni prima, la donna avesse giocato le sue partite su un tavolo differente dagli altri… gli altri, per i quali la notte non era che il regno oscuro dei sogni? E se il luogo che aveva creato, il Giardino dei Fiori Notturni, fosse stato creato fin dall’inizio per non essere mai visto alla luce del sole?
Ginny si sollevò a sedere sul letto. La luce azzurra che filtrava dalla tenda disegnava giochi di ombre danzanti sulla coperta.
Forse Isanhild stessa era stata uno dei Fiori Notturni del giardino…
In silenzio, come ormai aveva imparato a muoversi alla perfezione, Ginny si vestì e uscì dalla stanza, respirando quell’odore tipico dei corridoio bui: profumo di vita e di inquietudine, con una nota sfuggente di anticipazione. L’eco dei propri passi creava l’angosciante illusione di non camminare da sola… ma sapeva che nessuno era in giro a quell’ora: il mondo dormiva.
E forse il giardino si sarebbe aperto per gli insonni.

L’aria fresca della notte disperdeva al vento i petali dei fiorellini appassiti dell’erica, che si sollevavano come maree di finissimi coriandoli rosa dal pendio della collina. I piedi affondavano nell’erba umida fin quasi alla caviglia, eppure Ginny procedeva sicura nel buio, con un senso dell’orientamento tipico degli animali notturni. L’unicorno bianco era una macchia chiara, rassicurante tra il verde scuro della vegetazione e il rosso delle rose… ma non era quello il rosso che Ginny cercava. Pochi passi e si trovò ai piedi delle colonne sormontate dai neri gargoyle e le grandi campanule del rampicante si mostravano ora in tutto il loro sanguigno splendore; i fiori si mossero nel vento e nuvole impalpabili di polline rosso brillante si levarono attorno ad essi, con un brusio armonioso, una cantilena di incomprensibili suoni che sembrava scaturire da un mondo di sogni e leggende.
“Come vorrei che questo fosse un benvenuto…” bisbigliò Ginny, passando le dita sul bordo vellutato di una campana, che si inclinò impercettibilmente sotto la sua carezza. Anche le foglie e i flessibili rami sottili parvero muoversi al lento procedere della sua mano che li sfiorava.
Bastò un istante. Ma il dolore improvviso fu un’esplosione di punti di luce accecante nella mente di Ginny, che ritrasse la mano, strappandosi la pelle su un ricurvo pungiglione nascosto. Con uno strillo, la ragazza portò la mano al petto, stringendola con l’altra e aspettò che il bruciore si quietasse assieme ai battiti del cuore. Quando avvicinò la mano al viso per osservare il danno, una puntura regolare e profonda faceva mostra di se al centro del palmo, come inferta da un grosso spillone per lumache. Una goccia di sangue brillava al centro della ferita perfettamente rotonda.
“A quanto pare, non era un benvenuto”, concluse a voce alta.
“Da quando parli con i fiori Weasley?”

Il cuore di Ginny perse ancora qualche battito, mentre si voltava di scatto e si schiacciava contro la colonna, impaurita. La voce strisciante e gelida era scaturita dal buio alle sue spalle, come a dar voce ad incubi che non era in grado di ricordare al mattino: incubi pieni di fantasmi che infestavano gli angoli remoti della sua mente, quelli in cui si accantonano i ricordi privi di gioia… fantasmi come quello che appariva ora, bianco e ghignante contro le ombre scure della notte.
I capelli biondi e spettinati erano lunghi oltre le spalle e spiovevano su un viso magro e sporco, così bianco da non sembrare neppure reale. Gli occhi… quelli si, erano vivi: chiari e lucenti quanto un cristallo di ghiaccio alla luce della luna, evidenziati da occhiaie scure e da un livido, tumefatto e violaceo, che scendeva dalla tempia alla zigomo. Il mantello strappato si agitava nel vento leggero rendendo la figura ancora più spettrale.
Ginny portò una mano alla gola e con l’altra, quella ferita, cercò invano un appiglio dietro di sé, quasi che lo stupore l’avesse scossa al punto da farle mancare l’equilibrio. Il pugno si chiuse sull’aria, sfiorando le foglie cuoriformi del rampicante e, nel movimento, la goccia di sangue cadde dal palmo bagnando uno dei grandi fiori. Scarlatto su scarlatto, il sangue si perse sul velluto della corolla, indistinguibile come se, un tempo, mille anni prima, essi fossero stati dipinti dallo stesso pittore.
In quell’istante eterno, l’attenzione della ragazza ritornò alla pianta e dovette spalancare gli occhi, stupefatta, davanti allo spettacolo irreale delle liane cariche di fiori e foglie che si ritraevano con un mormorio armonioso, come i lembi di una pesante cortina floreale. Il polline color rubino scintillava tra le foglie, emanando un aroma dolciastro e inebriante.
Il rumore ritmato delle ali di un thestral che battevano l’aria, volando basso sulle cime degli alberi, ruppe l’incantesimo… se di incantesimo si trattava. Ginny si guardò intorno, sconvolta e sull’orlo del panico, ed incontrò gli occhi dello spettro della sua infanzia, stupefatti e sospettosi allo stesso tempo.
Senza pensare, come aveva infilato la mano tra le foglie, prima di poter assaporare la paura, Ginny afferrò lo spettro per un braccio e lo trascinò all’interno del Giardino dei Fiori Notturni.

“Tutto tace! Chi s’appressa? D’ateniese egli ha la vesta!”
Shakespeare
“Sogno di una notte di mezza estate”, atto secondo, scena seconda

**********

E con le enigmatiche parole di Puck, il folletto più burino della storia della letteratura, concludiamo anche questo capitolo un po’ in sospeso… ma non troppo, è già abbastanza chiaro di chi si sta parlando! Grazie come sempre per le recensioni e la vostra gentilezza! Da un sacco di tempo non ricevevo così tanti pareri positivi! Rigorosamente in ordine di tempo, grazie a:
Avril: se ami la saga di Avalon forse avrai riconosciuto in Hermioe e Calì i personaggi di Viaviana e Raven… spero che la cosa continui ad intrigarti! Grazie!
ansia: (curiosissimo nickname…) della tua recensione mi ha colpito l’aggettivo “innovativa”, quando non c’è nulla in questa storia che non sia già stato scritto o visto in un film… forse so copiare bene! :P Grazie mille, davvero!
maecla: ciao cara! Spero che continui a piacerti!
Aurora: “sognante” è proprio l’idea che volevo dare, specialmente per quel pezzo! Sono contenta di esserci riuscita! Baci!
leeva: mah… chi sarà….?Beh, non era poi così difficile da indovinare! Grazie mille!!!
Sally90: Eccoti ritrovata, stavo quasi pensando che mi avessi abbandonata! Scherzo! Come sempre le tue recensioni fanno un immenso piacere, sei molto attenta ai miei dettagli. Sono felice che il tono sia quello leggendario, proprio quello che volevo! Un bacio, carissima!!
Seiryu: Ginny è uno dei personaggi della saga che lascia più spazio alle interpretazioni, credo. Ed è un grande divertimento per me reinventarla ogni volta! (quando riesco a fare a meno di ammazzarla, mi dicono dalla regia…) Personalmente quella che più ho amato è la Sonja di Trapped, ma anche questa mi sta riuscendo intrigante, e un po’ meno angosciante! Spero che tu continui a divertirti a leggere Legend! Ciao!
Thaiassa: conosci il libro? Che te ne pare? Ti sembra che richiami quell’atmosfera? Grazie per aver commentato, ciao!!!
Saty: la tua recensione così lunga e bella mi ha riportato un po’ ai tempi di Trapped o di DF, quando tu ti facevi delle seghe mentali e io ti dicevo se avevi ragione o meno… hai afferrato proprio bene il personaggio di Hermione e il suo rapporto con Ginny, credo. Ma questo diventerà molto più evidente in una scena del prossimo capitolo. Il fatto che Hermione dia del “tu” a Minerva era voluto: Herm è sempre stata la più adulta del gruppo, quella che riesce a vedere oltre il momento presente, mi sembrava naturale che dopo la fine della scuola tra lei e il suo “idolo” McGrannitt si approfondisse la confidenza. Per quanto riguarda la profezia… ovvio che non posso dirti tutto, la notte insanguinata si riferisce in realtà ad una cosa molto più semplice (se non l’hai capito stavolta, lo capirai nel prossimo). Per la questione della luce, vedi l’ultimo capitolo, temo… eh eh. Sono contenta che le citazioni ti piacciano (Kushiel’s Chose è una di quelle idiozie fantasy che leggo ogni tanto… dopo Anita Blake posso citare di tutto)! Un bacio cara!!!!
GIU: ciao goldielocks!!!
ramona55: ti ho già ringraziata tantissimo per la profondità della tua recensione, sei davvero sensibile e vedere che cogli tanti dettagli in quello che scrivo è una gran soddisfazione per me! Lo so, lo so… quello di Ron in “coma” è un basso espediente. Più che alla bella addormentata mi sono ispirata alla sorte di Diotima Ridenow in “The shadow matrix” (MZB, saga di Darkover), ma pensa questo: è tecnicamente vivo, si trova da questa parte dell’oceano, è praticamente incapace di combinare disastri, e hai la certezza che si risveglierà... è molto più di quanto avessi nelle altre mie fanfiction. Effettivamente anche io immagino di Ron quella camicia maschile, era proprio l’idea che volevo dare. Come sempre la psicologia delle mie protagoniste ha pochi misteri per te, e sono contenta che la cosa riesca comunque ad affascinarti! Si, l’affinità tra Isanhild e Ginny è forte, così come tra Draco e Salazar… ma lo vedrai nel dettaglio nel prossimo capitolo. E si, l’usignolo che guida Ginny al giardino è lo stesso uccellino ritratto nel dipinto: non ti sfugge proprio nulla! Grazie per i complimenti sulle descrizioni e per apprezzare i personaggi secondari che sono una delle mie passioni! Per quanto riguarda Calì, io avevo pensato più alla Raven de “Le nebbie di Avalon” (sempre MZB), ma ammetto che sentirla chiamare “novella Cassandra” non mi dispiace. Tra quelli nominati dalla McGrannitt te n’è sfuggito uno di cui saprai di più in seguito, e sono contenta di poterti fare una sorpresa! Grazie ancora e correrò ai ripari per quanto riguarda l’ortografia (che umiliazione!). Un bacio!!!!!!
Meggie: Ciao carissima, quanto tempo! Hai già fatto una carrellata dei personaggi, che però spero di farti conoscere meglio in seguito! Sono contenta che Ginny abbia già il suo spessore. Sedersi sugli allori mi sembra un po’ eccessivo: in fondo non siamo mica scrittori! È divertente cambiare stile e vedere cosa si riesce a fare con qualcosa di nuovo! Un bacio e grazie!!!!
Sendy Malfoy: Grazie!!!! Eccoci qui! Fammi sapere se continua a piacerti!
WithoutEstel: Noti spesso le mie citazioni e ciò mi fa piacere! Ma i complimenti che mi hai fatto alla fine della recensione sono davvero fantastici: è bellissimo sapere di riuscire ad appassionare. Grazie davvero, cara!!!
Harianne: Grazie carissima! Spero di continuare a intrigarti!

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Capitolo 4
*** This Battle of Mine ***


CAPITOLO 4: THIS BATTLE OF MINE

Ci sono punti in questa storia che rimangono, e rimarranno, oscuri. Non tanto perché Ginny e Draco, veri protagonisti, non abbiano voluto raccontarli, quanto perché nella vita di tutti ci sono momenti confusi, pensieri incoerenti e agitati che non vuoi e non puoi raccontare. Perché non li riesci a mettere in parole. Perché non riesci a ricordarli. O semplicemente perché sono tuoi, tuoi e basta.
Perciò non posso dire, io, narratrice ultima di questa leggenda destinata all’oblio, se Ginny avesse intuito in quell’istante che le maree del destino si stavano alzando per travolgerla e si fosse, consapevolmente, lasciata affogare.
Nella notte insanguinata il rinnegato aveva fatto ritorno.
E quel sangue strappato da un incantesimo millenario, versato sui fiori assetati di tragedia, aveva aperto le porte al rifugio per colui che sembrava tornato a riportare alla vita cadaveri di ricordi, chiamato da un destino di cui nessuno aveva compreso il disegno.
Reclamato il suo pegno di sangue, la cortina di fiori si era richiusa alle spalle di Ginny e i due si trovarono, vicini come mai erano stati, imprigionati nel sogno fiorito creato da Isanhild così tanti secoli prima.
Che Ginny avesse compreso in quel momento qual’era la strada che le stelle indicavano? Che avesse visto il parallelo tra lei e l’antica irlandese, tra Draco e quel Salazar sconosciuto… che avesse immediatamente accettato il fardello di amore e dolore che presto, troppo presto, si sarebbe posato sulle sue spalle in conseguenza a quel gesto avventato? O aveva soltanto agito con l’istinto della guaritrice, proteggendo chi in quel momento era debole e ferito?
Non possiamo saperlo.
Né ci dato sapere cosa sarebbe accaduto se le scelte di Ginny fossero state, ancora una volta, diverse. Il mondo stesso è fatto di scelte, e tutto ciò che rimane una volta che le conseguenze si sono esaurite, è la possibilità di raccontare.

“The choice was mine, and mine completely
I could have any prize that I desired
I could burn with the splendour of the brightest fire
Or else, or else I could choose time”
“Lament” from “Evita” (film, 1996)

Il battito delle ali del thestral, pur attutito dalla vegetazione rigogliosa del giardino, sembrava risuonare all’interno delle orecchie di Ginny, così forte da confondersi col pulsare furioso del sangue. Lentamente si allontanò e scomparve, restituendo la notte al suo silenzio.
“Poteva essere qualcuno dell’Ordine” bisbigliò Ginny con voce malferma, senza guardare la figura che le stava di fianco, “usano sempre i thestral per spostarsi, adesso.”
“Non sono tornato per nascondermi da loro!”
La voce era imperiosa, seppur sofferente e indebolita. Ginny alzò lo sguardo e lo scrutò in viso, una lunga occhiata priva di qualsiasi espressione.
“E allora perché sei tornato, Malfoy?” chiese, con una punta di tristezza nella voce, quasi che la cosa la riguardasse personalmente. “Tutti ti credevano morto.”
Draco non rispose ed evitò i suoi occhi, voltandole le spalle.
Era cambiato, Draco. Era diverso dal ragazzino magro e ossuto che ricordava. Uno di quei pensieri distratti ed assurdi che colgono nel pieno del panico, attraversò la mente di Ginny: come devo apparire io ai suoi occhi? Ma ben altri pensieri dovevano tormentare Draco Malfoy in quel momento, di certo non ammirazione o disprezzo per la donna che la piccola Weasley era diventata; una barba corta e disordinata copriva le sue guance scavate rendendolo più adulto dei suoi vent’anni, le spalle erano ricurve sotto il peso della stanchezza e dell’indebolimento… e di qualcos’altro forse? Una spalla era completamente immobile, e Malfoy si muoveva a scatti, un passo alla volta, come se ogni movimento gli procurasse un intenso dolore.
“Che luogo è questo?”
Ginny si riscosse e si guardò attorno, rendendosi conto all’improvviso che, per qualche strano incantesimo, il suo sangue aveva aperto il giardino, che erano entrati… che era dentro al giardino privato di Isanhild.
“Il giardino dei Fiori Notturni” mormorò senza fiato.
Le enormi campanule scarlatte ondeggiavano con il loro armonioso, surreale mormorio, attorno a tutto il perimetro del giardino, ricoprendo completamente il muro di cinta. Anche la cortina che aveva spalancato l’ingresso si era richiusa, ermetica e quasi invisibile: erano bloccati all’interno. I rami incolti degli alberi erano giunti nei secoli ad intersecarsi, e i giganteschi tronchi delineavano un piccolo prato circolare, al centro del quale si ergeva un antico gazebo di ferro battuto, a sostegno di rigogliose piante di gelsomino in boccio. Miriadi di belle di notte, sfarzose nei loro fiori screziati di giallo e vermiglio, avevano rotto i confini delle aiuole a loro destinate, invadendo il giardino. Il sentiero, quasi impraticabile, che conduceva al gazebo era delineato da alti archi di ferro che sostenevano rami di caprifoglio e glicine; quest’ultimo, nel pieno della fioritura, inebriava con il suo profumo, così intenso da far dolere la testa. Tutto era odori, colori e frescura notturna. La vegetazione che copriva quasi completamente la volta celeste regalava l’illusione di essere in un luogo fatato e protetto dal mondo reale; a rendere il luogo ancora più magico le fiamme bianche e azzurrognole delle salamandre sbirciavano tra l’erba alta, e la luminosità multicolore delle fate si intravedeva tra le foglie come l’occhieggiare di migliaia di minuscole candele accese.
“Dio…” mormorò Ginny, gli occhi pieni di tale meraviglia da non poter essere espressa a parole.
I petali violacei del glicine le caddero sul viso, l’arco tremava sopra di lei, scosso dal peso di Malfoy che si era appoggiato ad esso con un lamento soffocato.
Guidata da un istinto che ormai aveva fatto più suo di ogni altra cosa, Ginny fu al suo fianco e gli aprì il mantello; con le palpebre serrate e il volto magro contratto per il dolore, Malfoy la lasciò fare.
“Ma che diamine… Santo Cielo!”
Sotto il mantello, la camicia barbaramente strappata lasciava intravedere un mosaico impressionante di lividi e abrasioni che si estendeva dal petto alla spalla destra; la clavicola spezzata usciva da una ferita sporca, della quale era quasi impossibile vedere le effettive dimensioni al di sotto di tutto quel tessuto strappato e sangue rappreso. Era un miracolo che non fosse morto dissanguato e non c’era da stupirsi che faticasse a restare in piedi: era allo stremo delle forze.
Senza esitare, Ginny lo sostenne e lo guidò attraverso gli archi, aiutandolo a camminare sulla vegetazione incolta. Sollevò alcuni rami pendenti di gelsomino e si trovò sotto il grande gazebo, al centro del quale oscillava, cigolando pigramente, una vecchissima altalena, anch’essa ricoperta di foglie e boccioli bianchi. Le fate che volavano attorno ai riccioli di ferro battuto, accolsero i due ragazzi con un ronzio stupito.
Ginny lasciò che Draco si appoggiasse delicatamente all’altalena e lo aiutò a stendersi.
“Santo cielo…” mormorò ancora, mentre continuava ad esaminare le ferite.
“Weasley ti stai ripetendo” borbottò Draco, con gli occhi chiusi.
Ignorandolo, Ginny si guardò attorno e localizzò una pozza d’acqua, seminascosta da un mare di erbacce, ai piedi di un grosso faggio. Si avvicinò e vide che l’acqua era trasparente e pulita: doveva essere una sorgente naturale.
Tolse a Draco il mantello e strappò completamente la camicia, per toglierla senza fargli male. Tuffò i brandelli di stoffa nella pozza d’acqua fresca e li usò per pulire le ferite con delicatezza. Alla luce della luna, su quella pelle diafana, un livido a forma di zoccolo spiccava come un arcuato mostro nero al centro del torace di Draco.
“Centauri!” bisbigliò Ginny, “sei passato attraverso il loro territorio!”
“Ma brava…” sospirò quello, “cento punti.”
“Ma che credevi, si può sapere? Non sei più un bambino! Siamo in guerra, credevi che avrebbero lasciato passare il figlio di Malfoy?! Credevi che non avrebbero cercato di far fuori un mangiamorte?”
Con una smorfia di dolore, Malfoy sollevò il braccio sinistro e le mostrò l’incavo del gomito, pallido e intatto, senza l’ombra di un segno.
“Vedi qualcosa, piccola stupida?” ringhiò a denti stretti, “rispondimi! Vedi qualcosa?”
Ginny spalancò gli occhi e scosse la testa, improvvisamente presa dal panico. Non aveva minimamente pensato al fatto che lui fosse o non fosse un mangiamorte. Non le era passato per la testa di chiedere referenze prima di offrire o rifiutare il suo aiuto di guaritrice. Chiamandolo mangiamorte aveva parlato per abitudine, per luoghi comuni impressi nella sua mente di Weasley, che vedevano Malfoy come un mangiamorte traditore e codardo, ucciso dallo stesso Voldemort per non aver adempiuto alla missione che gli era stata affidata.
Ora che la sua mente riusciva di nuovo a pensare, focalizzò finalmente di aver davanti colui che il mondo aveva creduto morto e disperso, colui che nessuno pensava sarebbe mai tornato… colui che il mondo aveva ritenuto un giovane adepto del male, troppo pauroso e vigliacco per andare fino in fondo, qualsiasi delle due barricate avesse voluto scegliere.
“Perché sei tornato?” chiedevano gli occhioni scuri della piccola Weasley.
Per non farsi sopraffare dalla paura, Ginny si costrinse a pensare soltanto a quella spalla malmessa e a quei lividi che, con ogni probabilità, nascondevano un numero esorbitante di costole rotte. La luna era alta nel cielo blu cobalto, e l’alba pareva ancora lontana: forse avrebbe fatto in tempo ad andare e tornare dall’infermeria del castello. I fiori, lo sapeva, alla luce del sole si sarebbero addormentati, separando l’interno dall’esterno per tutta la durata delle ore di luce.
Ma la porta si sarebbe riaperta per lei, ora? E i fiori avrebbero preteso un tributo di sangue ogni notte? Era quello il semplice incantesimo che nessuno, in mille anni, era riuscito a comprendere?
Si tolse la felpa, rabbrividendo nella maglietta leggera, e la tese a Malfoy. Era di Fred, gli sarebbe andata bene.
“Copriti. Devo andare a prendere qualcosa per sistemarti quell’osso.”
“Come rientrerai?” le chiese il ragazzo, con un’improvvisa insicurezza che brillava negli occhi chiari: una luce di urgenza e di paura, un terrore di restare di nuovo solo, tale da straziare il cuore.
“Ritornerai?”
Ginny distolse lo sguardo. Se non lo guardava riusciva a pensare che lui fosse un’altra persona. Se evitava di pensare al suo viso, un tempo così odiato, riusciva a non cadere nel terrore e nel panico per ciò che stava facendo. Non sapeva cosa la spingesse, o perché non aveva esitato un istante a nasconderlo, ad aiutarlo… lui: due volte traditore e mille volte vigliacco. Forse le parole della profezia aleggiavano su di lei, in un silenzioso grido nel buio, come a dirle che ormai non aveva più scampo.
Il rinnegato dovrà tornare, nella notte insanguinata.
Ginny osservò la propria mano, al centro della quale la ferita piccola e profonda stava iniziando già a rimarginarsi sotto la macchiolina di sangue rappreso.
“Come sono entrata prima, immagino.”
Incamminandosi verso l’entrata, col passo insicuro di chi si apre la strada attraverso un sogno più strano di quanto avesse mai creduto possibile, lanciò al gargoyle nero, di cui ora vedeva soltanto a schiena deforme, un’occhiata quasi di supplica. Inserì la mano tra le foglie e aspettò la puntura: violento e crudele, l’ago penetrò nella sua carne e reclamò il suo pedaggio in pesanti gocce di sangue. La cortina si aprì in un brusio appagato, spalancandole la vista sul mondo che non era coperto e protetto come il giardino.
Tu sei la chiave di entrambi i lati della porta.
Ginny corse fuori senza guardarsi indietro.

“Stranger than you dreamt it,
can you even dare to look
or bear to think of me:
this loathsome gargoyle, who
burns in hell, but secretly
yearns for heaven,
secretly . . .
secretly . . .”
“Stranger than you dreamt it” from “The Phantom of the Opera” (musical, 1986)

Rovistava in silenzio tra i cassetti pieni di bende e cianfrusaglie, le mani tremanti e la fronte imperlata di sudore freddo. Ma che diavolo stava facendo? Perché non chiamava la McGrannitt, Hermione, Bill, Harry… chiunque! Perché non stava già correndo verso un qualsiasi membro dell’Ordine, dicendogli che, qualunque fosse il motivo per cui era tornato, Malfoy era nel giardino, era ad Hogwarts… e che se la vedessero loro! Non era compito suo!
Si appoggiò al bordo della cassettiera e respirò profondamente ad occhi chiusi, come Madama Chips le aveva insegnato la prima volta che era quasi svenuta alla vista di una ferita mortale.
Non lo sapeva il perché. Questo era il problema.
Per qualche strano motivo sentiva di doverlo tenere in vita, sentiva di dovergli dare una chance. Sentiva che poteva – voleva – credergli.
Non era un mangiamorte, ma questo poteva significare tutto o niente per quel che ne sapeva. Aveva detto di non essere tornato per nascondersi… e ciò che lei sentiva nel cuore, ciò che faceva lavorare le sue mani alla ricerca di bende e pozioni, era il pensiero di non poterlo lasciar affrontare nessuno dei membri dell’ordine in quelle condizioni.
Fasciò velocemente la propria mano e il polso con una delle bende più corte, poi sistemò le altre che aveva preso dal cassetto in una borsa di tela, quella che di solito usava per portare ad Hermione le bottiglie di pozioni per Ron. Forbici, garze, disinfettanti. La pozione per aggiustare le ossa e una bottiglia intera di rimpolpasangue. Tutto finì dentro la borsa.
Aperto un armadio tirò fuori due coperte di lana morbida. Dubitava che madama Chips le contasse, ma nel caso avrebbe dovuto inventarsi una scusa. In punta di piedi, per non svegliare Seamus che russava pacifico, si avvicinò poi ad un letto libero e prese il cuscino; non aveva la forza di tirarsi dietro il materasso, Malfoy avrebbe dovuto accontentarsi delle coperte.
In ultimo, entrò nel laboratorio dove teneva le vecchie maglie smesse dei fratelli che usava quando preparava pozioni particolarmente fetide, per non macchiare i propri vestiti. Prese due magliette e due maglioni leggeri: per il momento sarebbero bastati.
Silenziosa com’era entrata, uscì e sparì nel corridoio.
Davanti all’ingresso delle cucine si fermò per sussurrare il nome di Dobby; l’elfo domestico apparve, vestito nel suo pigiama e calzini di colori sgargianti, con i grandi occhioni sonnacchiosi sollevati verso di lei… non appena la riconobbe le orecchie si agitarono per la felicità.
“Miss!!”
“Sssh, Dobby! Non strillare! Ho bisogno di qualche panino e di una brocca di succo di zucca, ma mi servono in fretta!!”
“Sicuro, piccola miss Weasley! Dobby va subito e ci mette poco poco, davvero!”
“Grazie, Dobby! Vai! E devo portarmeli via!”
Dobby si inchinò freneticamente e sparì in uno sbuffo di fumo dorato.
Qualche eterno minuto dopo, l’elfo riapparve con un cestino provvisto di manico in bilico sulla testa; dal tovagliolo che ne copriva il contenuto sbucava il collo della bottiglia piena di liquido arancione. Ginny afferrò il manico sussurrando un “grazie”, e corse fuori dal castello come se avesse avuto Pix alle calcagna.

Arrivata all’ingresso del Giardino, la ragazza si sentì prendere di nuovo dal panico. Il muro di fiori la accolse, come prima, con il suo caratteristico e melodioso frusciare, e il bagliore rossastro del polline che nel buio pareva un singolare avvertimento, un presagio di tragedia. Dalla borsa tirò fuori le forbicine appuntite e, cercando di placare il tremito delle mani, si punse l’indice della mano sinistra; la minuscola gocciolina di sangue piovve su una delle corolle che ronzò soddisfatta, e la cortina si aprì. Ginny respirò forte.
Dunque il sangue stesso era la chiave. Quella ferita dolorosa era stata soltanto il modo che il Giardino aveva di reclamare ciò che, per ignoranza, non era stato spontaneamente offerto. “Grazie…” si sentì in dovere di sussurrare la ragazza, entrando.
Il sentiero di archi carichi di grappoli di fiori violetti si snodava tra le mille di notte, in un tunnel di petali e profumi. Ginny lo percorse in fretta e si trovò nel gazebo. Il gelsomino che si avvolgeva attorno ai sostegni metallici era cresciuto talmente tanto che era impossibile entrare senza spostare i rami pendenti… il tutto creava una stanza naturale, isolata dal resto del mondo, in cui anche l’aria fresca faticava ad entrare.
Draco era rannicchiato sull’altalena, la spalla immobile in una piega innaturale, e le braccia percorse da leggeri brividi; con la mano Ginny sentì che la fronte era calda e, proprio in quel momento, il ragazzo spalancò gli occhi, lucidi per la febbre ma coscienti. Le ferite stavano iniziando a fare infezione, la febbre ne era il sintomo più evidente.
“Riesci ad alzarti?” chiese la ragazza.
Draco si sollevò, con una smorfia di dolore e si aggrappò al sostegno dell’altalena per sorreggersi. In fretta, Ginny sistemò una coperta e il cuscino sull’ampio sedile e gli fece cenno di sdraiarsi di nuovo.
“Quanti giorni fa è successo?” chiese, esaminando di nuovo le ferite. Draco aveva tenuto la felpa avvolta alle spalle, senza indossarla.
“Due.”
Ginny prese la pozione disinfettante e iniziò a tamponare le abrasioni, sorda agli stoici grugniti del ragazzo; per lavorare sulla ferita alla spalla dovette insensibilizzare con un incantesimo tutto il braccio e metà del torace. Pulire la ferita non fu affatto semplice: eliminate le croste di sangue rappreso, le vene recise dalla clavicola spezzata ripresero a sanguinare copiosamente. Masticando qualche imprecazione, Ginny tamponò il taglio con una garza e spinse l’osso al suo posto con tutta la forza che aveva nell’altra mano. Nonostante l’incantesimo, Draco sussultò ed impallidì per il dolore.
Qualche incantesimo di guarigione e il tempo di una scrupolosa fasciatura dopo, Ginny versò in un bicchiere una dose abbondante di pozione rimpolpasangue e la fece bere ad un pallidissimo Draco, quasi sostenendolo di peso. Lentamente, molto lentamente, il respiro del ragazzo iniziò a regolarizzarsi.
“Senti ancora dolore?” gli chiese. Il tono era tranquillo e privo di qualsiasi emozione, ma sotto si avvertiva netta la stanchezza per il lavoro svolto.
“Meno di prima” concesse Draco, per poi riprendere dopo qualche istante di silenzio: “sei una brava guaritrice, Weasley, non preoccuparti. Il tuo Potter ha sempre avuto tutte le fortune…”
L’ultima frase voleva essere ironica, ma la debolezza – e forse qualcos’altro, là in fondo a quegli occhi stranieri così trasparenti – riuscì a renderla soltanto amara.
Ginny voltò la testa dall’altra parte, un gesto troppo affrettato perché risultasse naturale, e tentò di mascherarlo prendendo una maglietta pulita e aiutandolo ad indossarla. Mentre Malfoy aveva la testa nascosta dalla stoffa, trovò la forza di mormorare: “Non è il mio Potter.”
Nei pochi secondi necessari alla testa di sbucare dal collo della maglietta, l’espressione di Ginny era ritornata quella piatta e pacata della guaritrice che poco prima aveva rimesso un osso spezzato nella sua posizione: come avrebbe fatto con un bambino raffreddato, gli stava allacciando un maglione attorno alle spalle, per poi sistemargli la seconda coperta addosso.
In quel tepore, forse per la prima volta da… da quanto? E chi poteva saperlo?... all’improvviso Draco sentì che doveva – poteva – dormire. Dimenticò ogni domanda. Dimenticò il “grazie” che forse avrebbe voluto dire. Dimenticò dov’era e chi era. Gli occhi si chiusero mentre la mano fresca di Ginny gli cercava di nuovo la fronte, e l’ultima cosa che sentì fu la voce della ragazza dire qualcosa a proposito di un cestino di cibo... e in fondo, molto in fondo, il mormorare armonioso dei fiori sul muro.

“La stanza parve dissolversi intorno a me. Non sentivo più l’odore del fumo e l’alito freddo della pioggia: non ero più avvertita dal mio corpo sofferente. Mi sembrava di essere in un giardino di fiori senza profumo e di pace eterna, e solo la voce dell’arpa spezzava il silenzio e mi chiamava. Cantava il vento di Avalon, ed il respiro dei fiori del melo, e il profumo delle mele mature… mi portava la frescura della nebbia sul lago e i suoni della corsa dei cervi nella foresta dove ancora viveva il piccolo popolo.”
Marion Zimmer Bradley
“Le nebbie di Avalon”

“Che hai fatto alla mano?”
Preso a pugni il tuo ritratto.
Ginny continuò a rimestare la sua pozione, evitando lo sguardo di Luna.
“Calderone bollente” grugnì, asciugandosi il sudore dalla fronte.
“Fai attenzione: le tue mani ci salvano il culo un sacco di volte!” fece la bionda, con allegria forzata. “Volevo solo chiederti di tenere d’occhio Calì, l’ho sentita tossire molto stanotte, verso mattina. Tu non eri in camera.”
Come se tu invece ci fossi stata.
“Ok…”
E Luna corse via. Tutti avevano cose importanti da fare, cose per l’Ordine. Quelli che salvano il mondo hanno sempre “cose importanti” da fare.
E nessuno ha tempo di insistere.
Ginny, invece, sentiva di vivere un sogno, o meglio, un incubo: non soltanto i suoi occhi lamentavano palesi la nottata passata in bianco, ma a lei pareva anche di portare scritto in fronte dove e fare cosa avesse passato la notte. Lavorava, assisteva i ragazzi, preparava le pozioni… tutto come di consueto, eppure sembrava che il suo cuore si fosse dimenticato come battere con regolarità. Senza reale motivo, la parola “tradimento” non voleva andarsene dalla sua mente, veleggiando nei suoi occhi impauriti, come un marchio di fuoco, tale che le pareva impossibile che nessuno se ne stesse accorgendo.
Eppure nessuno le stava domandando un bel niente.

Divisa tra l’amaro senso di colpa e il brivido di oscura emozione, che la notte precedente le aveva provocato, Ginny si sentiva di nuovo viva, come se un animale assopito avesse ripreso a respirare e pulsare dentro di lei. Un animale che era morto. Pensando al ragazzo ferito, solo all’interno del giardino, doveva imporsi la calma e ripetere a se stessa che stava certamente bene, e lo avrebbe rivisto alla sera… per poi maledirsi, chiedendosi perché diavolo le importava così tanto: per quel che la riguardava poteva pure morire e decomporsi in quel giardino.
Si, Ginny… prendi in giro qualcun altro.

Il rinnegato – se era lui – era tornato, e Ginny si sentiva come rintronata dal suono di una campana troppo vicina: la campana del destino che – se la profezia era veritiera – veniva ad impartire gli ordini che aveva in serbo per lei. Maledetto bastardo.
Le ferite rotonde bruciavano sul palmo della mano, ancora fasciato, a ricordarle che ciò che era successo non era stato soltanto un sogno. Non che avesse esattamente dormito del resto. Non aveva nemmeno avuto la forza di raccontare a Ron quello che era successo… beh, forse una notizia del genere avrebbe svegliato Ron. A pensarci Hermione l’avrebbe pure ringraziata.
Ma no, era rimasta ad aspettare l’alba sulla riva del lago, mentre l’usignolo cantava una serenata al mondo, alla primavera… a lei. E non riusciva a pensare, non riusciva nemmeno a rivedere la sua faccia – la faccia di lui – se ci provava: era come se un gomitolo arruffato di pensieri ed emozioni avesse invaso il suo cervello, troppo confuso ed annodato da permetterle di tirare uno dei fili. Troppo incredibile. Troppo assurdo. Troppo crudele. E lei era troppo stanca.

“Che hai fatto alla mano?”
Ahi.
“Calderone bollente.”
L’espressione di Ginny, quando si voltò a fronteggiare Hermione, era piatta quanto la laconica risposta. Era ormai il tramonto, aveva le mani tremanti e il sangue sembrava essere defluito in un buco invisibile, lasciandola debole e svuotata. Stava risalendo le scale per dirigersi verso il suo dormitorio, come sempre non sarebbe andata a mangiare con gli altri in Sala Grande, e guardava il sole scendere oltre l’orizzonte con un misto di terrore e anticipazione.
“Te l’ho detto che stai troppo sveglia a vagabondare. Poi sei distratta, vedi? Non sei passata da Ron stamattina” continuò Hermione, con un tono volutamente casuale.
“Avevo sonno.”
Ginny si girò per andarsene, ma Hermione la trattenne strattonandola per il polso fasciato. La rossa trasalì per il dolore.
“Scusami” mormorò Hermione, lasciandola, “ma a volte mi sembra che tu stia per sparire dove non posso seguirti e devo fare qualcosa per riportarti qui.”
Gli occhi di Ginny si riempirono di lacrime.
“Non basta Calì come veggente? Ti ci metti anche tu a fare la sensitiva?” disse, più dura e amara di quanto volesse.
“Non serve una veggente per capire che in mezzo a noi sei più sola di quanto lo saresti nella Foresta Proibita.”
“Allora non chiedermi di sopportarlo” rispose, accennando con il mento alla direzione della Sala Grande.
“No. Ma io non sono tutti gli altri, e la casetta non è mai chiusa, lo sai.”
“Lo so…” Ginny tentò di mettere insieme un sorriso decente, “ma ho bisogno di un luogo che sia mio, Hermione. Dove nessuno può ricordarmi tutto quello che ho perso. Ognuno deve combattere la battaglia con i propri fantasmi, non puoi farti carico della mia, hai già il tuo presente a torturarti.”
Hermione scosse la testa.
“Quante volte tu ti sei fatta carico delle battaglie degli altri! Ma non importa… ho come l’impressione che non sia il passato, ma il futuro, a farti del male.”
Ginny distolse lo sguardo e ricominciò a salire la scalinata.
“Anche in quel caso, sarebbe il mio futuro.”

“Se hai deciso di andare fino in fondo, allora vacci da solo. E non chiamare nessuno al tuo fianco.”
Sergej Luk’janenko
“I guardiani della notte”

**********

E quindi è Draco ad essere “tornato”! Da dove e perché sarà spiegato, sarà lui stesso a raccontarlo, ma fra qualche capitolo!
Per ora vi ringrazio davvero tanto!
DracoGinny4ever: grazie! Nell’ultima parte del capitolo avevo paragonato Draco a uno spettro perché tutti lo credevano morto, e nemmeno Ginny si rende conto di se sia veramente reale all’inizio.
Thaiassa: vedi la risposta sopra. Grazie davvero tanto!!!
ansia: grazie mille, la tua recensione mi fatto particolarmente piacere!
Aurora: non so se prendere il tuo “senso di angosciante soffocamento” in senso positivo o negativo… non è mia intenzione angosciare gli altri, qualunque cosa sia stata insinuata in passato (^__^) comunque spero che continui a piacerti!
Sendy Malfoy: Grazie!
Saty: cara, sono così contenta quando leggo le tue recensioni! La scena con Harry ti ha fatto venire il nervoso… a volte non capisco se te la prendi con me per come porto avanti la storia o con i personaggi stessi… comunque nelle scene con Harry ricordati sempre che Ginny all’epoca era ancora innamorata di lui, perciò tutto è visto con filtri particolari! Un bacio tesoro!!!
cl33: ora il giardino dovrebbe essere ancora più “vivo”… ma vedrai che anche lui ha una sua particolare magia, quindi in un certo senso è vivo davvero! Grazie!!!!
Seyriu: grazie, cara! La Ginny di DF e LFF mi faceva ridere un sacco, ma guardandola con gli occhi di poi in alcuni punti rischiava di diventare un pochino una Mary Sue. Sonja era molto più intensa.
GIU: non hai mai letto le altre mie creazioni, ma dicono che le contraddizioni interne dei miei personaggi sono la caratteristica che li rende più umani… ciao!!!
_LeL_: sempre più adepte di Marionuccia! Che bello! Grazie, cara!
Magical_Illusion: nessuna recensione è mai scontata, banale e men che meno irrilevante, su quello puoi stare certa. Se ti sei già commossa non immagino che lacrime piangerai quando si raggiungerà il top della storia… scherzo! Grazie davvero comunque, un bacio!
FaN_nOe: adoro le descrizioni, perciò sapere che sono apprezzate è davvero una soddisfazione, ti ringrazio tanto! Spero di continuare a coinvolgerti! Grazie!!!

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Capitolo 5
*** New world, old story ***


CAPITOLO 5: NEW WORLD, OLD STORY

“Rugge il leone nell’aria bruna
Ulula il lupo verso la luna.
Il contadino dorme in pace,
stanco, e rosseggia l’ultima brace.
Al malato che giace in sudore
La civetta stridendo fa cuore.
S’apron le tombe e furtivi e leggeri
Vagan gli spettri sui muti sentieri.”
Shakespeare
“Sogno di una notte di mezza estate”, atto quinto, scena prima

Uno spicchio di luna si nascondeva a tratti tra le nubi, quando Ginny percorse il tunnel di fiori pendenti, per fermarsi di colpo, poco prima dell’ingresso del gazebo. Draco era seduto sui gradini di pietra a guardarsi intorno, i gomiti sulle ginocchia e i capelli biondi che piovevano come foglie appassite ai lati del viso dall’espressione assente: i suoi occhi grigi erano spalancati ma vuoti, come se non vedessero nulla di ciò che lo circondava, non realmente.
“è assurdo…” mormorò, con voce smarrita, “il giardino era come morto, sembrava un quadro sbiadito alla luce del sole. Non si sentivano nemmeno i profumi. Poi il sole è calato, i fiori rossi sono sbocciati e tu sei entrata… mentre si riaccendevano le fate e tutto tornava ad essere vivo e magico. È incredibile.”
Ginny era ferma, le dita si muovevano convulse sulla stoffa del fagotto che aveva portato: non sapeva come reagire. Malfoy aveva parlato a lei eppure non sembrava nemmeno vederla sul serio. Poi il ragazzo sbattè le palpebre, come uscendo da un incantesimo o da un sogno, e questa volta lo sguardo che le rivolse era diverso, vivo e lucido, e registrava la sua presenza per davvero.
“Scusami, Weasley…” disse, alzandosi in piedi e muovendo un passo verso di lei, “ho preso l’abitudine di pensare a voce alta.”
C’era una tale amarezza in quelle parole che Ginny dovette abbassare lo sguardo e mordersi la lingua per non chiedergli, neppure con gli occhi, dove fosse stato e cos’avesse dovuto sopportare in quegli anni. E quanta solitudine avesse provato.
“Vieni” gli disse solo, accennando con la testa al gazebo ricoperto di piccoli boccioli biancastri.

La luce della luna illuminava l’interno del gazebo solo quel tanto che bastava per non brancolare nel buio, ma Ginny tirò fuori dal fagotto quattro candele bianche e le accese con la bacchetta.
Wingardium leviosa” mormorò a voce bassissima, per farle levitare e fermarsi a mezz’aria. La luce delle candele attirò le piccole fate multicolori che presero a volare attorno ad esse, con ronzii meravigliati. In quel dolce arcobaleno di riflessi Ginny notò il cestino che Dobby le aveva dato la sera prima: conteneva soltanto un paio di tovaglioli spiegazzati e la bottiglia. Le coperte e il cuscino erano ripiegati in modo ordinato sull’altalena, dove Draco si era seduto, aspettando in silenzio. Ginny si portò alle sue spalle e lo aiutò a togliersi il maglione, cercando di non fargli male.
“Va meglio” disse Draco.
La ragazza, sempre in silenzio gli posò una mano sulla fronte, e poi sul collo e sul torace.
“La febbre è calata” concesse, la voce malferma e gli occhi che evitavano di guardarlo direttamente, “ma la bende sono sporche di sangue. Devo cambiarle.”
Ginny cercò il capo della benda e iniziò a svolgerla con delicatezza. La mano di Draco arrivò a prendere la sua, in una stretta forte ma abbastanza gentile; il ragazzo cercò lo sguardo sfuggente di lei, e nei suoi occhi si leggeva una gratitudine sincera, anche se molto formale e impacciata. Sull’anulare della mano che stringeva la sua – la sinistra – Ginny colse lo scintillio di un anello sottile.
“Grazie, Weasley. Non credo di averti ringraziata ieri sera. Anche per la colazione.”
Ginny tolse la mano, mordendosi le labbra nello sforzo che aveva fatto per evitare di divincolarsi immediatamente, e annuì con un brevissimo cenno del capo.
“Ti ho portato altro cibo. E succo di frutta” disse, riprendendo il suo lavoro con la fasciatura, “anche se credo che l’acqua della sorgente sia buona da bere.”
“è buona” concesse Draco, con lo sguardo di nuovo lontano, “buona come l’acqua di Hogwarts… mi è venuto in mente stamattina. Non me la ricordavo così buona.”
La ferita si stava effettivamente asciugando, sebbene sangue nero e maleodorante continuasse a bagnare le garze che Ginny stava usando per pulirla.
“Riesci a muoverla?”
Draco tentò una lentissima rotazione del braccio, ma si fermò a metà con una smorfia di dolore.
“Più di ieri. Ma non del tutto.”
“Un paio di giorni e dovrebbe aggiustarsi definitivamente” gli comunicò Ginny, mentre riavvolgeva con destrezza le nuove bende pulite. “Ti ho portato anche un asciugamano. E un rasoio… nel caso tu volessi fare qualcosa per quella barba.”
Malfoy si passò una mano sulle guance e annuì, pensieroso.
“La tua mano?” chiese.
“Sta bene” tagliò corto la ragazza, riprendendo il discorso di prima: “tra qualche giorno potrai uscire.”
“Non sono venuto qui per nascondermi!” sibilò Draco. Dai suoi occhi grigi era scomparsa la placida calma di poco prima, ma Ginny non si scompose davanti al gelo di quella rabbia improvvisa e si limitò a guardarlo, inclinando appena la testa.
“E allora perché sei venuto?” gli chiese senza alzare la voce.
Draco scosse la testa e si alzò, allontanandosi da lei di qualche passo. Ginny abbassò lo sguardo per nascondere un’espressione a metà tra l’amarezza e la paura.
“Qualunque cosa tu sia venuto a fare, non puoi presentarti agli altri in queste condizioni” bisbigliò, “Harry ti odia, Malfoy, questo lo saprai, immagino… non aspetterebbe un secondo prima di aggredirti. E non hai speranze di difenderti adesso, nemmeno per spiegare cosa vuoi.”
Draco si voltò di nuovo verso di lei.
“E a te perché dovrebbe importare?”
La ragazza sospirò e allargò le braccia. Era pallida… pallida quasi quanto lui. E i suoi capelli erano incredibilmente rossi in quella luce, rendendo quel contrasto quasi doloroso da guardare. In mezzo al viso quegli occhi grandi e scuri, come gli occhi di un animale che affoga, visti attraverso lo specchio dell’acqua che gli sta togliendo la vita.
“Il tuo ritorno significa qualcosa per il mio destino, Malfoy. Così mi è stato predetto, almeno. Voglio solo sapere che cosa.”
“E per saperlo devi tenermi in vita?”
Fu il turno di Ginny di scuotere la testa.
“Non lo so.”
Draco alzò le spalle e un muro di gelida indifferenza scese sul suo viso a coprire ogni emozione, pensiero… o curiosità. I capelli sporchi e lisci attorno al viso lo rendevano inquietante in quella luce irreale che conteneva ogni colore dell’iride.
“Il destino non esiste Weasley. È soltanto una scusa per non affrontare i rimorsi.”
Le parole gli si bloccarono in gola quando Ginny, per la prima volta, lo fissò dritto negli occhi.
“No. Non credo” mormorò la ragazza.
Un improvviso soffio di vento agitò le liane pendenti del gelsomino: i petali dei glicine cadevano come fiocchi di neve violetta dagli archi sul sentiero e il polline rossastro si levava, luminescente, dai fiori sul muro, regalando all’oscurità quel chiarore sanguigno del crepuscolo inoltrato. La notte stessa pulsava di vita nascosta e di brividi improvvisi.
Per un tempo indefinibile – un respiro trattenuto, un battito del cuore… o il tempo necessario ad un fiore per sbocciare – rimasero a guardarsi, persi nelle domande che entrambi, forse, temevano di rivolgere all’altro. O a se stessi.

“When I gaze at the man who is gazing at me,
When I stare into the looking glass,
When I ask what he sees,
Then I'm asking for more and the more
that I wanna know.
I know what I'll never know...”
“The looking glass” from “Avantasia – The Metal Opera, Part II” (2002)

L’improvviso rumore delle ali dei thestral che volavano alti sul cielo sopra Hogwarts, spinse Ginny ad alzare la testa, un gesto istintivo, nonostante il gazebo e le cime degli alberi nascondessero completamente la volta celeste. Le enormi ali squamate percuotevano l’aria con forza, tanto che era possibile immaginarne l’ampio e armonioso movimento, pur senza vederli; dall’intensità del battito Ginny dedusse che l’intero branco stava sorvolando i giardini, volando all’unisono come una formazione d’attacco.
Ginny trattenne il fiato per una manciata di minuti che sembrarono eterni, e poi alcune grida si levarono dal castello, uno scoppio di strilli che risuonarono alle orecchie della ragazza innaturalmente stonati nella placida quiete di quella notte. Chiuse gli occhi e ascoltò le grida gioiose, respirando profondamente, come se una morsa di paura si fosse allentata all’improvviso dentro di lei.
“Hanno trovato un altro horcrux…” bisbigliò, senza più pensare a chi c’era con lei in quel giardino.
Una musica iniziò ad accompagnare le grida e, sebbene le note giungessero smorzate dalla distanza e dal fogliame degli alberi, fu come se quella musica portasse con sé il profumo della burrobirra appena versata, il tintinnare dei bicchieri e la luce dei sorrisi di persone che non c’erano più. Ginny spalancò gli occhi e guardò Draco dritto in faccia, e questa volta fu lui a chiedersi se davvero la ragazza lo stesse vedendo: gli occhi bruni scintillarono per un attimo di qualcosa tra il sollievo e l’emozione.
“è il penultimo!” sussurrò Ginny – a lui? alla notte? al nulla? – “ne manca solo uno!”
Draco impiegò qualche istante prima di capire di cosa stesse parlando, e quando fece per parlare Ginny si era già ricomposta, come se si fosse ricordata di botto qualcosa che sul momento aveva dimenticato.
“Devo andare,” disse, muovendo qualche passo verso l’esterno del gazebo, “qualcuno potrebbe essersi ferito.”
Draco fece un passo verso di lei.
“Aspetta!”
Ginny si fermò, ma gli aveva già voltato le spalle, così che il ragazzo fu costretto a parlare alla sua schiena. Petali di un viola chiaro, quasi bianco, erano impigliati nei riccioli di lei, come pietre preziose.
“Tornerai domani?”
Era come se la sua voce fosse ancora quella di un ragazzino, e da essa traboccassero le paure e le insicurezze che il suo corpo di uomo non poteva più mostrare. E c’era una solitudine radicata, così profonda e antica che Ginny non riuscì ad evitare di girarsi verso di lui.
“Dove sei stato?” chiedevano i suoi occhi, “cosa ti hanno fatto?
E ancora, come dal primo istante in cui aveva posato gli occhi su di lui: “cosa sei tu per il mio destino?”
“A domani” gli disse a voce alta, e per la prima volta il suo tono non era piatto: c’era una nota di calore, una leggerissima inflessione che suonò quasi rassicurante.
Draco si incamminò con lei nella pioggia profumata dei fiori del glicine e la osservò pungersi il dito con la punta di un coltellino; mentre la cortina si apriva la salutò con un cenno del capo e restò a guardarla attraversare la soglia della sua prigione.
Ginny si volse ancora una volta e poi i fiori tornarono al loro posto e fu come l’allontanarsi di un sogno alla luce del mattino: la realtà era rumorosa là dove il giardino attutiva i suoni, e le finestre di Hogwarts brillavano della luce allegra delle lampade, così diversa dal chiarore indefinito che il giardino stesso emanava con i suoi fiori e i suoi piccoli abitanti fatati. Gli sterpi le graffiavano le gambe mentre correva verso l’ingresso del castello, come a volerla trattenere in quel luogo silenzioso in cui anche le domande non formulate potevano assordare.

“Never had a flesh and blood like this before.
Got a new appearance when I passed the door.”
“The Tower” from “Avantasia – The Metal Opera, Part I” (2001)

Dalla sala grande veniva un chiasso infernale.
Attraverso l’enorme portone aperto, Ginny fissò con occhi spalancati la calca di ragazzini che attorniava i membri dell’ordine. Al di sopra degli studenti si vedeva Bill, un bicchiere in mano, la moglie bionda e bellissima tra le braccia, i capelli rossi ancora lunghi fino alle spalle. Poco più in là Seamus, con la spalla ancora fasciata, strillava qualcosa ad Harry, attorniato e semi sepolto. Fred cantava con Lupin e una bottiglia di firewhisky in mano; aveva un taglio sulla guancia e uno sul braccio, ma sembrava stesse bene. Le risate si alzavano sopra la musica, e gli studenti in pigiama saltellavano per la sala, sulle panche e sui tavoli, urlando i nomi di Harry e Charlie.
Hermione le corse incontro sulla porta, il viso illuminato da un sorriso felice. Stretta nell’abbraccio dell’amica, Ginny vide Harry sollevato sulle spalle dei ragazzi, brandire verso il cielo la spada di Godric, la cui lama scintillò alla luce delle fiaccole, macchiata di sangue rossastro.
“Il serpente…” mormorò senza fiato.
Hermione annuì, respirando forte per l’emozione.
“Stanno tutti bene!” le disse, “nessuno è stato morso!”
Ginny sospirò di sollievo e trovò la forza di sorridere a Bill che aveva levato il bicchiere nella sua direzione. Molly Weasley le passò accanto, trascinando poco maternamente per un braccio il figlio Fred, che sbraitava offeso.
“Stanno tutti bene, a parte questi tagli, tesoro! Vai pure a divertirti!” le disse con un sorriso.
Così Ginny si lasciò tirare da Hermione verso la sala, piena di grida di evviva diretti al Prescelto ancora sulle spalle di George e Lupin.
Era bello, Harry. Lo era sempre stato. La sua anima era là, su quel viso e in quegli occhi rilucenti di coraggio, di forza e di tutto ciò che, in quella misura, lo rendeva unico. Unico come la sua cicatrice, e come la vita che aveva affrontato. Unico come quel groviglio di emozioni e difetti e complessi che lo rendevano… lui, unico. Ginny, per un attimo, rimase abbagliata a fissarlo. Poi Luna strillò qualcosa, nella calca, e la luce che Harry sembrava emanare col suo sorriso si concentrò soltanto sulla ragazza bionda. Si sorrisero, con gioia e complicità.
Ginny si appoggiò al tavolo, sentendosi soffocare. La luce della sala le faceva dolere gli occhi, la musica e le grida la investivano come una mostruosa cacofonia assordante… tutto sembrava troppo colorato e rumoroso. Sbiancando, Ginny posò il bicchiere e scappò dalla sala, seguita dallo sguardo inquieto e addolorato di Hermione.

Nei corridoi, dove la musica arrivava smorzata dalle pietre massicce, Ginny riprese a respirare normalmente; il rumore dei propri passi aveva un ritmo dolce e calmante, e la luce azzurra della notte non feriva gli occhi.
“Ragazzina!” tuonò una voce profonda al suo fianco, facendola sussultare. Ginny si voltò verso il muro e rispose allo sguardo truce del vecchio Theseus con un’ironica reverenza.
“Buona sera, Theseus!”
Uno scalpiccio di zoccoli uscì dal ritratto e il vecchio centauro scosse la chioma candida come il manto che gli ricopriva la groppa. Gli occhi scuri e grandi non avevano nulla di umano e sembravano alieni sul volto dai lineamenti regolari.
“Cos’è questo baccano? Mai che si possa dormire in pace qui! Dannati giovani umani…” sbraitò il vecchio.
Ginny gli sorrise, malinconicamente.
“Stanno facendo festa, lasciali fare!” gli disse, rabbonendolo, “hanno distrutto un altro Horcrux.”
La lunga coda color neve sporca del centauro si agitò sullo sfondo silvestre del quadro.
“Bah…” sospirò Theseus, “cosa credi, di rabbonirmi con quegli occhioni, tu? E come mai non sei a festeggiare con loro, piccola Gwenhwyfar?”
Ginevra alzò un sopracciglio. Il vecchio si era rivolto a lei con l’antica parola celtica da cui derivava il suo nome completo: Gwenhwyfar, che in antico gallese significava “fata bianca” (*). Osservò il proprio vestito primaverile, bianco a fiorellini così piccoli da vedersi appena, e sorrise.
“La musica è troppo alta. Mi sentivo male, là dentro.”
Theseus la osservò pensieroso.
“Molti umani amanti della notte e del silenzio hanno camminato in questi corridoi, nei secoli. Ma tu mi ricordi una fanciulla che conobbi quando ero ancora un centauro di carne e di zoccoli… una vera creatura notturna, Isanhild. Bella come la luna.”
La ragazza sussultò.
“Conoscevi Isanhild?”
Il centauro sollevò il mento, mostrando la gola rugosa.
“Certo che la conoscevo, ragazzina! Era poco più grande di te quando quello scavezzacollo se la portò a casa dall’Irlanda.”
Questa volta a Ginny sfuggì una risatina. “Lo scavezzacollo sarebbe… Salazar Serpeverde?! Tu hai conosciuto i Fondatori?”
“Proprio lui. Il Serpente che con la sua magia ha deposto le fondamenta del castello. Gli altri fondatori si sono innalzati verso il cielo nelle loro magnifiche torri, ma senza Salazar nulla sarebbe sorto. Ogni anello è necessario alla catena, bambina, ricordatelo. E quando lui se n’è andato… è allora che tra le case è iniziata la guerra, è quella la radice del male che vi affligge.”
“Sembri il Cappello Parlante. Anche lui dice sempre di restare uniti, di non farsi guerra dall’interno…”
Theseus sbuffò, sprezzante.
“Il Cappello Parlante è un oggetto umano, per quanto ricolmo della magia di un grandissimo mago. Legge la mente degli umani e dona consigli che, nella vostra semplicità, potete capire. Noi centauri osserviamo l’avvicendarsi delle grandi maree, i cicli impressi nelle stelle come canzoni che si ripetono all’infinito. I segni sono più forti che mai, e ben altri portenti stanno per verificarsi.”
Il tono solenne con cui il centauro la stava apostrofando strappò a Ginny una smorfia di fastidio. Ma che nessuno, in quel dannato castello, riuscisse ad astenersi dal rimestare nel futuro del mondo e dal venirle a raccontare frammenti incomprensibili di ciò che aveva tirato fuori dal calderone?!
“Vedo che i veggenti spopolano di questi tempi…” borbottò, senza farsi sentire dal vecchio.
Theseus la squadrò con sufficienza.
“Sei troppo umana per leggere i segni negli avvenimenti, Gwenhwyfar. Il serpente è il simbolo del patto stretto con la terra (**), per questo fu Salazar, colui che parlava alle Serpi, a posare le pietre che ancora reggono il castello di Hogwarts. Ma ricorda: è il grande rettile alato che sorge, ogniqualvolta, nei secoli, la terra necessita di protezione. È scritto nelle stelle: il cerchio sta per chiudersi di nuovo, e tu sei metà dell’anello che manca.”
E ti pareva…
“E come mai ho come l’impressione che l’altra metà dell’anello non sarà esattamente il Principe Azzurro?”
Theseus scrutò gli occhi bruni della ragazza, la sua espressione scocciata e stanca.
“Perché sei giovane, oltre che umana, e non sai nulla” disse, altezzoso.
Nemmeno dipinti, i centauri riuscivano a perdere la loro innata arroganza. Ginny sbuffò ancora e si alzò in piedi, stiracchiandosi.
“Vorrei che la piantaste, tutti quanti, di parlare per indovinelli…” masticò tra i denti.
Il centauro sbadigliò.
“E allora tu impara a risolverli. Ora vai, ragazzina. Lascia dormire questo povero vecchio.”
Testone arrogante di un somaro che non sei altro...
Ginny fece per allontanarsi, ma si fermò dopo soli due passi.
“Theseus?”
“Che c’è ora?”
“E se non esistesse il destino? E se io potessi ancora scegliere?”
Theseus emise uno sbuffo infastidito che aveva poco di umano e molto di equino.
“Scegliere…” brontolò, “si può scegliere di non amare? Si può scegliere a chi dare il proprio affetto o il proprio aiuto? Bah… umani. Vai da lei, Ginevra. Non può parlarti, ma se la guardi negli occhi capirai che non ha mai potuto scegliere.”
“Scegliere cosa?”
“Se andare con lui, seguirlo nonostante le ambizioni di Salazar non fossero le sue. Lui era dannato bastardo arrogante, su quello nessuno potrà dissentire, ma questi occhi hanno visto di rado un amore grande come quello di Isanhild e Salazar.”
“Quindi Isanhild non si è uccisa nel giardino?”
“Bah…” sbuffò di nuovo il centauro, “gli usignoli cantano, le capre pascolano, e gli umani inventano favole. Vai a dormire, bambina.”

“Quando la corda vibra, perfino l’ascoltatore più ignaro sa che il suono culminerà nella nota chiave, pur non sapendo in che modo la successione delle strofe condurrà all’accordo conclusivo.”
Marion Zimmer Bradley
“Le luci di Atlantide”

Il ritratto di Isanhild sembrava una finestra che dalla realtà si affaccia su un sogno, un paesaggio irreale, notturno e silvestre, in cui una Principessa da fiaba era imprigionata in attesa del bacio che l’avrebbe salvata.
Ma il bacio non sarebbe arrivato perché il Principe Rinnegato se n’era andato da tempo.
Osservandola, Ginny si chiese in cosa Theseus avesse notato la somiglianza tra lei e l’irlandese nel ritratto. Lo sguardo di Isanhild le entrava nel cuore, intenso quanto una carezza, carico in quel momento di compassione e dolcezza. Non poteva sapere, Ginny, che il suo viso stava rispecchiando la stessa espressione.
“Dunque non ho mai avuto scelta” disse a voce alta, “qualunque passo alla fine mi avrebbe portato qui?”
Ovviamente Isanhild non rispose, se non con un lieve incurvarsi delle labbra in un sorriso rassegnato. Ginny sospirò. Non aveva avuto alcuna scelta in effetti: il suo istinto le aveva impedito di rifiutargli aiuto e cure, la sua indole l’aveva fatta reagire con prontezza per proteggerlo.
“E ora?” chiese, con una nota implorante nel tono di voce, “dovrò innamorarmi di lui? Dovrò accettare anche questo come se non fosse nemmeno più mia questa vita?”
Mentre cercava una risposta nel viso eternamente bello di Isanhild, la luce rosata dell’aurora si levò alle sue spalle e penetrò nel corridoio, fino a lambire il quadro, dissolvendo il magico sogno notturno e lasciando al suo posto la tela lisa e irriconoscibile.
Ginny si volse e corse verso la loggia: lo spettacolo dell’alba dai piani più alti di Hogwarts era ancora, dopo tanti anni, magnifico da togliere il fiato. Con lo sguardo perso sulla foresta e sul pendio della collina, lasciò che i primi raggi di sole le accarezzassero il viso.
Laggiù, in un giardino dimenticato, degli enormi fiori rossi stavano celando la loro bellezza alla luce del sole.
C’era un ragazzo, dentro quel giardino, che osservava i fiori richiudersi con gli occhi chiarissimi persi in chissà quali dolorosi ricordi. Poteva vederlo ora: tentare di mettere a fuoco il suo viso nella propria mente non era più così angosciante, non quanto lo era stato la notte precedente. Faticava ancora a crederlo reale, adesso che era così lontana da lui… ma se voleva poteva sentire la sua presenza, là, a poche centinaia di metri. Poteva sentire la sua solitudine, fin da lì, sugli spalti di un castello fiabesco in cui si erano infranti i suoi sogni di bambina, sogni di una vita che non sentiva più nemmeno sua.
Forse non sarebbe stato poi così terribile dimenticare Harry.
Forse un sentimento nuovo era ciò che serviva al suo cuore per smettere di sanguinare, alla sua solitudine per essere, in qualche modo, colmata.
Si… ma Harry, almeno, non poteva farle più male di quanto le avesse già fatto.

“Oh, walking on my own
When I'm broken and alone,
I may feel you from inside
From the other side of life.”
“The seven angels” form “Avantasia – The Metal Opera, part II”(2002)

“Non capisco, nonna… perchè tanta malinconia? Dalle storie che raccontavate, ho sempre pensato che Draco fosse stato il grande amore di zia Ginny…”
Zia Ginny… tre generazioni separavano Sabine da quella Ginny di cui stava raccontando. Eppure se Hermione chiudeva gli occhi, rivedeva sempre e solo la Ginny sfuggente di quell’estate così lontana, nè donna né fata, ma qualcosa a metà tra le due, irraggiungibile. I suoi capelli sarebbero sempre stati di quella tonalità scura di rosso che prendevano alla luce della luna, e la sua pelle bianca come vetro appena opaco…
“Lo è stato, tesoro… lo è stato per una vita intera” disse Nonna Hermione, accarezzando i capelli bruni della nipote, “ma Ginny aveva solo diciannove anni all’inizio di questa storia, ed aveva amato Harry fin da bambina. Tutta la famiglia di Ron, e io stessa, credevamo che una volta finito tutto… una volta finita la guerra, Ginny e Harry si sarebbero riuniti e si sarebbero sposati. Sarebbe stato praticamente perfetto: il mio migliore amico e la sorella di Ronald. Perfetto. È difficile staccarsi da un’idea del genere, non credi?”
“Si, ma…” Sabine non sembrava convinta, “Harry e Luna stavano insieme da tempo, Ginny l’aveva già accettato.”
“La mente e il cuore tirano spesso in direzioni contrarie, piccola…” sospirò Hermione, “e non è che Ginny non volesse innamorarsi di un’altra persona e dimenticare finalmente Harry. Considera però che Draco era stato un ragazzino arrogante e molesto quando eravamo a scuola. Tutti avevano creduto che sarebbe diventato un mangiamorte come suo padre e ciò che aveva combinato al suo ultimo anno ad Hogwarts non aveva certo contribuito a dissipare quel sospetto. Ma non credo che fosse questo il punto…”
“Quale allora?”
“La profezia di Calì non parlava di amore, diceva soltanto che il ritorno del rinnegato sarebbe avvenuto prima che il destino di Ginny si compisse, qualunque esso fosse. Nemmeno Theseus l’aveva detto espressamente. Ma credo che Ginny sentisse nel suo cuore cosa le stava accadendo; quell’affinità improvvisa, quella compassione che aveva provato per Draco, sarebbero venute spontaneamente se non avesse udito la profezia? I sentimenti che stava iniziando a provare erano istintivi o erano stati indotti da qualcosa? Avrebbe potuto scegliere di non far avverare la profezia o qualunque cosa avesse fatto questo l’avrebbe portata a Draco e a tutto quello che poi sarebbe successo?”
Sabine scosse la testa.
“Ma non è così per chiunque? Non si sceglie chi amare, capita e basta, è quello che mi avete sempre insegnato tutti, in questa famiglia.”
“è quello che ti abbiamo insegnato perché possiamo guardare indietro alle nostre vite, Sabine. Si, siamo tutti in balìa del destino quando si tratta di sentimenti e passioni. La differenza, per quanto riguarda Ginny è che lei vedeva nascere questo sentimento come guardandolo dall’esterno, sapendo che quello stesso legame avrebbe avuto un ruolo nella guerra che si stava svolgendo e nel destino di qualcosa di ben più grande di lei. Nemmeno l’emozione di un amore che nasce poteva appartenerle completamente. Questo non sarebbe spaventoso per chiunque?”

“Let the warriors clamour after gods of blood and thunder; love is hard, harder than steel and thrice as cruel. It is inexorable as the tides, and life and death alike follow in its wake.”
Jaqueline Carey
“Kushiel’s Chosen”

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NdA: gran parte di questo capitolo non era prevista… ma arrivata a questo punto ho pensato di far partire alla carica anche il vecchio Theseus, tanto ormai profetare su Ginny è come sparare sulla croce rossa…
(*) Le etimologie del nome Ginevra sono in realtà moltissime e diverse. Ho fatto un po’ di ricerche e, sebbene il significato più gettonato sia “White Phantom”, quello che ho riportato è quello che mi piaceva di più. Per correttezza riporto altre etimologie come “White Cloud”, “Holy Phantom” o “White Shadow”.
(**) Ok, qui mi sono lasciata prendere dalla passione per le leggende arturiane. Nella mitologia celtica il serpente, oltre ad essere simbolo di saggezza e abilità, simboleggiava per i Druidi lo stretto rapporto con la Britannia, la loro madre-terra (se c’è qualcuno con una buona preparazione sulla cultura celtica, vi prego non picchiatemi, la mia conoscenza è solo a livello “amatoriale”, ho solo letto qualche saggio sui druidi e sulle antiche usanze). Un po’ romanzata, questa “usanza” è stata inserita anche da Marion Zimmer Bradley nel ciclo di Avalon: Uter, così come Artù, porta i serpenti tatuati sui polsi. Ho mescolato un po’ le antiche leggende con il nostro Potterverse per dare alla profezia del centauro un tono più leggendario e mistico rispetto a quella di Calì. Oltre a tirare in ballo le maree del destino e i segni da leggere nelle stelle, ovviamente. Anche la parte successiva della profezia di Theseus (quella sul grande rettile alato) ha qualche attinenza col ciclo arturiano, ma non voglio guastarvi la sorpresa.

Qualche problema agli occhi mi impedisce di stare troppo davanti al computer in questi giorni, quindi sono un po’ indietro con la stesura. Non credo che riuscirò ad aggiornare la prossima settimana, ma vi do appuntamento sicuramente tra quindici giorni! Scusatemi!

Grazie a tutte davvero!
Thaiassa: anche l’amica bastarda che ti frega il ragazzo ha un suo posto nel mondo! Sono una fervida sostenitrice della categoria… scherzo! Grazie mille per i complimenti, per chiarire la figura di Draco dovrai aspettare il capitolo 6!
Rayne: grazie!
seven: sono i particolari secondari a trasformare un idea in una storia, sono contenta che ti colpiscano! Baci e grazie!
Magical_illusion: in realtà questa non è la mia Ginny preferita, ma io sono molto autocritica… comunque mi fa piacere il tuo apprezzamento! Grazie!
Aurora: grazie, spero di che continui ad emozionarti!
Saty: Ho poco tempo per rispondere ai tuoi mille dubbi… e la risposta sarebbe sempre e comunque la stessa con poche varianti: non-te-lo-dico. Anche tu ce l’hai con Luna… ma i fatti della vita non ve li spiega nessuno?!? C’è SEMPRE un’amica che ti porta via quello che credi il grande amore, ma alla fine trovi SEMPRE un amore migliore. Ora, parliamone, vuoi confrontare Harry e Draco? No, io credo sarebbe alquanto superfluo… Mi ha fatto particolarmente piacere il tuo apprezzamento sulla dinamica Ginny-Hermione! Un bacio tesoro!!!!
lettrice contrita/dottoranda esausta: per questa volta ti perdono, va…. Ma che non si ripeta, potrei diventare gelosa di tutte queste proteine che rubano il tuo tempo e ti impediscono di prestare la dovuta e affettuosa attenzione alla tua sorellina minore, nonché Queen of the Carpet dei miei stivali…. A presto cara!!! (e la BSA in quale bagnetto sta zoccoleggiando?)
Cdc14 e frammenti vari: care le mie due zoccolette insolubili. Vedo che nemmeno voi siete immuni al fascino animalesco di Draco tutto lercio e sanguinante… no, non me lo chiedete, DENTRO UNA EPPENDORF DA 1.5 NON CI STA.
fiubi: non preoccuparti cara, la tua opinione mi fa piacere sempre e comunque. Tu adori quando Ginny si prende cura di Draco e io adoro fargli del male fisico… siamo a cavallo!!! Grazie!!!
_LeL_: chissà se le tue ideuzze si dimostreranno azzeccate… sinceramente spero di stupirti! Grazie!
klaretta: la calma è la virtù dei forti….. grazie, cara, un bacio!!!
GIU: ripeto quello che ho già detto pi volte: è tutto un collage di copiature più o meno evidenti… eh eh eh. Però sono brava a copiare no?!?

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Capitolo 6
*** In Loving Memory ***


CAPITOLO 6: IN LOVING MEMORY

Un’intera giornata trascorse in festeggiamenti, piani di vittoria ed euforici sogni di gloria. La distruzione di un Horcrux aveva il potere di dare speranza a tutti, nessuno escluso. Pur provando una felicità intensa per ciò che tutta la squadra stava riuscendo a realizzare agli ordini di Harry, che ormai più nessuno considerava solo un ragazzino, me ne stavo a guardare, nel sorriso la gioia che avrei voluto condividere, ma nella mente soltanto il pensiero di chi avrebbe gridato, strillato, sorriso e brindato a quell’occasione… se soltanto avesse potuto. Il pensiero di Ron, al sicuro nella sua stanza protetta da ogni cosa, ma solo, addormentato… perso, per sempre forse, mi stringeva il cuore in una morsa gelida, insopportabile: non riuscivo a stare lontana da lui più di un paio di ore, poi dovevo tornare là, guardarlo, toccarlo, assicurarmi che ci fosse ancora, che fosse vivo… che quella speranza non fosse perduta per sempre.
Una volta trovai Ginny, con lui.
Mi nascosi e rimasi ad osservare.
Non l’avevo vista per tutta la giornata, pensavo si fosse rintanata in infermeria, a rimestare qualche pozione o leggere pagine su pagine che ormai conosceva a memoria, nella vana speranza che un dettaglio essenziale le fosse sfuggito: un dettaglio che avrebbe potuto risvegliare Ron. Con la mano gli stava sistemando i capelli sulla fronte e gli raccontava probabilmente della distruzione di Nagini, con quella voce sommessa che si usa per raccontare le favole ai bambini. Non riuscivo a cogliere che qualche parola. Un attimo dopo la sentii sospirare e la frase che seguì risuonò chiaramente nel silenzio.
“Vorrei che tu potessi vederlo, e sentire il profumo di quei fiori. È un angolo dimenticato da tutti, ma sembra che la magia di Isanhild non l’abbia mai lasciato… come se lei avesse continuato a vivere là dentro per secoli.”
E così, ladra di confidenze che non erano rivolte a me, arrivai a sapere che Ginny aveva aperto il giardino di Isanhild.
Ciò che non sapevo era che il giardino era divenuto il rifugio per qualcuno che, probabilmente, io stessa avrei ucciso a vista come un cane malato di rabbia. Qualcuno che però aveva ancora una storia da raccontare.

“Long ago, when man was young and the dragon already old, the wisest of our race took pity on man. He gathered together all the dragons, making them vow to watch over man, always. And at the moment of his death, the night became alive with those stars, the constellation Draco. And thus was born the Dragons' Heaven. But when we die, not all dragons are admitted to this shining place. No, we have to earn it. And if we don't, our spirit disappears as if we never were. And that's why I shared my life force with a dying boy - so I would reunite man and dragon, and ensure my place among my ancient brothers of the sky. But... my sacrifice became my sin.”
From “Dragonheart” (film, 1996)

Tra le fronde degli alberi lampeggiavano gli ultimi raggi rossastri del sole, prima del tramonto, tingendo le foglie lucide di bagliori argentei e violacei sullo sfondo verde scuro, quasi nero. Ginny osservavo lo spettacolo, intenta, gli occhi persi in quei riflessi di sangue e luce: al di là del muro coperto di foglie poteva percepire la presenza di lui, lui che la stava aspettando… così vicino eppure distante anni luce, separato non da quel muro, ma da una vita di pregiudizi, e disprezzo, e indifferenza. Da una vita di distanze rigorosamente tenute, se possibile allungate.
Avrebbe potuto pronunciare il suo nome, anche solo sottovoce, sicura che lui l’avrebbe sentita.
Non osava.
Il cielo era di un blu cobalto, macchiato di viola all’estremo Ovest e screziato di nuvole di un rosso violento. Sotto gli occhi di Ginny le campanule iniziarono ad aprirsi mostrando la loro segreta bellezza al cielo che rapidamente imbruniva. Qualcosa nell’aria, qualcosa di magico percepibile soltanto con una parte primitiva e sconosciuta della sua anima, sembrava vibrare e pulsare come se il giardino stesso avesse un cuore, il cui battito si propagava nel mondo, come le onde circolari generate da un sasso lanciato nell’acqua. Un cuore che batteva, ogni notte con più intensità, da quando lei era riuscita a penetrare all’interno.
Ginny corse verso l’entrata del giardino e rivolse il consueto, infantile, cenno di saluto ai due severi gargoyle, nerissimi e lucenti sullo sfondo verde scuro delle chiome degli alberi. La mano corse alla tasca dove giaceva il coltellino a serramanico, preparandosi a pagare il dazio di sangue richiesto per entrare; ma nel momento stesso in cui avvicinava al dito la punta affilata del coltello, la cortina di fiori si spalancò lentamente, da sola, con un mormorio compiaciuto. La ragazza trattenne bruscamente il fiato, poi i suoi occhi si posarono sulla figura pallida di Malfoy in piedi di fronte a lei, appena al di là della soglia fiorita. Nella mano destra stringeva un rasoio dalla lama macchiata di sangue, mentre dalla mano sinistra stretta a pugno, colavano inesorabili gocce scarlatte – il taglio sul palmo, preciso e doloroso, involontario simbolo di un voto solenne. (*)
“Credo che apprezzino il sangue di chiunque, non soltanto il tuo” mormorò Draco.
Ginny mosse un primo, incerto, passo verso di lui, e poi un secondo, quello necessario per varcare completamente la soglia ed entrare nel giardino. La cortina di fiori si richiuse alle sue spalle con un fruscio melodioso.
“Due è poco per dire chiunque” rispose, con voce sommessa e tranquilla.
La corta barba incolta era scomparsa dal viso di Draco, rivelando i suoi lineamenti ancora fini di ragazzino. I gelidi occhi chiari riflettevano la poca luce della sera in singolari bagliori argentei. Con un unico taglio netto del rasoio si era anche accorciato i capelli, eliminando quasi completamente l’arrogante somiglianza col padre… Ciocche bionde, lucide e pulite, ricadevano ora morbide ai lati del viso, sfiorandogli le orecchie.
Le fate presero a ronzare in quell’esatto momento, interrompendo l’imbarazzante silenzio che si era creato. Volavano sugli archi carichi di fiori, veloci fiammelle di mille diversi colori, dipingendo traiettorie ricurve e ingarbugliate, per poi fermarsi a mezz’aria, ognuna immobile, come in una formazione definita da tempo. Nel giro di qualche secondo una parola di luce prese forma nell’aria, proprio al di sopra del primo degli archi che definivano il sentiero: failte.
Benvenuta.

Ginny chinò il capo, grata ed emozionata. Il giardino stesso, attraverso i suoi abitanti, le stava riconoscendo il privilegio di entrare in quel luogo magico: non doveva più sentirsi un’intrusa. “Go raibh maith agat. (**)” mormorò in uno stentato gaelico.
Le fate esplosero in un ronzio felice e si dispersero dando vita a un curioso e multicolore fuoco d’artificio.

“Nell’aria aleggiava il suono di un’arpa. La luce obliqua inondava la terra di oro e di silenzio. Senza sapere perché, Morgana pensò: sto tornando a casa. Eppure non aveva mai visto quel luogo fatato.”
Marion Zimmer Bradley
“Le nebbie di Avalon”

“Ma bene… anche la lingua delle fate sai parlare,” biascicò la voce freddamente ironica di Malfoy alle sue spalle. Ginny si voltò per guardarlo in faccia.
“Era gaelico,” spiegò, “la padrona di questo giardino era irlandese di nascita. Non mi sorprende che il giardino stesso parli questa lingua.”
“E tu conosci il gaelico… ma che cultura, Weasley” ghignò Malfoy, con una punta della vecchio sarcasmo che fece accigliare Ginny.
“Si da il caso che mia madre sia irlandese” disse, voltandogli le spalle e avviandosi verso il gazebo.
Quando scostò le liane di gelsomino per entrare, Draco era alle sue spalle, silenzioso come un gatto. Ginny aggrottò la fronte: quel suo muoversi così, senza produrre alcun suono, avrebbe iniziato a darle sui nervi col tempo.
“Come stai?” gli chiese.
Per tutta risposta Draco mosse la spalla: il braccio teso descrisse un ampio arco davanti a lui ma si bloccò in posizione quasi verticale.
“Un po’ meglio” concesse, ma nei suoi occhi si leggeva una stizza per non essere già completamente guarito, che fece quasi sorridere Ginny.
“Fammi vedere.”
Draco si sedette e si tolse la maglia con un po’ di fatica. Mentre Ginny iniziava a svolgere le bende, lui si schiarì la voce nel modo tipico di qualcuno che cerca qualcosa da dire ma non è più abituato a far conversazione. Merlino solo sapeva da quanto tempo non chiacchierava con anima viva.
“Hai… hai detto che questo era il giardino di un’irlandese?”
“Isanhild. È chiamato il Giardino dei Fiori Notturni.”
“E…”
“Vuoi che ti racconti la storia?” lo interruppe Ginny, con una scintilla appena udibile di divertimento nella voce.
“C’è una storia?” ribattè il ragazzo.
“Come potrebbe un giardino che permette l’ingresso solo a chi è disposto a pagare un tributo di sangue non avere una storia, Malfoy?”

E così, mentre svolgeva e riavvolgeva lentamente le bende, Ginny raccontò a Draco ciò che sapeva e ciò che molti credevano della storia di Isanhild e Salazar e del giardino che nessuno era mai riuscito ad aprire. Parlando, spiava il viso calmo del ragazzo e la sua espressione attenta, chiedendosi chi poteva mai aver ucciso il ragazzino arrogante che solo pochi anni prima aveva odiato… o dove si nascondeva a quel tempo la gentilezza che notava ora.
Al termine della storia Draco annuì, in silenzio.
“Circolavano leggende sul Fondatore e una donna misteriosa, quando ero a Serpeverde. Era divertente riportarle per prendersi gioco delle altre Case…”, inaspettatamente il ragazzo sorrise, gli occhi fissi su qualche ricordo che solo lui poteva vedere, “alcune leggende dicevano che Godric Griffyndor avesse scacciato Salazar per gelosia di una donna: pensa, il puro di cuore per eccellenza che marcisce di invidia per la donna di un altro.”
“Gli usignoli cantano, le capre pascolano e gli umani inventano favole…” mormorò Ginny.
“E questa da dove esce?” chiese Draco con una breve risata.
Sentirlo ridere fu un piccolo shock per Ginny, che scosse la testa, imbarazzata e confusa.
“Un amico…” disse, distogliendo gli occhi e concentrandosi sul bendaggio ormai terminato. “Hai preso la pozione, vero?”
“Non trattarmi come uno dei bambini tuoi amici, Weasley” la gelò. Il sorriso era sparito completamente. In un attimo.
Ginny alzò le mani, e si allontanò da lui. Come faceva una persona ad essere così volubile? Un secondo prima stava ridendo… ridendo! Era bastata una parola, e già lui tornava a farle cadere addosso un gelido disprezzo.

“Tutto ciò che ricordo è che eri un prepotente viziato che mi bruciava i capelli, da bambina.”
From “Robin Hood – Principe dei Ladri” (film, 1991)

“Ok… io torno al castello, Malfoy. Nella borsa c’è da mangiare. Comunque non sei costretto a restare qui, puoi uscire, visto che il giardino si apre anche per te. Non sono nessuno per trattenerti qui.”
La sua voce era tornata piatta e atona, come lo era stata la prima notte e in quel momento, senza spiegazione alcuna, Draco sentì che non poteva sopportarlo.
“No, aspetta…”
Ginny era già sui gradini di pietra, e si voltò a guardarlo attraverso le foglie del gelsomino. Draco tese una mano, e la piega amara delle sue labbra rivelava quanto costasse al suo orgoglio implorarla di non scappare - o quanto crudelmente quell’orgoglio fosse stato piegato da tempo.
“Non puoi… restare?”
La ragazza restò immobile, intorpidita dalla sensazione che un incantesimo stesse agendo su di loro. “Posso restare.”
Fu un mormorio quasi inudibile, ma il gesto stranamente fiducioso con cui posò la propria mano su quella di Draco, era in grado di dire più di mille parole. Di nuovo, fare un passo per avvicinarsi a lui le costò la fatica necessaria a rompere mura ben più solide di quelle di pietra: diffidenza, paura, pregiudizio… imbarazzo. Sotto le dita sentì il metallo freddo che cingeva l’anulare della mano di Draco e, confusa, sgusciò via dalla sua stretta, grata all’oscurità che nascondeva il sangue che le era affluito al viso.
Si sedettero sull’altalena che, sospinta dal loro peso, cominciò a muoversi, cigolando. Alcuni fiori bianchi del gelsomino iniziavano a sbocciare e le liane cariche di boccioli profumati sfioravano i loro visi. Ginny raccolse le ginocchia al petto, circondandole con le braccia nude; al polso luccicava un braccialetto di fili intrecciati e piccolissimi pendenti di cristallo a forma di mezzaluna – un vecchio regalo di Hermione – i cui bagliori attiravano le minuscole fate curiose.
“Allora… il tuo Potter era ferito ieri sera?” chiese Draco, fissando lo sguardo su quel bracciale.
Le dita di Ginny si contrassero appena, per rilassarsi immediatamente nell’immobilità priva di sentimento che da tempo costituiva la sua maschera.
“No. E ti ho già detto che non è il mio Potter,” mormorò, “sta con Luna. Da più di un anno.”
Draco alzò un sopracciglio.
“Che io mi ricordi, si era sempre pensato che la ragazza di Potter fossi tu. Era scontato.”
Ginny voltò la testa e sorrise amaramente.
“Magari era troppo scontato.”
“Per te lo era?”
“Che importanza può avere ormai…”sospirò la ragazza, lo sguardo perso sui riccioli di luce dipinti nell’aria dal volo delle fate. Senza rendersene conto si ritrovò a parlare di qualcosa a cui non aveva nemmeno il coraggio di pensare da tanti mesi. “Quando i mangiamorte hanno attaccato il quartier generale hanno ucciso tanti di noi, anche… anche mio padre. E Ron è rimasto colpito da una maledizione, non si è più svegliato, è in… coma da quasi due anni. Harry si sentiva responsabile, ma io non ero in condizioni di stargli vicino. C’era la mia famiglia, o quel che restava della mia famiglia, che aveva bisogno di me. Luna c’è stata per lui, al momento giusto. Io…” si interruppe, per inghiottire il nodo alla gola che le stava bloccando il respiro, “forse io ed Harry saremmo rimasti insieme se non ci fosse stata questa guerra, ma così… è andata com’è andata. Ormai non posso più farci nulla.”
Ginny aveva terminato precipitosamente, ripiombando di botto in un silenzio angosciato. Non aveva mai raccontato a nessuno com’era andata tra lei ed Harry: non ce n’era mai stato bisogno perché tutti sapevano, c’erano, avevano visto. Non avrebbe mai creduto di essere in grado di riassumere in così poche parole tutto ciò che l’aveva portata ad essere la donna che era. Qualcosa in quella situazione – il giardino, Draco… o entrambi – le aveva reso semplice il… raccontare. E per una volta non c’erano state lacrime, accuse implicite o rimpianti.
Draco annuì in silenzio. Era strano come, con quel gesto, riuscisse a comunicare di aver realmente capito, di aver afferrato il senso, il dolore sottinteso in quel breve e frammentato racconto. Lo sguardo fisso davanti a se, giocherellava distrattamente con l’anello.
“Abbiamo vent’anni… le storie dovrebbero finire perché i sentimenti sono frivoli, non per colpa della guerra e della morte.”
C’era una tristezza così profonda in quelle parole, che Ginny non potè trattenersi e le parole le rotolarono fuori dalle labbra prima che potesse trattenerle.
“Sei… eri sposato?”
Le mani di Draco si irrigidirono, congelate a mezz’aria; lentamente abbassò lo sguardo sulla fede di metallo bianco, semplice e sottile.
“è morta” disse.
Ginny trattenne il respiro più rumorosamente di quanto volesse.
“Scusami. Non avrei dovuto chiedere” ammise, con gentilezza.
Draco alzò gli occhi su di lei e le rivolse uno strano sorriso, amaro ma rassicurante.
“Non preoccuparti. Siamo pari” le disse, “dopo quello che… è successo alla fine del sesto anno, sono scappato, mi sono nascosto qua e la per mesi. Il tradimento di Piton aveva attirato l’attenzione dei magiamorte e dell’Ordine, e tutti hanno finito semplicemente con lo scordarsi di me. Sono riuscito a contattare Pansy per dirle che ero vivo… e lei ha deciso di seguirmi . Non avrei voluto, ma se l’avessi lasciata qui suo padre ne avrebbe fatto una mangiamorte, con o senza il suo consenso. E Pansy non voleva, davvero.”
Ginny annuì. Ricordò la ragazzina arrogante dai lunghi capelli neri perfettamente acconciati, che l’aveva guardata con disprezzo dall’alto del suo status di figlia dell’alta società, con quel viso duro, e gli occhi truccati stretti in un’espressione di orgoglio. Una nuova immagine le balenava nella mente, un’immagine che non poteva appartenerle: Pansy Parkinson, vestita più semplicemente, i capelli spettinati al vento che incorniciavano e addolcivano i lineamenti altrimenti troppo marcati, enfatizzandone invece l’estrema eleganza e regolarità… il sole scintillava sul mare in lontananza, ai piedi della scogliera battuta dal vento, e un sorriso alieno socchiudeva le labbra della donna che Ginny non poteva assolutamente conoscere. Ancora una volta Ginny si sentì in balìa di qualcosa, qualcosa nel giardino in grado di influenzare la mente di chi entrava, forse un residuo della magia di Isanhild… forse… ma quel pensiero, quel ricordo, di certo non poteva appartenerle.
“A 17 anni, Pansy aveva ereditato dei terreni in Galles da sua madre, senza che suo padre ne fosse a conoscenza. Ci siamo nascosti in una casa sulla scogliera e ci siamo sposati,” continuò Draco, come parlando a se stesso, “legalmente. Se mi fosse successo qualcosa non volevo che lei si trovasse nelle mani della sua famiglia… avrebbe contattato l’Ordine, sarebbe venuta da voi.”
Echi di una rabbia a lungo repressa risuonavano nelle sue parole frettolose, nelle frasi smozzicate di chi non sa come fare a raccontare qualcosa che nemmeno in una vita si potrebbe comprendere. Ginny non avrebbe saputo dire se desiderava ascoltare il resto, ma sembrava che tanto dolore nel cuore di Draco smaniasse di essere lasciato libero di uscire, che la ragazza non potè fare altro che restare immobile e zitta, in attesa. Cercò di immaginare cosa avesse voluto dire per i due fuggitivi, sapere almeno di essere insieme, di poter prendersi cura l’uno dell’altra… era più di quanto fosse concesso a Ron ed Hermione. Era il motivo per cui Harry stava con Luna: per avere qualcuno.
“Ci hanno trovati sei mesi fa. C’era anche suo padre. Era sconvolto, del fatto che ci fossimo sposati e che lei avesse mollato tutto per… per me. Erano venuti per portarmi via, da Voldemort, per farmi giustiziare, mi avevano già immobilizzato… ero spacciato. Ma quando ha visto sua figlia e l’anello, Parkinson ha… dato di matto. Voleva portarsela via, far annullare il matrimonio e costringerla a fare quello che voleva, e hanno iniziato a urlare e combattere. Pansy gli ha detto che avrebbe preferito morire piuttosto che tornare a casa da lui, allora lui ha riso e le ha detto che l’avrebbe accontentata. Ma lei non gliene ha lasciato il tempo.”

Lo sguardo angosciato e implorante che balenava in quegli occhi scuri, eppure, allo stesso tempo la fierezza che aveva ancora in quel mento sollevato, nella postura delle spalle, spavalda, da nobildonna orgogliosa… fino alla fine. Lo aveva guardato negli occhi, in quell’istante lunghissimo, nell’attesa che il padre le si avvicinasse troppo furioso per intuire cosa stava per fare. Le labbra di lei avevano mormorato qualcosa, senza emettere alcun suono… “ti amo”, “perdonami”, “addio”… forse una, forse tutte queste cose insieme. La verità sarebbe morta con lei. E prima che chiunque potesse raggiungerla o fermarla, Pansy si era lanciata nel vuoto dalla finestra alle proprie spalle. La finestra della torretta a picco sulla scogliera, sul mare agitato e crudele che, decine di metri sotto di loro, si infrangeva sulle rocce. (***)
L’ululato del vento si era confuso con l’urlo disumano di Draco e poi, per fortuna, i ricordi si facevano confusi.

Ginny vide l’angoscia negli occhi del ragazzo, mentre lui riviveva quei ricordi, ormai incurante di chi ci fosse ad ascoltarlo. Il tocco della sua mano su quella di lui – istinto che portava a cercare il contatto, a offrire conforto che le parole non erano in grado di esprimere - sorprese entrambi. Lo sgarbato “non compatirmi” , che Ginny si aspettava, non arrivò. Prima che potesse rendersene conto una domanda le rotolò fuori dalle labbra, una domanda che sarebbe suonata stupida agli orecchi di chiunque, dovunque… ma non a loro, non in quel giardino.
“La amavi?”
Una domanda terribile proprio perché terribilmente semplice.
I lineamenti di Draco non tradirono sconvolgimento o rabbia, erano solo remoti, come a vagliare le innumerevoli risposte che nei mesi di vagabondaggi solitari aveva elaborato, una dopo l’altra, per cercare quella che più si avvicinasse alla crudele realtà.
“Odiavo la mia solitudine,” bisbigliò alla fine. “Lei la spazzava via.”

Ginny distese le gambe, osservando un fiore bianco di gelsomino che le era caduto sulla gonna - una piccolissima stellina bianca dalle punte mozzate, come ad impedirle di brillare. Draco si era alzato in piedi e stava fissando, senza vederla, la cortina carica di boccioli che li separava dal mondo.
“Come sei scappato?” gli chiese.
Il ragazzo scosse le spalle.
“Non ricordo esattamente. Credo che fossero sconvolti dal suicidio di Pansy, devo essermi liberato in qualche modo. In un certo senso è stata lei a darmi l’opportunità di scappare.”
“credi che l’abbia fatto per quello?”
“Non lo so.” Draco si girò a guardarla, e questa volta la luce nei suoi occhi era dura, vendicativa, intensa. “Spero di no. Ma la pagheranno comunque.”
Toccata dalla rabbia di cui quelle tre parole erano intrise , fu Ginny ad alzarsi ed avvicinarsi a lui.
“è questo che sei venuto a cercare? La vendetta?”
Draco la gelò con uno sguardo obliquo.
“No. Quella la avrò comunque, alla fine” disse. “Non so perché sono venuto qui. Non posso vivere tra i babbani, non ne sono capace. Volevo… tornare a casa, suppongo. Non avevo altra scelta, per cercare di restare vivo. Ma entrare ad Hogwarts è un’impresa più complicata di quanto sembri, la Foresta proibita mi è sembrato il male minore. Non avevo calcolato i centauri.”
In uno dei suoi straordinariamente repentini cambi di espressione, Draco aveva sfoderato un ghigno accattivante. Ginny scosse la testa.
“Sei stato fortunato. Ti avrebbero fatto a pezzi” lo ammonì, perdendo un po’ della sua malinconica immobilità: le labbra si incurvarono in una parvenza di sorriso, mentre gli occhi lo scrutavano ancora un po’ preoccupati. “Cos’hai intenzione di dire agli altri?” bisbigliò.
“Non so nemmeno questo” sospirò lui, con aria assente, “immagino che mi verrà in mente qualcosa. Questo luogo aiuta a pensare… rimani un altro po’.”
La rossa chinò il capo, a corto di parole.
“Per favore” aggiunse Draco, educatamente.
“All’alba dovrò andarmene” lo avvertì Ginny.
“All’alba non ci sarà più vita in questo luogo…”

“I remember it was long ago
But when I think of her I feel it grow.
Something begs me to come home again,
Something I can hardly stand.”
“Anywhere” from “Avantasia – The Metal Opera, part II” (2002)

Come la notte prima, Draco l’aveva accompagnata all’uscita ed era rimasto a fissarla al di là di quella soglia invisibile, finchè le grandi foglie cuoriformi non si erano intromesse, separando la loro esistenza per tutta la durata delle ore di luce.
Ginny respirò a pieni polmoni nella luce rosata dell’alba, che era in grado di trasformare il pendio della collina e il castello stesso in un paesaggio da fiaba. Alle sue spalle, un’altra fiaba, una favola oscura e misteriosa, stava volgendo al suo finale per cedere il passo ai luminosi racconti del giorno: le campanule scarlatte si chiusero lentamente, in un brusio che conteneva la stessa stanchezza con cui gli occhi di Ginny, cerchiati dalla veglia, avrebbero affrontato l’intera giornata. E aspettato la notte, di nuovo.
Abbassò lo sguardo sul bracciale di rami di gelsomino che aveva intrecciato da qualche parte, quella notte, mentre colmava le lacune di Draco su ciò che era successo negli ultimi due anni, mentre lui era lontano. Da qualche parte, quella notte … quella notte in cui si era trovata a ridere, e a trattenere le lacrime; a raccontare, e ad ascoltare a sua volta, il respiro rotto dall’emozione. Quella notte in cui aveva bevuto alla fonte del giardino un’acqua che aveva il sapore dolce e ferroso delle sorgenti di montagna. Quella notte in cui aveva avvertito su di se tutta la magia del luogo di quello strano legame nascente, in cui si era trovata ad incantarsi davanti al bagliore argenteo che l’oscurità riusciva a donare agli occhi di Draco Malfoy.
Dagli occhi di Ginny traboccarono involontarie lacrime amare, mentre sollevava il viso al cielo fin troppo sereno.
“Sta funzionando, Dèi, siete contenti adesso?!” mormorò, con rabbia, “e che ne sarà di me dopo?”
Soltanto una coltre di afa innaturale le rispose dal cielo. Non un soffio di brezza le agitava i capelli. Con un presagio di tempesta nella mente inquieta, Ginny si incamminò verso il castello.

“Eppure, anche se il cielo era azzurro e senza nubi, da lontano giungeva il brontolio del tuono e la stessa aria pareva tendersi nell’anticipazione della tempesta.”
Marion Zimmer Bradley
“La Signora delle Tempeste”

**************

(*) Riferimento al film “Robin Hood, il principe dei ladri” (quello con Kevin Costner, per intenderci), nella scena in cui lui giura vendetta sulla tomba del padre tagliandosi il palmo della mano e stringendola a pugno per far uscire il sangue. Quanto di più melodrammatico il cinema degli anni novanta possa offrire.
(**) Praticamente un poema per dire soltanto: “grazie”. Non sono nemmeno sicura di averlo scritto bene. Failte invece vuol dire “benvenuti”. Il gaelico è la lingua tradizionale irlandese. L’intera scena mi è stata ispirata da una frase tratta dalla “Signora di Avalon” (MZB): “…i Faerie sono spiriti che parlano per conto di tutto ciò che in natura non ha voce propria…”
(***) Riferimento al suicidio di Milady de Winter dalla scogliera, nel film “I Tre Moschettieri” del 1993.

Come al solito vi ringrazio tutte e vi mando un bacio enorme! Mi sono accorta che l'interesse è un po' calato, rispetto ai primi capitoli... se la storia sta diventando lenta o ci sono delle cose che non vi piacciono, fatemelo sapere!
Saty: come sempre sei la più veloce e la più approfondita! (And the winner is…) Sai perfettamente quanto mi facciano piacere le tue recensioni… ti ho già risposto ampiamente, ti mando un bacione!!!!!
Thaiassa: grazie!!!!
seven: molto interessante la tua analisi dei personaggi, sono curiosa di sapere che effetto ti ha fatto Draco dopo questa confessione… sempre fantastico riconoscere adepte della Setta di Domna Marion in giro per il mondo!
Magical_Illusion: se mai scriverai questi spunt fammelo sapere, sarò felice di leggere! Baci e grazie!
Seiryu: lo spero veramente! E spero di coinvolgerti sempre più! Grazie, smack!
_LeL_: grazie! Alla prossima!!!
Fenrir: le recensioni di chi non aprrezza il genere di storia ma riesce lo stesso a trovare qualcosa di bello in essa sono tra le più preziose! Spero che col tempo continui a piacerti! Grazie!
Harianne: credo che il Difensore e il Figlio dei Cento Re se ne staranno sul Tor dove hanno lasciato le penne, il continuo della storia sarà molto pi frivolo, sebbene forse ci saranno richiami al mito arturiano che ti piaceranno (il Pendragon farà capolino in qualche modo…) Anche se non hai tempo di recensire, mi fa piacere sapere che leggi! Un bacio! (PS: hai poi letto Trapped? Mi farebbe piacere ricevere un’impressione anche solo di due parole se trovi un minuto, quella storia è un po’ la mia prediletta…) Grazie mille!

In fondo lascio un bacio specialissimo per una beta d’eccezione, che sta facendo un lavoro meraviglioso: se questa storia va avanti ed è corretta lo si deve in grandissima parte a lei! Ti voglio bene, chiya!

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Capitolo 7
*** Storm in heaven ***


CAPITOLO 7: STORM IN HEAVEN

E fu una tempesta come raramente ne avevamo viste, là sulle Highlands.

A mezzogiorno gocce di sudore imperlavano la fronte: una coltre di afa, umida e irrespirabile era scesa sulle colline e non un alito di vento muoveva le foglie. Il cielo era azzurro e privo di nubi, ma la sua limpidezza era offuscata da un velo di nebbiolina bianca.
Il primo tuono lontano giunse inaspettato, spaccando l’aria pesante come un sasso su una lastra di cristallo opaco. Incredibilmente veloce anche per un temporale estivo, la nebbiolina che aveva velato il cielo, si trasformò in nuvole basse, pesanti e grigiastre. A Nord-Est il cielo iniziò a farsi scuro, e grosse nubi nere salirono dall’orizzonte con la violenza di una cavalcata di valchirie.
Uscii all’aperto e una folata di vento freddo, improvvisa nell’aria che fino a poco prima era immobile e stagnante, gelò le gocce di sudore sulla schiena, facendomi rabbrividire. Alzai lo sguardo verso il castello. Seamus e Luna planarono sulle torri in groppa ai thestral, ed atterrarono in fretta con grida agitate: nella direzione da cui erano venuti le nubi lampeggiavano di fulmini in attesa di essere scaricati. Sulla soglia del grande portone misi a fuoco la figura di Ginny, immobile nel vento che agitava l’erba del pendio della collina come un immenso mare verde: aveva lo sguardo perso all’orizzonte, fisso nella direzione dei giardini di Hogwarts. Le folate di vento sempre più forti le scompigliavano i capelli sciolti, tanto che a tratti era impossibile vedere il suo viso, mortalmente pallido nella luce livida del pomeriggio. Un lampo si staccò da una nube e si abbattè sul parafulmine della torre Nord, che vorticava, impazzito, su se stesso; semi-accecata dalla luce improvvisa, intravidi Ginny sobbalzare e portarsi le mani al viso. Mentre il rombo del tuono faceva tremare le fondamenta della casa, Harry uscì dal portone del castello e urlò qualcosa a Ginny, gesticolando come un ossesso. Non sentii, ma posso immaginare che le stesse strillando di non restare all’esterno come una pazza. Per tutta risposta Ginny si lanciò a rotta di collo sulla discesa della collina, il vestito leggero che svolazzava nel vento, per arrivare a cadere in ginocchio davanti ai gradini di casa mia.
Le prime grosse gocce di pioggia avevano iniziato a cadere dal cielo che ormai era buio quasi come la notte, mentre facevo entrare Ginny in casa e sprangavo la porta di legno contro il vento pressante.

Fu un pomeriggio lungo e tedioso. Ginny rabbrividiva nel suo abito estivo, ma si ostinava a non indossare il maglione che le avevo appoggiato di fianco; sussultava ad ogni tuono che faceva tremare i vetri delle finestre e guardava con un misto di angoscia e terrore la pioggia battente che non accennava a smettere. A turno, senza bisogno di dire una parola, continuavamo a versarci a vicenda tazze di tè bollente.
Il frusciare delle pagine del libro, che per me era così rassicurante, si confondeva nell’ululato del vento attraverso gli alberi della Foresta Proibita. Ginny guardava le pagine senza vederle e nemmeno io riuscivo a concentrarmi: era come se la sua angoscia, di cui non riuscivo a capire la ragione, si emanasse da lei, prendendomi la gola, mozzandomi il fiato. Eppure non riuscivo a parlarle, a chiederle cosa la stesse terrorizzando a quel punto. Fu quasi un sollievo quando si alzò per andare a controllare Ron.
Dopo quasi un’ora, vedendo che non tornava, preparai una tazza di caffè e aprii la porta della stanza. La trovai immobile, seduta sul bordo del letto, con una mano teneva quella inerte del fratello, mentre lo sguardo era lontano, perso al di là della finestra illuminata ad intermittenza dai fulmini, verso Ovest. Verso i giardini di Hogwarts.

“Doveva essere quella specie di ruggito sordo, minaccioso, che turbinava intorno alla casa, come se un gigante invisibile picchiasse e battesse sui muri e sulle finestre nel tentativo di irrompere. Ma non sarebbe entrato…”
F.E.Burnett
“Il giardino segreto”

“Posso sapere cosa ti passa per la testa?” chiese Hermione.
Ginny sobbalzò, ma le rivolse subito un sorriso.
“Pensa se questi fulmini potessero far tornare indietro il tempo,” disse, cercando di dare alla propria voce un tono leggero, “pensa se con una scarica di energia magica tutto potesse tornare a com’era prima…”
La ragazza si interruppe ma le parole non dette aleggiarono nell’aria come arabeschi disegnati dal vapore che si alzava dalle tazze: prima che mio padre morisse, prima che Ron si addormentasse per sempre… prima che.
Hermione sospirò, mostrando una stanchezza che aggiungeva vent’anni a quegli occhi che faticavano per mettere a fuoco il filo di speranza, più sottile della seta di ragno, a cui si teneva aggrappata. “Ginny, ti prego, smettila. Dobbiamo riuscire ad andare avanti con quello che abbiamo, smettila di sognare cose impossibili…”
Già. Come se lei invece non avesse mai pregato con tutte le sue forze, prima di addormentarsi, di svegliarsi al mattino e scoprire che gli ultimi due anni erano stati soltanto un bruttissimo sogno.
Ginny scosse la testa.
Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita… (*)” declamò.
“La Tempesta, di Shakespeare…” sorrise Hermione, riconoscendo il brano. Accennò col mento alla finestra battuta dalla pioggia incessante, “molto appropriato.”
L’altra ragazza le fece una linguaccia, e prese a sorseggiare il suo caffè. “Saccente…”
La sua mano sinistra non aveva ancora lasciato quella di Ron, e il palmo su cui spiccava ancora la ferita inferta dai fiori-guardiani rimaneva nascosto.
“Da cosa ti viene questa angoscia, Ginny? Che cosa c’è nel Giardino?”
Gli occhi di Ginny si spalancarono. Hermione non poteva aver visto nulla, lo sapeva, ma istintivamente lasciò la mano di Ron e nascose la propria tra le pieghe della gonna.
“Di che stai parlando?” chiese, sulla difensiva.
Hermione piegò la testa da un lato.
“Ti ho sentita che ne parlavi con Ron. Non l’ho fatto apposta, ma so che sei riuscita ad entrare. E ti vedo diventare sempre più solitaria. Non mangi mai, Calì mi ha detto che non dormi quasi mai nel tuo letto…”
“Non lo facevo nemmeno prima!” si difese Ginny, bruscamente.
“…ma gli ultimi giorni è come se tu non fossi nemmeno parte di questo mondo! Cosa c’è in quel giardino, Ginny?”
Ginny non negò questa volta, ma si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra.
“Il tramonto… è assurdo come sia possibile avvertire la fine del giorno e l’inizio della notte anche se non si può vedere il sole…” mormorò.
La finestra era rivolta ad Ovest: senza la tempesta, i bagliori aranciati del sole morente avrebbero acceso i capelli di Ginny di riflessi rubino così intensi da sembrare sanguigni. Ora, soltanto la luce azzurrognola e fredda del lampo si rifletteva sul pallore del suo viso.
“Ginny…” cominciò Hermione.
“Perché vuoi saperlo?” la interruppe l’altra.
“Ginny, ti prego! Credi ancora che voglia mettermi a pasticciare con la tua vita? Sei tu che mi preoccupi! Non so se il fatto che hai aperto il giardino ha a che fare con la profezia, e sinceramente non mi interessa in questo momento, se non perché riguarda te… e ti sta consumando! Non sei costretta ad affrontare tutto da sola, per Merlino!”
A quella sfuriata Ginny rispose soltanto con un sospiro e scosse la testa, con un mezzo sorriso che risultò più triste di un viso stravolto dal pianto.
“Nel giardino c’è magia, Hermione. Una magia che ti fa dire e fare cose che non avresti creduto possibili, che ti fa desiderare cose che non avresti immaginato e… prende i tuoi pensieri, che poi non sono più nemmeno tuoi. È una magia che non ti fa essere più padrona di te stessa.”
“Ginny…”
La rossa fece un gesto per interromperla e si avvicinò, lo sguardo implorante e angosciato ma, per la prima volta dopo tanto, tanto tempo, vivo e appassionato. Quella scintilla combattiva e dolce allo stesso tempo, che una volta brillava per Harry e per gli affetti più profondi, che si era spenta un giorno di fine estate quando la guerra le aveva portato via più di quanto potesse permettersi di perdere… quella luce brillava di nuovo, diversa, più adulta, più consapevole… più dolorosa. Ma non per questo meno intensa.
“Hermione, non posso dirti nulla. Non adesso. Ma devi promettermi una cosa, una cosa per me.
“Cosa?”
“Qualsiasi cosa succederà domani, dopodomani, tra un mese… non lo so… ma qualsiasi cosa succederà, devi promettermi di ricordarti che non ho avuto scelta, non ho potuto tirarmi indietro. Promettimi che non ti dimenticherai di questo.”
“Gin, ma cosa…”
“Non posso! Voglio solo che quando ti verrà l’istinto di prendermi a schiaffi o di uccidermi con le tue mani, tu ti ricordi che non avevo scampo. Per favore.
Hermione alzò le mani in segno di resa.
“Ok, promesso. Anche se mi piacerebbe sapere prima per che cosa sto promettendo di non spezzarti le ossa quando me ne verrà lo stimolo…” borbottò.
Ginny storse la bocca e sospirò di nuovo, frustrata.
“Ma non lo so! Era una misura preventiva…” tentò di scherzare, poi tornò seria. “Non so cosa significa la profezia di Calì, tu sei più brava di me in queste cose, ma la… la sento, so che riguardava davvero me. E non posso prevedere a cosa mi porterà, so solo che mi sento spingere verso una direzione, che non è quella che avrei voluto un tempo, dannazione non è quella che vorrei nemmeno adesso! ma è reale, è… il presente, ed è dentro quel giardino. E ho già visto che non riesco ad ignorarla, anche se potrebbe allontanarmi da tutti voi.”
Hermione annuì. Forse capiva, forse credeva di capire, o forse, per una volta… accettava.
“Ed è una direzione che senti di dover seguire da sola?”
“Si…” mormorò Ginny, con un nodo alla gola.
Herm allungò una mano a portare un ricciolo rosso dietro l’orecchio di Ginny; c’era soltanto un anno tra le due ragazze, ma Hermione appariva in quel momento quasi materna nei confronti dell’altra.
“Credo che tante cose ti abbiano già allontanata da noi in molti modi, Ginny. Ma posso prometterti che qualunque cosa farai cercherò di non mandarti via da me.”

“It won't be easy, you'll think it strange
When I try to explain how I feel
That I still need your love after all that I've done.
You won't believe me
All you will see is a girl you once knew
Although she's dressed up to the nines
At sixes and sevens with you.
I had to let it happen, I had to change,
Couldn't stay all my life down at heel
Looking out of the window, staying out of the sun.”
“Don’t cry for me, Argentina” from “Evita” (film, 1996)

La tempesta continuò a imperversare per tutta la notte, impedendoci di aprire anche solo uno spiraglio nella porta. Dormimmo poco, e anche quelle poche ore di sonno furono tormentate dal rombo del tuono, che richiamava echi di battaglie lontane, combattute o ancora da combattere. Chi era al castello raccontò di aver udito le grida di Calì levarsi sullo scroscio incessante della pioggia… ma le immagini dal futuro erano informi nel bagliore accecante dei lampi e, quella notte, nessuna profezia poté essere tradotta in parole.
La mattina successiva Harry affrontò la pioggia, e il vento che avrebbe potuto spazzare via un uomo ben più grosso di lui, per portarmi le pozioni necessarie a Ron. E per chiedermi se ritenevo che la tempesta fosse, in qualche modo, innaturale.
La notte in bianco e l’angoscia inspiegabile di Ginny, che si spandeva nella casa come una nebbia velenosa, avevano messo a dura prova la mia pazienza: non ero dell’umore adatto per ridimensionare con affetto e lusinghe la mania di persecuzione di Harry. Più freddamente di quanto intendessi gli risposi che, per quanto molesto, Voldemort non avrebbe ricavato nulla dal tapparci in casa per due giorni o dal bagnarci fino all’osso. E dubitavo che il soffitto nuvoloso di Hogwarts gli sarebbe caduto sulla testa mentre cenava (**).
Vidi Harry scandagliare gli angoli bui della stanza alla ricerca di Ginny, ma avevo scoperto da tempo che lei sembrava essere diventata in grado di nascondersi tra le ombre come un insetto spaventato e diventare praticamente invisibile.
“Ginny ha passato la notte qui” lasciai cadere con noncuranza, spiando la sua reazione.
Harry annuì, vagamente sollevato, e borbottò qualcosa a proposito del fatto che doveva tornare da Luna e dagli altri. Rafforzò l’incantesimo Impervius e uscì di corsa.
Mi sentivo stanca, un po’ come una madre esasperata da un figlio complicato nel pieno dell’adolescenza. Da quando avevo iniziato a sentirmi così vecchia, e così materna nei confronti di Harry e Ginny? A tratti riconoscevo la mia stessa angoscia nel loro cuore spezzato di bambini cresciuti troppo presto, ma a volte li vedevo come ragazzini bizzosi, troppo testardi per fare un passo l’uno nella direzione dell’altra.
Mi voltai, e Ginny era lì, come se ci fosse sempre stata.

Soltanto verso sera la pioggia e il vento iniziarono a quietarsi e al posto della luce livida dei fulmini, il bagliore rossastro del tramonto traspariva al di là delle nubi. Senza dire nulla, Ginny mi guardò come per pregarmi di capire senza bisogno di fare domande, e uscì di corsa nella pioggia leggera.
Passò la notte intera, e un’alba luminosa e frizzante annunciò l’arrivo di una mattinata assolata. Nessuno vide Ginny per tutta la giornata. Quasi tutti affermarono di non vederla da prima della tempesta. Dov’era andata la notte prima? E perché non era tornata?
Era quasi il tramonto quando l’ansia di Molly fu sufficiente per mobilitare l’intera Hogwarts: quasi tutto l’ordine, e anche alcuni drappelli di studenti, presero a setacciare il castello in lungo e in largo alla ricerca di Ginny.
Consapevole che Hogwarts non poteva essere rivoltata come un calzino da mani umane e che se Ginny non voleva essere trovata quello era esattamente il luogo ideale per nascondersi, mi diressi decisa verso lo studio di Minerva e chiamai il vecchio Phineas con un’autorità che non mi apparteneva. Sebbene non ne avessi alcun diritto, impartii l’ordine di svegliare ogni singolo ritratto, affresco o fantasma di Hogwarts perché ogni angolo venisse controllato, senza tralasciare anfratti segreti o stanze a scomparsa. Sorpreso, ma non offeso, dal mio tono autoritario, il vecchio preside sparì dietro la cornice, maledicendo tra sé la gioventù arrogante e gli adolescenti ribelli ed egocentrici.
Una parte di me sapeva che non l’avrebbero trovata all’interno delle mura. Ma l’altra parte di me, non si sarebbe mai perdonata di non aver tentato il tutto per tutto, per aiutare Molly. Così rimasi accanto alla finestra, lo sguardo perso sui giardini di Hogwarts, in attesa che Phineas tornasse a riferirmi le notizie che gli arrivavano dai vari piani del castello.
La profezia di Calì risuonava ancora nella mia testa: non le parole, ma l’ombra crudele e definitiva che aleggiava nel tono di voce con cui era stata pronunciata. Non sapevo chi pregare: se mai avevo creduto, avevo perso ogni fede nel momento in cui il sorriso e la presenza di Ron mi erano stati portati via… ma pregai, chiedendo che il destino non mi portasse via anche Ginny.

“Quando ci siamo conosciute mi è sembrato che il tuo destino fosse segnato e ti portasse fra noi. Ora lo sento con forza anche più grande. Ma non ti posso garantire che sarai felice, figliola.” “Non prevedo di esserlo, purché vi sia una ragione, uno scopo…” Caillean sospirò e le tese le braccia. Eilan si strinse a lei, e il nodo che le stringeva la gola si allentò mentre l’altra le accarezzava i capelli. “C’è sempre una ragione mia cara, anche se può trascorrere molto tempo prima che riusciamo a comprenderla.”
Marion Zimmer Bradley
“Le querce di Albion”

“Signorina Granger!” tuonò Phineas, palesemente scocciato, anche se cercava di trattenersi.
Hermione alzò lo sguardo su di lui, cacciando indietro i riccioli castani che coprivano gli occhi. La maglietta nera era talmente larga che le copriva i jeans consumati fino a metà coscia, e la scritta “Chudley Canons” era sbiadita e quasi illeggibile. Ad una prima occhiata poteva sembrare una ragazzina nei vestiti smessi del fratello, ma lo sguardo e l’atteggiamento erano già quelli di una donna di grande intelligenza e talento, sebbene non completamente consapevole dell’autorità che le apparteneva di diritto. Da un anno ormai, Minerva MacGrannitt delegava a lei alcuni dei suoi pressanti compiti di preside e professoressa, quasi stesse preparando un’erede per il tempo in cui la nuova generazione avrebbe avuto tra le mani il futuro di Hogwarts.
“L’avete trovata?” chiese, senza troppa speranza.
“No. Ma Theseus ha chiesto di parlare direttamente con lei.”
Lei. Una volta sarebbe stato semplicemente un tu-ragazzina-insolente.
“Theseus?”
“Il vecchio centauro. Al settimo piano, nel corridoio dei ritratti più antichi.”
“Va bene. Vado.”

“Hermione…” salutò il vecchio centauro, con un ghigno sardonico.
Hermione non si fece intimidire e si avvicinò alla vecchissima tela. La coda bianca del centauro si agitava nervosamente sullo sfondo silvestre.
“Theseus.”
“Persino le pietre mormorano in questo castello, Miss Granger… grande strega sussurrano da una parte, maga potente rispondono dall’altra,” sussurrò Theseus con aria derisoria, “allora mia cara piccola maga, cosa ti spinge a chiedere aiuto ai quadri e ai fantasmi dell’intera Hogwarts? La tua magia e la tua intelligenza non sono sufficienti a ritrovare tua sorella?”
“Ginny non è mia sorella” corresse Hermione, scioccamente.
“Sorella, o ben più che sorella… non è forse la tua famiglia questa che stai curando e proteggendo come mamma orsa coi suoi cuccioli?”
Hermione si accigliò e cacciò profondamente le mani nelle tasche dei pantaloni: non era necessario che anche quel vecchio mulo incartapecorito cercasse di farla sentire più vecchia dei suoi coetanei.
“Smettila di parlare per enigmi.”
“Vuoi davvero sapere dov’è la piccola Gwenwyfar? ” le chiese il vecchio con aria inquisitoria.
“So dov’è…” dovette ammettere Hermione.
“E allora cosa vuoi?”
“Sapere se è in pericolo. E se devo cercare di raggiungerla.”
“La risposta è no, alla seconda domanda. Nessuno può percorrere la strada di un altro.”
“Ma può camminare al suo fianco per sostenerlo” ribattè la ragazza. Se la logica era il terreno su cui il centauro voleva punzecchiarla avrebbe trovato pane per i suoi denti. Theseus sorrise, e gli occhi brillarono di divertimento distaccato.
“Si, piccola strega… ma solo quando il sentiero è largo abbastanza per lasciar passare due persone. E soltanto se l’altra persona non ha a sua volta un sentiero solitario da percorrere.”
“Su di me non è stata pronunciata alcuna profezia, vecchio!”
“Questo non significa che tu non abbia un ruolo da svolgere, ragazzina!” ritorse Theseus.
Hermione sospirò e cercò di mantenere la calma.
“Non è di me che stiamo parlando. Se sai qualcosa su Ginny ti prego di dirmelo, ho bisogno di sapere se sta correndo un pericolo.”
Vivere significa correre dei pericoli, mia cara Hermione. Dovresti capirlo meglio di chiunque altro.”
“So che Ginny è nel Giardino di Isanhild, e so che quel giardino ha qualcosa di magico. Me l’ha detto lei. Ma non è tornata questa mattina, non è tornata per tutto il giorno. Non ho tempo di ascoltare i tuoi vaneggiamenti. Quindi se hai qualcosa da dire…”
“Piantala, ragazzina. Tu hai chiesto aiuto al castello e io sono l’unico pezzo di tela in grado di darti una risposta che potresti capire. Immagino anche io che Ginevra sia nel giardino ora, sebbene non si sia confidata con me, e se vuoi sapere se il giardino le farà correre dei pericoli la risposta è si: chi è scelto per chiudere un cerchio è sempre in pericolo, perché il destino si trova a dover fare le cose più in fretta… gli eventi stanno per precipitare, anche se non mi stupisce che tu non sia in grado di leggerlo nelle stelle.”
“Cerchio?”
“Un cerchio di eventi che si è aperto tanto, tanto tempo fa. Una spaccatura che dovrà essere vissuta ancora per poi essere colmata. A volte è necessario ritornare all’inizio, per comprendere come arrivare alla fine.”
Hermione alzò gli occhi al cielo. Perché si era intestardita a volergli parlare? Erano dieci anni che bazzicava quadrupedi e ancora sperava di ottenere una risposta sensata a una domanda sensata?
“E qual è l’inizio?”
Theseus scosse la testa.
“Non puoi vederlo adesso. Ginevra sapeva quando e dove guardare, era nella sua natura, ma non è nella tua… dovunque vai, tu porti la luce della speranza, non sei in grado di guardare tra le ombre della notte.”
“Ci rinuncio, Theseus…” borbottò Hermione, muovendo le mani come a scacciare una mosca, “non ho più voglia di parlare di destino e profezie, non posso pensare che Ginny vada incontro volontariamente a una sorte tragica senza che nessuno possa tirarla fuori dai guai. Ti chiedo solo questo, e te lo chiedo con tutta la gentilezza di cui sono capace. Nel caso tu possa comprendere un sentimento così umano, sono preoccupata per Ginny: credi che dovrei cercare di entrare nel Giardino per vedere cosa le è successo?”
“Da centauro ti rispondo che non dovresti. Ma da vecchio quadro che ha visto tante cose ti dico che puoi provare. E anche riuscire, immagino” rispose Theseus, “ma… la domanda è: vorrai provare?”

“Ma non è ad Avalon, non è a Tintagel con Igraine, né alla corte di Lot nelle Orcadi. Dov’è dunque?”
Marion Zimmer Bradley
“Le nebbie di Avalon”

I bagliori rossi del tramonto le accarezzavano il viso mentre si addentrava nel labirinto fiorito e profumato dei giardini di Hogwarts; la mano tesa e la bacchetta posata su di essa a indicarle magicamente la direzione giusta, Hermione procedeva sicura tra i sentieri. Si ritrovò davanti al muro di grandi foglie cuoriformi, lucide e perfette che riflettevano gli ultimi raggi di sole della giornata.
Alzò lo sguardo: il muro era alto, di certo non era possibile scavalcarlo. Due imponenti colonne di pietra dovevano certamente delimitare l’entrata nel giardino, ma la pianta rampicante aveva invaso anche quella parte. Al di sopra delle colonne, due gargoyle di lucida ossidiana nera stavano a guardia di quel luogo magico e inespugnabile.
Hermione sorrise tra sé, ricordando un film che aveva visto da bambina in cui due gargoyle di pietra erano a guardia di due porte, una delle quali era quella corretta per proseguire nel labirinto. L’enigma giocava sul fatto che uno dei due guardiani era in grado di dire soltanto la verità, mentre l’altro poteva solo mentire. Ricordava di essere stata estremamente orgogliosa di aver trovato la corretta domanda da rivolgere ai guardiano prima della protagonista del film (***).
“Se ti chiedessi come fare ad entrare, potresti rispondere?” mormorò scherzosamente, rivolta a uno degli impassibili gargoyle.
In quel momento il trillo dell’usignolo si levò dalle cime degli alberi giganteschi del giardino, limpido e argentino. Una risata femminile, smorzata dalla vegetazione, gli fece eco al di là del muro, dolce e lontana come un sogno in una notte d’estate.
Hermione mosse un passo indietro, poi un altro, poi si girò per andarsene. Proprio mentre si allontanava, gli ultimi raggi di sole sparirono sotto l’orizzonte e le grandi campanule rosse iniziarono ad aprirsi, mormorando nella brezza lieve della sera… quasi avessero aspettato che l’intrusa se ne andasse, prima di schiudersi, svelando il loro segreto.

*****************

(*) William Shakespeare, “La Tempesta”. Atto IV, scena I. In inglese per me è fantastica: We are such stuff/As dreams are made on; and our little life/Is rounded with a sleep
(**) Riferimento a qyel pulcino di un fumetto americano che cerca di convincere tutti che il cielo ci sta cadendo sulla testa. Non mi ricordo come si chiama. Forse Chicken Little, ma non sono sicura…. Valeva la pena citarlo, per il gusto di dare ad Harry del pollo.
(***)“Labyrinth”, film del 1986. Ho già usato la colonna sonora diverse volte.

NdA: In realtà c’è anche un’altra citazione “sparsa” per il capitolo (nel senso che diversi punti e frasi fanno riferimento ad essa) ma solo chi ha letto attentamente tutto il ciclo di avalon comprensivo delle Luci di Atlantide può coglierla, perché è molto sottile. Quindi non mi dilungo per non annoiare gli altri.

RINGRAZIAMENTI:

Aurora: se continuo a far uso di ciò che la Bradley scrisse mi denunciano alla SIAE… eh eh eh. Grzie e ciao!!!
Thaiassa: grazie, sono contenta di riuscire a delineare bene questo aspetto del rapporto tra Draco e Ginny! Un bacio!
Magical_Illusion: ehilà! Spero che anche questo ti sia piaciuto! Grazie!
GIU: Draco di Robin Hood ha veramente poco, mi sa…. Ciao ciao!
Saty: mi hai fatto tornare in mente quando facevo leggere i capitoli di Trapped a Euridice: io le dicevo “…ma i corsivi sono così tristi!” “No, tesoro, è la storia intera che è da ulcera.” Ehm… non divaghiamo. Che tu ti chieda che margine di scelta hanno i protagonisti non mi stupisce, me lo aspettavo da te… ma mi conosci e sai che la profezia nasconde altro e di più. D’altra parte, è proprio quello che volevo si chiedessero i lettori, e la risposta è “non lo so”: nessuno sa se può agire sul destino, né tantomeno se questo destino esiste. Quindi sono domande al vento… ma so che a te piace farle. Mi piace tantissimo, come sempre ascoltare le tue elucubrazioni sui personaggi, e non vedo l’ora di sapere che ne pensi di questa tempesta e delle rivelazioni che ha portato! Un bacio!!!!
Fenrir: ti ringrazio davvero tanto per i complimenti. È bello veder apprezzato l’impegno e vedere colti aspetti secondari delle scene come l’equilibrio precario del rapporto tra Draco e Ginny… in fondo il passato non può sparire nel vento! Un grazie enorme, quindi! Baci!
Seiryu: coi fondi del caffè mia nonna ci concima le ortensie… forse è un uso più consono. Seriamente parlando… è una delle recensioni più belle in assoluto, perché QUELLA è proprio l’idea che volevo dare con Legend. Il titolo stesso lo dice (oltre ad essere un tamarrissimo film fantasy anni 80, cosa che mi fa andare assolutamente in estasi), in questa storia si mescolano le più belle leggende e favole romantiche. Ginny può essere la bella addormentata, in senso figurato, può essere la Morgana che ha trovato la sua Avalon dopo aver perso l’amore di Lancillotto per la bionda moglie di Artù, può essere la sirenetta di Andersen che desidera ciò che non può avere, e può essere Isotta dai capelli d’oro che cura il suo Tristano... in lei puoi vedere tante storie d’amore, se vuoi. Sapere di essere riuscita a dare quest’idea, che era ESATTAMENTE ciò che volevo, mi dà un piacere indescrivibile! Grazie davvero! Un bacio!
klaretta: quello che volevo, con Legend, era giocare con l’idea della predestinazione. Lascio perdere le mie idee personali a riguardo, ma credo sia interessante ragionare un po’ su questo, no? Se Ginny non avesse sentito la profezia, che ne avrebbe fatto di Draco? La profezia non implicava un legame di amore tra lei e il rinnegato, e allora perché Ginny sente di non avere scampo in quel senso? Il non essere più padroni di se stessi non fa parte proprio dell’innamoramento in sé? Io non ho le risposte, ma mi sono divertita a giocare su queste ambiguità mentre scrivevo… comunque Legend è una storia che può essere letta su più livelli: se non ti piace pensare alla questione del destino, credo che possa essere anche semplicemente una bella favola! Ciao!
Jennina: la storia è NATA per il giardino, o meglio dal mio personale sogno di giardino ideale… è normale che la descrizione di questo luogo fantastico la faccia da padrone nella storia, e sono contenta che colpisca. Mi piace la tua idea di Ginny, e si avvicina abbastanza all’idea che ho io di lei, sebbene credo che ci sia più forza in lei di quella che vuole mostrare. Anche il tuo Draco è più o meno quello che volevo mostrare (oddio, magari non proprio così tanto pulcino bagnato…. Anche se adesso bagnato lo è davvero!) Grazie per essere passata a commentare, mi fa sempre piacere la tua opinione! Baci!
_LeL_: mi limito a pescare del meglio che il fantasy offre, e chi ama il fantasy non può disdegnare i draghi, no? Comunque mi fa piacere azzeccare i tuoi gusti. Ciao e grazie!
seven: la tua recensione è stata molto bella da leggere, quindi non pensare di avermi annoiata. È strano venire a sapere come gli altri vedono i miei personaggi: vedi, nemmeno io li conosco bene, non all’inizio della storia… mi piace molto la tua interpretazione del ritorno di Draco, che in effetti coincide abbastanza con la visione che ho di lui in “Legend”. Si, è vero, nemmeno io credo che Draco amasse Pansy, ma non sarei così sicura che Pansy sarebbe stata una scelta approvata dalle famiglie, così come non sono così sicura che lei si sia suicidata per farlo scappare… secondo me potrebbe anche essere che, una volta imprigionato Draco o peggio, lei sarebbe rimasta sola, e non se l’è sentita di affrontarlo. Il tema di Draco e Ginny come simbolo del riappacificarsi di due case rivali è un tema un po’ visto e, come leggerai in seguito, il simbolismo sul loro amore andrà ben oltre questa semplice spiegazione… ma non voglio rovinarti la sorpresa! Vedo che a te non devasta psicologicamente l’idea di un destino che tira i fili dell’esistenza dei protagonisti, per questo sono convinta che la storia continuerà a piacerti, e spero di non deluderti! Grazie davvero! Un bacio!

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Capitolo 8
*** Scent of Rain ***


Capitolo più corto e ad alto contenuto zuccherino. Sconsigliato a chi è a dieta per la prova costume.
L’ambientazione è parallela al capitolo precedente, ma racconta cosa succede a Ginny dopo essere sparita dalla casa di Hermione.
È probabile che per un paio di settimane non riesca ad aggiornare causa impegni lavorativi, ma vedrò quel che posso fare. Scusatemi.

Aggiungo un ringraziamento particolare come sempre alla mia beta, che tra pochi giorne compie pure gli anni! Tanti anguri anche se un po’ in anticipo, ti voglio bene, breda!!!

CAPITOLO 8: SCENT OF RAIN

“Ma perché Ginny non era uscita dal giardino quella notte?”
“Calma Sabine, calma. Ci sto arrivando…”

“…piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella…”
D’annunzio
“La pioggia nel pineto”

Il coltellino le scivolava dalle mani bagnate mentre cercava di praticarsi un taglio sul dito… era difficile in quel buio pesto e bagnato, senza la luna a splendere nel cielo. Poi finalmente la cortina si aprì per lasciarla passare.
All’interno del giardino l’odore della pioggia e dell’erba bagnata si confondeva con l’intenso profumo dei fiori; il gelsomino aveva raggiunto in poche ore il culmine della fioritura, esplodendo in una miriade di stelline bianche profumatissime… il gazebo era una macchia chiara alla fine del sentiero, rilucente delle migliaia di fate che trovavano riparo dalla pioggia tra le sue foglie.
La tempesta della notte precedente aveva fatto cadere quasi tutti i fiori del glicine che ora formavano una guida violetta al di sotto del tunnel creato dalla vegetazione. Ginny corse verso il gazebo, i piedi che scivolavano su quel profumato tappeto e i capelli umidi così appiccicati alla fronte da non riuscire a vedere quasi nulla.
Draco era steso sull’altalena, bagnato fradicio e pallido quanto un fantasma; era gelido, eppure e le labbra erano quasi cianotiche. Aprì leggermente gli occhi quando Ginny lo sollevò, abbracciandolo, ma non era cosciente.
L’istinto della giovane sembrava lavorare in piena autonomia, mentre alla sua mente pareva di osservare dall’esterno, quasi al rallentatore, le proprie mani che svestivano il ragazzo per poi rivestirlo con indumenti asciutti presi dal castello. Ormai la pioggia scendeva leggera, e l’intricato fogliame del gazebo offriva loro sufficiente riparo. Corse rapida alla sorgente e riempì un bicchiere d’acqua in cui lasciò cadere qualche goccia di una pozione che aveva in tasca, in una minuscola boccetta di cristallo. Dovette sollevare Draco di peso, sussurrandogli parole rassicuranti che lei stessa stentava a comprendere, per farglielo bere. Con fatica tolse di mezzo le coperte e il cuscino, resi pesantissimi dall’acqua di cui erano ormai impregnati, stese un lenzuolo asciutto e si sedette, tenendo la testa di Draco sulle ginocchia.
Vide le proprie mani accarezzargli la fronte e il viso che a poco a poco riprendeva colore. Non si era accorta di piangere e, razionalmente, non ne comprese la ragione… il cuore batteva furiosamente e sembrava fare da eco al rumore leggero della pioggia sulle foglie. Le poche gocce che riuscivano a penetrare la lussureggiante volta che li proteggeva, parevano raccogliere, scivolando sui fiori del gelsomino, il loro profumo intenso e cadevano sulla pelle come essenza appena estratta, forte e inebriante. In sottofondo, l’odore dolciastro e selvatico della terra bagnata e della vegetazione accarezzata dal vento.
Ginny respirò profondamente la fragranza della notte, lasciando che sciogliesse un poco il nodo di angoscia che le stringeva la gola dalla sera prima. Sentiva il corpo di Draco scaldarsi vicino al suo. Appoggiò la testa allo schienale di ferro dell’altalena e sentì tutta la stanchezza piombarle addosso di colpo: erano ormai ventiquattro ore che non chiudeva occhio, divorata da un’ansia che tendeva i muscoli del suo corpo come corde di violino per tutta la giornata; chiuse gli occhi e si assopì al rumore della pioggia che si stava quietando.

Scottava.
Doveva mancare qualche ora all’alba quando si svegliò per il calore della fronte di Draco contro le sue mani.
Si guardò intorno e una minima parte del suo cervello registrò che aveva smesso di piovere; qualche fata volava su di loro, illuminando appena la pelle un po’ arrossata del ragazzo addormentato sulle sue ginocchia. Draco aveva il respiro corto, e stava sudando: il principio di assideramento del giorno prima doveva essersi trasformato in febbre alta.
Sostenendogli la testa, si alzò e rovistò nel cesto che era lì, vicino all’altalena fin dalla prima notte: la pozione per far abbassare la febbre doveva essere ancora là dentro. Il ragazzo aveva le labbra riarse e Ginny faticò non poco a fargliene bere solo mezzo bicchiere.
Strappò un pezzo di benda da quelle che aveva preso per rifare la fasciatura alla spalla, e andò a immergerlo nell’acqua fresca della polla. Sullo specchio d’acqua si rifletteva il suo viso pallido circondato dalle minuscole luci delle fate: nell’oscurità il riflesso aveva un aspetto sovrannaturale. Poi lo straccio di tela emerse dall’acqua e cancellò il suo viso.
E di nuovo la sua concentrazione si rivolse a Draco, totalmente, e riprese ad osservare se stessa come una spettatrice, quasi che l’efficiente guaritrice fosse un’entità separata dalla Ginny emotiva e passionale, in grado di prendere il sopravvento nel momento della necessità.
Trascorse le ore interminabili e buie che precedono l’alba correndo di tanto in tanto verso la pozza a bagnare la pezzuola per rinfrescare la fronte di Draco, controllandogli la temperatura e cercando di farlo bere per impedirgli di disidratarsi.
Quando un’alba rosata rischiarò gli spicchi di cielo azzurro cupo che si intravedevano tra le chiome degli alberi, Ginny osservò i fiori scarlatti mormorare nel silenzio del giardino e riavvolgersi lentamente. Rivolse un’occhiata rammaricata alle alte colonne sormontate dai gargoyle, ma la sua mano rimase ferma sulla fronte di Draco che iniziava appena a rinfrescarsi. Inginocchiata sulla pietra ai piedi dell’altalena, la testa posata vicino alla spalla del ragazzo, si incantò nello spettacolo delle fate che, stancamente, volavano a nascondersi nelle corolle delle Belle di Notte che già si richiudevano come piccole alcove. Fu come se il giardino perdesse la vita nello spazio di un sospiro di addio, appena prima che i raggi del sole scavalcassero l’alto muro di cinta e inondassero l’interno di una luce che, riflettendosi sulla vegetazione rigogliosa, pareva quasi verdastra.
L’avrebbero cercata, si disse… e avrebbe dovuto trovare una spiegazione per la sua assenza. Ma in quel momento, e in quel luogo che ogni mattina moriva in silenzio per poi risorgere al calare del sole, non riusciva a preoccuparsene.
La febbre si stava abbassando e Draco ora dormiva più serenamente.
Si alzò per andare a bere e lavarsi il viso alla polla; aveva portato del cibo con sé la notte prima e, pur non avendo fame, si costrinse come ogni mattina a mangiare qualcosa. Si sgranchì le gambe curiosando in giro, ignorando le erbacce alte e incolte che le graffiavano le caviglie. Sopra a un muretto che un tempo doveva delimitare un’aiuola, un innocuo serpentello non più lungo dell’avambraccio di Ginny si riscaldava al primo sole; la ragazza sorrise.
“Il serpente nel giardino dell’Eden…” disse sottovoce, poi lo sguardo corse al ragazzo biondo addormentato qualche metro più in là. Scosse la testa e sospirò. “Mi sto cacciando in un bel guaio…”

“Serpents on the way to paradise -
dying for love, fighting for ages.
Serpents on their way to paradise -
raging with anger and pain for the cross.”
“Serpents in Paradise” from “Avantasia, The Metal Opera – Part I” (2001)

Il sole era già alto nel cielo quando Draco emerse dal mondo dei sogni; la luce, sebbene filtrata dalle fronde degli alberi e dal rigoglioso gelsomino, sembrava troppo vivida per i suoi occhi. Tolse con un gesto stizzito lo straccio fresco e bagnato che aveva sulla fronte e si guardò attorno, stringendo le palpebre: vide la testa rossa di Ginny appoggiata al sedile dell’altalena, vicino al proprio fianco e si sollevò, sconcertato.
Sentendo il movimento anche Ginny, accoccolata ai piedi dell’altalena, sollevò lo sguardo e incontrò i suoi occhi, con un sorriso sincero e sollevato. Draco si portò una mano alla testa, con una smorfia di dolore, ma cercò ugualmente di mettersi seduto. La ragazza fu subito al suo fianco.
“No, stai sdraiato” gli disse, “hai avuto la febbre alta.”
“è giorno… Weasley…” sussurrò lui, la gola troppo secca per riuscire a parlare.
Ginny gli porse il bicchiere pieno d’acqua, senza cercare di aiutarlo a bere.
“Stavi male, hai preso troppo freddo qui fuori, durante la tempesta…” gli spiegò, “sono venuta appena ho potuto, ma eri svenuto. Stamattina all’alba avevi ancora la febbre alta, e sono rimasta.”
Draco non sembrò capire. “Quando… quanto è durata la tempesta?”
“Una notte intera e tutto il giorno seguente. Questa notte pioveva un poco, ma siamo rimasti all’asciutto” rispose Ginny accennando alla volta di gelsomino. Attorno al polso aveva tre bracciali intrecciati, pieni di fiorellini bianchi stellati; li aveva fatti per passare il tempo, mentre Draco dormiva.
Il ragazzo abbassò lo sguardo sui vestiti e li toccò, notando che erano asciutti; vedendo che Ginny aveva distolto gli occhi, le guance leggermente imporporate, evitò di sollevare la questione.
“Che mal di testa…” si lamentò, sottovoce.
“Dovresti mangiare qualcosa” gli disse la ragazza, posandogli di nuovo una mano sulla fronte. La febbre sembrava scesa quasi completamente, ma era ancora molto pallido e gli occhi erano circondati da pesanti occhiaie. “Sei molto debole.”
Ginny gli porse il fagotto pieno di cibo e si alzò per riempire la brocca alla sorgente. Ritornando al gazebo, trovò Draco sollevato su un gomito che masticava svogliatamente un panino: lo sguardo sembrava riprendere piano piano un po’ di vitalità.
“Sei intrappolata qui” le disse, dopo qualche minuto.
Lei scrollò le spalle, senza rispondere.
“Grazie…” mormorò Draco.
Questa volta Ginny gli sorrise. “Tre o quattro anni fa non avrei mai creduto possibile che tu sapessi ringraziare.”
“Tre o quattro anni fa non saresti stata così lontana dalla verità” rispose lui, con la voce molto stanca.
“Riposati…” gli disse Ginny. Fece per allontanarsi di nuovo ma Draco la richiamò.
“No! Resta qui… non ho voglia di dormire.”
“Ma dovresti,” puntualizzò la voce calma ed efficiente della guaritrice.
Draco sogghignò appena, piegando la testa da un lato.
“Che vuoi fare, darmi un sonnifero? O una botta in testa?”
Anche la ragazza, suo malgrado si ritrovò a sorridere.
“Ragazzino viziato…”, borbottò tra sé, sedendosi di nuovo per terra vicino all’altalena, “si vede che stai guarendo.”

“Avevi ragione: è incredibile quanto questo posto cambi dalla notte al giorno.”
Erano rimasti in silenzio per qualche minuto. Ginny aveva la testa reclinata all’indietro, così che i capelli sfioravano il braccio e il fianco di Draco, e osservava il “soffitto” del gazebo, pieno di fiori che con l’arrivo del giorno sembravano aver perso la loro freschezza… anche il loro profumo arrivava al naso come attenuato.
“Allora, Weasley…” disse Draco, “che fanno i grandi eroi quando piove troppo per andare a caccia di cattivi?”
Ginny scosse la testa. “Non lo so, sono stata da Hermione durante la tempesta. E anche quando resto al castello, difficilmente sto con loro.”
“E cosa fai, da sola?”
“A volte i vecchi ritratti danno più soddisfazione delle persone in carne e ossa per una chiacchierata…” rispose lei, “anche se sono così antichi da non poter parlare. E poi mi piace leggere.”
“Non era la Granger quella sempre col naso tra i libri?”
“Le cose cambiano, Malfoy… e comunque io non leggo Storia di Hogwarts” rispose la ragazza arricciando il naso.
Draco sogghignò.
“Ah no? E cosa leggi?”
Ginny scosse le spalle, riprendendo a intrecciare i flessibili rametti di gelsomino.
“Libri babbani. Non credo che tu li conosca…” borbottò, arrossendo un poco, “mi piace Shakespeare.”
Draco annuì, poi si allungò verso la brocca dell’acqua, ma la spalla era ancora immobilizzata e non riuscì ad arrivarci.
Io muoio, Egiziana, muoio…” rantolò, come se davvero stesse agonizzando, “dammi del vino e lasciami parlare un poco.(*)”
Ginny sollevò il viso di scatto, gli occhi spalancati per lo stupore, ma gli porse la brocca e il bicchiere. Poi mentre lui beveva, gli prese la mano libera e lo guardò negli occhi, disperata.
vuoi dunque morire? ” bisbigliò, quasi in lacrime, “Non ti curi dunque di me? dovrò vivere in questo scialbo mondo che, nella tua assenza, non è migliore d'un porcile? (*)”
Scoppiarono a ridere entrambi e Draco quasi si soffocò nell’acqua che stava bevendo.
“Merlino…” disse, quando riuscì a smettere di tossire, “sei una pessima attrice, Weasley, non ho mai visto niente di più ridicolo… e hai saltato un pezzo.”
“Non me lo ricordavo,” ansimò Ginny tra una risata e l’altra. “Non pensavo conoscessi Shakespeare.”
“Mia madre andava a teatro. Era una delle pochissime cose babbane che apprezzava” spiegò Draco, sbrigativamente. “Sicchè te ne stai chiusa nella torre del castello a leggere poesie e sognare Romeo?”
“Romantico, eh?” commentò la rossa con una punta di amarezza. La risata era sparita, rapida com’era venuta, e il viso di Ginny riprendeva a mostrare quella grazia eterea e consumata di una principessa triste, realmente richiusa nella torre di un castello. Poi scosse la testa. “No, in infermeria c’è sempre così tanto da fare che di sera sono troppo stanca anche per pensare al principe azzurro.”
“Quindi lavori nell’infermeria tutti i giorni, aspettando che Potter riesca a farsi maledire da qualcuno…”
“Più o meno.” mormorò Ginny, con un sospiro.
“Allora non avresti dovuto restare. Ti cercheranno, e tu cosa dirai?”
Draco era tornato improvvisamente serio e distante, come se in realtà non la volesse lì accanto, e Ginny si stupì ancora una volta di quei cambiamenti di umore che definire repentini sarebbe stato a dir poco riduttivo; si ritrovò a non sapere come comportarsi e reagì con la scostante freddezza che costituiva da tempo la sua difesa.
“Non sono affari tuoi, Malfoy.”
Draco alzò una mano in segno di resa e girò la testa dall’altra parte, senza rispondere.
Ginny si morse il labbro, ma il ragazzo non la stava più guardando in faccia e lei non seppe cosa dire per scusarsi… era come se di notte riuscisse a rapportarsi meglio con lui e con ciò che sentiva quando gli era vicino. Quando trovò il coraggio di alzare un po’ la testa per guardarlo negli occhi vide che si era addormentato. Senza volerlo, sorrise: doveva essere davvero indebolito dalla febbre, dopotutto.
La luce iniziava ad arrivare con più intensità e qualche raggio penetrava le fitte fronde degli alberi; Ginny uscì dal gazebo e si sedette sull’erba accanto al piccolissimo laghetto formato dalla sorgente, al centro di una macchia di sole dorata. Alzò il viso e assaporò il calore del giorno ad occhi chiusi. Non sopportava più il sole da molti mesi, si era abituata a trovare la pace soltanto nel silenzio e nell’oscurità della notte, ma nel giardino non avvertiva il solito fastidio… forse a causa della vegetazione che filtrava gran parte della luce. O forse perché in quel giardino non aveva nulla da nascondere nell’ombra: quel luogo era suo, per ritrovare se stessa, venire a patti con quella tristezza che tanto spesso aveva dovuto ingoiare e celare a tutti, e cercare di comprendere cosa il destino desiderava da lei.
E Draco.
Forse quel paradiso in prestito era una concessione del fato, un luogo in cui leccarsi le ferite e conoscersi, prima di tornare nel mondo che era là, ad attendere. Sarebbero stati insieme o, varcata la soglia, avrebbero dovuto combattere ognuno le proprie battaglie?
Mosse la mano nell’acqua e le piccole onde incresparono la superficie su cui il suo viso si specchiava; senza la luce irreale delle fate notturne, era soltanto un viso, pallido e stanco… osservando i propri occhi cerchiati dal sonno, Ginny si chiese, per l’ennesima volta, che diavolo poteva volere ancora il destino da lei.

“Who is that girl I see?
Staring straight,
Back at me.
When will my reflection show
Who I am inside?”
“Reflection” from “Mulan” (film Disney, 1998)

Era ancora accanto alla polla quando udì i passi di Draco sull’erba, alle sue spalle. Dovevano essere passate più di tre ore da quando si era addormentato… persa nei suoi pensieri non si rendeva conto dello scorrere del tempo, in quel giardino che sembrava immutabile. Eppure la luce ora penetrava di sbieco e aveva la sfumatura aranciata del tardo pomeriggio.
“Stai meglio” constatò, vedendolo in piedi.
Draco biascicò una risposta affermativa mentre morsicava una mela, e si sedette al suo fianco; Ginny si spostò leggermente per portarsi alle sue spalle.
“Dovrebbe essere guarita ormai. Se vuoi, ti tolgo la fasciatura.”
Il ragazzo annuì e si tolse la maglietta con una sola mano. Per la prima volta Ginny faticò a mantenere il distacco da guaritrice e si trovò a fissare la schiena nuda e le spalle magre sotto le proprie mani; arrossì e si impose con un respiro profondo il controllo e l’autodisciplina che aveva imparato. Svolgendo le bende, trovò che la spalla era guarita bene e sotto la cicatrice rosea l’osso sembrava liscio e intatto. Prese dalla tasca una scatolina di vetro e l’aprì, immergendovi le dita; un odore intenso e pungente si sprigionò, intensificandosi mentre Ginny spalmava qualcosa di freddo e untuoso sulla cicatrice e la spalla. Draco arricciò il naso.
“Che schifo. Che roba è?”
“Un unguento…” fu la vaga risposta, “dovrebbe aiutarti a muoverla bene come prima.”

Tutto sommato non era poi così male lasciare che le dita fresche della ragazza massaggiassero la spalla indolenzita; Draco socchiuse gli occhi e rilassò i muscoli contratti del collo e del braccio. Ginny gli prese un braccio e lo mosse delicatamente cercando di fargli compiere un giro completo, quando si trovò con il braccio teso sopra la testa, Draco strinse i denti aspettando un fitta di dolore che non venne: l’articolazione scricchiolò ma il movimento proseguì fluido.
“è guarita bene” commentò la ragazza, prima di spostarsi di nuovo per lavarsi le mani nell’acqua della pozza.
Draco fece qualche lento movimento con il braccio, quasi incredulo di poterlo muovere di nuovo, senza più dolore; con uno sguardo di trionfo, lanciò lontano il torsolo della mela e rimase in silenzio, godendo della pace di quel giardino incantato. Sullo specchio d’acqua scivolava lento uno dei braccialetti di fiori di gelsomino che doveva esserle caduto, e lui ne seguì il procedere languido, quasi ipnotico.
Accanto a lui, Ginny giocherellava ancora con una mano nell’acqua cristallina. La luce obliqua accendeva di riflessi la cortina di riccioli rossi e spettinati che quasi sfiorava la superficie dell’acqua, mentre il profilo, pallido e aggraziato, era rivolto al proprio riflesso. Un altro bracciale di foglie e fiori intrecciati scivolò via dal polso della ragazza e lei non fece nulla per riprenderselo. Quasi sentendo l’intensità dello sguardo di Draco su di lei, Ginny sollevò il capo ed incontrò gli occhi di lui.
“Ci dev’essere una strana magia qui dentro…” sussurrò il ragazzo, “in questo momento mi sembri la cosa più bella che io abbia mai visto nella mia vita.”
Aveva di nuovo quello sguardo perso e quel tono di voce, rauco e sommesso, di quando non si rendeva conto di esprimere i propri pensieri a voce alta. Ginny abbassò lo sguardo, confusa, continuando a muovere lentamente la mano nell’acqua; le palpebre tremarono per un istante quando sentì la mano di lui sistemarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Forse hai ancora la febbre…” mormorò lei, alzando di nuovo la testa.
Un sorriso rischiarò il viso di Draco, e Ginny non potè fare a meno di notare che i suoi occhi sembravano assorbire un po’ del verde delle piante, mentre scintillavano in una risata. Un po’ imbarazzata, sorrise a sua volta.
“…o forse sono il primo essere umano femmina che vedi da parecchio tempo!”
La risata che uscì dalla gola del ragazzo era calda e vibrante; persa in quel suono e nel riflesso della luce verde negli occhi di lui, fu colta alla sprovvista dalla spinta scherzosa che stava per farla cadere nella pozza.
Il braccio di Draco la sostenne all’ultimo momento e lo strillo di Ginny terminò in una risata, argentina e dolce quanto il canto dell’usignolo che si levava per salutare il tramonto.

“There's a place for us
Somewhere a place for us
Peace and quiet and open air
Wait for us
Somewhere”
“Somewhere” from “West Side Story” (musical, 1957)

*****

(*) Shakespeare, “Antonio e Cleopatra”, atto IV, scena XV.

Lo so, mi sono fermata “sul più bello” e il capitolo è corto, ma è fatto apposta, volevo fermarmi esattamente dove mi finiva il precedente. E… lo so, ho mescolato citazioni che dire che non c’entrano niente l’una con l’altra è un eufemismo, sono solo partita da D’annunzio per arrivare al musical anni 50, passando dal melenso Disney con una capatina nel metal epico… che volete che sia. C’è chi si sta rivoltando nella tomba.
Ma fa niente…
Vi ringrazio tutte con un bacio enorme!
Saty: ti ho già risposto tanto per mail… spero di essermi fatta capire un po’ meglio questa volta! Un bacio bavosissimo!
Seiryu: beh… spero ti sia piaciuto anche questo, e che Ginny non inizi a darti sui nervi ^__^!
Aurora: grazie!!!!
GinevraMalfoy90: G-R-A-Z-I-E! per Ron… ne parliamo mooooolto più avanti, per adesso sta bene dov’è, FERMO E ZITTO. Ciao!!!!!
Harianne: ed ecco la vincitrice… sei stata brava! Mi sono accorta mentre scrivevo di Hermione e Ginny che in realtà stavo un po’ ricalcando il rapporto tra Isarma ed Adsharta, Caillean ed Eilan, Dierna e Teleri…non ho voluto inserirla tra le citazione volute perché è stato proprio involontario, almeno all’inizio. Devi essere davvero una lettrice attenta della Divina Marion. Ti ringrazio, le tue recensioni sono sempre più che gradite!! Un bacio!E no, non mi dispiace assolutamente, fai di Trapped quello che preferisci.
Thaiassa: grazie! Smack!
Klaretta: ed eccoti draco! Spero non ti abbia deluso! Ciao!
Fiubi: grazie carissima!!! Sono contenta di riuscire a mostrarti quello che ho in mente mentre scrivo!
Seven: non so se vedo davvero in Ginny e Draco due anime che si ritrovano… in realtà nella mia testa non sono la reincarnazione di Isanhild e Salazar, se di reincarnazione vuoi parlare. Li vedo semplicemente come due persone, la cui situazione è simile per certi versi a quella dei due antichi amanti, due persone che il destino ha scelto per qualcosa di grande, qualcosa che li porterà sulle orme dei “predecessori” perché per comprendere il presente bisogna guardare nel passato… ma si spera che il loro fato, alla conclusione, sia migliore di quello di Isanhild e Salazar, che sono fuggiti per non ritornare più. Grazie come sempre della recensione e dell’analisi approfondita! Un bacio!!!
Minako83: mi prodigo sempre nel ricordare che nessuna recensione è MAI banale, ma sono contenta di aver attirato la tua attenzione a questo punto. Ti ringrazio di cuore!!!!
BlaSt: La CARATIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII. Argh.

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Capitolo 9
*** The Point of No Return ***


Chiedo venia per il ritardo, le intenzioni sono buone e faccio del mio meglio, ma spesso rimpiango i pomeriggi liberi di quando studiavo. Spero comunque che valga l’attesa.
Un paio di dediche:
A Chiara, la beta che rende possibile il tutto: mi hai rassicurato sul fatto che questo capitolo non è stitico come pensavo… ergo, se fa schifo è colpa tua che non me l’hai fatto notare. Scherzo, sei sempre la migliore!
A Euridice, che ha lamentato la cancellazione della scena di Isotta dai capelli d’oro… l’ho rispolverata e reinserita in tuo onore! E si… se mi va, più avanti scriverò IL PEZZO CHE MANCA. NC17. Arf.
A Savannah, perché la famiglia è la famiglia, anche quando si è lontani e non ci si sente poi tanto. Ti voglio bene!
A Saty, perché c’è una citazione dedicata a te…

CAPITOLO 9: THE POINT OF NO RETURN

“Nonna, aspetta…! Tu continui a raccontarmi che il giardino di Isanhild si richiudeva inesorabilmente ogni mattina, ma… io ci sono stata in quel giardino, mi ci ha portato il nonno a vedere le tombe di zio Draco e zia Ginny! Ed era giorno!”
“Ah, Sabine… sei impaziente, tesoro. Si, il giardino smisi di richiudersi al sorgere del sole e ci sto arrivando, sto per raccontarti come successe. Ma ti avverto che nemmeno io posso spiegarti…
come. Non conosco la magia che Isanhild lasciò nel suo giardino e, anche se la conoscessi, dubito che cercherei di comprenderla: certe cose nascono per restare un romantico mistero, bambina mia. Posso solo dirti che forse Giardino degli Amanti sarebbe stato un nome più appropriato, a questo punto della storia. Eppure… eppure tante lacrime dovevano ancora essere versate…”

“Once I had the rarest rose
That ever deemed to bloom
Cruel winter chilled the bud
And stole my flower too soon
Oh loneliness”
“Love Song for a Vampire” from “Dracula” (film, 1992)

Hermione era seduta sui gradini di legno della casetta che un tempo era stata di Hagrid; accanto a lei, sospesa a mezz’aria, una candela profumata emanava una luce dorata e tremolante, appena sufficiente per riuscire a leggere.
L’ombra nera del castello di Hogwarts si stagliava contro un cielo blu intenso, fittamente punteggiato di stelle, quasi che la tempesta avesse in qualche modo ripulito la volta celeste per esaltare la loro brillantezza. Il profumo dell’estate, in quella notte serena e calda, sovrastava l’odore della pioggia che ancora impregnava la terra.
Una figura esile e bianca scendeva in quel momento il pendio della collina; Hermione strizzò gli occhi per metterla a fuoco e poi li spalancò con uno strillo di sollievo.
“Ginny!”
La figura alzò stancamente una mano ed Hermione le corse incontro, lasciando cadere il libro.
“Sto bene Hermione, calmati” borbottò Ginny mentre l’altra la prendeva per i gomiti e la scrutava, come alla ricerca di lividi o ferite. Assicuratasi che Ginevra era viva e in salute, Hermione le diede una spinta non troppo gentile verso la porta di casa, invitandola ad entrare con un tono che non ammetteva repliche.
“Sono troppo giovane per preoccuparmi in questo modo di una ragazzina che scappa di casa,” brontolò, “e tua madre stava letteralmente morendo di ansia.”
Ginny si lasciò spingere docilmente in cucina.
“Sono quasi trent’anni che muore di ansia, Herm. E sta ancora benissimo” sospirò. “Mi lasci fare una doccia?”
Herm si piantò le mani sui fianchi, in un atteggiamento che cominciava a ricordare pericolosamente Molly Weasley.
“Sei stata nel giardino.”
Ginny alzò gli occhi al soffitto, ma un’acuta osservatrice come era Hermione non potè non notare il rossore che saliva sul collo candido della ragazza.
“Rispondimi.”
“Non mi sembrava una domanda” rispose Ginny, “e comunque al mattino chi è dentro resta dentro e chi è fuori resta fuori… è così che funziona.”
“Sei rimasta intrappolata?” sussurrò Hermione.
Ginny agitò una mano.
“Più o meno. Questa doccia…?”
Hermione aprì un armadio e le lanciò un asciugamano rosso scuro; al di sopra di esso, il viso di Ginny sembrò all’improvviso mortalmente pallido.
“è la magia del giardino, che ti ha trattenuta dentro?” chiese, senza sapere nemmeno lei cosa intendesse dire.
Ginny distolse lo sguardo e i suoi occhi si fecero lontani mentre si dirigeva con passo stanco verso il bagno.
“La magia…” mormorò come assaporando il suono della parola tra la lingua e il palato, “la magia non è nel giardino. La magia è dentro di me…”

Ginny ritornò poco tempo dopo in cucina, con i capelli umidi che si arricciavano in romantiche onde attorno al viso; Hermione posò sulla tavola pane tostato e marmellata e una tazza di tè caldo.
“Mangia” le intimò, “ho appena chiamato tua madre dal caminetto, per dirle che sei viva… stava ancora facendo setacciare il castello e i tuoi fratelli non ti ringrazieranno, ti avverto. Le ho promesso che ti avrei rifocillata e rispedita al castello in un tempo ragionevole.
Ginny si sedette e addentò una fetta di pane, disdegnando la marmellata di fragole, troppo dolce. “Non torno al castello” si degnò di rispondere con voce più piatta possibile.
“Si che ci torni. L’ho promesso a Molly.”
“Dille che sono scappata dalla finestra del bagno.”
“Ginny Weasley. Non ho la minima intenzione di mentire a tua madre!
La rossa allargò le braccia.
“Allora non dirle niente, Herm. Ma io non torno al castello.”
Hermione si sedette di fronte a lei, la fronte solcata da una ruga di preoccupazione.
“Ginny, sono tutti in ansia per te… ti prego…”
“Ho passato anni a cercare di non far preoccupare mia madre. Adesso… non posso. Ho bisogno di… di questa notte, e del giardino. Sono io che ti dico: ti prego. Non costringermi a mentire anche a te.”
“E allora non mentirmi! Dimmi cosa fai, cosa c’è là dentro e perché… perché passi là la notte fino a sfinirti! Dimmi di che cosa mi sto preoccupando!”
Ginny scosse la testa.
“No. No, non posso, Herm…” mormorò alzandosi in piedi, “ti prego. Hai promesso.”
In meno di una attimo era fuori, sbattendosi la porta alle spalle. Hermione si prese la testa tra le mani, i lunghi capelli bruni le ricaddero sul viso, nascondendo l’esasperazione e l’angoscia.
“Ron…” mormorò, “Ron, perché non puoi aiutarmi, dannazione!”

Com’era cambiato il loro piccolo mondo; un tempo, non troppi anni prima, sarebbe corsa da Harry, chiedendogli aiuto per rapportarsi con quella Ginny che nessuno sembrava riconoscere più.
Un tempo erano così diverse, Ginny ed Hermione: una così frizzante e determinata, l’altra così seria e insicura, sebbene non si tirasse mai indietro quando si trattava di infrangere le regole con i suoi due amici più cari. Un tempo… un tempo che non c’era più. Era questo che intendeva Theseus quando diceva che gli eventi stavano precipitando? Era quell’accorgersi all’improvviso di quanto la “sorellina” le fosse cara, immensamente, di quanto ormai potesse capire, sentire nella propria pelle il bisogno di Ginny di vivere la propria vita, per pericolosa che fosse?
Il rapporto con Harry era compromesso, forse per sempre, da quando lui aveva scelto di stare con Luna: molte persone non gli avevano perdonato quel dolore senza lacrime che aveva sbiancato il viso di Ginny, quella sera lontana, quello sguardo tradito e rassegnato con cui lei aveva guardato, da quel momento, il mondo intero. Quel loro piccolo mondo… infranto. Per Hermione non c’era nulla da perdonare, sebbene a volte fosse difficile ricordarsene. Amava Harry, così tanto, come il fratello che non aveva avuto, eppure non potevano più esserci gli abbracci, l’amicizia affettuosa di quell’adolescenza così turbolenta e così viva. Lei e Ginny riuscivano in qualche strano modo a sostenersi a vicenda, ad essere una la malandata fune di salvataggio dell’altra, mentre Harry… Harry poteva a malapena sostenere se stesso.
Ed ora vedeva la vita, tormentata ed angosciante, ritornare negli occhi di Ginny. Nonostante la consapevolezza di un pericolo o di un errore che non aveva potuto spiegare – e che Hermione nemmeno lontanamente immaginava… nonostante il peso di una profezia nefasta a pendere sulla sua testa, nonostante tutto, quel giardino le aveva restituito qualcosa che credeva perduto per sempre.

“No, Molly… no, stai tranquilla, niente di grave. Era solo così stanca che si è addormentata qui. No, non importa che tu venga, è già tardi… stai tranquilla, ti spiegherà tutto domani.”
E sarà meglio per lei che esista una spiegazione decente.

“Deep in my heart I’m concealing
Things that I’m longing to say.
Scared to confess what I’m feeling,
Frightened you’ll slip away…”
“You must love me” from “Evita” (film, 1996)

Draco la stava aspettando appoggiato ad uno degli archi sul sentiero, le braccia conserte e lo sguardo lontano; quando sentì la cortina sollevarsi, si voltò a guardarla e un vago, istintivo sorriso apparve sulle sue labbra.
“Isotta ritorna da Tristano ferito?” chiese, l’ironia ammorbidita da un’espressione che quasi sembrava troppo adulta sui tratti ancora infantili del suo viso.
“Tristano venne dal mare, non attraverso la foresta…” gli ricordò Ginny, avvicinandosi lentamente.
“E Isotta dovrebbe avere i capelli d’oro.”
Ginny scoppiò a ridere, e il suono argentino accarezzò le foglie immobili nella notte priva di vento; in risposta alla risata le fate si avvicinarono, descrivendo arabeschi gioiosi con la loro rapida danza nell’aria. “Sono una Weasley: dovrai accontentarti di qualcosa di meno prezioso!” rispose, prendendo tra le dita un ricciolo color del rame appena lucidato.
Draco le prese una mano, ridendo, e la tirò verso di sé.
“Grazie, Lady Isotta…” le disse, baciandole scherzosamente le dita, “non so cosa mi sarebbe successo se non ti avessi incontrata.”
Ginny sentì il rossore salirle alle guance e prese a parlare in fretta, lo sguardo prudentemente abbassato.
“Le ferite si sarebbero infettate, e l’osso si sarebbe aggiustato male, e la spalla…”
“Hey…” Draco le strinse le dita, facendola tacere. “Adesso sto bene. Devo presentarmi all’Ordine… ho bisogno di sapere se mi permetteranno di restare. Ho un ultimo favore da chiederti, anche se hai già fatto ben più di quanto non fossi tenuta a fare, per me.”
Me… figlio di un assassino, causa della morte di Silente, bastardo arrogante rinnegato dagli uomini e dagli Dei, patetico vigliacco fuggito a rintanarsi dietro le sottane di una donna che lo aveva amato, troppo, forse oltre la morte.
Ginny si limitò ad alzare lo sguardo interrogativo su di lui, mentre una paura inspiegabile balenava negli occhi scuri, spalancati come immense pozze d’acqua con una notte senza luna a riflettersi in esse.
“Accompagnami da Potter.”

“No…”
La risposta di Ginny giunse quasi inudibile, appena sospirata. Draco le lasciò la mano.
“Era chiedere troppo” commentò.
“No!” Ginny gli fece voltare di nuovo la testa verso di lei, “Non stanotte. Domattina… te lo prometto. Ma ti prego: una notte. Resta qui. Me lo devi…”
Quell’ultima recriminazione sparì in un singhiozzo senza lacrime e fu Draco a spalancare gli occhi argentei, fissandola nell’oscurità come a cercare di leggerle nell’anima.
“Me lo devi… l’hai detto anche tu” ripetè Ginny.
“Che cosa ti devo?” sussurrò lui, avvicinandosi a lei fino quasi a sfiorare il suo viso.
“Stavi male e sono rimasta qui per un giorno intero. È troppo chiedere una notte?”
“Una notte? Vuoi questo da me?”
Ginny arrossì al punto da dover distogliere lo sguardo da quegli occhi inquisitori. Stava offrendo, oppure implorando? Non lo sapeva. Il viso di lui era così vicino, e non c’era disprezzo dietro lo stupore, ma forse, in fondo, c’era qualcos’altro… una speranza troppo debole per essere coltivata, un desiderio forse troppo proibito per essere anche solo espresso in silenzio, un bisogno così profondo e radicato da diventare parte del suo stesso essere. Rialzò timidamente gli occhi: lui avrebbe potuto spezzarle il cuore con una parola, e lei sarebbe corsa via, umiliata e calpestata come se fosse soltanto quello il suo destino, sempre… ma qualcosa le diceva che lui non l’avrebbe fatto.
“Per il mondo sei morto, Draco…” mormorò, pronunciando il suo vero nome per la prima volta, “è la notte di Beltane: gli antichi avrebbero celebrato la vita, non c’è posto per fantasmi del passato. Non stanotte.”
Qualcosa – una comprensione, una consapevolezza – passò negli occhi di lui: un eco, o forse una risposta a quella parola celtica, beltane, che richiamava il calore dei fuochi, la luce dorata delle fiamme e il profumo dell’estate in arrivo.
“Se non sono un fantasma è grazie a te…”
Poi ogni sillaba si perse tra le labbra di Ginny che sfioravano le sue.

“Oh eravamo ormai consacrati alla notte!
Il frodolento giorno, pronto all'invidia,
ci poteva separare col suo inganno,
ma non più illudere con la sua menzogna!
La sua vana magnificenza, il suo vanitoso bagliore
deride, colui al quale la notte ha consacrato la vista!”
Traduzione dal libretto di “Tristan und Isolde”, atto II, scena II (Richard Wagner, 1859)

Fu la luce del sole a svegliarla.
Si sollevò a sedere, di scatto, prendendosi pochi istanti per rendersi conto di dove si trovasse. Sotto la sua schiena una coperta stesa sul pavimento di pietra grezza del gazebo, sul suo vestito scomposto erano piovuti i fiorellini bianchi e stellati del gelsomino… era giorno. Ed era nel giardino.
“Oh, no!” bisbigliò, portandosi una mano agli occhi.
Si guardò intorno e trovò Draco, seduto poco più in là, la schiena appoggiata ad uno dei pilastri del gazebo, che la guardava in silenzio. Ginny si maledisse sentendo il rossore salire alle guance.
“è giorno…!” disse a voce bassa, agitata, “siamo di nuovo chiusi dentro!”
Un sorrisetto enigmatico comparve sul viso di Draco, che le fece cenno di guardare oltre gli archi vegetali, fino all’ingresso del giardino; lei seguì la direzione del suo braccio e spalancò gli occhi. La cortina di fiori era aperta e oscillava pigramente nell’aria del mattino; al di là di essa si intravedeva il labirinto di giardini che avrebbe condotto alle mura interne del castello di Hogwarts.
“Come hai fatto?” chiese Ginny, senza fiato.
Draco scosse la testa.
“Non ho fatto niente,” rispose, “era aperta… all’alba i fiori si sono richiusi ma l’apertura è rimasta. Deve essere accaduto stanotte.”
Ginny raccolse le gambe e le circondò con le braccia, stordita, cercando di pensare.
“Credi che possa essere stato qualcuno da fuori?” le chiese lui.
“No… nessuno sa di questo posto. Nessuno può avere tempo di curarsene.”
Draco si avvicinò e le passò un braccio attorno alle spalle; lei posò la testa sul suo petto, con una fiducia istintiva che un po’ lo stupì.
Quando si era svegliato, vicino a lei, era rimasto a guardarla in silenzio chiedendosi cosa poteva averli legati l’uno all’altra così in fretta: aveva attribuito lo slancio della sera precedente- quella richiesta inaspettata, quel bacio - all’emotività che la rendeva a tratti così fragile, alla solitudine di lei che sembrava quasi rispecchiare la sua. C’era una profezia su di lei, che lo riguardava… Ginny stessa lo aveva rivelato qualche notte prima. Si era chiesto se quello che era successo facesse parte di uno sconosciuto disegno degli Dei che li vedeva protagonisti ma, ovviamente, la risposta non era alla sua portata. Lui, negli Dei, non ci credeva nemmeno più.
“Credi che sia stata una… una delle magie del giardino?”
Ginny sollevò lo sguardo per guardarlo negli occhi.
“Non lo so… non so quanta parte di quello che stiamo vivendo sia dovuto alla magia nel giardino, quanto alla profezia e quanto… a noi.”
Draco annuì.
“Potremmo uscire, direi…”
“Si, forse è meglio” disse Ginny staccandosi da lui, “sei sicuro? Di voler entrare al castello, intendo…”
Lui si alzò in piedi e le porse la mano per aiutarla.
“Ho scelta?” replicò, con un mezzo sorriso.
“No, non credo…” sospirò lei, mentre si avviavano lungo il tunnel vegetale verso l’uscita da quel paradiso, sentendosi un po’ come esiliati dall’Eden. Ginny si voltò indietro, abbracciando il gazebo e gli enormi alberi con un’occhiata al di sopra della propria spalla. Quel posto le sarebbe sempre appartenuto, si disse, ma un’ombra nera copriva il suo destino, lo sapeva bene: in quel momento, mentre si accingeva a varcare la soglia, il mormorio del vento tra le foglie le arrivava alle orecchie come un pianto d’addio. Aprì la bocca per dire qualcosa, forse una malinconica stupidaggine, forse un addio assurdo a ciò che in quel giardino non poteva rispondere, non di giorno… ma le parole le morirono in gola quando una figura si parò davanti all’apertura nel muro di cinta.

“Pleased to meet you
Hope you guess my name.”
“Sympathy for the devil” from “Interview with the vampire” (film, 1994)

Hermione gettò indietro i capelli scuri, e fronteggiò Ginny che si era parata tra Draco e l’amica senza perdere un attimo di tempo.
“Herm…” cominciò Ginny, “Herm, hai promesso.”
La bruna alzò una mano, un gesto autoritario e secco che la fece subito tacere. La camicia da uomo pendeva dalle spalle magre di Hermione, le maniche tagliate con un colpo di forbici e mai ricucite, le falde annodate poco sotto lo stomaco; il viso di lei era pallido e serio, le labbra strette in una linea sottile, come quando era estremamente concentrata.
“Sto cercando di ricordarmi cosa esattamente ti ho promesso, Gin” disse Hermione, spostando lo sguardo freddo e duro sul ragazzo biondo, immobile alle spalle di Ginny.
“Herm, non è un mangiamorte.”
“Oh, immagino…” mormorò Hermione, velenosamente, “troppo vigliacco anche per scegliere, vero Malfoy?”
“Pensa quello che ti pare, Granger…” disse Draco con amarezza, “pensavo che qui almeno avrei potuto essere giudicato invece di essere ammazzato a vista.”
“Forse hai un’opinione troppo alta di noi” lo schernì Hermione; la mano destra della ragazza impugnava la bacchetta con una presa sicura, mentre Draco mostrava le palme, disarmato.
“No! Basta!”
Ginny si mise di nuovo in mezzo, gli occhi scuri spalancati con aria implorante. Sembrava incredibilmente fragile in quel momento, eppure là in mezzo, tesa come una corda di violino, non tremava e teneva il mento sollevato, senza vergogna.
“Hermione, ti prego! Non farlo!”
Hermione sospirò e mise la bacchetta in tasca, alzando a sua volta il palmo vuoto in segno di momentanea resa. Cercò di ignorare, girandole attorno, i capelli spettinati di Ginny e i piccoli fiori bianchi impigliati tra i riccioli; il viso della ragazza era colorito, gli occhi vivi e ansiosi, come quelli di una bestiola selvatica attenta a sfuggire ai cacciatori. Squadrò Draco dalla testa ai piedi, come si valuterebbe un cervo maschio appena preso in trappola.
Era dura credere che quel ragazzo dagli occhi seri e il viso scavato, fosse lo stesso arrogante e maledettamente stupido figlio di un Mangiamorte che aveva conosciuto a scuola. Non fosse stato per il fatto che aveva fronteggiato gli stessi occhi color ghiaccio più volte, quando ancora combatteva, avrebbe faticato a riconoscere nel giovane che le stava davanti il tanto odiato figlio di Lucius Malfoy.
“E così eri tu il rinnegato…” lasciò cadere, senza trattenersi dal condire le parole con una certa nota di disgusto. “Dovresti essere morto.”
“Un pio desiderio, Granger?”
Hermione alzò le spalle.
“Una constatazione” precisò con noncuranza, “è quello che molti ti hanno augurato. Dov’eri?”
“In Galles.”
“E sei tornato per?”
Faceva le domande con il tono di chi si aspetta una risposta veloce, sincera e concisa, e ha la certezza di riceverla perché è nel proprio territorio, nella propria casa. Lei era quella-che-fa-le-domande, mentre Draco era solo l’intruso, colto in flagrante sul fatto e, come tale, tenuto a giustificare senza fare storie la propria sospetta presenza.
“Per vedere se Hogwarts è davvero quella casa che, dieci anni fa, ci avevano promesso sarebbe sempre stata…” rispose Draco, tranquillo.
Hermione rise, senza nessuna allegria.
“Colui che ti aveva promesso una dimora è morto per causa tua, Malfoy!” disse, e per la prima volta da quando aveva messo piede nel giardino, trapelò la rabbia che da anni provava nei suoi confronti. “Potresti dire che nessuno ha sofferto a causa degli errori di Potter?” chiese Malfoy, poi alzò una mano come a scacciare una mosca, debolmente, “non importa Granger, sono pronto ad essere giudicato per quello, anche se credo che le celle di Azkaban dovrebbero essere tenute libere per qualcuno di più pericoloso di me. Non mi sono rivelato poi un gran che quando ho tentato di far fuori Silente…”
La ragazza gli rifilò un’occhiata di disprezzo che avrebbe gelato il deserto del Sahara, e gli si avvicinò ulteriormente.
“Guardami in faccia e giurami che non hai fatto del male a Ginny.”
“Perché non lo chiedi a lei?”
“Facile, vero? Proprio da te rifiutare una responsabilità, lasciare la decisione a Ginny e alla sua compassione…”
Draco scosse la testa, infastidito.
“è per la sua compassione se sono vivo, non le farei del male. Non le ho fatto nulla. E se ha perso qualche notte di sonno, io non l’ho mai obbligata.”
“Si, ha perso qualche notte di sonno…” ripetè Hermione, arretrando di un passo, pensierosa. “Ma non credo che la colpa sia tua, infatti” mormorò tra sé e sé.
Poi la ragazza si girò verso Ginny e rimase a scrutarla.
“Hai detto di non aver avuto scelta, eppure lui non ti ha obbligata a fare nulla.”
Per tutta risposta Ginny scosse la testa.
“Tu… ti sei fidata di lui?”
“Era ferito. Sai che non posso rifiutarmi di curare, non sono capace di lasciar morire qualcuno.”
“Si, lo so. E adesso? Adesso non è ferito.”
“Adesso mi fido di lui.”
Hermione annuì, rassegnata.
“Va bene. Se non di lui, mi fido di te.” Volse di nuovo lo sguardo freddo su Malfoy. “Venite” ordinò, rivolta ad entrambi.

“Immagino che la mia approvazione non ti interessi. Qualunque cosa tu pensi delle mie scelte, sai che ho imparato a sopportarne le conseguenze. Ma anche io ho pianto nel cuore della notte e mi sono domandata se quanto facevo era giusto. Dieda, non si può mai essere sicuri… la sola cosa che puoi fare è svolgere l’opera che ti è stata assegnata e sperare che la Dea, un giorno, spieghi la ragione di tutto.”
Marion Zimmer Bradley
“Le querce di Albion”

“Vai di là, Ginny” disse Hermione.
“Ma…”
“Fa come ti ho detto.”
Ginny fece qualche passo indietro verso la porta, lanciando a Draco un’occhiata di scusa. Non avrebbe voluto lasciarlo lì, solo con lei, ma quando Hermione parlava con quel tono aveva imparato ad obbedire. Draco, del resto non sembrava riuscire a distogliere lo sguardo dal viso immobile e addormentato di Ron, soffuso della luce azzurra degli incantesimi che lo tenevano in vita. La rossa uscì, sospirando, e richiuse piano la porta.

Hermione teneva una mano di Ron e osservava attentamente il ragazzo biondo, in piedi dall’altro lato del letto.
Era a disagio, ovviamente. Ed era quello che lei voleva.
Ma c’era anche altro nello sguardo di Draco: tristezza, colpa… compassione. Sentimenti che non avrebbe mai pensato di poter leggere sul viso di Draco Malfoy, in quell’espressione che lo rendeva al tempo stesso più adulto e più indifeso.
“Sei cambiato, Malfoy” constatò a voce alta, il tono estremamente piatto, l’occhiata clinica di un chirurgo spietato.
Per tutta risposta Draco alzò gli occhi, scoccandole un’occhiata illeggibile, ma di certo non amichevole.
“Perché mi hai portato qui?”
Hermione piegò la testa da un lato.
“Questo è il prezzo che io e Ginny, e molti altri, stiamo pagando per questa guerra” disse, accarezzando la mano di Ronald. “Non è tanto il rischio che corri sulla tua pelle a distruggerti di terrore, ma il vedere ciò che subiscono i tuoi compagni. Se questo ti lascia indifferente, sincero o no, io non farò il minimo sforzo per farti accettare dagli altri. Se vedere uno qualsiasi di noi morire o rimanere in questo stato non ti fa né caldo né freddo, non ti voglio qui.”
Draco chiuse gli occhi e dietro le palpebre abbassate rivide gli occhi neri di Pansy e le sue labbra dirgli addio in silenzio.
“Che bestia credi che io sia?” chiese, amareggiato.
“Io non credo niente” tagliò corto Hermione, “ma ricordo cos’eri a scuola…”
“Ero un piccolo bastardo, viziato e prepotente!” la interruppe lui con veemenza, “pensi che non lo sappia?!? Provocavo Silente e voi Grifondoro solo per il puro gusto di rompere le scatole e nel giro di un’estate mi sono trovato a dover cercare di uccidervi! Pensi che sia la stessa cosa?! Avevo sedici anni… sedici anni!”
“Lo so perfettamente, Malfoy… ma tanti ne avevano solo uno o due in più quando sono morti.”
“Dannazione Granger! Vuoi sapere quante volte mi sono svegliato con gli incubi dopo quella notte?! O vuoi che ti dica che il rimorso mi ha fatto venire l’ulcera?” Draco si passò una mano sugli occhi e respirò forte, cercando di calmarsi. “Non sono un animale, per Merlino! Ho fatto degli errori, probabilmente più grossi di quelli che hanno commesso i tuoi amici… e ho sulla coscienza più di quanto puoi sapere o immaginare. Ma non sono un Mangiamorte. Non sono un assassino. E mi dispiace per Weasley, sul serio.”
Alla fine la sua voce si era fatta più rauca ed emozionata, ed Hermione abbassò lo sguardo.
“è possibile che ti chiedano di prendere il Veritaserum. Ne sei consapevole?”
Draco fece una smorfia.
“Di quello di cui mi vergogno siete già a conoscenza da anni, Granger. Il resto sono soltanto conseguenze. Lo accetterei, se non avessi scelta.”
La ragazza annuì e Draco riprese, a voce più bassa.
“Siete sicure di aver tentato tutto per lui?” chiese, accennando a Ron, disteso sul letto.
Hermione rispose con un sorriso triste.
“Abbiamo rivoltato come un calzino la biblioteca di Hogwarts, sezioni proibite, nascoste e invisibili comprese. Ma se hai qualche idea innovativa immagino di essere disposta a tentare di tutto, ormai. Persino il consiglio di un Malfoy.”
“Quindi ho passato l’esame?” fece Draco con una lievissima nota di ironia che però non sfuggì ad Hermione.
“Io ti credo, suppongo…” ammise con un certo sussiego, “Non posso prometterti nulla, però.”
“Lo so. Grazie.”
“Non ringraziarmi” fece HErmione con una smorfia, “ti sto lanciando nella fossa dei leoni.”

“Hermione!”
La bruna voltò la testa e vide Ginny spalancare la porta, trafelata e pallida.
“Hermione, Magorian…” ansimò indicando la porta d’ingresso.
“Magorian?!” Hermione saltò in piedi.
“C’è Magorian! Hanno ucciso alcuni del branco! I mangiamorte sono a Hogwarts!”

“Past the point of no return -
no backward glances:
the games we've played
till now are at an end . . .”
“The Point of No Return” from “The Phantom of the Opera” (musical, 1986)

Immagino che quello sia stato il momento in cui gli eventi iniziarono a precipitare, il momento esatto di cui Theseus parlava. Era il momento in cui avrei dovuto dire a Draco, come ad ogni altro del resto, “se vuoi tirarti indietro, adesso o mai più”.
Non dissi nulla. In fondo, era sottinteso.
Magorian era fuori di sé dalla rabbia e, quando Ginny gli chiese se c’erano feriti nel branco, sbraitò che la dannata luce verde degli umani non lascia superstiti alle spalle. Quando galoppò furiosamente verso ciò che restava del suo branco, il rumore degli zoccoli risuonò nelle nostre orecchie come l’eco di una campana a morto.
Sentii lo sguardo di Draco sulla mia schiena e mi voltai; quando riuscii a parlare, nella mia voce c’era un’amarezza tale da renderla irriconoscibile alle mie stesse orecchie.
“Cosa c’è, sei stupito, Malfoy? Eppure sei stato tu a dimostrare che Hogwarts non è inattaccabile…”

*****

Mi sono state fatte notare due citazioni che non ho diligentemente segnalato. Rimedio subito:
- L’incantesimo che tiene in vita Ron è ispirato al campo di stasi in cui è rinchiusa Diotima Ridenow in “The Shadow Matrix” (MZB)
- Nel capitolo 7, nel dialogo tra Hermione e Theseus, una frase era copiata e rivisitata dal film “Il tredicesimo guerriero” del 1999.
Il riferimento a Tristano e Isotta è molto palese, non sto a dilungarmi.

Grazie davvero a tutte! Un in bocca al lupo enorme a chi sta facendo l’esame di maturità e chi è in sessione all’università. Buone vacanze al resto del mondo. Noi dottorandi però continuiamo a lavorare… sniff.
Grazie a Aurora, GinevraMalfoy90, cl33, Thaiassa, Seiryu, Seven, Saty, Nefele, Magical_Illusion e GIU.
Baci a tutte!!!!!

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Capitolo 10
*** Cursed ***


Un altro capitolo un po’ “costipato”… le scene d’azione non sono il mio forte, lo sapete, credo. Questa volta ci sono volute DUE beta per raggiungere un risultato decente! Chiara ed Euridice, anche solo per gli espressivi “arf” e “mmh”…. GRAZIE!
Lo so che ho ritardato la pubblicazione… avrei potuto postare stamattina ma la spedizione di acquisto dei sandali strassati di Café Noir aveva una sacrosanta precedenza. ^__^

CAPITOLO 10: CURSED

Da quel momento tutto iniziò ad accadere così velocemente che le parole di Theseus mi risuonarono nelle orecchie come il ticchettio sinistro di una bomba a orologeria.
Usai una passaporta di emergenza per trasportare tutti e tre al castello, dove l’intero Ordine era già stato riunito: un centauro del branco di Magorian aveva provveduto a portare la notizia anche al vertice. Gli studenti erano al sicuro nei sotterranei di Serpeverde e Minerva, pallida e incartapecorita, scrutava le finestre… poiché era dal cielo che sarebbe venuto l’attacco. O almeno, così ci avevano detto i centauri, concedendoci quei pochi minuti di vantaggio che si sarebbero rivelati vitali. I mangiamorte avevano attaccato il branco dei Thestral, a caccia al margine estremo della Foresta Proibita, e ne avevano presi una dozzina per farsi portare a Hogwarts senza perdersi per sempre nella foresta. Alcuni centauri che avevano cercato di difendere i Thestral erano stati barbaramente uccisi.

Confesso che per un attimo temetti per il cuore di Harry; quando realizzò che era Draco il ragazzo apparso con me e Ginny, divenne bianco come un cencio e ruggì qualcosa di indefinito. Mi misi sulla traiettoria di tiro, e strillai che andava tutto bene, che non c’era ragione di agitarsi, che Malfoy era dalla nostra parte e ogni discussione in merito avrebbe dovuto aspettare. Per fortuna il tempo, o meglio la sua mancanza, giocava a mio favore; la confusione generale, Ginny che aveva preso la mano di Draco imbarazzando e sconvolgendo tutti, e infine l’urlo secco di Minerva, fecero il resto. Harry distolse lo sguardo, negli occhi qualcosa che era un misto di odio e disgusto; in fondo Draco gli faceva quasi comodo: avrebbe avuto qualcuno da incolpare se le cose si fossero messe male.
Io, però, non restai.
Per quanto improbabile fosse un attacco alla casetta, io dovevo, sempre e comunque, pensare prima a Ron. Dovevo proteggerlo. Calì e Charlie vennero con me, ma Charlie proseguì nella foresta, preoccupato per i Thestral rimanenti. L’ordine era organizzato ed efficiente: non avrebbero sentito la nostra mancanza.

Fu una battaglia breve, ma dolorosa. Nessuno ha mai parlato volentieri di quel pomeriggio infernale e io non c’ero, non posso raccontarti come andarono realmente le cose.
Quel giorno, nei piani dei mangiamorte, avrebbe dovuto crollare uno dei baluardi del vecchio Ordine, ma Seamus si mise in mezzo, letteralmente, prendendosi una maledizione senza perdono destinata a Minerva McGrannitt. Fu lui l’unica, tragica, perdita di quella battaglia. Un altro pezzo di muro che crollava, miseramente, per sacrificio, per bontà di cuore, per coraggio… lasciando noi superstiti a lottare col senso di colpa e con le lacrime che ormai pensavamo di aver esaurito.
Anche l’atra fazione non era stata immune da perdite. Tra le macerie di quello scontro fu il corpo di un ragazzone che un tempo si chiamava Vincent Tiger che ci trovammo a dover consegnare al ministero, quel giorno.
La crudele rapidità e violenza di quella battaglia resterà sepolta sotto il mito dorato della vittoria finale del bene sul male… è incredibile come il passato possa sembrare così glorioso ed epico a chi non c’era, a chi non ha rischiato e non ha pianto come noi. Ti assicuro che vivere quei momenti non aveva assolutamente nulla di scintillante e divino. L’immagine degli eroi è così diversa da ciò che noi eravamo realmente! Alcuni di noi, tra gli eroi, non compaiono neppure.
Quella particolare battaglia sarà ricordata soltanto come uno dei tanti duelli senza esito. Ciò che non leggerai sui libri di scuola è invece ciò che avvenne da un altro lato della sala, mentre Harry e gli altri accerchiavano alcuni mangiamorte, tra lampi di luce e vetri spaccati… ciò che avvenne quando Ginny si trovò davanti una maschera argentea da cui sbirciavano due occhi grigi, freddi come l’inverno. Draco, istintivamente, le si parò davanti e Lucius Malfoy si tolse la maschera per fronteggiare il figlio a viso aperto, con un ghigno folle a distorcere i lineamenti un tempo così somiglianti.

“Where have you all been once
when I was alone?
When I was a hero in their crazy wicked show
you've sent no little spark
into my darkened view of life.
Did not make me ask for what is wrong
and what is right.”
“Inside” from “Avantasia, The Metal Opera – part I”, (2001)

“Draco… figliolo”, sibilò Lucius con crudele ironia.
La bacchetta di Draco tremò appena ma rimase puntata verso il petto del padre, la cui voce sembrava strisciargli schifosamente addosso, nonostante il frastuono e gli strilli che echeggiavano nella sala.
“Di nuovo tra le pieghe delle sottane di una ragazza, a quanto vedo…” proseguì, con un primo, distratto tentativo di schiantesimo. Draco parò il colpo con abilità, mantenendo Ginny al sicuro dietro le proprie spalle. “Almeno con la figlia degenere di Parkinson avevi mostrato miglior gusto. Una Weasley, ora… come se tu non avessi già fatto abbastanza per disonorare il nome della nostra famiglia.”
“Disonorare agli occhi di chi?” chiese Draco.
“Agli occhi di chi conta!” sbraitò Lucius, “Crucio!”
Draco si contorse per pochi istanti, crollando in ginocchio con un lamento appena accennato, ma riuscì a liberarsi velocemente dalla maledizione. In un attimo fu di nuovo in piedi, col fiato corto.
“Sei diventato bravo…” commentò il padre.
“Ho fatto pratica. Stupeficium!
Protego! ” Lucius rideva selvaggiamente.
Tra i mangiamorte corse un segnale confuso, come una parola d’ordine. Tre di loro erano già morti, e Dama Bellatrix aveva segnalato la ritirata: non erano ammesse troppe perdite, non prima della battaglia finale a cui anche Voldemort avrebbe preso parte per liberare finalmente il mondo da quella piaga dell’umanità chiamata… Harry Potter. Harry, per ora, era l’unico che Voldemort non riusciva ad uccidere, come se la fortuna sfacciata, l’intervento divino, la follia di Harry stesso, riuscissero sempre in qualche modo a salvargli la vita. Ma del resto, era vero anche il contrario. Tutto si risolveva in duelli assurdi senza fine e senza risultato, in cui entrambi ad un certo punto preferivano desistere e procrastinare, Harry fino alla distruzione degli Horcrux… e Voldemort fino alla distruzione dell’intero Ordine della Fenice. Quello doveva essere il compito dei mangiamorte.
“Lucius!” strillò Bellatrix Lenstrange.
Lucius le rivolse un’occhiata seccata e riportò la sua attenzione sul figlio.
“Pagherai in eterno per essere stato così vigliacco, Draco…” gli sibilò, “l’ho promesso quando sei scappato.”
Mosse la bacchetta vicino al viso, mormorando poche parole incomprensibili; un fascio di luce dorata si separò in due bolle iridescenti che si diressero verso Ginny e Draco seguendoli mentre si spostavano per schivarle, fino a colpirli direttamente al cuore.
Nella luce livida del pomeriggio il corpo di Ginny sembrò contrarsi e rimpicciolirsi, trasformandosi in un grumo di luce aranciata. Mentre l’urlo di Draco si sovrapponeva alla risata isterica di Lucius, una fenice uscì dal bozzolo di luce e volò verso il sole, oltre la finestra spaccata.
Nella confusione generale, mentre tutti guardavano quel fenomeno a bocca spalancata, uno sguardo orripilato negli occhi, i mangiamorte si radunarono e sparirono con una passaporta.
Perché assai più arduo è entrare in Hogwarts , che fuggire da essa…
I fratelli e gli amici di Ginny proruppero in grida furiose e disperate, mentre Draco sembrava un’orrida maschera di morte dagli occhi spalancati e vuoti, in ginocchio sul pavimento le braccia inerti lungo i fianchi. Senza dire una parola, senza che nessuno riconoscesse la sua presenza in quell’istante di confusione totale, fece l’unica cosa che sapeva fare, quella che gli aveva salvato la vita dopo il suicidio di Pansy, quel giorno alla casa sulla scogliera: scappò. Corse via dalle scale e nessuno lo rivide fino al giorno successivo. Ma, al calar delle tenebre, il sordo battito delle ali di un grande drago risuonò tristemente nel cielo sopra il castello silenzioso.

“I would like to think there is some higher meaning in this.”
From “LadyHawke” (film, 1985)

Hermione alzò lo sguardo dalle pagine ingiallite del libro che aveva davanti; la porta si era aperta, in silenzio, e una figura pallida, vestita di bianco, rimaneva in piedi sulla soglia, talmente candida da sembrare irreale contro il cielo nero. Calì, col viso ancora impiastricciato di lacrime, dormiva rannicchiata sulla poltrona e non si era accorta di nulla; dal funerale di Seamus non aveva più abbandonato la casetta di Hermione, e non aveva più aperto bocca, se non per singhiozzare. Nessuno aveva mai capito quanto l’enigmatica e triste Calì fosse affezionata al buffone irlandese… forse nemmeno Calì stessa.

“Ho sentito il pianto della fenice, mentre bruciavamo il corpo di Seamus. Sapevo che saresti tornata.”
Gli occhi di Hermione erano pieni di lacrime, ma Ginny non si mosse per andarle incontro, non disse nulla: rimase immobile, come fuori dal tempo, a metà tra l’interno e l’esterno della casa, come solo a metà poteva vivere la sua vita… da quel momento in poi. La bruna si alzò in piedi e si avvicinò.
“è lui il drago, non è così?” chiese sottovoce, accennando al cielo con un movimento della testa.
Ginny annuì. Hermione la abbracciò ma lei era rigida tra le sue braccia, come una bambola.
“è tutto così ingiusto…” bisbigliò Hermione, con voce rotta.
“…è il grande rettile alato che sorge, ogniqualvolta, nei secoli, la terra necessita di protezione (*)” sussurrò Ginny, aprendo bocca per la prima volta, lo sguardo fisso sulla figura esile di Calì. “Era destino. Solo che non era il mio.”
“Come puoi dire questo?”
“Dovevo solo condurre il rinnegato al suo appuntamento col destino. Il mio compito è finito… ma cosa sarà di me adesso?”
“Ginny, no!” disse Hermione, serrando la presa sulle spalle dell’amica e scuotendola, “no, non puoi pensare che sia finita! Calì aveva previsto che tu avresti avuto un ruolo da svolgere, non lui! E se fosse lui ad aver portato te al tuo appuntamento col destino? Non puoi arrenderti adesso!”
Ginny la scrutò, con sguardo triste.
“Come se avessi potuto accettare o rifiutare questo rendez-vous…” commentò, scuotendo la testa, “Tu conosci questo incantesimo, vero? Te lo leggo negli occhi: tu sai che non si può tornare indietro. Come puoi dirmi che non devo arrendermi?”
“Ginny…”
“Rispondimi.”
“Non significa niente” ribattè Hermione, testarda, “non ho perso la speranza per Ron, non la perderò per te. Almeno sappiamo da quale maledizione siete stati colpiti… e io che credevo si trattasse solo di una leggenda..”
La rossa fece un sorriso amaro, guardando il libro aperto sul tavolo.
“…sempre insieme, eternamente divisi. (**)” citò a memoria la stessa frase che vecchio testo utilizzava per descrivere l’antica maledizione, “io vedrò la luce del sole soltanto vestita delle piume di un uccello, ma la notte trasformerà lui in un predatore. Non potremo mai più vedere l’uno il viso dell’altra.”
Ginny doveva aver trovato quel testo mentre setacciava la biblioteca alla ricerca di un rimedio per la condizione di Ron. Hermione si sentì inutile, come non si era mai sentita in vita sua.
“Esiste un modo per interrompere la maledizione…” mormorò, ma la voce suonò atona e priva di convincimento persino a suoi stessi orecchi.
“Già…” fece Ginny, con uno sbuffo ironico, “affrontare Lucius Malfoy insieme… insieme, in forma umana, in una notte senza giorno, nel giorno senza la notte. Come se fosse possibile.”
“Deve esserlo. Troveremo il modo.”
“Gli amori impossibili sono il mio destino, Hermione, non scervellarti…” la ammonì Ginny, con una briciola dell’antico umorismo, “una volta credevo che soltanto Harry potesse essere la luce della mia vita. Adesso ho un amore più grande, ma solo nel buio della notte. (***)”

Ginny sparì prima dell’alba lasciando Hermione nell’amarezza più nera. Harry venne alla casetta ma la trovò addormentata con la testa sul letto di Ron, e non la svegliò. Fu la mano fredda di Calì a svegliarla, e il mormorìo spaventato di lei nel silenzio irreale della stanza.
“Scintilla così tanto…”
Hermione sobbalzò e scrutò Calì in viso, senza capire.
“cosa…?”
“Brilla, tanto da far male agli occhi… ma è tutto sangue… tanto sangue.”
“Calì, piccola, ti prego… quale sangue…?”
“Tanto sangue. E tanto dolore.”
Gli occhi di Calì erano fissi nella luce azzurra che aleggiava sul letto di Ron, e la sua mano riposava inerte sulla spalla di Hermione.
“Calì, concentrati. Di chi è quel sangue…”
Calì scosse la testa. “No…” sussurrò, “non dimenticheremo quel sangue. Non ci dimenticheremo di lui.”
Hermione si alzò in piedi, spazientita. Era inutile, non c’era modo di capire… a che diavolo serviva avere una veggente se non era nemmeno in grado di farsi comprendere?!?
“Lui…” ripetè, “Calì ascoltami, continua a parlare… lui, chi è lui?
Calì la guardò in faccia, triste ma presente: la visione era svanita, con la stessa celerità con cui le era apparsa.
“Hermione…”
“No! Dannazione, Calì continua…!”
Calì aprì le braccia e sospirò, gli occhi si riempirono di lacrime.
“C’era tanta luce…”
“Ma perché non puoi vedere ciò che serve, per Merlino!”
Un singhiozzo trattenuto zittì Hermione che respirò a fondo per calmarsi..
“Mi dispiace, Hermione… non servo a nessuno…”
“No, non è vero. Calì, non pensarlo, ti prego. Scusami, è che… sono così preoccupata, per Ginny!” Hermione tirò Calì a sedere sul bracciolo della poltrona e la abbracciò, “Va tutto bene, Calì. Scusami.”
“è orribile…” mormorò Calì.
“Cosa?”
Io sono orribile! Vedo ciò che succederà e non so interpretarlo, non so nemmeno raccontarlo! Non servo a niente!”
“No. Hai previsto il ritorno di Malfoy… il rinnegato. Dobbiamo fidarci del tuo dono.”
“E allora perché mi sembra di aver legato Ginny alla ruota della tortura? E ora la perderemo… per chissà quanto tempo!”
“La perderemo?”
Calì gettò indietro i capelli neri, sospirando ancora.
“L’ho vista tornare. Perciò suppongo che prima dovrà andarsene. Ma tornerà, con… la luce…
“Si, l’hai detto che sarà lei a portare la luce. Se almeno sapessimo che diavolo è questa luce!”
“Non lo so… non lo so…”
“Non preoccuparti, Calì. Tutto quello che possiamo fare è stare a guardare, e sperare che il dolore abbia un senso.”

“Sometimes the gods themselves find the pain of existence too much to bear. Because they are gods, they pick a mortal to bear it for them.”
Jaqueline Carey
“Kushiel’s Avatar”

Allo spalancarsi della porta Hermione non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo che Malfoy le fu ad un palmo dal naso, il viso sconvolto e le mani sporche di sangue fino al gomito. Tra le braccia teneva una bellissima fenice rossa e dorata… inerte e ferita.
Hermione lanciò uno strillo e prese l’uccello tra le proprie mani, posandolo delicatamente sul divano; inginocchiata di fianco ad esso, mormorava “no, no no, no…”, con un tono quasi isterico.
“Merlino, che diavolo le hai fatto!!” gridò, alzando lo sguardo su Malfoy.
Draco scosse la testa, gli occhi spalancati dal terrore che non si staccavano dall’uccello che giaceva immobile sulla stoffa lisa del divano: il dorso e le ali erano ricoperte di tagli, piccoli ma profondi, praticati a regola d’arte da una raffica di oggetti acuminati, tutti identici tra loro. Poi, Hermione comprese.
“Un antigufo…” sussurrò, spaventata, “non dovrebbero essercene attorno ad Hogwarts…”
Malfoy crollò in ginocchio al suo fianco, incapace di parlare; furono suoi occhi a formulare la domanda più terribile.
“Non lo so, Malfoy…” disse Hermione, cercando, per l’ennesima volta in poche ore, di trattenere le lacrime , “non so come si cura questo incantesimo. È fatto per uccidere e avrebbe sicuramente causato la morte di qualsiasi gufo. Le fenici però sono creature dotate di infinite risorse … è viva, per ora…”
Draco passò una mano sul piumaggi sporco di sangue e appoggiò la fronte alle mani. Hermione gli mise una mano sulla spalla, alzandosi in piedi.
“Adesso non posso fare altro che pulire le ferite. Dobbiamo aspettare stanotte, quando riprenderà sembianze umane.”
“E io non ci sarò…” commentò Draco con voce rauca, “questa dev’essere opera di mio padre.”
“Probabile. I mangiamorte devono aver lasciato gli incantesimi antigufo scappando. Nella fretta non hanno pensato a niente di più efficace…”
La ragazza tornò con una pezza bagnata e prese a pulire delicatamente le piume.
“Dovresti proteggerla, Malfoy. Se lei muore tu resti intrappolato nella maledizione per sempre.”
“Non sono forse già intrappolato per sempre?” chiese Draco, amaramente.
“Potrebbe esserci una via di uscita ma ancora non riesco a individuarla. È come un indovinello: in una notte senza il giorno, entrambi in forma umana… se affrontaste tuo padre insieme potreste…”
Draco la interruppe. “Tanto varrebbe aspettare il giudizio finale… divertiti con altri giochetti, Granger.”
Hermione sollevò lo sguardo irritata e offesa.
“Credi che mi diverta?!” sibilò, “Credi che se potessi non darei l’anima per cambiare la sorte di Ginny. Merlino, quanto vorrei che non ti avesse mai trovato! Avrebbe dovuto lasciarti morire nella foresta!”
Fu il turno di Malfoy di chinare la testa, sotto il peso di quella recriminazione.
“Avrebbe dovuto. Ma non posso fare niente, ormai…”
“No. E lei non te lo chiederebbe: Ginny non ha rimpianti. Non riguardo a te” ammise Hermione.
“E come puoi saperlo?! Come puoi pensare di capire cosa vuol dire… come puoi pensare che non rimpiangerà mai la luce del sole!” La rabbia e la paura lo facevano balbettare, e lei riconobbe per un attimo il ragazzino che si lagnava per il graffio di un ippogrifo.
“Malfoy…” sospirò Hermione, addolcendosi un poco, “potrei dirti che avete un ruolo da svolgere, che questo era destinato ad accadere e che vi porterà da qualche parte, ma… non ti servirebbe. Vorrei solo che non perdessi la speranza. Per lei. La ami così poco che non riesci a sperare di rivederla?”
“La donna che una volta credevo di amare è morta per colpa mia, Granger. Stare vicino a me ha già distrutto la vita di Ginny! Non voglio amarla per condannarla a chissà che altro! Guardala!”
“La vedo. E ti spezzerei il collo per questo. Ma è troppo tardi: se tu non l’amassi quanto ti ama lei, l’incantesimo non avrebbe funzionato. Tuo padre deve averlo capito.”
“Bastardo…” mormorò Draco, stringendo i pugni. “Perché lei, dannazione! Perché non uccidere soltanto me! Era questo che voleva!”
“No. Voleva farti soffrire. E una cruciatus, a quanto pare, non gli sembrava abbastanza.”
Malfoy rimase in silenzio questa volta, gli occhi chiarissimi chini sulle piume imbrattate che stava accarezzando dolcemente.
“Che vuoi fare, Malfoy?” riprese Hermione, dura, “andartene, lasciarla…? Le spezzeresti il cuore.”
“Voi potreste proteggerla meglio di me.”
Hermione fece per ribattere ma una voce alle sue spalle le congelò in gola le parole.
Se ne andrà. Ma lei volerà con lui.”
Aveva già sentito quella voce: lontana, lenta e vibrante… quasi irreale. Si voltò per vedere Calì, con gli occhi persi e vacui, appoggiata allo stipite della porta della cucina; tremava da capo a piedi, il pavimento di legno le stava graffiando i piedi nudi, ma lei non poteva accorgersene.
La luce brilla ad ovest!
L’isola di smeraldo nasconde il segreto che solo il dolore potrà avvicinare.
Un anno, un mese e un giorno il grande Drago nero dovrà volare!
Un anno, un mese e un giorno… e con la luce della salvezza, ritornare.
Un anno un mese e un giorno…

La voce di Calì si spense in un mormorio, sigillando il destino di Draco e Ginny.
E di noi tutti con loro.

“You will be the land,
And the land will be you.
If you fail, the land will perish;
As you thrive, the land will blossom."
From “Excalibur” (film, 1981)

Mentre il potere della visione ancora aleggiava nell’aria, con la sua triste e lugubre nota definitiva, la porta si spalancò con violenza ed Harry, pallido di rabbia, si fermò immobile sulla soglia. Era tornato a cercare Hermione e, palesemente, aveva sentito la profezia di Calì… Calì, che ritornando in sé con lo schianto della porta, si afflosciò priva di forze sul pavimento. Hermione, al centro della stanza, si trovò a dover sollevare la ragazza e accompagnarla gentilmente verso una poltrona, senza perdere di vista Harry che, bloccato sulla soglia da un odio così violento da impedirgli di muovere un muscolo senza tremare, fissava su Draco uno sguardo folle e omicida.
“Bastardo! È tutta colpa tua!”
Hermione scosse la testa e si mise in mezzo ai due.
“Lui non c’entra, Harry” disse, con la pazienza infinita che da anni faceva parte del suo carattere, “Scappava dai mangiamorte…”
“è un mangiamorte!” sbraitò Harry, gli occhi fuori dalle orbite.
“Non è un mangiamorte e lo sai benissimo. Pensavamo addirittura che i mangiamorte lo avessero ucciso dopo il sesto anno, ricordi? Ha tentato di raggiungere Hogwarts attraverso la foresta e Ginny l’ha trovato… e curato…” Hermione tentava di spiegare con calma e il più concisamente possibile, ma al nome di Ginny la voce le si spezzò in gola. “Draco voleva aiutarci, Harry.”
“Aiutarci?!?” tuonò il ragazzo.
La fenice ferita rispose al grido con un debole pigolio sofferto.
“Non gridare, dannazione!” sibilò Hermione, “è ferita da un incantesimo antigufo!”
Harry spalancò la bocca, stralunato, accorgendosi solo in quell’istante della presenza dell’uccello; fece per avventarsi contro Draco che non sembrava nemmeno ascoltare, se ne stava lì, passivo, concentrato soltanto su Ginny.
Hermione agguantò il polso del suo miglior amico, conficcandogli le unghie nella carne senza troppe cerimonie.
“Ginny…” rantolò Harry, con un grugnito di dolore.
Hermione lo tirò indietro.
“Andiamo fuori.”
“No!”
Il Prescelto tremava davanti a ciò che non riusciva a capire, di rabbia, di dolore… e forse di colpa. Indicò il castello, sulla collina.
“Là ci sono i suoi fratelli, sua madre, che piangono… che pensano di averla persa per sempre e… e tu te ne stai qui! Con lui! E lei è ferita… e c’è quella strega del malaugurio…”
La ragazza aveva sentito abbastanza: lo colpì con uno schiaffo, forte, sul viso, per farlo finalmente tacere.
“Non ti permetto di parlare di Calì in questo modo” sibilò, con una freddezza che non le apparteneva, “né di strillarmi addosso. Esci. Subito!”
Con la testa ancora voltata a causa dell’urto dello schiaffo, e l’impronta rossa delle dita di Hermione che iniziava ad affiorare, Harry obbedì e lasciò la stanza. Uscendo Hermione lanciò un’occhiata a Draco, ancora completamente estraneo al trambusto che lo circondava, come se il mondo per lui fosse ormai tutto racchiuso in quella fenice. Non aveva degnato Harry della minima attenzione, non gli importava di scontrarsi con lui, non più… e probabilmente non gli era importato nemmeno prima. La morte di Silente, che Draco aveva causato indirettamente, aveva acceso e mantenuto vivido l’odio di Harry per lui; il senso di colpa, la morte e il dolore avevano invece attenuato il disprezzo e l’invidia che Draco aveva provato per il Bambino Sopravvissuto sino a renderli ancor meno violenti di un soffio di brezza. La vita aveva fatto il suo dovere sul giovane Malfoy , come su tutti, smorzando i colori che nell’adolescenza erano sembrati così intensi da dolere gli occhi.

“C’è ancora speranza per Ginny. La maledizione ha… deve avere una scappatoia.”
Harry la guardò senza capire. La luce del tramonto brillava aranciata sui suoi capelli perennemente scomposti e neri come l’ombra del castello che si stagliava contro il cielo, che si tingeva di mille sfumature di rosa e carminio.
“La maledizione?”
Hermione cercò le parole per spiegare.
“è una maledizione antica, credevo fosse soltanto una leggenda. Sempre insieme, eternamente divisi… di giorno lei è un uccello, di notte è lui a trasformarsi in un drago. Non potranno più vedere l’uno il viso dell’altra, non in forma umana.”
“Ma…” Harry scosse la testa e si passò una mano sulla fronte, tra quei capelli che non stavano mai al loro posto. “Perché?
Hermione sospirò.
“Per fare del male a Draco, per fare del male a entrambi… Lucius deve aver capito che colpendo anche lei lo avrebbe fatto soffrire di più.” Fece una pausa, guardandolo negli occhi. “La maledizione non avrebbe funzionato se non fossero stati… innamorati.”
“Stai scherzando.”
“Perché?”
“Non può essersi innamorata di.. di quel…”
“Credevi che sarebbe rimasta a guardarti da lontano per sempre, Harry? Credevi che si sarebbe lasciata morire in silenzio, consumandosi d’ amore per te?”
Harry si ritrasse, come colpito da un pugno ben più forte di quello che avrebbe potuto sferrargli Hermione.
“Hermione...” la ammonì.
“Hermione un cavolo, Harry. Mi sono stancata di evitare accuratamente il discorso come fanno tutti per non urtare la tua prescelta sensibilità! Hai fatto la tua scelta, e mi sta benissimo, e non sono qui a parlare di colpa… ma Ginny ha sofferto, magari non solamente per causa tua,, ma tu hai contribuito. E continuare a ignorarlo non cambierà le cose, né toglierà la responsabilità dalle tue spalle!”
“Ma cosa posso fare?” strillò Harry.
“Niente Harry. Ma comunque sia successo, Draco è il rinnegato il cui ritorno è stato previsto da Calì. Il destino l’ha portato sulla strada di Ginny e lei si è… innamorata! Devi solo accettarlo. In silenzio… esattamente come ha fatto lei. Questo almeno glielo devi.”
“E dovrei lasciare che quel… quel dannato figlio di un mangiamorte traditore se la porti via, così, solo perché per qualche strano motivo si è invaghito di lei e perché Calì ha delirato che devono andarsene?!?”
“Calì è una veggente! E Draco se ne andrà, comunque. Le si spezzerebbe il cuore, di nuovo, se la lasciasse qui.”
“Qui è al sicuro.”
Hermione allargò le braccia, esasperata. Fece per parlare, ma la voce isterica di Calì giunse, acuta, dalla soglia.
“No! No, lei deve andare con lui… o sarà tutto perduto! Tutto perduto!” strillò in lacrime.
“Calì, no, calmati…” Hermione le si avvicinò, “calmati, va tutto bene!”
“Sarà tutto perduto!”
“Non lo permetterò!” grugnì Harry.
“E cos’hai intenzione di fare per impedirlo, Potter?” la voce strascicata di Draco, amara come il fiele, gli passò accanto, mentre il mago biondo si dirigeva verso il prato ai piedi del dolce pendio della collina di Hogwarts. “Batterti con me?”

Draco si fermò a una decina di passi da noi, voltandoci le spalle, e il suo mantello iniziò ad ondeggiare emanando una luce livida e rossastra, simile a quella che si immagina debba levarsi dalla bocca dell’inferno.
“Io non credo nel destino, Potter” disse, a voce bassa ma chiara, “ma non credo che potresti vincere.”
Quando l’ultimo raggio di sole sparì dietro la collina, il mantello si ingrandì, rilucendo dei riflessi scarlatti del tramonto, separandosi in due enormi ali squamate. Con un ruggito, un enorme drago di un nero intenso uscì dal bozzolo di luce in cui il corpo di Draco si era ritirato: un animale possente ed elegante allo stesso tempo, con gli affilati artigli e le squame che rilucevano di freddi bagliori bluastri, viola e rossi… solo gli occhi, spaventosamente chiari e iridescenti, sul nero intenso del suo muso feroce, rimanevano gli stessi del ragazzo che era stato. Grigi e tristi… come il cielo d’inverno, quando sta per nevicare.
Il drago spiccò il volo in un movimento eccezionalmente sinuoso per un animale di quelle dimensioni, e sparì oltre la foresta, lasciandoci a bocca aperta davanti allo spettacolo di quella trasformazione.
Ad interrompere l’incantesimo, un lamento giunse dalla casetta.
“Ginny!” strillai, e corsi dentro.

***********

(*) Sono le parole di Theseus, capitolo 5.
(**) “Sempre insieme, eternamente divisi...” dal film “LadyHawke” (1985)
(***) “Once upon a time there was light in my life/ now there’s only love in the dark” dalla canzone di Bonnie Tyler, “Total eclipse of the heart”.

Beh, a questo punto mi sembra cristallino da quale film ho tratto ispirazione per questa storia. So che “LadyHawke” ha fatto sognare molti, quindi spero che molti apprezzeranno e non la riterranno una scelta stupida o scontata.
Per quanto riguarda la profezia di Calì, invece, “un anno, un mese e un giorno” è palesemente preso dal mito arturiano, è la durata leggendaria della Cerca del Sacro Graal. E in fondo, anche Draco e Ginny sono destinati a cercare qualcosa…
Si ringrazia la voce di commento di Euridice che alla prima versinoe del capitolo ha detto espressamente “mmh”, per poi uscirsene con un articolatissimo “ARF” alla versione finale. Riguardo al capitolo precedente: erano SECOLI che cercavo di dare a Draco un certo non so che alla Axl Rose… credevi mi sarei lasciata sfuggire l’occasione?
Si ringrazia Chiara che, da Weasleyana senza speranza quale è, ha detto che Draco è più bello da drago…
Magical_Illusion: se tu avessi sentito i rosari che ho tirato questa settimana per mettere giù questo capitolo mi avresti definito di certo meno geniale. Comunque grazie di cuore!
Thaiassa: grazie!
Seyriu: grazie davvero, sempre graditissimi questi complimenti. Sono contenta di regalarti qualche momento “di sogno”, se non “da sogno”, non essendo io Draco in persona… eh eh eh.
Savannah: cara… è un peccato che non ci sia tu ad aiutarmi a tenere a bada tutte queste Weasley fan che lo vorrebbero, pensa che molestia, DEAMBULANTE e COMUNICATIVO. Ma sta così bene dov’è, fermo e zitto… bah. Ti voglio bene!!! Smack.
Saty: come sempre sei attentissima e articolatissima (altro che “ARF”)… ma mi sa che stavolta pensi troppo. Hermione non ha aperto la porta, come nelle migliori delle favole il mondo è sensibile al sentimento per eccellenza e la magia del giardino l’ha reso di nuovo accessibile perché Ginny e Draco si sono innamorati… era più semplice di quello che avevi pensato tu. E… beh, il fatto che i vestiti fossero al loro posto alla mattina, non significa che non siano stati tolti e poi rimessi. È una prerogativa dei vestiti. Comunque cara… grazie un sacco! TVB!
Nefele: l’espediente di una nonna che racconta è piuttosto comune nelle ff. Comunque grazie davvero, sempre gentilissima a commentare.Un bacio!
Minako83: MELIO CAMBIARE, NO? Dopo questa vado a sotterrarmi. Grazie, e baci!
Fiubi: beh… stitico è l’aggettivo che io uso per i capitolo più difficili, forse dipende dal fatto che ci metto molto tempo a… ehm… scriverli. Comunque sono contenta che alla fine ti sia piaciuto. Aspetto la tua opinione su questo! Baci!
Jaly chan: il mio linguaggio mentre la scena con Harry mi dava da fare era tutt’altro che etereo…comunque sono contenta che la mia finezza oxfordiana e i miei dialoghi non troppo gentili con i personaggi non traspaiano dallo scritto finale. Un bacio e grazie davvero per i complimenti!

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Capitolo 11
*** Forget Me Not ***


Allora, volevo dire solo un paio di cose:
1. GIU’ LE MANI DA AXL.
2. Questo che vi accingete a leggere dovrebbe essere il penultimo capitolo: mi manca un capitolo e l’epilogo. Avrei voluto finire tutto prima dell’uscita di Deathly Hollows, ma non ce l’ho fatta per un pelo. Il prossimo weekend la maggior parte di noi (me compresa) sarà impegnata nel vedere il beneamato Voldie lasciare questa valle di lacrime, quindi non avrete certo tempo di badare alla mia ff. Questo mi lascia una decina di giorni per mettere giù il finale al meglio delle mie possibilità, per deludervi il meno possibile. Buona lettura e un bacio a tutte!

CAPITOLO 11: FORGET ME NOT

“Where do we go from here?
This isn't where we intended to be
We had it all, you believed in me
I believed in you…”
“You must love me” from “Evita” (film, 1996)

Madama Chips sbiancò davanti allo spettacolo angosciante della schiena candida di Ginny ricoperta da mille piccoli tagli scarlatti: identici tra loro, alla stessa distanza l’uno dall’altro, partivano dal fondoschiena ed arrivavano a ricoprire le spalle, le braccia e persino le mani, in un’orrida e sottile tortura. Tuttavia sparirono in fretta sotto le mani esperte della vecchia infermiera, e Ginny sopportò l’effetto della pozione bruciante senza un lamento. Non sembrava neppure viva.
Né reagì quando le raccontai della profezia, se non con un debole sorrisetto amaro, il sorriso di chi aveva già da tempo compreso ogni cosa . Ma, anche se attesa, la verità faceva sempre e comunque un male d’inferno.
“Dì qualcosa, ti prego…” le dissi, vedendo che non accennava ad aprire bocca.
“E che vuoi che ti dica…” sospirò, “fa quasi paura quanto tutto questo abbia senso, alla fine…” Che voleva dire? Non era una sensazione familiare , né tantomeno confortevole, non riuscire a seguire il filo di un discorso.
“L’isola di smeraldo è l’Irlanda, Hermione, non lo sapevi?” chiese Ginny distrattamente, lo sguardo pensoso rivolto al ritaglio di cielo blu intenso che si vedeva dalla porta spalancata; la notte era calda e il profumo dell’estate ci avvolgeva, secco e fragrante.
Isanhild era una maga irlandese.
Ginny stessa aveva origini irlandesi.
Il cerchio doveva chiudersi, là dove si era aperto.
Come faceva Ginny ad essere così tranquilla e rassegnata? Non lo so, non lo so proprio…
Non era così che doveva finire. Era difficile togliersi quel pensiero infantile dalla testa. Ginny avrebbe dovuto essere mia cognata, damigella d’onore al mio matrimonio come io al suo… con Harry. Era il nostro sogno di ragazzine, mai confessato, ma sempre presente tra le parole non dette di quegli anni di amicizia, ad Hogwarts. Era quello il futuro che sognavamo. Non Ron disteso su un letto, immobile, senza più nulla se non la speranza di risvegliarsi, un giorno, con un buco di anni nella memoria. Non la sofferenza per la morte di tanti amici e familiari, non il dolore. Non Draco. Non così.
Eppure il mondo, gli dei, il destino… il caso… c’è un disegno, da qualche parte. Forse nascosto. A volte così incomprensibile che non sabbiamo dargli altro nome che “perversità”. Ma un disegno esiste, sempre… e il privilegio di aver vissuto tanti anni da non poterli nemmeno più contare è quello di poterne cogliere , finalmente, l’intero trama nella sua crudele complessità e bellezza.

“C’è una bestia che
Si addormenterà ogni volta che
Bella come sei, le sorriderai…”
“C’è una bestia…” from “La bella e la bestia” (Disney,1991)

Era passata da poco mezzanotte quando il drago si posò sul prato, planando sul pendio della collina. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi, ma c’eravamo tutti, un po’ nascosti, un po’ in disparte, e nessuno avrebbe lasciato partire Ginny senza dirle addio, almeno nel proprio cuore. Harry non si vedeva, ma c’era anche lui, da qualche parte.
Ginny si avvicinò al drago senza paura e accarezzò il muso nero e squamoso, che si era piegato in un timido inchino: il segno di resa di una delle più imponenti creature magiche al tocco gentile delle dita di una fanciulla.
La Principessa e il Drago.
La Bella e la Bestia.
Mille favole e sogni infantili mi attraversarono la mente, mentre guardavo Ginny salire sulla schiena del rettile ed abbracciare il collo possente, sistemandosi sull’attaccatura delle ali. Poi le ali si spiegarono, ampie e frangiate come quelle di un pipistrello, e il drago sparì nella notte.
Non rivedemmo Ginny e Draco per molto tempo, più di un anno… un anno, un mese e un giorno, in effetti, proprio come aveva predetto Calì. Fu un periodo lungo e tedioso. La condizione di Ron non accennava a cambiare, così come non sembrava voler mutare la logorante fase di stallo tra Voldemort e l’Ordine: la guerra era in ogni angolo, in ogni sorriso colpevole, in ogni lacrima nascosta… l’ultimo horcrux fu trovato e distrutto, ma per mesi il mondo magico continuò a trascinarsi in una angosciante tregua armata.
Il tempo passava lento e regolare, scandito non tanto dal procedere del calendario, quanto dai pensieri che, ciclicamente, passavano dal ricordo dei morti, all’ansia per i vivi… alle preghiere per i dispersi. No, nessuno di noi si dimenticò di Ginny e Draco, sebbene parlare di loro fosse diventato una sorta di tabù, due nomi evitati nelle parole ma ricorrenti nei pensieri che, per una regola non scritta, non venivano mai espressi.
Non so cosa accadde laggiù in Irlanda: i ricordi di Draco e Ginny di quel periodo sono frammentati ed incoerenti, così come dimezzate sono state le loro vite. Soltanto un episodio, un incontro, è stato raccontato da Ginny in modo abbastanza chiaro perché io possa raccontartelo a mia volta. Del resto, senza di esso, la storia non avrebbe alcun senso di essere tramandata.

“Time passes. Even when it seems impossible. Even when each tick of the second hand aches like the pulse of blood behind a bruise. […] Even for me.”
Stephenie Meyer
“New Moon”

La figura vestita di bianco vagava nel bosco, sola eppure tranquilla… come se nulla potesse farle del male, in quell’angolo di terra ancora non mutato dall’opera dell’essere umano. Trascinava per le briglie un cavallo dal mantello nero, il suo passo era lento e stanco, il suo sguardo distante; i suoi capelli, come fiamma sul candore della tunica che indossava, ondeggiavano nella brezza della notte, lunghi fino ai reni. Il battito sordo delle ali di un drago echeggiava, ripetendosi ogni pochi passi della donna e del cavallo, costruendo una ritmata melodia a tre voci nel silenzio della foresta. Un bagliore di luce azzurrina che traspariva dal fogliame fitto degli arbusti attirò gli occhi grandi e scuri della ragazza, che deviò impercettibilmente dal sentiero che seguiva, per inoltrarsi, con sicurezza, nel buio.
Un unicorno.
Un cucciolo, in realtà. Il piccolo corno argenteo risplendeva come un gioiello e anche il manto candido, di un bianco così puro da risultare praticamente celeste, emanava la debole luminosità caratteristica degli unicorni. Nelle forme acerbe e ancora sproporzionate si distingueva già la linea elegante e fine che avrebbe mostrato di lì a pochi mesi. Negli occhi espressivi, di un blu intenso screziato di grigio, si leggevano l’intelligenza e la sensibilità dell’animale che, tra tutti, era il più puro sulla faccia del pianeta.
Era accucciato a terra, accanto al corpo di un unicorno più grande a cui la morte aveva rubato ogni splendore. La folta criniera copriva come un sudario il muso elegante e gli occhi chiusi per sempre della femmina morta… Sul bianco del mantello, la luminosità del cucciolo si rifletteva creando, con un gioco di ombre, l’illusione che l’animale si muovesse ancora. Non c’è cosa più triste, più straziante della morte di una creatura così intrinsecamente buona, se non il dolore nello sguardo sperduto del suo cucciolo.
Il piccolino sollevò gli occhi per incontrare quelli di Ginny, colmi di compassione, ed emise un debole lamento; abbandonò il muso contro la mano che si tendeva piano verso di lui, strofinandosi come a cercare conforto. Ginny prese una bottiglia d’acqua dalla borsa che portava legata in cintura e ne versò un poco sulla mano per farlo bere.
“Chi sei?”
Il cavallo alle spalle di Ginny nitrì, ostile, e anche il musetto dell’unicorno tremò contro la sua mano. Ginny sollevò lo sguardo e si trovò davanti un anziano centauro, dai capelli rossi striati di bianco e l’aspetto possente, sebbene non aggressivo.
“Allora, chi sei, Gwenhwyfar?”
Gwenhwyfar… non un nome, ma un titolo: Fata Bianca. Il centauro non si era reso conto di averla chiamata con il suo nome di battesimo. Che poteva mai rispondere a chi mostrava di conoscere già la risposta?
“Io… sono dolore.” (*) disse, a voce sommessa.
Il centauro sembrò soppesare la risposta, poi chinò la testa, portandosi al petto i pugni chiusi in un curioso gesto di saluto.
“Ti aspettavamo, Gwenhwyfar. La tua venuta era scritta nelle stelle.”
“Immagino che sia vero…” sospirò Ginny rassegnata. A volte desiderava davvero che le stelle la smettessero di comportarsi nei suoi confronti come un branco di pettegole curiose. “E tu che sai leggere nelle stelle, puoi dirmi almeno il tuo nome?”
Il centauro sorrise, chinando di nuovo il capo.
“Sono Anfortas (**). Il mio branco ti da il benvenuto nel bosco sacro.”
“Ti ringrazio, Anfortas” concesse Ginny, riportando lo sguardo sul cucciolo di unicorno. Il pelo era serico e caldo, il musetto tremante si nascondeva, fiducioso, tra le sue dita.
“Hai la sua vita nelle tue mani, Gwenhwyfar. Questo non era previsto.”
“Che significa?”
“Un cucciolo di unicorno si lascia morire a sua volta, se la madre muore prima di averlo svezzato. Nessuno del mio branco è riuscito ad avvicinare Myosotis, nemmeno le femmine. Ma si è fidato di te.”
“Myosotis?”
Non ti scordar di me.
“L’abbiamo chiamato così, a causa del colore del suo mantello (***).”
Un nome che era quasi una preghiera.
Ginny annuì, accarezzando la groppa tremante del piccolo. Era stupefacente quanto quelle creature, simili a normali cavalli dotati di corno se guardate da lontano, fossero in realtà palesemente superiori in eleganza, finezza nell’aspetto ed intelligenza nello sguardo.
“Perché hai detto che questo non era previsto, Anfortas? Pensi che Myosotis fosse destinato alla morte, come sua madre?”
Anfortas sollevò il mento in un gesto rabbioso.
“Lyonnesse è stata uccisa dai bracconieri babbani, che la credevano un superbo cavallo selvatico. La sua morte è stata una tragedia per tutti noi… un unicorno che muore di morte violenta è un presagio di sventura e sofferenza. L’uccisione di una madre che allatta è un abominio indicibile, in quanto causa la morte anche del piccolo,” gli occhi del vecchio centauro mandavano scintille fredde di rabbia mentre parlava, scandendo le parole. “Il mio branco considera quest’eresia come un simbolo della malvagità che si sta diffondendo del mondo. Eppure… eppure ora riesco a vedere, ciò che non avevamo considerato. Il tuo arrivo, annunciato dalla stella che ha la forma del Drago che ti accompagna, darà un senso anche a quest’opera malvagia e violenta. Il sacrificio di Lyonnesse e di Myosotis non sarà vano.”
“Hai detto che la vita di Myosotis è nelle mie mani. Come puoi pensare che lo lascerò morire?”
Anfortas scosse la testa.
“Possiedi il potere di salvare molte vite Gwenhwyfar, e la compassione che ti guiderà nel farlo. Ma il destino di alcune creature è al di fuori della tua portata.”
“Se tu potessi anche soltanto immaginare quanto io sia stanca di sentirmi dire ciò che è scritto o non è scritto nel mio futuro… ho obbedito a tutte le dannate premonizioni e visioni che mi riguardavano, ho lasciato la mia terra, ho perso colui che sarebbe l’amore della mia vita… forse. Se potessi ancora guardarlo in viso” la voce si ruppe in un singhiozzo, “ma non lascerò morire una creatura che posso salvare soltanto perché qualcuno continua a leggere tra le stelle la parola morte. È scritta in una lingua che io non posso capire!”
Anfortas tese una mano rugosa verso di lei; lo sguardo era gentile, sebbene non riuscisse a perdere completamente la scintilla di orgoglio e superiorità che tutti i centauri provano nei confronti degli esseri umani.
“Non provare rabbia nei miei confronti, piccola amica umana. Non mi aspettavo certo meno dolcezza e compassione da una donna il cui destino è ripetuto da secoli nel grande circolo che disegnano gli astri del cielo. Ma io devo seguire la mia conoscenza” spiegò con voce paziente. “Vieni, con il tuo nuovo piccolo amico. Nessuno vi farà del male. Il mio branco ha cibo e acqua… anche per il nostro fratello che non ha il dono della consapevolezza” terminò indicando il cavallo.

“You have been the chosen one,
so welcome to this place.”
“Sign of the Cross” from “Avantasia, The Metal Opera – part I” (2001)

La radura si apriva per un piccolo spazio pianeggiante, circondata da alberi secolari e attraversata ai margini da un ruscello di acqua cristallina. Con tronchi morti e fasci di rami secchi, i centauri avevano costruito un riparo, ai margini del prato, dove stivare scorte di cibo e bevande. Uno spicchio di cielo nero si apriva al di sopra delle chiome degli alberi, mostrando alcune delle stelle che i centauri amavano così tanto osservare. Ma quella notte ogni astro impallidiva di fianco alla cometa che era arrivata al culmine del suo splendore: una fiammeggiante chioma argentea circondava il nucleo luminoso curvandosi poi in una virgola finale, mentre due sbuffi di vapore azzurrognolo ed iridescente di allargavano ai lati come le ali di un drago in volo.
Un giovane centauro le porse un grezzo bicchiere scavato nel legno, e Ginny ringraziò con un sorriso, senza tuttavia riuscire a distogliere gli occhi dalla cometa. La bevanda era calda e dolce, ed aveva il profumo pungente della resina bruciata.
“La cometa del Pendragon” sussurrò Anfortas al suo fianco, seguendo la direzione del suo sguardo. “è meravigliosa stanotte” commentò Ginny, rapita.
“Si, le stelle viaggiatrici sono sempre uno spettacolo sorprendente. Secondo le leggende di noi centauri più sono luminose, più hanno da raccontare.”
“E questa ti racconta qualcosa?”
Anfortas sospirò.
“Questa cometa,” esordì, quasi con orgoglio, “ha da raccontare più di tutte le pietre che calpestiamo, più dei granelli di sabbia che hanno conosciuto centinaia di maree… è la cometa che ha visto il Pendragon, che da lei ha preso il nome, combattere e vincere i demoni sassoni. Sotto la sua luce un mago potente ha rubato a quest’isola di smeraldo le pietre che sono le fondamenta del vostro mondo e della vostra cultura. Le pietre del Tempio del Sole.(****)”
Un’enorme ombra alata passò appena sopra le cime degli alberi, oscurando la luce delle stelle per qualche istante; i centauri chinarono la testa, i pugni chiusi al petto, in quel curioso gesto di saluto che Anfortas aveva usato poco prima per Ginny.
“Mi stai raccontando di avvenimenti così antichi da essere ormai quasi leggenda…”
“Stanotte questa stella racconta di te, Gwenhwyfar. Forse anche tu, un giorno sarai soltanto una leggenda: in fondo è nella natura degli umani inventare favole… chissà, forse ne scriveranno una su di te. Nel tuo destino c’è qualcosa di grande.”
“Perché ho l’impressione che non sarà una grande felicità?”
“Perché non sei in grado di guardare le cose da lontano. Per vedere ciò che le stelle raccontano… dovresti essere lassù. Con il Drago che viaggia con te.”
“Il mio cuore è con lui.”
“Allora seguilo. È quella la tua strada” concluse Anfortas, abbassando lo sguardo dalla grande cometa alata all’unicorno nascosto tra le gonne di Ginny. “E adesso devi metterti in viaggio: è tempo per te di ritornare alla tua terra. Il tuo nuovo piccolo amico ti seguirà, e la strada sarà lunga, non potendo volare.”

“Nel primo sole usciva dalla nebbia una terra verde di prati e bianca di scogliere, azzurra di cielo e di mare, cinta da spume ribollenti, accarezzata dal vento, salutata dalle grida di milioni di uccelli. La Britannia!”
Valerio Massimo Manfredi
“L’ultima legione”

Trecentonovantacinque giorni. Ne mancava soltanto uno allo scadere della profezia di Calì.
Io, che non avevo mai creduto nella divinazione, avevo spuntato quei giorni su un quaderno, contando il numero esatto di minuti che mi separavano da Ginny. Avevo passato quasi un anno consultando mappe, leggendo libri, facendo calcoli, nel tentativo di risolvere l’enigma della profezia che riguardava la mia amica.
E alla fine avevo capito. Mi ci era voluto più tempo di quanto non avessi mai creduto necessario per risolvere un semplice indovinello . Un duro colpo per la mia autostima… e la soluzione era lì, a portata di mano, un’intera sezione della biblioteca di Hogwarts, con il suo cartellino strappato e scolorito che recitava “Astronomia”.
Un’eclisse.
Esattamente trecentonovantasei giorni dalla notte in cui Ginny e Draco erano partiti, la luna si sarebbe frapposta tra la terra e il sole, oscurandolo completamente. L’eclisse, lassù in Scozia, sarebbe stata totale.
Un’anomalia nel ciclo naturale delle cose: la luce avrebbe ceduto il suo legittimo dominio sulla terra all’oscurità.
Una notte senza il giorno.
Un’eclissi, durante la quale i due sfortunati amanti avrebbero potuto, forse, trovarsi entrambi in forma umana.
Merlino, come diavolo avevo fatto ad essere così
lenta?!?

Avevo trovato il barlume della speranza tra la polvere della biblioteca, un luogo che raramente mi aveva tradito, in tutta la mia giovane vita. Ma tra gli archivi storici che testimoniavano il costante muoversi degli astri nel cielo, avevo scoperto anche un’inquietante, amara verità: durante le eclissi gli incantesimi si comportavano in modo strano. Sempre. Tutto era ben documentato, e c’erano stati maghi che avevano studiato il fenomeno, raccogliendo testimonianze e racconti, per tutta la loro vita. Con le mani tra i capelli e lo sguardo fisso sulle pergamene fitte di appunti, quella notte mi ero resa conto che, con ogni probabilità, nessun circolo di copertura, nessun incanto fidelius, nessun incantesimo trappola, nessuna protezione magica avrebbe continuato a funzionare durante quell’evento eccezionale . Eravamo abbandonati a noi stessi.
Se anche il nostro nemico possedeva quella conoscenza (e a quel punto ero quasi certa che un particolare del genere non fosse sfuggito a Lord Voldemort) avremmo dovuto aspettarci un attacco proprio nelle ore in cui il sole si sarebbe oscurato.
Ero sola nella biblioteca, quella notte d’estate; la luce irreale della cometa a forma di Drago, penetrava dai vetri macchiati delle finestre. Era la terza estate senza Ronald, l’estate seguente a quella in cui Ginny aveva conosciuto e amato Draco Malfoy. Theseus mi aveva detto che una cometa così splendente non poteva essere portatrice di tragedia… ma io sapevo che ogni medaglia ha due facce ben diverse tra loro, e che anche la vittoria ha il suo lato in ombra: quale sarebbe stato il prezzo, nel caso fossimo finalmente riusciti a vincere la battaglia che si preparava?

Ma quell’estate volgeva al termine e già i colori dell’autunno indoravano le cime degli alberi della foresta proibita. Era la trecentonovantacinquesima mattina quando, uscendo nella nebbia perlacea delle prime ore del giorno, mi trovai davanti un cavaliere, dal mantello nero come la notte, nero come il cavallo che montava. Bionde ciocche di capelli scendevano a dare la sola luce a quella figura che sembrava interamente fatta d’ombra.
“Malfoy…” sussurrai, senza accorgermi di avere gli occhi pieni di lacrime.
Malfoy sollevò un braccio, e sul momento pensai che fosse un gesto di saluto, ma all’improvviso una splendida fenice planò dal cielo e si posò sul suo polso. I raggi del sole nascente si riflettevano sulle piume dell’uccello, accendendole di mille bagliori rossi. Davanti a quello spettacolo di struggente bellezza non potei fare a meno di impedire alla speranza di insinuarsi nel mio cuore. Istintivamente cercai lo sguardo di Draco, ma nei suoi occhi grigi c’era soltanto una rassegnata tristezza, il dolore accumulato in quasi quattrocento giorni tristemente identici a quello… l’ennesima alba di un giorno senza Ginny.

“Waiting for tomorrow just to see your smile again
Take away my sorrow from a blistered heart of mine”
“Anywhere” from “Avantasia, The Metal Opera – part II” (2002)

********

(*) Dal film LadyHawke. È la risposta di Isabeau, quando Philippe le chiede chi è.
(**) E qui torniamo ai miti arturiani: Anfortas è il nome del Re Pescatore, uno dei custodi del Santo Graal, nel “Parzival” di Wolfram von Eschenbach.
(***) Dalle mie reminescenze di botanica, Myosotis dovrebbe essere il nome latino del Non-ti-scordar-di-me, il famoso fiorellino azzurro. Sapevate che anche in inglese è chiamato Forget-me-not? È da li che ho preso il titolo del capitolo. Lyonnesse, il nome che ho usato per la madre, è una delle “terre perdute” in un cataclisma marino, come Atlantide e molte altre isole leggendarie.
(****) La faccenda della cometa a forma di drago, da cui Uther Pendragon avrebbe preso ispirazione per il proprio soprannome e per lo stendardo che gli apparteneva, è una leggenda abbastanza rinomata. La frase seguente riguarda invece una leggenda meno famosa, secondo la quale le pietre di Stonhenge sarebbero state portate in Britannia dall’Irlanda, da Merlino stesso… ovviamente Stonhenge è molto più antico di Merlino, ma l’idea mi è sembrata romantica. Dire che Stonhenge costituisca il fondamento della cultura celtica forse è un po’ pretenzioso da parte mia, ma i cerchi monolitici di certo ne hanno fatto parte ed è un richiamo alla profezia di Calì e a qualcosa che succederà in seguito. Quindi perdonate le mie licenze poetiche.

Grazie davvero a tutte! A Thaiassa, Seiryu, Aurora, GIU, Saty (il litigio tra Draco ed Harry non ci sarà, anche nel capitolo scorso Draco fa chiaramente capire che gliene frega niente di litigare con Harry… e poi sinceramente, ma vuoi davvero sentire Potter che strilla?!? Comunque grazie darling, sempre cariissima!), Curiosity (mi sa che dovrai contendere il titolo a chi lo detiene da tempo! Comunque grazie!), Euridice (vedi commento inizio capitolo. E comunque non ho il più il fisico per scrivere scene come quella del tappeto….), Nefele, Minako83 (Ginny-fenice ha un suo perché nella trama, non è soltanto una questione di colori e simbologia Gryffindor… ma dovrai aspettare la prossima puntata).

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Capitolo 12
*** Phoenix Tears ***


Dunque siamo arrivati alla fine. Mi dispiace per averci messo più del previsto, ho un pessimo rapporto con i finali, sia emotivamente che a livello “tecnico”, quindi abbiate compiacenza. È stato un capitolo piuttosto difficile da scrivere, come vedrete è abbastanza complesso far quadrare tutto senza ambiguità… e comunque gran parte di ciò che leggerete è tale per merito (o colpa) della mia efficientissima beta, Chiara-Spugnetta-Kid-Weasley.
Buona lettura!

CAPITOLO 12: PHOENIX TEARS

Capisci, Sabine? Non hai colto l’avverarsi della profezia?
“L’isola di smeraldo nasconde il segreto che solo il dolore potrà avvicinare.”
Colta alla sprovvista dal centauro che, senza rendersene conto, si era rivolto a lei con il suo vero nome, Ginny aveva risposto con la prima parola che le era venuta in mente: “Io sono dolore.”
Myosotis. Il piccolo unicorno azzurro… era lui il segreto. E ancora: era lui la luce, quella che ci avrebbe salvati… ma a che prezzo, bambina mia, a che prezzo!
E nel frattempo, era arrivata la notte… e io sapevo, non so come, dove avrei trovato colei che cercavo. Guidata dalle ali nere del drago che volava sul cielo di Hogwarts, come a pattugliarne instancabile le torri, raggiunsi l’entrata del Giardino dei Fiori Notturni.

Philippe: “Are you flesh, or are you spirit?”
Isabeau: “I am sorrow.”
From “LadyHawke” (film, 1985)

Hermione varcò la soglia floreale del giardino, ascoltando il tenue e armonioso ronzio prodotto dai fiori scarlatti che pendevano, muovendosi languidamente nell’aria notturna, sulla sua testa. Sul verde scuro della vegetazione spiccava una macchia di chiarore azzurrognolo, immobile, eppure pulsante di vita; avvicinandosi attraverso il tunnel Hermione riuscì a riconoscere la forma di un giovane unicorno, accucciato ai piedi dell’altalena che cigolava pigramente. Sull’altalena, le gambe raccolte al petto, stava la figura pallida di Ginny, i capelli ormai lunghissimi che cadevano come una cascata insanguinata sul candore del vestito. Al suono dei suoi passi, Ginny scese dall’altalena con un movimento aggraziato e le corse incontro; l’unicorno si alzò a sua volta e mosse qualche passo con la sua andatura regale ed elegante, quasi volteggiasse invece di camminare… il corno emanava bagliori argentati alla luce della luna, oltre la spalla di Ginny.
Hermione abbracciò stretta l’amica – la sorella – mentre un nodo di lacrime, bloccato in gola, le impediva di parlare. Era magra Ginny, magra e gracile come una sottile ballerina di vetro soffiato; l’ampia veste dalle cintura intrecciata di pelle di cervo che si annodava sul fianco, tipica dei maghi irlandesi, nascondeva la sottigliezza della sua vita, ma non la fragilità delle sue spalle nude, bianche quasi quanto la veste. Gli occhi scuri non erano cerchiati o gonfi, ma la pelle attorno alle lunghe ciglia era così traslucida e sottile da lasciar intravedere le minuscole vene azzurrine.
“Non mi dona la vita notturna, vero?” ironizzò, notando con quanta accortezza Hermione la stesse fissando.
“Oh, Ginny…” mormorò Hermione, senza sapere se ridere o piangere.
Rimasero in silenzio per un po’, camminando nell’erba alta fino al gazebo. Myosotis le seguì a pochi metri di distanza, quasi che volesse vegliare su Ginny ma non si fidasse abbastanza dell’altra ragazza per avvicinarsi di più.
“L’ultima volta che sono stata qui, questo luogo era pieno di fiori bianchi…” mormorò Ginny. Anche la sua voce era cambiata, più roca, più sommessa… come se non fosse più abituata ad usarla. Hermione, nonostante l’emozione di rivedere l’amica, viva, se non in salute, non riusciva a distogliere gli occhi dal giovane unicorno che si stava accucciando di nuovo vicino ai piedi di Ginny.
“Ginny… lui…”
Ginny sorrise, debolmente.
“Lui è la luce… è quello per cui il fato mi ha spedita in Irlanda. Non so quale sia il suo destino, ma so che è necessario per chiudere il cerchio. Amica mia, ti presento Myosotis.”
Myosotis.
Non ti scordar di me.

Un rintocco lugubre di campane sembrò scandire quelle poche sillabe – cinque parole che erano un nome e, insieme, una preghiera. Le parole gracchianti di Calì fecero da eco a quella sensazione viscida e fredda che le stava mozzando il respiro, la sensazione che fosse tutto deciso, che non ci fosse nulla di rimasto da fare… se non aspettare. E ricordare.
No… non dimenticheremo quel sangue. Non ci dimenticheremo di lui.
“Non ti scordar di me…”
C’era tanto dolore, tanta angoscia nel mormorìo di Ginny, che Hermione non trovò il coraggio di parlare. La rossa allungò una mano e l’unicorno spinse il muso elegante sulle sue dita, lasciandosi sfiorare dalla carezza leggera. Era un gesto così intimo, così dolce, che per un istante Hermione si sentì quasi di troppo in quel giardino fatato, circondato da secolari rampicanti, pieno di profumi che la notte amplificava, illuminato dall’intermittente danzare delle fate tra le foglie e, ora, dal chiarore ultraterreno dell’unicorno.
“Il Giardino di Isanhild non si è più aperto mentre eri via, Ginny… ormai è diventato il tuo giardino, è a te che risponde.”
Ginny sollevò il viso e aspirò il profumo dolciastro delle campanule rosse, persa in ricordi segreti che Hermione non avrebbe mai condiviso. Lo scintillìo delle fate sui suoi capelli, li accendeva di bagliori di fuoco, lo stesso riflesso ardente delle piume della fenice… non sembrava più nemmeno completamente umana.
“Tutto è cominciato qui…” mormorò, abbracciando con lo sguardo la volta di foglie del gazebo, con i suoi riccioli di ferro battuto. Sul pavimento e sul sedile dell’altalena c’erano ancora le coperte che Draco aveva lasciato lì, più di un anno prima. “Tutto sta per finire, in un modo o nell’altro, giusto?”
Hermione la osservò per qualche istante, cercando di scegliere il modo per dirle ciò che stava per accadere. Maledizione, ma perché doveva toccare sempre a lei?!?
“Mi sei mancata così tanto…” Le parole rotolarono fuori dalle labbra di Ginny, e passò un istante prima che Hermione si rendesse conto di non averle pronunciate lei stessa, tanto facevano eco ai suoi stessi pensieri. “Anche tu. Prima Ron. Poi tu… mi sentivo così sola…”
Era dannatamente ingiusto, da parte sua, e lo sapeva. Ginny era stata davvero sola laggiù in Irlanda, senza nessuno al suo fianco se non il ricordo di un ragazzo il cui cuore batteva, incatenato da una maledizione crudele, nella bestia feroce che volava sulle loro teste. Lei aveva vissuto solo metà della sua vita in quell’anno maledetto, la metà oscura, senza la compagnia di nessuno. Ed Hermione non riusciva a trovare di meglio che frignare di essersi sentita sola? Ma Ginny sorrise, con dolcezza, sorprendendola ancora. “Mi mancava anche Ron. Non avevo nessuno a parte il cavallo con cui parlare.”
“Ginny…”
La voce si ruppe nella gola di Hermione, che dovette respirare forte e schiarirsi la voce.
“Ginny, ne valeva la pena? Ne valeva la pena per lui?” le chiese.
Questa volta la rossa non sorrise. “Hermione che stai dicendo…?”
“Ti sto chiedendo se tutto quello che hai passato… se ne è valsa la pena. Devo saperlo, o non posso andare avanti” ribadì, mentre il tono di voce si faceva più sicuro.
“Hermione…” sospirò Ginny, “non ho avuto scelta! Se anche non l’avessi amato, il mio destino era questo.”
“No. Se tu non l’avessi amato, tutto questo non sarebbe successo: la maledizione non avrebbe funzionato, tanto per cominciare.”
“Allora hai già la tua risposta, non credi?”
“No… ti sto chiedendo se lo ami, adesso.”
“E come potrei aver smesso?” Ginny si alzò in piedi e la sua fragilità sembrò scivolarle dalle spalle come un mantello leggero: improvvisamente sembrò alta, lontana e luminosa quanto la luna stessa. “Sai già la risposta, Hermione. Perciò dimmi dove vuoi andare a parare.”
Hermione sospirò, frugando nella tasca dei jeans; un bagliore color sangue sfuggì alle sue dita prima che la mano si aprisse rivelando un piccolo pugnale d’argento dall’impugnatura tempestata di piccoli rubini. La finitura dell’oggetto era delicata e ricordava un groviglio di rami d’edera intrecciati; la fine cesellatura e il filo perfetto della lama non lasciavano alcun dubbio sulla provenienza del pugnale: era un manufatto praticamente senza prezzo, dalle misteriose caratteristiche magiche.
“Argento dei goblin” commentò Ginny, “Dove l’hai preso?”
“Draco. Me l’ha dato oggi.”
Un lampo di dolore, di invidia rabbiosa ed impotente, passò negli occhi scuri di Ginny. Era tremendamente ingiusto, era un’eresia che lei, Hermione, avesse potuto vedere Draco, guardarlo negli occhi e sentire la sua voce, mentre a Ginny questo era negato da tanto tempo, così tanto tempo... è strano come la gente pensi che il tempo sia tanto quando “non si può più contare”: Ginny avrebbe potuto dire, lì su due piedi, il numero esatto delle lunghissime notti che erano passate da quella notte, l’ultima in cui era stata con Draco.
“Come… come sta?” chiese Ginny con voce tremolante. La domanda sarebbe suonata sciocca senza quel desiderio, quella dolcezza infinitamente triste nascosta in quella pausa imbarazzata tra le parole.
“Come te,” rispose semplicemente Hermione, e in quelle poche sillabe c’era racchiuso tutto ciò che Ginny voleva sapere. “Non vuoi sapere perché mi ha dato quest’arma?”
“Sono cresciuta tra le superstizioni dei maghi, Herm. L’argento, in particolare l’argento forgiato dai goblin, è l’unico metallo in grado di uccidere lupi mannari, vampiri, salamandre… e fenici. Le fenici non possono risorgere dalle proprie ceneri se ad ucciderle è stata una lama d’argento.”
Lo sguardo di Ginny si era fatto lontano, come se le parole terribili che aveva appena pronunciato non la riguardassero, fossero una semplice lezione imparata a memoria. Hermione sospirò.
“Ci sarà un’eclisse domani, Ginny… una notte senza il giorno… è domani che la profezia potrebbe avverarsi, è domani che tu e Draco potreste trovarvi di nuovo in forma umana, entrambi, per sfidare chi ha formulato la maledizione.”
La rossa spalancò gli occhi e scrutò Hermione, il cui viso risplendeva, pallido e preoccupato nell’ombra, illuminato soltanto dal chiarore di Myosotis che si rifletteva sulla lama lucente nella sua mano.
“E allora… perché…”
“Durante l’eclisse gli incantesimi che proteggono Hogwarts si romperanno: il castello sarà vulnerabile. È già successo in passato. Dobbiamo aspettarci un attacco in quelle ore.” Hermione spalancò la bocca cercando inutilmente le parole, poi la richiuse e strinse le labbra con forza prima di bisbigliare “Draco sarà là per affrontare suo padre, Ginny. Se tu non riprendessi forma umana, o se la maledizione non potesse essere spezzata… e lui fosse morto…” deglutì a fatica, mentre gli occhi le si riempirono di lacrime. “Lui non vuole che tu sia imprigionata per sempre in questa vita a metà.”
Ginny annuì e abbassò la testa, celando il suo viso dietro la cortina di morbidi capelli rossi.
“Ginny…”
“Ho capito.”
“Ginny, è per questo che ti chiedevo se ne è valsa la pena per lui!! Lui non ha il diritto di prendere questa decisione per te! Non ha il diritto di… di chiedermi questo!”
Hermione stava piangendo senza ritegno e Ginny alzò lo sguardo.
“Ne ha il diritto, Hermione. Se tu morissi e non potessi prenderti più cura di Ron, vorresti che rimanesse per sempre in quel letto, eternamente addormento, senza nemmeno più la speranza di poterti vedere al risveglio?”
“Ginny… no! No, io… ma non posso!”
“Puoi. Amare una persona significa sopportare il peso delle decisioni che si prendono anche per lei. E forse è vero, hai ragione, lui non ha il diritto di chiedere a te di uccidermi se le cose dovessero andare male. Ma io? Io ho il diritto di chiederti questo favore, amica mia?”

“Morire, dormire, sognare forse…”
Shakespeare
“Amleto”

E fu dalle alte finestre profilate di ferro battuto della grande sala di Hogwarts, che osservammo, spaventati ma determinati, il sole oscurarsi, l’aria diventare fredda e densa di paura come all’arrivo di un dissennatore… ma era la nostra paura a mozzarci il fiato, non una paura creata da oscuri spiriti, era una paura reale, tangibile: la paura per l’uomo o la donna al nostro fianco, la paura di poterlo guardare in viso per l’ultima volta in quella livida penombra che sapeva di morte e catastrofi. Sentimmo gli scudi magici che proteggevano Hogwarts, vibrare come lunghissime corde di un’arpa, l’aria tremò, e infine capimmo di essere, per la prima volta, indifesi…
Si, tesoro, c’ero anch’io quel giorno. Dovevo esserci, capisci?
Avevo portato Ron nel sotterraneo, protetto dagli stessi incantesimi che, lo sapevo, sarebbero svaniti durante l’eclisse, ad Hogwarts come nella casetta. Non c’era speranza di proteggerlo meglio di così. Del resto l’eclisse non sarebbe durata in eterno… e se Hogwarts fosse caduta… Ginny aveva ragione, no?Come potevo chiedere che Ron restasse in vita quando non c’era più alcuna speranza per noi in questo mondo?
E così anche io ero là, in prima fila al fianco di Harry. Al mio posto. Nella mano la bacchetta che mai mi aveva tradito in quegli anni, e in tasca sentivo il peso del coltello d’argento attorno al quale Draco aveva stretto le mie dita.
All’oscurarsi del cielo il pianto della fenice risuonò una volta, colmo di malinconia e attesa, tra le torri del castello. E poi accadde: ombre nere si materializzarono nella stanza, circondandoci, e i lampi rossi degli schiantesimi illuminarono l’enorme sala. E fu soltanto urla e luce, per un tempo che a noi sembrò eterno.

“Fire falling from the sky
Rage of god is coming down
Armaggeddon's drawing nigh
Sinner cry ! Heathen die !”
“The Seven Angels” from “Avantasia – The Metal Opera, part II” (2002)

Ginny corse lungo il corridoio, sfiorando appena il pavimento, quasi che avesse ancora ali piumate al posto delle braccia; il vestito candido si impigliò nella lancia imbracciata da una vecchia armatura, strappandosi, ma lei nemmeno se ne accorse.
Arrivata alla sala grande si fermò ansimante sulla soglia, osservando la scena della battaglia con il terrore negli occhi. Draco era lì, proprio davanti a lei. I lunghi capelli biondi ondeggiarono nell’aria, mentre il braccio eseguiva un movimento circolare ed elegante per portare la bacchetta, ferma nella mano destra, in posizione di attacco: di fronte a lui, Lucius Malfoy era crollato in ginocchio ansimante, il petto squarciato per tutta la sua lunghezza da un taglio netto e profondo, negli occhi l’espressione di un folle che, nonostante tutto, ha capito di essere arrivato al traguardo.
“Perché, padre…” sillabarono le labbra secche del ragazzo, “Perché?”
Lucius rispose con una risata gorgogliante di sangue e un bagliore di pazzia scintillò negli occhi in cui quelli del figlio si rispecchiavano alla perfezione. Tutta la nobiltà di portamento, la fine eleganza che contraddistingueva il suo casato, sembrava essere scivolata via da quel volto distorto da una follia omicida ed insensata. Merlino… a questo aveva portato quell’odio, quella guerra, quell’ossessione per la purezza del sangue che un tempo, nella sua mente di bambino, Draco aveva condiviso! Il viso di Draco si contorse in una smorfia di doloroso disgusto, e la mano si strinse, ferma, attorno alla bacchetta: sapeva quel che doveva fare, ci aveva pensato per un anno, un mese e un giorno… aveva atteso quel momento. Ma non aveva resistito alla tentazione di chiedere perché. Perché, maledizione, perché mi costringi a fare questo?
“Draco!” strillò Ginny, lanciandosi verso di lui.
Gli occhi grigi e freddi di Draco si staccarono per solo un istante da ciò che rimaneva del padre, e si spalancarono come per raccogliere in un solo sguardo l’intera immagine di Ginny – la sua Ginny - che gli correva incontro. I suoi lineamenti duri e impenetrabili erano più adulti dell’ultima volta che l’aveva visto, ragazzo cresciuto troppo in fretta, tra i fiori magici del giardino… un taglio si apriva sullo zigomo, e gocce di sangue rotolavano sulla guancia, come lacrime, per cadere e perdersi sulla stoffa nera del mantello. Senza bisogno di parlare, solo con ciò che i loro occhi riuscivano a dire gli uni agli altri, in silenzio, Ginny gli si aggrappò al collo per non cadere mentre la mano destra si posava su quella di lui che impugnava la bacchetta.
Insieme. In forma umana.
Lucius Malfoy emise ciò che avrebbe dovuto essere un grido, di delusione e di rabbia divorante nel vedere lei, nel vederli insieme, davanti a lui, vivi. Cercò di rimettersi in piedi e puntare la bacchetta verso il figlio che lo aveva sfidato e che aveva deluso lui e l’intero casato, secondo il suo pensiero ormai distorto… ma Ginny lo prevenne. “Stupeficium!” gridò, e la bacchetta di Draco rispose al suo comando come avrebbe risposto a quello del suo legittimo proprietario. Lo schiantesimo lanciò il mangiamorte qualche metro indietro, mandandolo a cadere di schiena sui gradini; sbattè la testa sulle pietre e giacque, finalmente immobile, mentre una pozza di sangue scuro si allargava velocemente tra i capelli biondi.
Draco si irrigidì, espirò pesantemente e chiuse gli occhi per un istante. Era finita. Era sua padre… ma era un assassino, un uomo in grado di condannare il proprio figlio, il proprio stesso sangue ad una vita maledetta, dimezzata, per sempre. Era un pazzo, un folle omicida. Era morto, l’avevano affrontato insieme e l’avevano vinto. Morto.
Erano liberi.
Strinse Ginny a sè, incredulo di rivederla di nuovo, e in quel momento un chiarore azzurro illuminò le loro figure abbracciate: Myosotis, che aveva seguito Ginny nel castello, era fermo sulla porta della stanza, gli zoccoli argentei immersi, come un triste presagio, nel sangue di Lucius Malfoy.

La stanza sembrò pietrificarsi. Il chiarore dell’unicorno illuminò, pulsante, l’intera sala ed ogni uomo, donna o cadavere che si ammassava in essa: le bacchette si abbassarono e mille occhi si spalancarono, sconvolti. Un unicorno… la creatura più pura, più innocente, la creatura che più di tutte aborriva la violenza, l’odio e la malvagità di cui quel luogo era impregnato fino alle fondamenta, di cui quelle pietre, scure nella penombra, ormai sembravano imbevute. Un unicorno era lì, in quella sala, la testa elegante sollevata come in un gesto di naturale orgoglio, senza paura, gli occhi intelligenti spalancati e colmi di qualcosa che somigliava molto alla pietà.
Lo splendore fuori posto di quella bestia incantevole sembrava aver pietrificato tutti… tutti, tranne lui.
Ginny guardò con orrore il viso deforme dell’Oscuro Signore sconvolgersi in una selvaggia risata, incurante del chiarore sovrumano di Myosotis al cui confronto la sua pelle appariva grigia, quasi verdastra. Ai suoi piedi, Harry si contorceva, piegato da una Cruciatus; la camicia, strappata sulla schiena e sul petto, era inzuppata di sangue e anche il viso distorto dal dolore era ricoperto di tagli. Luna, in lacrime, era trattenuta da due mangiamorte, costretta a non volgere il viso davanti alle torture del suo Harry Potter.
Probabilmente Voldemort non sapeva che gli Horcrux erano stati distrutti. Tutti.
Probabilmente non sapeva di non potersi permettere di giocare al gatto col topo, con Harry. Perchè era proprio quello che stava facendo, stava giocando: stava dimostrando di essere un mago migliore, anzi il miglior mago vivente; stava provando a tutti coloro che avevano osato dubitarne di poter giocare con quel piccolo, arrogante ragazzino che si era permesso di mettersi in mezzo alla sua scintillante strada verso il potere e l’immortalità. Poteva torturarlo e godere del suo dolore, finalmente.
Probabilmente Voldemort non sapeva. Ma in fondo non importava perché stava comunque vincendo, a quel dannato gioco: aveva ridotto Harry ad un ammasso dolorante e coperto di sangue, che difendeva quel brandello di vita con la forza della disperazione, nemmeno più in grado di muovere correttamente la bacchetta.
Perchè, dannazione! Non era così che doveva andare!
Harry avrebbe dovuto avere qualcosa, qualcosa in più che gli avrebbe permesso di sconfiggere Voldemort! Avrebbe dovuto vincere!
Come se avesse udito i pensieri di Ginny, o forse attratto da qual chiarore che sembrava emanare pace e dolcezza, Harry alzò la testa incontrando prima lo sguardo di lei, poi quello pietoso e buono dell’unicorno alle sue spalle. Il verde incredibile dei suoi occhi sembrava più vivido che mai in quella luce, e c’era qualcosa in quegli occhi, qualcosa che implorava. Aiuto, perdono… o forse entrambi.
Proprio in quel momento Voldemort puntò deciso la bacchetta verso il suo corpo raggomitolato e sulle sue labbra piatte iniziarono a formarsi le sillabe dell’anatema che uccide. Era finita. Quasi ne fosse consapevole, le palpebre di Harry si chiusero.
“Nessuno può aiutarti, Potter. Dobbiamo salutarci, finalmente. Avada Kedavra!”

Il rumore degli zoccoli aveva risuonato argentino contro le pietre della sala, nella breve, velocissima corsa di Myosotis verso Voldemort. La luminosità che la creatura emanava si era intensificata, diventando quasi accecante, come l’ultimo bagliore agonizzante di una stella che muore.
Ginny aveva urlato. Uno strillo acuto, incredibilmente straziante, che aveva riempito la sala, accompagnando l’impennarsi dell’unicorno davanti alla bacchetta del più grande mago oscuro di tutti i tempi… un unicorno rampante che l’anatema che uccide colpiva, implacabile, in pieno petto. E poi, nel breve silenzio che segue il tonfo sordo di un corpo morto che cade a terra, la luce si spense.

Il singhiozzo di Ginny echeggiò nella sala ammutolita, seguito dal breve grido, soffocato e disumano, di Voldemort, che crollava quasi in ginocchio, le mani convulsamente schiacciate sulle tempie.
Aveva ucciso un unicorno: il sangue scintillante di quel sacrificio, come argento liquido, usciva dalla bocca semiaperta dell’animale, allargandosi in una pozza di luce sulle pietre. Calì gridò, portandosi le mani agli occhi come se la luminosità di quel sangue la stesse accecando.
Il sangue brilla…!
Voldemort schermò con una mano gli occhi rossi da serpente e si risollevò per puntare nuovamente la bacchetta contro Harry. Non si sarebbe arreso. Schiavo della sua stessa follia, non sarebbe mai, mai, riuscito a cogliere il senso e l’entità del particolare potere racchiuso in un sacrificio. La comprensione di quella magia avrebbe continuato a eluderlo, spingendolo a compiere, ancora e sempre, lo stesso errore.
“Avada Kedavra.”
Harry sollevò gli occhi tristi sulla luce verde che lo stava investendo, come in attesa… ma la luce non arrivò mai a toccarlo: un calore diffuso e sovrumano sembrò avvolgerlo come uno scudo, fu invaso da una serenità silenziosa e rassicurante, in cui nulla importava se non il riflesso lontano di quella luce verde che si avvicinava, per poi rimbalzare immediatamente e allontanarsi nella stessa direzione da cui era venuta. Ancora una volta.

Quando riuscì di nuovo a vedere il mondo reale e a sentirne tutto il devastante dolore, Harry sollevò la testa e le spalle con uno sforzo sovrumano, e si ritrovò al centro di una sala scura, muta e immobile, colma di cadaveri coperti di neri mantelli e maschere argentee, piena di persone che amava… vive, e in lacrime. A separarlo dal corpo immobile di Lord Voldemort c’era la sagoma elegante e composta di un unicorno: era così bello, anche nel gelo della morte, che si sarebbe potuto dire addormentato, non fosse stato per quel sangue denso ed argenteo che gli usciva dalla bocca, quel sangue dagli straordinari poteri per cui tanti uomini non avevano esitato ad uccidere. Vicino a quel candore immobile, il corpo di Lord Voldemort sembrava un viscido verme nero e velenoso, un ammasso di resti immondi che contaminava ogni cosa, anche nella morte.
La vita aveva abbandonato quel corpo.
E non esistevano più Horcrux per conservare intatta quella coscienza, quell’essenza che l’aveva mantenuto in una parvenza di vita più di vent’anni prima.
Era morto.
Lord Voldemort era finalmente, innegabilmente… morto.
Harry fissò quegli occhietti rossi, iniettati di sangue e di malvagità, fissi nel nulla, con ancora i riflessi di quella verde maledizione che aveva inflitto così tanti lutti a così tante famiglie… e che aveva avuto la meglio su di lui, alla fine. Soltanto la magia nera intrisa della sua malvagità manteneva intatto quel corpo che avrebbe dovuto decomporsi da tempo. Harry puntò la bacchetta contro il cadavere e mormorò: “finite incantatem.”
E ciò che era stato Lord Voldemort svanì in una piccola nube di polvere.

“Siamo vivi, pesti e sepolti ma vivi. E da fuori giungono i rumori di chi sta scavando per estrarci dalle macerie.”
Giorgio Faletti
“Io uccido”

Con un debole sospiro, accompagnato dall’ululato di dolore dei mangiamorte ancora in vita, Harry si accasciò contro la schiena ampia e morbida del cadavere di Myosotis. Le macchia di sangue sui brandelli di camicia erano ormai grumi gocciolanti e ciò che restava della pelle di Harry era pallido come la morte. Luna si divincolò e gli fu accanto, mormorando parole confuse tra le lacrime e i singhiozzi; Harry le prese la mano e tentò di stringerla tra le dita. Stava morendo; ed era troppo debole anche per dirle addio.
Il frusciare di una veste sul pavimento lurido, accanto a loro, costrinse Harry e Luna a sollevare il viso. Ginny si era avvicinata in silenzio, con una mano accarezzava il fianco ormai freddo di Myosotis, ma il viso era rivolto verso di loro, con i grandi occhi scuri pieni di lacrime e di pietà.
“Non vedo più nulla…” mormorò Harry, a voce così bassa che soltanto le due ragazze al suo fianco riuscirono ad udirlo, “eppure l’eclisse dovrebbe essere finita…”
Era vero. L’eclisse si stava allontanando, e un vago chiarore ricominciava a riempire la stanza: ci sarebbero voluti alcuni minuti prima che il giorno ritornasse di nuovo tale.
Anche Hermione si avvicinò e crollò in ginocchio accanto all’amico, trattenendo un singhiozzo con la mano premuta sulle labbra.
“Mi dispiace…” mormorò Harry, guardando il viso di Luna, sconvolto dal pianto.
“No! No…” Luna scosse la testa, lanciando occhiate imploranti a Ginny ed Hermione, gli occhi azzurri spalancati dal terrore, “No! Ti prego…”
Ginny chinò il capo, e lasciò che le lacrime scorressero copiose sulle sue guance; alle sue spalle Draco, si era avvicinato e le aveva posato una mano sulla spalla, in un gesto di conforto. Mentre alzava il braccio per andare a stringere quella mano, una lacrima scivolò via, brillando nella luce che sorgeva di nuovo, per cadere sul petto squarciato di Harry.
La ferita sfrigolò come colpita da gocce di olio bollente, Harry si inarcò, la bocca spalancata in un muto grido di dolore, e poi… più nulla. Ci fu soltanto lo strillo sconvolto di Luna e di Hermione quando videro che, sotto le macchie di sangue rappreso, la pelle di Harry era pulita e intatta, come se non fosse mai stato ferito. Harry riprese a respirare e decine di paia di occhi si puntarono sulla figura bianca di Ginny.
“le lacrime della fenice…” fu il mormorio confuso che percorse la sala, mentre Ginny si alzava e abbracciava stretto il ragazzo biondo alle sue spalle.
In quel momento i raggi di un sole più splendente che mai inondarono la grande stanza e Ginny alzò il viso verso di essi, assaporando ad occhi chiusi la calda carezza che non sentiva da più di un anno; una gioia incredula le pulsava nel cuore, e le braccia di Draco la stringevano, viva e umana.
Quando aprì gli occhi, la luce dentro la sala era così abbacinante da costringerla a chiuderli di scatto e riaprirli più lentamente. Ma non erano solo i suoi occhi abituati all’oscurità a non sopportare la luminosità del sole: tutti i presenti si schermavano il viso con le mani. I raggi si riflettevano sulla piccola pozza di sangue argenteo dell’unicorno, come su uno specchio in grado di amplificarne mille volte l’intensità. I bagliori riflessi sembravano scorrere sulle pietre del pavimento e delle pareti, inondandole di luce bianca e accecante.
La luce di cento stelle brilla in quel sangue! Fa rivivere le fondamenta del mondo!
Myosotis… era la luce. La luce che aveva salvato la vita di Harry. La luce che Ginny aveva portato con sé dall’Irlanda. La luce che si era spenta. Ma il suo sangue continuava a brillare e riportava alla vita le fondamenta annerite del mondo, del loro mondo: di Hogwarts.
Mentre lo stupore sembrava aver tolto a tutti la capacità di muoversi, il rumore di un coltello d’argento che cadeva sulle pietre risuonò nel silenzio, ed Hermione si alzò di slancio per abbracciare Ginny, in lacrime.
Lacrime di gioia... per la prima volta da tanto, troppo tempo.

“In love, howsoever it is manifest, we are greater than the sum of our part.”
Jaqueline Carey
“Kushiel’s Chosen”

EPILOGO: ALL FOR LOVE

“When there's love inside
(I swear I'll always be strong.)
Then there's a reason why.
(I'll prove to you we belong.)
I'll be the wall that protects you
From the wind and the rain,
From the hurt and pain.”
“All for Love” from “I tre moschettieri” (film, 1993)

Ginny entrò in silenzio nella piccola stanza soffusa di luce in cui Ron riposava; qualcosa della fenice nel cui corpo aveva vissuto sembrava esserle rimasto addosso, in quel modo strano e silenzioso di muoversi, in quell’inclinazione pensosa del capo che rendeva illeggibili i suoi occhi scuri. Accarezzò la fronte di Ron, osservandolo intenta; le sue condizioni erano immutate, come il suo viso, che sembrava non portare i segni del tempo trascorso.
Draco si appoggiò al muro, dietro di lei, mentre Harry, Luna e Calì restarono in piedi sulla soglia, spettatori frementi, negli occhi una preghiera a tutti gli dei e a nessuno in particolare. L’aria nella stanza era densa di aspettativa, ben più di quella sarebbe stato sensato concedersi , ma nessuno di noi sembrava poterlo evitare, in fondo non eravamo che ragazzi, esseri umani. E l’essere umano è fatto per filare ostinato il filo della speranza ed attaccarsi ad esso, con violenza e caparbietà, non appena quel filo sottile sembra acquistare un poco di spessore tra le sue dita… anche se spesso è soltanto un’illusione.
Mormorai qualche parola, puntando la bacchetta in diverse direzioni, e il chiarore degli incantesimi si affievolì fino a sparire. Ginny mi guardò in viso, terrorizzata all’idea di aver concesso a se stessa di cedere ad un’idea che poteva rivelarsi soltanto un sogno, ma io le feci cenno di calmarsi; sembrava più piccola e insicura di quanto l’avessi mai vista, eppure l’esperienza della maledizione sembrava averle lasciato un alone di solennità che mi impediva di sentirmi ancora materna nei suoi confronti. Era una donna come me, forte quanto e più di me, una sorella che amavo e rispettavo, con cui confrontarmi, con cui parlare, con cui… sperare.
“Sei pronta?” le chiesi.
Ginny annuì e aprì le dita strette a pugno, porgendomi una minuscola boccetta di cristallo. Lacrime di fenice. Le
sue lacrime.
Presi la boccetta e ne versai alcune gocce nella flebo di Ronald, poi non potei fare altro che stringere la mano di Ginny… e attendere.
Il momento in cui le palpebre di Ron si mossero, per la prima volta dopo così tanto tempo, è sfocato nella mia mente: troppo intenso, troppo emozionante per essere ricordato. I suoi occhi blu riempiono tutta la mia mente nel momento in cui cerco di ricordare. Ma ricordo quel calore attorno a me, il calore di mani che senza toccarmi riuscivano a darmi sostegno, il calore di sguardi che sembravano non poter contenere la felicità, non tutta insieme, non tutta in quello stesso momento.
C’era Ginny al mio fianco, e Draco alle sue spalle, stretti in una abbraccio sollevato e felice. C’era Harry con la sua piccola Luna appesa al collo che saltellava di gioia. C’era Calì, le mani sulle labbra che per una volta non avevano pronunciato orrendi avvertimenti. C’ero io… e c’era Ronald. Insieme.

Ci sarebbe così tanto da raccontare, di quel giorno, e dei giorni che vennero dopo, e dopo ancora. Ci sarebbe una vita intera da raccontare. Ma la parte che ti ho raccontato è quella che non puoi leggere sui libri di storia, quella che è stata giudicata troppo complessa, troppo intensa, troppo leggendaria per le vostre giovani orecchie. La parte che ti ho raccontato è quella che ci ha insegnato quanto ciò che hai nel cuore abbia davvero il potere di farti superare ogni cosa. È la parte che deve essere ricordata, e raccontata prima che il mondo la consegni all’oblio, o alla… leggenda.

LEGEND:

THE END

Bene, asciugatevi quelle goccioline dagli occhi che sembrate tutte dei rubinetti rotti… scherzo! Comunque: e anche questa è finalmente finita… no, non ci sarà un seguito, e no, non ho altre fanfiction in mente. Ma non dico niente, perché tutte le volte che ho detto “questa è l’ultima” dopo due mesi avevo già di nuovo le dita alla tastiera: le classiche ultime parole famose. Perciò stavolta non fiaterò, se non per ringraziare tutte: questa storia in sé non ha né originalità né particolare stile, ma è stato divertente scriverla e soprattutto è stato un piacere scriverla per voi!
Come al solito mi farebbe piacere avere un’impressione complessiva sulla storia, anche da parte di chi magari normalmente legge ma non commenta. E come al solito rompo le scatole per ricordarvi quelli che secondo me sono lavori più belli e più originali, anche se meno salutari per le pareti del vostro stomaco… se per caso passate a leggere Trapped o Frost at Midnight, beh, fatemi sapere che ne pensate!
Un saluto e un abbraccio a tutti!
Opalix

Le dediche:
A Chiara, in primis, perché senza il tuo sostegno non ce l’avrei fatta a finire ‘sta COSA. E soprattutto non ce l’avrei fatta a risvegliare Ron dal suo stato di vegetale inoffensivo. Ma la solidarietà Weasley ha trionfato ancora. Ti voglio bene, bredina.
A Savannah, per farle un sacco di COMPLIMENTI. Sei il nostro orgoglio!
A Euridice … no, a te niente, non hai arfato a sufficienza stavolta. Ne riparliamo alla fine del PEZZO che manca. E ricordati che ti voglio bene lo stesso anche se non hai un capside carino e un bel DNA ricombinabile come lambda.
A GIU, ossia la mamma, per farle gli auguri di compleanno!

I ringraziamenti:
Aurora: no, niente magia, altrimenti la avrei usata per più alti e nobili scopi (scrivere la tesi, fare un sacco di soldi, farmi apparire in mano quelle decolleté di Sergio Rossi che si fanno adorare in vetrina… ^__^ Scherzo!). Grazie
Saty: darling, la scena finale alla Etienne Navarre sul cavallo ha fatto arfare anche altre persone di mia conoscenza… l’avevo scritta apposta, gh! Spero che ti sia piaciuta questa conclusione! Baci!
Seyriu: l’idea che un bambio possa essere traviato in tenera età con i miei deliri mi spaventa. Mah… comunque tranquilla, cara, il PEZZO che manca sarà scritto e pubblicato in tempi semi-ragionevoli. Un bacio e grazie!!! Fammi sapere se questo ti è piaciuto!
Thaiassa, Curiosità, Jaly Chan, Brix89: Grazie!!!!

Il Declaimer:
Niente di mio. Tutto di altri. Questa volta anche la storia. Gh.

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