Convivendo in... capsule

di lilly81
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Episodio I - L'assorbente sporco di mestruo ***
Capitolo 2: *** Episodio II - L'odore di Freezer ***
Capitolo 3: *** Episodio III - Un goccio di latte ***
Capitolo 4: *** Episodio IV - Lo squalo nel laboratorio ***
Capitolo 5: *** Episodio V - L'eroe del pianeta ***
Capitolo 6: *** Episodio VI - Tormento e tregua ***
Capitolo 7: *** Episodio VII - I due alieni ***
Capitolo 8: *** Episodio VIII - Non aprite quella porta ***
Capitolo 9: *** Episodio IX - La scimmia ladra e l'elefantessa offesa ***
Capitolo 10: *** Episodio X - Sequestro e riscatto ***
Capitolo 11: *** Episodio XI - L'eloquenza di una risposta ***
Capitolo 12: *** Episodio XII - Porno e cioccolata calda ***
Capitolo 13: *** Episodio XIII - La delicatezza di un saiyan ***
Capitolo 14: *** Episodio XIV - Mandorle e cocco ***



Capitolo 1
*** Episodio I - L'assorbente sporco di mestruo ***


Le mie fanfiction sono: “Sul pianeta Vegeta” ( feb

Le mie fanfiction sono: “Sul pianeta Vegeta” ( feb. 2002), “Amore immolato” (2002), “Calando la notte” (sett. 2003), “Salto nel vuoto” (giugno 2005). All’estate 2006 appartengono, in ordine cronologico: “Ritratto di signora”, “E fu il principio”, “E poi passione”, “Infine fu l’orgoglio”, “Scherzi del tempo”, “Funny games”, “Per la prima ed ultima volta”, “Gravity room”(sett. 2006).

 

 

Convivendo in… capsule

 

 

Balzò a terra dal davanzale ed i piedi produssero sul pavimento lucido un calpestio limaccioso.

Quando si chiuse la finestra alle spalle, le tende smisero di agitarsi e la stanza, lasciata in balia della brezza autunnale per tutto il giorno, ritrovò d’un tratto la quiete, come se il bisbiglio del vento tra i rami degli alberi e lo strascico metallico di alcune lattine sull’asfalto fossero cessati d’incanto.

Ai piedi dell’armadio il vento aveva portato delle foglie tinte di giallo, come se non bastasse il terriccio che si scrollò da dosso ed il fango che portava sotto le scarpe.

La sponda del letto cigolò quando si lasciò cadere a peso morto e si gettò con la schiena all’indietro.

Con un braccio si riparò la vista dalla luce a neon del soffitto, intorno alla quale una cimice verde imprigionata dietro i vetri della finestra era accorsa di richiamo.

La divisa lasciava intravedere in più punti molti centimetri di pelle, laddove non era il fango a ricoprirla.

Il pendio della montagna contro cui si era andato a schiantare era letteralmente franato sopra di lui.

Il terreno gli era entrato fin nelle narici e tossì ancora convulsamente mettendosi su di un fianco.

La radura selvatica nelle lande disabitate in cui andava ad allenarsi ogni giorno aveva una fenditura profonda che si andava allungando man mano che cresceva la sua energia spirituale.

Le rocce circostanti ormai si frantumavano senza subire traumi diretti, come fossero state fatte di sabbia, al suo solo respiro.

Maledisse il nome di Kakaroth, e lo avrebbe maledetto ogni giorno, fino al suo ritorno dall’altro mondo, quando con i suoi stessi occhi lo avrebbe visto ammantarsi d’oro in tutta la sua potenza.

Era soltanto per questo che era rimasto: per vedere la leggenda, per misurarsi, per sconfiggerlo.

Si mise a sedere, tossì ancora, e poi si alzò malfermo.

Le lenzuola ora erano insudiciate di fango e dove si era disteso, all’altezza della spalla, risaltava una chiazza vermiglia.

Si avvicinò allo specchio e si girò per valutare l’entità della ferita.

Spostò il lembo strappato e vide che essa era profonda ma non tanto da lasciare sulla cute l’ennesimo sfregio.

Quella che era irrecuperabile era la sua divisa.

Se la sfilò non senza difficoltà, perché con il sudore aderiva sul corpo come una seconda pelle.

Era quella che aveva indossato su Namecc e non aveva altro.

L’unico abbigliamento terrestre che aveva accettato di indossare da tre mesi che era sulla Terra era quel pantalone nero adagiato sulla sedia, comodo e largo.

Era il pezzo di una tuta leggera che gli era stata lasciata un giorno sul letto, ma la parte di sopra non l’aveva mai indossata.

Per gli allenamenti occorreva qualcosa di più resistente.

Forse la terrestre che gli aveva dato alloggio avrebbe potuto costruirgli una divisa di quello stesso materiale spaziale, se glielo avesse chiesto.

Linguacciuta e spavalda al suo cospetto fin da quando l’aveva conosciuta, stranamente non si era mai tirata indietro quando si trattava di fargli un favore, il tutto di sua spontanea volontà.

Di certo lui non aveva fatto nulla per guadagnarsi ospitalità da quella gente, a parte aver tolto la vita a qualcuno dei loro conoscenti più stretti e giurare ogni giorno che dopo Kakaroth avrebbe fatto fuori tutti quanti lo stesso, perciò aveva finito per credere che tanta gentilezza fosse l’ipocrita premeditazione di ingraziarselo per mettersi in salvo almeno il proprio sedere.

Senza quella divisa non gli restava altro che allenarsi con la nuda pelle, tanto dove andava non strisciava più neanche un verme.

Andò in bagno e si chiuse nella cabina della doccia.

L’acqua lo avrebbe rigenerato: la desiderava come un assetato nel deserto.

Si sentì solo un gorgoglio nelle tubature ma non venne giù niente.

“E questo cosa significa…?” imprecò muovendo invano anche l’altra manopola, quella dell’acqua fredda.

Andò ad accertare se fosse servibile almeno il lavandino ma il rubinetto produsse lo stesso gorgoglio di vuoto.

Afferrò con rabbia un asciugamano, se lo mise intorno ai fianchi e lasciò la stanza con una direzione ben precisa.

Senza esitazione spalancò la quarta porta che affacciava sul corridoio prima della sua:

“Si può sapere perché il mio bagno ha smesso di funzionare?!”.

Bulma, davanti allo specchio, restò con il pettine in mano.

Terminata la sua giornata di lavoro nei laboratori sul retro della casa, aveva fatto un bagno caldo ed indossato il pigiama, uno di taglio maschile, con una misura in più della sua, che alle generosità della sue forme non aggiungeva niente, piuttosto la riduceva in una sagoma  spiegazzata ed un po’ goffa.

La sorpresa per quell’intrusione durò alcuni battiti disorientati di ciglia prima di commutare in un’arricciatura irritata delle labbra:

“Toc… toc…” agitò un pugno nell’aria “si fa così quando si entra nella camera di una signora, evidentemente da dove vieni le porte non esistono visto che per entrare e per uscire ti servi solo delle finestre”.

“Da dove vengo io quelle come te non si chiamavano signore e la bocca non l’aprivano per parlare…” replicò fermo sulla soglia con tutto il suo disprezzo.

Bulma si voltò e con noncuranza tornò a spazzolarsi i capelli davanti allo specchio:

“Fortunatamente io vivo in un posto migliore del tuo, e tu dovresti non dico… integrarti… perché è assolutamente impensabile che certi tipi di animali ci riescano, ma almeno imparare alcune regole minime di convivenza, visto che oltre la coda un po’ di cervello suppongo tu l’abbia” alle sue spalle vide l’espressione dell’uomo farsi più truculenta.

Si voltò ed incrociò le braccia, disposta finalmente ad ascoltarlo:

“Allora, di cosa sei venuto a lamentarti?”.

Vegeta disse che era rimasto senz’acqua.

La vide entrare nel suo bagno e da lì sentì che l’acqua gorgogliava in abbondanza:

“Da me è tutto normale, non so cosa sia potuto succedere in camera tua , ormai è tardi, domani farò venire un idraulico”.

Vegeta restò ancora lì senza che quel piglio feroce si riducesse di una grinza.

Si aspettava che ella aggiungesse altro ed invece l’osservò aprire l’armadio e tirare fuori una coperta che poggiò sul letto, come se egli fosse stato un fantasma:

“E con questo?! Pensi che possa aspettare fino a domani ridotto in queste condizioni?!”

“Non sia mai…” storse il naso e se lo tappò “ti sento fin qui… puoi servirti del mio bagno, c’è tutto quello che serve, fai pure con comodo, ti lascio da solo… io vado a mettere qualcosa sotto i denti” gli fece cenno di entrare.

Il saiyan restò un istante diffidente.

Tra insulti reciproci quella terrestre alla fine riusciva sempre a sorprenderlo per quegli slanci di altruismo improvvisi.

Percorse con i piedi nudi la moquette in direzione del bagno e quando le ebbe rivolto la schiena si sentì dire:

“Ma la tua spalla sta sanguinando” il sangue colando aveva finito per inzuppare l’orlo dell’asciugamano che gli cingeva i fianchi “lascia che gli dia un’occhiata, vado a prendere del disinfettante”

“Non ho bisogno di niente!” e le chiuse la porta diritto in faccia.

Bulma sospirò rassegnata, ma sulle labbra senza rossetto sbocciò un sorriso ugualmente compiaciuto: l’immagine del principe dei saiyan con addosso solo un asciugamano aveva già azzerato tutto quello che di spiacevole si erano detti pochi attimi prima: aveva sentito nelle viscere un inspiegabile guizzo conturbante quando egli era apparso d’improvviso, sudato, sporco, arrabbiato e… senza vestiti.

Non era possibile provare qualcosa di simile e tenere sopra la scrivania quel calendario con i giorni trascorsi calcati di rosso vivo: un mese mancava all’invocazione del dio drago e Iamcha, il suo fidanzato, sarebbe ritornato in vita insieme a tutti gli altri.

 

 

* * *

 

 

Il bagno di Bulma aveva le pareti rivestite di marmo rosaceo e in un angolo padroneggiava una vasca dalla forma semicircolare.

C’era ancora la condensa sui vetri della finestra e si sentiva l’aroma muschiato del bagnoschiuma.

Vegeta optò, senza pensarci due volte, per la doccia costruita nel muro opposto.

Non si era mai servito di una vasca di lusso in vita sua, solo lavaggi sbrigativi per lavare via il sangue dei nemici, se non era già guizzata ad assaporarlo la sua lingua ignominiosa.

L’acqua che si raccolse ai suoi piedi si tinse di rosso insieme alla schiuma del sapone.

Nelle tubature finirono la polvere, il fango, il lerciume dei suoi pensieri.

Quando mise i piedi sul tappetino di gomma fuori la doccia, l’acqua sul suo corpo vaporizzò per un incremento lieve dell’aura.

Dopo che la terrestre aveva lasciato la stanza, Vegeta era ritornato indietro per recuperare alcune cose personali.

Strofinò lo specchio appannato, si accertò che la ferita sulla spalla avesse smesso di sanguinare, poi raccolse della schiuma da barba in una mano e la passò sulle mascelle spigolose e volitive.

Lo fece con lentezza, come indolente era stata la doccia a cui si era abbandonato, dimenticando che la toilette di cui si stava servendo non era quella di suo uso personale, tanta era la stanchezza accumulata e la speranza di rigenerarsi attraverso quel momento intimo e privato. 

Il fatto che la porta del bagno fosse chiusa a chiave lo aveva indotto infine a rilassarsi e a prendersela con comodo, come appunto era stato invitato a fare.

Mentre la lama del rasoio scivolava con cautela lungo il mento, la sua attenzione fu attirata da un mucchio di abiti gettati a terra in un angolo, non lontano dai suoi piedi.

Bulma era uscita dal bagno senza preoccuparsi di sistemare quello che si era tolta da dosso, abituata prima ad ungersi di creme idratanti e a sciogliere i nodi dei capelli.

Lo sguardo si spostò più in alto.

Al posto di  un asciugamano pendeva un coordinato intimo di pizzo nero.

Vegeta restò con la lametta sospesa a pochi centimetri dal volto ed il sopracciglio corrugato.

Certo che le donne che aveva conosciuto lui, sotto i vestiti, non nascondevano niente di simile.

Allungò il braccio istintivamente e tastò sotto i polpastrelli la stoffa ricamata.

Non aveva mai considerato quella terrestre da questo punto di vista, come un potenziale oggetto del desiderio, e non a caso la prima volta che l’aveva vista su Namecc le aveva dato meno anni di quanti in realtà ne avesse.

Gli era sembrata solo una ragazzina di cui sbarazzarsi e niente di più.

Da quando dimorava sotto il suo stesso tetto, ella era diventata la terrestre che gli aveva dato vitto ed alloggio gratis, la scienziata amica di Kakaroth che sapeva usare le sfere del drago e calcolava i giorni che mancavano al loro ripristino con cadenza quotidiana, la bisbetica con cui scontrarsi e scambiare battute velenose.

Niente altro.

Delle donne Vegeta sapeva quel che bastava: un paio di gambe tra cui sistemarsi solo quando certi bisogni, spinti all’estremo della sopportazione, costringevano a fare come gli animali.

Ora, Bulma era una donna che usava un bagnoschiuma di aroma diverso da quello che era stato dato a lui, più schiumoso e vellutato a contatto con la pelle, che sulla mensola vicino allo specchio aveva esposto delle boccette di profumo di dimensioni varie ed un barattolo di crema dall’effetto rassodante, indossava merletti seducenti di colore nero, ed oltre i vestiti a terra, aveva dimenticato vicino al rubinetto del lavandino un assorbente accartocciato con l’orlo sporco di mestruo.

Bulma Brief adesso era anche questo.

Ma il suo nome non lo aveva imparato ancora, sembrava lo facesse per dispetto, quantunque gli fosse stato scandito a sillabe non una ma molte volte.

Non aveva ragione di rammentarsene, tanto sarebbe morta insieme a tutti gli altri, allorquando, sconfitto Kakaroth, avrebbe cancellato la Terra dalle mappe spaziali.

O forse, per la soddisfazione della vittoria si sarebbe potuto anche mostrare magnanimo ed allora l’avrebbe risparmiata insieme a tutti gli altri abitanti, ma anche in questo caso il suo nome continuava a non interessargli perché sarebbe andato via per sempre ed ella nei suoi ricordi non sarebbe stata più di un misero granello di sabbia, uguale e piccolo come tutti gli altri.

Tutto questo osservò il principe dei saiyan, senza scomporsi.

Si sciacquò il viso con acqua fredda e si guardò intorno alla ricerca dei suoi pantaloni, quelli comodi e larghi, che aveva portato dalla sua stanza insieme al rasoio e alla schiuma da barba.

Si ricordò di averlo lasciato sul letto della terrestre nel momento in cui era ritornato, quando l’almanacco sopra la scrivania, contrassegnato da tante croci di colore rosso, aveva richiamato la sua attenzione e si era messo a sfogliarlo per accertarsi che coincidesse con i suoi calcoli mentali, essendo il calendario terrestre sfasato di alcuni mesi rispetto a quello cui era abituato.

Aprì con disinvoltura la porta del bagno, senza preoccuparsi di coprirsi, giusto un attimo per infilarsi l’indumento, ma davanti si ritrovò proprio lei.

 

 

* * *

 

 

Bulma aveva ingaggiato una lotta a suon di pantofole:

“Dannazione! Esci subito fuori! Chi ti ha dato il permesso di girartene indisturbato in casa mia?!”.

Non poteva tollerare che un intruso qualunque si prendesse gioco di lei.

“Guarda che non voglio farti del male!”.

Scommetteva che stesse facendo i suoi comodi in quella stanza già da un bel pezzo di tempo.

Corse d’un tratto ad aprire la finestra e subito la richiuse.

La cimice verde che produceva un fruscio secco sotto la luce a neon fu libera finalmente di volarsene via.

Bulma recuperò la pantofola e la rimise al piede.

La soddisfazione per non essere ricorsa all’arma estrema con quell’insetto maleodorante durò il tempo di spostare lo sguardo sul letto insudiciato di Vegeta.

Per un istante pensò che un animale di dimensioni più grandi fosse penetrato in quella stanza e si fosse ruzzolato sulle lenzuola.

Ma un animale non lasciava sul pavimento impronte di scarpe né una divisa ridotta a brandelli, a meno che non avesse una coda recisa e venisse da un altro pianeta.

Sradicò le lenzuola dal letto come fossero state erba maligna.

Altro che principe!

Quel saiyan non aveva niente di regale nei comportamenti!

Non aveva idea di cosa fosse sparecchiare una tavola o quanto meno mantenere un letto pulito e rassettato.

Era sicura che se non fosse entrata a dare un’occhiata al suo bagno si sarebbe infilato tranquillamente tra quelle coltri imbrattate di fango e di sangue.

E poi ci teneva pure a farsi la doccia!

Aprì l’armadio ed un senso di desolazione l’investì in pieno.

Le grucce sistemate in linea si confondevano con il pannello interno del guardaroba.

Non c’era niente che appartenesse a lui, che risaltasse su quelle stampelle come nel resto della stanza.

Solo una divisa ridotta a brandelli ed un paio di stivaletti gettati in un angolo.

Nessun oggetto personale, un ricordo dell’infanzia e della sua patria, oppure un cimelio, fosse anche venuto da un pianeta lontano e depredato.

Non aveva niente.

Il passato riviveva solo nei suoi pensieri e si manifestava nell’odio e nel cinismo che non erano più gli stessi di un tempo, ma si erano acuiti nella nuova ed inammissibile consapevolezza di possedere dei limiti.

Di lui continuava a sapere molto poco.

La convivenza non aveva migliorato il suo carattere misantropo e selvatico.

Bulma aveva capito che neanche una vita intera, pur trascorsa sotto quello stesso tetto, avrebbe potuto scalfirlo.

Vegeta ritornava a sera solo per avere un pasto decente ed un letto in cui dormire.

I namecciani che alloggiavano nell’accampamento costruito in giardino si erano meravigliati molto di sapere che il temuto saiyan era più vicino a loro di quanto credessero, perché della sua presenza non avevano avuto neanche il sentore più lieve.

Bulma non aveva dato ospitalità a Vegeta per mettersi in salvo il sedere, come pensava il saiyan, ma perché aveva una predisposizione innata per il pericolo, perché era matta, esibizionista, sfrontata, una sciocca a pensare di poter trarre qualcosa di buono da lui.

Questo avrebbero pensato di lei i suoi amici ritornati in vita, a meno che nell’aldilà non si fossero guadagnati un posto in prima fila sulle vicende terrene.

Il pensiero che i morti potessero addirittura leggere nei meandri della coscienza la rendeva in qualche modo inquieta.

Era certa che solo Goku non si sarebbe scandalizzato per la sua audacia, perché era un tipo ottimista e ad ogni nemico aveva sempre concesso una seconda possibilità.

Solo dal fondo trasse alcune coperte pulite, riservate già a quella stanza e all’ospite che ne avrebbe usufruito a prescindere dall’attuale occupante.

Foderò il letto con le lenzuola dal profumo di lavanda ed aggiunse una trapunta dai disegni geometrici.

Al lavaggio della biancheria sporca avrebbero pensato i robot delle pulizie l’indomani.

Per il momento si limitò a raccoglierla storcendo il naso, ed andò a cestinarla nell’apposito contenitore in bagno.

Qui si ricordò della ragione per cui era entrata in quella stanza.

Mosse la manopola dell’acqua e scoprì che questa fuoriusciva regolarmente.

Fece spallucce e se andò via: era un ingegnere, mica un idraulico!

Quando fece ritorno nella sua camera vide che la porta della toilette era ancora chiusa, ma da dietro non proveniva alcun rumore.

Forse Vegeta era andato già via e non si erano incrociati.

Lo sperava vivamente perché aveva voglia soltanto di mettersi sotto le coperte e trovare una posizione comoda che alleviasse quelle contrazioni dolorose che aveva al basso ventre.

Si avvicinò per bussare alla porta quando questa si spalancò all’improvviso.

Si coprì gli occhi con entrambe le mani:

“Dannazione, donna!” gli sentì dire da dietro l’uscio prontamente accostato “e tu eri quella che voleva insegnarmi le buone maniere per entrare in una stanza?!”.

Venne fuori con l’asciugamano cinto ai fianchi, uno pulito che aveva afferrato al volo dall’armadietto vicino alla vasca.

“Guarda che io sono semplicemente entrata nella mia stanza, sei stato tu ad aprire in modo sprovveduto la porta” replicò con piglio divertito “non ti facevo così pudico… sai… quando mi hai vista ti sei fatto tutto rosso…”.

Vegeta, che aveva raggiunto il letto dove stavano i suoi pantaloni, digrignò torvamente.

Prima o poi gliel’avrebbe tagliata quella lingua insolente e le avrebbe cancellato quel sorriso sfacciato.

“Mi hai soltanto colto di sorpresa” lasciò cadere l’asciugamano e si sedette con noncuranza sul letto.

Lo fece per farle dispetto.

Bulma gli voltò le spalle con uno scatto fulmineo:

“Sei indecente… un cafone… non imparerai mai cosa vuol dire l’educazione!” mormorò paonazza.

Se prima non aveva avuto il tempo di intravedere niente, ora quell’ombra scura tra le sue gambe massicce l’aveva gettata nel panico più totale.

“Che c’è di strano?” sogghignò mentre si infilava i pantaloni “non dirmi che non ne hai mai visto uno…”

“Questi non sono affari tuoi!” puntualizzò senza osare ancora voltarsi.

Aveva incrociato le braccia e fu come se un vento freddo fosse entrato all’improvviso nella stanza e creasse reazioni contrastanti con il sangue che le era schizzato al cervello.

Si vergognò da morire.

Vegeta percepì il tremore della sua schiena, il suo respiro irregolare.

Mentre si avvicinava alle sue spalle poteva sentire perfino l’odore del sangue che stillava di nascosto nel suo centro.

Per un istante gli tornò alla mente quella stoffa di pizzo nero che aveva avuto tra le dita.

L’oltrepassò, fece ritorno nel bagno e recuperò le proprie cose.

Quando venne fuori, lei non si era mossa di un centimetro, con le braccia incrociate e la faccia girata rigidamente a fissare qualsiasi cosa che non fosse lui.

Si apprestò ad uscire senza aggiungere altro, come se niente fosse accaduto, niente avesse pensato o desiderato di lei.

Bulma non lo lasciò andare via senza aver prima aggiunto con recuperata irriverenza:

“Sono stata da te ed il tuo bagno funzionava perfettamente, la prossima volta vedi di non inventare scuse per venire a passare del tempo in camera mia…”.

Lui rise con sdegno e cattiveria:

“Sei completamente fuori di testa…” e si chiuse la porta alle spalle con un tonfo sonoro.

Bulma emise un sospiro ma non fu di sollievo.

Fissò il calendario sopra la scrivania ed andò a calcare col pennarello rosso un altro giorno che passava.

Pensò che tra un mese Iamcha sarebbe ritornato.

Si morsicò le unghie con nervosismo.

Piuttosto che essere felice dell’evento si preoccupava che allo scadere di quei giorni Vegeta potesse andarsene via per sempre.

Forse era veramente fuori di testa!

Prima di coricarsi definitivamente, con passo rassegnato, rientrò un’ultima volta in bagno e si accorse con sommo imbarazzo di tutto quello che aveva lasciato in giro: vestiti, pizzi e tanto di assorbente sporco in prima vista.

“Perché capitano sempre a me…?!” ed andò ad infilare la testa sotto al cuscino.

 

 

FINE

 

 

 

Per chi non l’avesse già fatto e volesse un racconto più approfondito su questa prima fase della storia tra Bulma e Vegeta, invito a leggere: “E fu il principio”, “E poi passione”, “Infine fu l’orgoglio”.

Non garantisco niente… il tempo è tiranno… ma non è escluso che possano aggiungersi nuove “capsule” di convivenza. Ciao!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Episodio II - L'odore di Freezer ***


Ecco a voi una nuova capsula di convivenza, questa volta dall’atmosfera più cupa e misteriosa… non anticipo altro, buona lettu

Ecco a voi una nuova capsula di convivenza, questa volta dall’atmosfera più cupa e misteriosa… non anticipo altro, buona lettura!

 

“Convivendo in… capsule”

 

Episodio II

 

 

 

Sbarrò gli occhi e la prima cosa che vide fu l’ombra inquietante e tremebonda che il riverbero dei lampioni realizzava sul soffitto: un ricamo fluorescente che andava e veniva secondo la direzione del vento.

Sarebbe potuto essere anche un fantasma, perché nei risvegli notturni non era abituato a vedere quel bagliore fluttuante sopra la sua testa, se non avesse subito spostato lo sguardo ed appurato di non aver semplicemente serrato le imposte prima di mettersi a letto.

Si accorse anche che a produrre contro i vetri quel ticchettio irregolare era soltanto il pendente di plastica della cordicella che serviva a tirare giù la zanzariera.

Non ricordava che il vento tirasse così forte quando se ne era andato a dormire.

Ma non era per quello che Vegeta si era svegliato col respiro mozzato e in un bagno di sudore.

In realtà, non ricordava con precisione neanche se stesse sognando di qualcosa o di qualcuno, aveva soltanto percepito nel sonno un odore che non apparteneva a quella stanza ed era stato questo a fargli raggelare il sangue nelle vene.

Annusò con insistenza e con uno scatto allarmato si mosse ad accendere la luce che era sul comodino accanto a lui.

Si guardò intorno con fare circospetto, ma la stanza, nel suo rigore asettico, era al suo posto: la divisa lasciata sulla sedia nell’angolo pronta ad essere indossata per l’indomani, l’armadio ed il cassettone chiusi, un dipinto geometrico e sbiadito appeso a riempire il vuoto di  una parete.

Altro non c’era, ma l’odore simile al metallo persisteva ugualmente e a tratti si intensificava.

Non l’aveva mai dimenticato: era l’odore di Freezer e del suo passato.

Si alzò dal letto scostando le coperte come fossero state di fuoco e a piedi nudi e con passo deciso andò ad accendere la luce anche nel bagno.

Lo specchio riflesse l’immagine pallida e contratta del suo volto.

Quell’esalazione lo rendeva nervoso e risvegliava ricordi che non si sarebbero mai seppelliti del tutto.

Era certo che una vita intera non sarebbe bastata per togliersi quel tanfo da sotto il naso: era cresciuto respirandolo insieme all’ossigeno.

L’aveva sentito la prima volta quando suo padre lo condusse bambino sull’astronave di Freezer e gli era entrato nei polmoni per tutto il tempo che era rimasto a suo servizio.

Si sciacquò il viso con acqua fredda e restò a tamponarlo con l’asciugamano di spugna per più di un minuto, come se questo gesto gli consentisse di fare il punto della situazione.

Alla base di Freezer non esistevano cemento e mattoni, ogni arnese, muro o porta era realizzato in quella lega metallica.

Ora, Freezer emanava già di suo quello stesso indescrivibile aroma, fatto di ferro, di zolfo e di altri elementi chimici sconosciuti ai terrestri, quasi fosse stato un tutt’uno con l’ambiente di cui si era circondato.

Nel combattimento corpo a corpo che aveva avuto con lui su Namecc, quel lezzo acuito dallo sforzo fisico si era fatto sotto le sue narici disgustoso.

Solo una volta aveva percepito questo odore nei laboratori della Capsule Corp., perché il vecchio che girava con camice bianco e sigaretta incollata sotto i baffi aveva tentato con insuccesso di riprodurlo al microscopio estraendo i composti da un rottame della navicella con cui Radish era giunto sulla Terra e che custodiva gelosamente in un cassetto chiuso a chiave.

L’effusione metallica aveva impregnato i laboratori per alcuni giorni, prima di dissolversi insieme al fumo del tabacco contro gli aeratori azionati sul soffitto.

L’odore era tangibile, non lo aveva sognato, non era il frutto di un delirio notturno.

Si guardò intorno, arrotolò l’asciugamano contro il muro con un gesto frettoloso e chiuse tutte le condutture.

Continuava tuttavia a mantenersi uniforme, lì come nella stanza attigua, senza riuscire ad indovinarne la sorgente.

Sembrava che seguisse di proposito il suo respiro ed i suoi movimenti.

Si fermò al centro della stanza e lanciò un’occhiata circolare e meticolosa concentrando tutti i sensi.

Nelle sue orecchie il ticchettio irriducibile contro i vetri della finestra era divenuto ossessivo:

“Vieni fuori… bastardo…” disse a denti stretti “tanto lo so che sei qui…”.

Ma in risposta continuava a sentire solo il  rumore di quel dannato gancio di plastica sballottato dal vento.

Guardò in direzione del letto, concentrò ancora i propri sensi e poi piano si abbassò fino a terra per scrutare chi o cosa stesse nascosto lì sotto: un paio di pantofole rosse, innocue ed inodori, che la sig.ra Brief si ostinava a lasciargli ai piedi del comodino.

Sembrava non avesse ancora imparato che il principe dei saiyan preferiva muoversi in casa a piedi nudi.

Vegeta andò ad aprire la finestra, con un gesto rabbioso spezzò il gancio incriminato e lasciò che il vento scuotesse le tende ed agitasse le lenzuola.

Era quasi freddo ed il cielo aveva uno strano colore violaceo, come in procinto di grondare sangue piuttosto che acqua, il vento raccoglieva sull’asfalto desolato le foglie ed i rifiuti e li faceva volteggiare in cerchio.

Quando accostò di nuovo le ante, ebbe la conferma che l’odore non proveniva dall’esterno, era in quella stanza.

A questo punto c’era solo una cosa da fare: trovare la persona contro cui recriminare, che gli desse una spiegazione più plausibile di quella per cui Freezer si stava prendendo gioco di lui, e si diresse verso la quarta porta che affacciava sul corridoio prima della sua.

 

 

* * *

 

 

Si meravigliò di trovare la luce accesa a quell’ora della notte.

Il letto disfatto, con le coperte ammucchiate in un angolo, dava l’idea di un risveglio improvviso ed agitato.

Strano a dirsi per una che non si alzava neanche con le cannonate.

Superando la soglia, scoprì con sgomento il corpo di Bulma seduto e riverso immobile sulla scrivania, con la testa nascosta da un asciugamano che le toglieva il respiro.

A terra giaceva un altro imbrattato di sangue.

Tutto lasciava supporre che fosse morta, che qualcuno fosse penetrato in casa e l’avesse colpita alle spalle, ma da sotto l’asciugamano si sentì la sua voce esclamare senza molto entusiasmo:

“Ci mancavi solo tu…”.

Vegeta restò per un istante interdetto prima di sbottare con rabbia:

“Si può sapere cosa diavolo stai combinando?!”.

Lei alzò finalmente la testa e tolse l’asciugamano: la bacinella su cui teneva la faccia esalò una nuvola di vapore balsamico.

“Esattamente quello che vedi” ma Vegeta era ancora poco avvezzo a certe abitudini terrestri, soprattutto se così rudimentali.

“Mi sono alzata per esasperazione” spiegò con voce rauca e nasale “non riuscivo a dormire tanto il naso era otturato” prese un fazzoletto e lo usò con delicatezza per non farsi uscire altro sangue “questo raffreddore mi sta togliendo anche l’anima… in più nello spray non è rimasta neanche una goccia… etciù!”

“Tipico di voi terrestri ammalarvi per così poco, basta un cambio di stagione per ridurvi uno straccio” fece con scherno.

“Grazie dell’osservazione” incrociò le braccia “lo capisco dalla tua faccia… di cosa devi lamentarti questa volta… e per giunta nel bel mezzo della notte?”.

Quando piombava così all’improvviso in camera sua era soltanto perché qualcosa non andava come voleva lui.

Il fatto che lei ormai indovinasse i suoi pensieri ed anticipasse le sue mosse lo mandava ancora di più sulle furie:

“C’è un odore nella mia stanza che non c’è mai stato, giuro che disintegro questa casa se non riesco a scoprire da dove viene!”

“E proprio a me vieni a chiedere aiuto?” starnutì un’altra volta “se questa stanza andasse in fumo neanche me ne accorgerei!”.

L’unico odore che Vegeta percepì tra quelle pareti fu quello del mentolo e dell’eucalipto.

Anche durante il tragitto nel corridoio non aveva annusato niente.

“Forse tuo padre ha fatto qualcuna delle sue diavolerie…” azzardò come ipotesi.

Bulma spiegò di averlo visto lavorare tutto il giorno accanto al computer e che non aveva maneggiato alcun materiale in particolare:

“Forse viene dalle condutture, può capitare quando il vento tira così forte, ma non mi hai ancora fatto capire che tipo di odore sia… suppongo nauseabondo se sei venuto qui soltanto per dirmi questo, cosa c’è… il principe ha la puzza sotto il naso?”  acciaccata com’era, non si lasciava tuttavia scappare l’occasione di essere indisponente e sarcastica.

Vegeta non aveva intenzione di spiegarle un bel niente, né tanto meno mostrarle la sua inquietudine.

Guardò in direzione della finestra e notò che anche lei aveva lasciato le imposte aperte.

Ciò che attirò la sua attenzione fu qualcosa che pendeva e si agitava dietro i vetri e che pure urtando contro non produceva rumore.

Si avvicinò e scoprì che si trattava di un fazzoletto bianco di stoffa raccolto con un nastrino ed imbottito in modo da dare l’impressione di un piccolo pupazzo con la testa ed un vestito:

“E questo cosa sarebbe?” chiese come se fosse stata una delle sue invenzioni più cervellotiche, o forse un’altra di quelle stupide abitudini terrestri che ancora non conosceva.

“Serve a tenere lontani gli spiriti malvagi” fece con voce indebolita e chiusa, tirando dall’astuccio l’ennesimo fazzoletto di carta.

“Spiriti malvagi?” ritornò a fissarlo.

“La leggenda vuole che ad un mese dall’equinozio di autunno gli spiriti cattivi ingaggino nell’aldilà una lotta con le forze del bene. Se queste dovessero soccombere, allora gli spiriti malvagi potrebbero varcare le soglie dell’oltretomba e venire tra noi viventi… quello serve a tenerli lontani”.

Vegeta non disse una parola.

Non vibrò un muscolo del suo viso, ma intorno al collo, dove Freezer aveva attorcigliato la coda riducendolo in fin di vita, sentì rinnovarsi uno strappo.

“Non crederai a queste stupidaggini?” quella domanda frantumò la tensione creata dal suo racconto e servì a riportarlo alla realtà.

Quella sciocca leggenda e l’odore che aveva sentito erano solo una coincidenza.

I terrestri sfruttavano simili racconti per esorcizzare le loro paure, ma non avevano alcun fondamento razionale.

Freezer sarebbe bruciato all’inferno per l’eternità.

“D’accordo…” riprese Bulma “ma da quando ho conosciuto Goku, ho visto e vissuto tante di quelle cose  assurde che credo anche all’asino che vola, questa notte poi è decisamente lugubre, fa venire i brividi…”.

Gli alberi erano sagome barcollanti che parevano alzare le braccia al cielo in cerca di aiuto, senza trovare la pietà di nessun dio, costrette a piegarsi e a subire sferzate continue.

Dal riflesso dei vetri, Vegeta la vide togliersi la vestaglia ed avvicinarsi al letto con passo malfermo.

Si sistemò il cuscino in modo da tenere sollevata la testa e ridurre la sensazione di soffocamento quando sarebbe stata incosciente.

Non aveva più niente della donna che solo due sere prima era andata nella sua stanza a tard’ora, si era infilata nel suo letto dopo essersi denudata davanti ai suoi occhi, gli aveva sfilato i pantaloni e risvegliato i sensi con quella lingua che sapeva usare abilmente, tagliente o deliziosa che fosse, come quel suo imprevedibile temperamento.

Lo aveva montato con audacia e passione ed i suoi seni incombenti avevano dettato una tale autorità che ad un certo punto dell’amplesso aveva sentito il bisogno di farla ritornare nell’unica posizione che le competeva, quella sotto di lui.

Bulma starnutì ancora e gettò sul comodino un altro fazzoletto accartocciato che finì insieme ai precedenti.

Ormai era un mucchio talmente alto che molti erano caduti a terra.

“Se quell’odore è così insopportabile, puoi anche restare a dormire qui, non sarò certo contagiosa per un saiyan che non si è mai beccato un raffreddore in vita sua” si infilò nel letto e sotto le coperte creò un bel po’ di trambusto per sistemarsele al meglio.

Vegeta tornò a voltarsi.

Quello che sapeva era che quella notte non avrebbe chiuso occhio, e non perché il delirante racconto di Bulma lo avesse messo in allarme, ma per un suo personale presentimento che gli suggeriva di non abbassare del tutto la guardia.

Non avrebbe mai ammesso che un brivido impercettibile gli aveva attraversato la schiena a sentire quell’odore e poiché temeva che, una volta ritornato in camera sua, sarebbe stata soltanto la suggestione a tirargli qualche brutto scherzo e non Freezer giunto dall’oltretomba, andò a distendersi accanto a lei senza infilarsi sotto le coperte, con un braccio incrociato dietro la testa per dimostrare alla parte razionale di sé stesso che quella notte alla fine sarebbe passata indisturbata come tutte le altre, che gli odori sono odori, e le storie di fantasmi restano bazzecole.

“Ma stammi alla larga” l’aveva avvisata brusco “resto solo perché quella puzza mi fa venire il voltastomaco!”.

“Puoi stare tranquillo” gli rivolse la schiena e spense la luce “tieniti pure tu lontano da me, ho bisogno di aria intorno o morirò soffocata”.

Vegeta tornò a vedere sul soffitto quel ricamo fluorescente tracciato dai profili degli alberi scrollati dal vento, mentre la sagoma di stoffa appesa dietro i vetri della finestra realizzava contro il muro un’ombra agitata e spaurita.

La sveglia digitale alla sua destra lampeggiava che l’una era passata da cinque minuti.

Quando tornò a guardarla di nuovo era trascorsa un’altra mezz’ora.

Bulma neanche si era addormentata.

Sentiva il suo respiro affannato, il naso che si tirava su ad intervalli più o meno regolari, i colpi di tosse che l’assalivano e si soffocavano contro il cuscino.

Un velo di nebbia poi si calò davanti agli occhi ed il saiyan chiuse le palpebre appesantite, il rumore del vento si fece distante ed ogni altra percezione finì negli intrighi del sonno.

Ma il torpore durò solo alcuni minuti.

I suoi occhi si sbarrarono per la seconda volta in quella notte e sulla testa rivide di nuovo i riflessi tremuli che i lampioni gettavano all’interno.

Non percepì alcun odore che fosse estraneo a quella stanza, ma questa volta sentì distintamente una presenza che si muoveva nel corridoio e si avvicinava alla stanza con passo deciso e silenzioso.

Mosse solo lo sguardo in direzione dell’entrata, ma restò immobile nel letto.

La porta si aprì con circospezione e nel buio si stagliò un’immagine piccola e bianca che si fermò a pochi passi da loro.

“Mamma…” pronunciò debolmente, ma la sua voce sembrava sconvolta.

 

 

* * *

 

 

Strizzò gli occhi, feriti dalla luce dell’abatjour che la donna si allungò ad accendere, e si meravigliò di trovare accanto a lei suo padre:

“Trunks…” mormorò Bulma con voce rauca ed assonnata “cosa c’è?”.

I suoi genitori non dormivano sempre insieme, almeno per quello che poteva saperne lui, e restò deluso di non trovarla da sola proprio quella notte.

Realizzando meglio la figura del bambino, videro che era pallido come il colore del suo pigiama, tremava vistosamente ed i suoi occhi erano atterriti e scavati.

Bulma non l’aveva mai visto così spaventato ed anche Vegeta lo squadrò con un sopracciglio perplesso.

Ora che aveva scoperto che c’era anche suo padre, Trunks non aveva più il coraggio di chiederle se poteva dormire accanto a lei, ma la prospettiva di ritornarsene nella sua stanza e restare da solo era anche peggiore di quella:

“Io… io… non mi sento… tanto bene…” mormorò allora, senza che le labbra livide smettessero di rabbrividire.

“Ma come è possibile?” la madre gli fece cenno di salire sul letto “hai sempre avuto una salute da fare invidia, non avrai mica preso anche tu il raffreddore?” gli saggiò la fronte ed assodò che non scottava.

Afferrò i suoi piedi e cercò di riscaldarli sfregandoli con le proprie mani:

“Sei identico a tuo padre, devi usare le pantofole quando scendi dal letto!”.

Tremava così tanto che pareva stesse singhiozzando.

Non era per il freddo ma per qualcosa che lo aveva terrorizzato.

Non c’era modo di farlo smettere, né si capiva per quale ragione si voltasse di continuo nella direzione da cui era venuto.

Aveva perso vigore e vivacità, non era più il monello che il giorno prima si era nascosto nell’armadio della nonna e l’aveva fatta svenire per lo spavento: era come un pulcino infreddolito che ispirava quasi tenerezza.

Dentro di lui nascondeva un’angoscia ed un tormento che un bambino della sua età non avrebbe dovuto avere, ma Bulma si preoccupava dei suoi piedi freddi ed addebitava quei tremori al fatto forse stesse facendo una cattiva digestione:

“Se non ti senti bene, puoi restare a dormire questa notte insieme a noi… che ne dici?” gli accarezzò la testa.

I suoi occhi agitati furono attraversati da un lampo di luce ed il corpo a poco a poco prese a rilassarsi e a recuperare calore.

L’idea che ci fosse anche suo padre gli dava più sicurezza, malgrado fosse insolito e bizzarro condividere il letto insieme a lui.

In mezzo a loro non avrebbe più fatto quell’incubo né avrebbe sentito quella cosa strisciare sotto al materasso.

Ma proprio Vegeta infranse quella speranza, facendolo ripiombare nel baratro di paura da cui era stato inghiottito, per colpa di quel suo cinismo indistruttibile:

“Queste cose le fanno le femminucce, tornatene nel tuo letto e copriti meglio se è questo il problema”.

Ma a Bulma non mancò un’occhiata bieca:

“Non hai un po’ di sensibilità, non vedi che non…” si interruppe e sgomenta restò a fissare suo figlio assalito da improvvisi singulti di pianto.

“No, vi supplico, non mandatemi via, non voglio dormire da solo…” ora nei suoi occhi si poteva vedere il terrore più puro.

Il viso era stravolto da sembrare irriconoscibile.

“Che capriccio sarebbe mai questo?” chiese Vegeta duramente.

Suo figlio non si era mai comportato come un codardo.

Quello che gli faceva più rabbia era non capire cosa lo avesse ridotto in quelle condizioni.

“Trunks, tesoro…” le braccia della madre lo attirarono al suo morbido petto “ma cosa ti è successo?”.

“Adesso basta!” Vegeta si era alzato dal letto e gli rivolse contro una delle sue occhiate più severe “è vergognoso sentirti parlare come fossi un moccioso qualunque”.

Bulma cercò di prenderlo per le buone, ignorando l’altro, come se la sua autorità in certi frangenti fosse un tappeto su cui strofinare le scarpe:

“Hai forse fatto un brutto sogno?” gli strinse le spalle e cercò di tenerlo fermo “guarda che non c’è nulla di strano, può capitare a tutti di avere un po’ di paura…”.

Trunks smise di scuotersi, tirò su col naso, guardò fisso il lenzuolo ma non ebbe il coraggio di alzare la testa:

“In sogno… un mostro mi ha detto che sarebbe venuto ad uccidermi… sembrava vero, non era un incubo qualunque…”.

“Dimmi, Bulma…” inquisì il saiyan rivolgendole lo stesso piglio severo “non gli avrai mica raccontato di quella stupida leggenda?” ma la donna scosse la testa.

Trunks sentì la schiena percorsa da un brivido, gelido come il nome che stava per pronunciare:

“Ha detto che si chiama Freezer…”.

Vegeta sgranò gli occhi e scattò ad afferrarlo per le spalle:

“Tu non puoi conoscere Freezer” lo scosse con rudezza “che diavolo stai blaterando?!”.

“Vuole vendicarsi di me perché dice che io l’ho ucciso!” singhiozzò ancora “ma non l’ho mai visto in vita mia, giuro che non ho fatto niente di male! Non sto dicendo bugie! Non gli ho alzato contro neanche un dito!”.

Vegeta, sconvolto, lo lasciò ricadere sul letto.

La leggenda, l’odore simile al metallo, il sogno di Trunks non erano più una coincidenza.

Anche Bulma si voltò d’istinto a guardare in direzione della finestra, alla ricerca del fantoccio di stoffa sbatacchiato a destra e a sinistra dal vento.

Era ancora lì:

“Gli spiriti malvagi…” sibilò impallidita.

Trunks si asciugò le lacrime col dorso della mano.

Il posto che aveva sognato aveva il cielo di colore verde e l’erba turchese, come se un pittore immaginario avesse invertito i colori per errore o per divertimento.

Assiso su una roccia, era comparso quel mostro che lo aveva chiamato per nome.

I suoi occhi di rubino, le labbra violacee ammalianti e velenose lo avevano fatto svegliare con la schiena rizzata sul materasso.

Proprio sotto di lui aveva avuto la sensazione di qualcosa o qualcuno che stesse nascosto, aveva fatto volare in aria le coperte ed era scappato via.

“Lo senti anche tu?” Vegeta si stava guardando intorno.

Anche Trunks sentì all’improvviso quell’odore di metallo volatilizzarsi dal nulla, lo stesso che aveva già percepito nella sua stanza.

“Ma di cosa state parlando?” intervenne Bulma spaventata “io non riesco a sentire niente… etciù!”.

Era stata così traumatica l’esperienza vissuta su Namecc che anche a distanza di anni provava i brividi al solo sentire pronunciare il nome di Freezer.

Si era già fatta piccola dietro a suo figlio.

Vegeta, al contrario, sentì il sangue schiumargli dentro.

Freezer aveva quel fascino del male capace di pietrificare chiunque e se aveva deciso di ritornare era perché le sue forze, forgiate nel fuoco dell’inferno, si erano accresciute, ma non sarebbe stato il principe dei saiyan se davanti alla prospettiva di uno scontro non avesse provato quell’euforia altrettanto diabolica e perversa.

“E di cosa hai paura?” guardò suo figlio con un ghigno.

“Mi è sembrato fortissimo… non credo di poter riuscire a competere con lui, vuole soltanto me, mi ucciderà…”

“Non trovare giustificazione dietro il fatto che hai imparato a combattere solo da pochi mesi. Il nemico non guarda queste sottigliezze, piuttosto è un’occasione d’oro che ti sta capitando per misurare finalmente le tue vere forze”.

Trunks non era del tutto convinto, ma quando suo padre gli parlava in quel modo, dentro di lui si agitavano ataviche emozioni.

Senza rendersene conto aveva già raddrizzato la schiena.

“Allora credete che verrà veramente?” si intromise Bulma “è soltanto una leggenda, Freezer è morto!”.

Ma nessuno dei due le diede ascolto.

Questo significava essere la donna e la madre di un saiyan: vederli andare contro il nemico e non poter fare altro che aspettare e supplicare il cielo, gioire del loro ritorno o andare a raccoglierne le spoglie, se non era stato già il vento a portare via la loro polvere.

Quest’angoscia non sarebbe mai finita.

Qualcun’altra aveva pagato già più di lei e paventava prima o poi di eguagliarne la sorte.

Trunks era sceso dal letto:

“Non sarai così sconsiderato da farlo combattere da solo?!”.

Vegeta non aveva pensato a quella prospettiva neanche per un istante, gli aveva parlato in quel modo soltanto per scuoterlo.

L’esaltazione per lo scontro si era mescolata alla sensazione nuova ed indefinita di combattere anche per altro, per preservare ciò che adesso gli apparteneva e gli era caro, ma era ancora presto per riconoscerlo ed ammetterlo perché certe consapevolezze passano soltanto attraverso travagli più grandi.

Quando Vegeta spalancò la finestra, un’aria burrascosa irruppe nella stanza, rovesciò una sedia, fece volare le coperte e sparpagliò i fazzoletti di carta come palle di neve più grosse.

Bulma dovette aggrapparsi alla spalliera di ferro del letto per non essere trascinata in quel vortice spaventoso ed ululante che inghiottì le sue urla di aiuto e di sconcerto.

Trunks e Vegeta saltarono dal davanzale e restarono sospesi in aria ad osservare uno scenario apocalittico: in lontananza le nuvole erano scese così basse da formare un fumo fatuo che avvolgeva rapidamente la città di un macabro colore sanguigno.

Trunks aspettava fermo vicino a suo padre, il vento forte gli scompigliava il ciuffo e lo costringeva a ridurre gli occhi in due fessure.

Si sentiva uno stupido ad aver avuto paura e a non essere stato neanche capace di camuffarla proprio davanti a suo padre.

Ora, malgrado il cuore gli tumultuasse sotto il pinguino raffigurato sul suo pigiama, doveva dimostrargli che aveva il fegato di affrontare quel nemico di cui non conosceva altro se non l’immane potenza che sprigionava.

“Avanti, carogna, vieni…” mormorò il principe dei saiyan, che aveva tutta l’intenzione di saldare il conto che per troppo tempo era rimasto in sospeso tra loro, e non era soltanto per la coda che gli aveva spezzato la noce del collo ma per quel passato in cui troppe volte aveva dovuto piegare la testa e sentirsi umiliato.

In quegli anni si era allenato duramente: non avrebbe tagliato la corda come aveva pensato di fare su Namecc.

La tensione intanto poteva affettarsi con un coltello.

Trunks ne percepiva il peso ed attendeva trepidante.

Ma ad un tratto la potente energia che avanzava nella loro direzione cessò d’incanto, le nubi rossastre si ritirarono poco a poco, come un esercito che arretra innanzi al nemico, lasciando intravedere perfino le stelle ed anche il vento si ridusse ad una brezza notturna che lusingò le ultime foglie rimaste sugli alberi.

Trunks si rivolse al padre e scioccato gli chiese cosa fosse successo.

Vegeta aveva la bocca dischiusa, ma non per dargli una risposta che purtroppo non aveva.

“Entriamo dentro…” gli rivolse le spalle.

Trunks si sentì ad un tratto più leggero e rilassato, libero di un fardello, e seguì il padre dopo essersi asciugato significativamente la fronte.

Nella stanza c’era la sedia capovolta, le coperte finite in un angolo, i fazzoletti sparpagliati a terra insieme ai cocci di un vaso, libri e pagine volanti, ma mancava qualcuno:

“Bulma! Mamma!” un grido suonò rabbioso, l’altro carico di rinnovata angoscia.

C’era ancora dell’altro che doveva succedere quella notte?

Vegeta corse a vedere in bagno, ma anche questo era vuoto.

“Sono qui sotto… posso uscire?” la sua capigliatura azzurra spuntò da sotto il letto e con flemma si rimise in piedi.

Trunks emise un respiro di sollievo e le disse che Freezer era scomparso ancor prima che ella potesse domandare cosa era successo.

Bulma si avvicinò alla finestra, allungò un braccio e sciolse il nodo che teneva agganciato il fantoccio di stoffa, scampato miracolosamente alla forza distruttrice del vento:

“Allora ha funzionato…” l’osservò con meraviglia.

Vegeta strinse rabbiosamente i pugni.

Ci voleva ben altro che un pupazzo di stoffa per tenere lontano Freezer.

Poteva immaginarlo ardere d’oro e sfoggiare la sua potenza elegante ed esemplare, la sua faccia senza risentimento, la forza mai brutale, il piglio di chi è sicuro che alla fine il bene trionfa sempre, anche tra i morti.

“Che tu sia maledetto Kakaroth…” pensò tra sé.

Anche nell’aldilà doveva fare l’eroe e prendersi tutto il divertimento, e lui era lì a perdere il tempo su un pianeta così soporifero e tranquillo da far rivoltare nella tomba tutti i suoi antenati.

“Ehi ragazzi…” Bulma si affrettava intanto a rifoderare il letto per recuperare il resto della notte “visto che siete qui…” diede l’ennesima strofinata al naso “che ne dite di dormire tutti insieme?”.

Vegeta si era già avviato alla porta, ignorandola di rimando.

Trunks fece una smorfia nauseata e disse:

“Ma che ti salta in testa? Certe cose le fanno le femminucce…” e con passo spocchioso la lasciò a starnutire da sola.

 

 

FINE

 

 

Bene… spero che abbiate mandato giù quest’altra capsula di convivenza: non sono obbligatorie e non hanno controindicazioni!

Come avrete notato, le capsule non seguono necessariamente un ordine cronologico, non sono l’una il continuo della precedente, ogni episodio è a sé stante, ma sono integrate tra loro ed allacciate alle precedenti fanfictions che ho scritto in modo da offrire al lettore un quadro omogeneo di vita alla Capsule Corp.

Per un nuovo episodio non garantisco niente… non mi piace fare promesse che potrei non mantenere.

Poiché mio fratello ritorna a vivere a casa, non avrò più il pc a mia completa disposizione.

Ciao a tutti e commentate!

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Episodio III - Un goccio di latte ***


Un racconto davvero breve rispetto al solito, ma il tempo purtroppo non mi permette diversamente

Un racconto davvero breve rispetto al solito, ma il tempo purtroppo non mi permette diversamente. Pensavo non sarei riuscita a realizzarla, ma con un po’ di organizzazione in pochi giorni ho confezionato quest’ altra capsula. Se volete, al termine lasciate un commento: non costano niente, sono stimolanti ed aiutano a fare di meglio.

 

Convivendo in… capsule

                                                          

Episodio III

 

 

 

Il sudore stillava dall’ampia fronte, poi scivolava sul ciglio perennemente corrugato, bruciava gli occhi e come lacrime rare andava ad estinguersi oltre il profilo spigoloso e volitivo del suo mento.

Le gocce trasudanti da ogni poro di quel corpo nerboruto e svestito, guizzando sulla pelle, si addensavano nei solchi delle cicatrici più profonde e si trattenevano fino a quando i muscoli non se ne liberavano con impazienza.

Quel fumo intenso e caldo realizzava davanti agli occhi un velo opaco, invadeva i polmoni con prepotenza e gli riportava alla mente l’atmosfera del pianeta D356 della galassia del Nord, e la sua improvvisa ed indistruttibile coltre di nebbia che nasceva dal nulla e strappava la vista con unghiate invisibili.

Né la luce abbagliante dei loro raggi, né la trasformazione in ozaru aveva consentito a quel tempo di vedere oltre un palmo dal proprio naso.

Finito lì per un’erronea valutazione del computer di bordo insieme agli altri due saiyan, compagni di conquiste e compravendite scellerate, avevano atteso oltre un mese per recuperare le proprie capsule, procedendo alla cieca ed affidandosi soltanto alla memoria e ai rumori circostanti.

Ora, nella coltre fumosa, Vegeta osservò la luce rossa lampeggiante in alto alla sua destra ed il quadrante che indicava l’ora e la temperatura, troppo calda perché il respiro potesse mantenersi regolare.

Nell’avanzare del fumo, riusciva a scorgere con difficoltà il corpo che giaceva nudo ed immobile di fronte a lui.

Poteva immaginare la sua pelle sudata ed accaldata, i suoi seni sollevarsi con affanno, ma non  gli era dato di distinguere il loro profilo tornito né gli anfratti più nascosti dove il sudore andava a rifugiarsi.

La donna non aveva più parlato, per quel che ne sapeva poteva essere anche svenuta tanto era il calore circostante.

Il saiyan si passò un braccio sulla fronte, come a trovare sollievo, ma questo scivolò a contatto ed aggiunse sudore a sudore.

Si domandò del perché fosse finito in quel posto infernale, e pensò che se non avesse incrociato quella dannata donna sul suo cammino, la giornata si sarebbe conclusa come tutte le altre: un pasto abbondante ed una sana dormita.

Invece boccheggiava come un pesce senza acqua, grondava sudore a fiotti e con la mano cercava di dissolvere il fumo dal volto per estendere senza successo il campo visivo.

Quel posto non gli piaceva, non si aspettava che fosse così quando aveva deciso di metterci piede.

Il pianeta D356 si affacciò ancora alla sua mente e ricordò delle ossa dei cadaveri che aveva sentito crocchiare sotto i piedi mentre avanzava nella nebbia e di Napa che ne aveva trovato uno ancora commestibile e lo aveva diviso con lui e con Radish per mettere qualcosa sotto i denti.

Si mosse irrequieto, tentò di alzarsi ma i piedi scalzi  ed umidicci tradirono l’equilibrio.

“Devi rilassarti di più…” mormorò Bulma dall’altra parte.

“All’inferno si soffoca di meno!” ribatté caustico.

Quando Bulma Brief aveva dovuto cancellare dalla sua agenda gli appuntamenti al centro di benessere, fissati ogni venerdì, per tre settimane consecutive, causa impegni di lavoro, aveva deciso di dotare la Capsule Corp. di una sauna multifunzionale e l’aveva costruita nei pressi della gravity room, sfruttando una camera in disuso col soffitto incrostato di muffa negli angoli e parte del corridoio laterale.

Il principe dei saiyan, all’uscita quella sera dalla stanza gravitazionale, con i pantaloni ridotti a brandelli ed il volto invecchiato di una manciata d’anni tanto era contratto, era stato adescato dall’affascinante scienziata con la prospettiva ben argomentata che la sauna avrebbe rigenerato il suo organismo e che un corpo portato all’estremo necessita di essere salvaguardato ed accudito con la stessa premura che ella riservava alle sue invenzioni più sofisticate.

Vegeta detestava essere coinvolto nelle umane frivolezze almeno quanto detestava Kakaroth, e se entrò in quella stanza, mentre la donna era ancora a metà del suo discorso, fu solo perché erano le grandi battaglie a ridurlo in quello stato e non un allenamento qualunque.

In verità, si era lasciato prendere troppo la mano come da tempo non gli succedeva ed il risultato era pressappoco come quello di essere stato pestato a sangue da Freezer.

 

Come in un sogno confuso, riuscì a scorgere nel vapore il colore lattescente della sua carne.

Vide allora che la donna si stava alzando: il suo sudore scivolò sul pavimento alla stesso modo della pioggia da un ombrello inzuppato.

Bulma ridusse l’emissione di vapore e poi tornò a sedersi sulla panca di fronte, dopo aver sistemato il telo sul quale prima era distesa, poggiando la testa, raccolta in un asciugamano, contro il muro.

L’aria si fece più respirabile e le grinze di disappunto della sua ampia fronte si ridussero di un poco.

“Va meglio così?” gli porse un sorriso l’altra, che lui ignorò con uno scatto del mento in direzione di una parete vuota.

“Penso che questa roba sia soltanto una perdita di tempo” incrociò le braccia sudate nella sua posa abituale.

“Rilassati…” lo esortò ancora, ma questa volta la sua voce vibrò di un tono canzonatorio “ti sei allenato tutto il giorno, hai fatto tutti i tuoi doveri da principe dei saiyan, la giornata volge al termine ed hai la coscienza a posto di aver fatto tutto ciò che avevi programmato, che male c’è ora a lasciarti andare un po’?”.

Vegeta le rimandò un altro dei suoi eloquenti scatti di mento.

Come se fosse facile rilassarsi con due mammelle turgide, scure e rilucenti esibite davanti a lui senza vergogna, il sudore che si condensava sulle labbra senza rossetto, le palpebre socchiuse e le ciglia vibranti.

Si accorse ad un tratto di provare più caldo di prima.

Bulma sentì l’uscio aprirsi e quando riaprì gli occhi scoprì di essere rimasta sola.

 

Al termine della sua sauna, la donna con sorpresa lo trovò ancora nell’anticamera attigua.

Su una panca era stato gettato il suo accappatoio e la bottiglia d’acqua che aveva tracannato tutta d’un fiato era ancora tra le sue dita.

Bulma si strinse nell’altro accappatoio che era agganciato al muro, liberò i capelli dall’asciugamano in cui erano avvolti e gettò la testa all’ingiù per ravvivarli:

“Come mai te ne sei andato? Davvero pensi non serva a niente? La gente paga e prende appuntamenti per godersi un momento simile” disse senza guardarlo, ma il rumore della bottiglia schiacciata la fece trasalire e voltare di scatto.

Vegeta la cestinò a volo, poi si sedette su una sedia per infilare le scarpe:

“Non vedo cosa ci sia di salutare a sudare come un animale!” stringò i lacci.

Né avrebbe mai capito certe abitudini ridicole dei terrestri.

Era matta se pensava di coinvolgerlo ancora un’altra volta.

Bulma scosse il capo con rassegnazione e si avvicinò a lui fino a poggiare le mani sulle sue spalle nude:

“A volte mi domando cosa debbo fare per dare un po’ di tregua a questi muscoli…” lasciò l’impronta delle sue labbra nella piega irrigidita del suo collo.

Il saiyan lasciò l’altra scarpa senza aver tirato ancora i lacci:

“E questa… quale altra diavoleria sarebbe?”

“Nessuna, sono solo le mie mani…” alitò nel suo orecchio facendolo rabbrividire.

Incominciò a massaggiare la nuca con movenze circolari dei polpastrelli, allargandole fino alle scapole e restringendole ancora in prossimità della prima vertebra.

Ad ogni tocco di quelle dita, ora delicato ora più energico e profondo, Vegeta scopriva un allentamento fisico in quei punti talmente intenso da fargli male e come una droga che gli veniva iniettata dentro voleva che ella non fermasse le sue mani.

Ruotò con lentezza la cervice indurita dagli allenamenti e chiuse gli occhi, abbandonandosi a lei, alle sue dita e al suo odore.

Non era più capace di muoversi tanto intenso era il rilassamento che lo stava invadendo.

Solo una volta era accaduto che delle mani femminee lo avessero indebolito a tal punto: due piccole sgualdrinelle che si era portato nel suo alloggio avevano pensato di sedurlo spalmando sul suo corpo oli narcotizzanti, con l’intento di sottrargli il bottino che aveva ottenuto da Freezer al termine di una conquista rapida ed interessante.

Non avevano fatto i conti che sul corpo di un saiyan quelle essenze non avrebbero ottenuto subito effetto e quando aveva riaperto gli occhi, con la testa che gli doleva come compressa da una tenaglia, la prima cosa che aveva visto era stato il ventre insanguinato di una delle due che giaceva a terra come una bambola rotta.

L’altra, a cui aveva legato le braccia intorno alla spalliera in ferro della branda, aveva l’interno delle gambe ricoperto di plasma bluastro e gli occhi erano rimasti sbarrati ed atterriti ancor prima del gelido trapasso.

Erano due ragazzine e lui era più avanti di pochissimi anni.

Quel ricordo gli fece spalancare gli occhi ed accelerare il cuore di alcuni battiti.

Bulma lo sentì sotto le dita farsi di nuovo rigido:

“Devi stare più tranquillo” sussurrò riprendendo “spesso ho l’impressione che ci sia sempre qualche pensiero che ti turbi…”.

Vegeta sogghignò:

“Non c’è niente, te lo posso assicurare” e non mentì.

Il passato era passato e la sua mente rievocava a volte quei ricordi allo stesso modo di come avrebbe rievocato il giorno appena trascorso.

Senza rammarico, né pietà, li ricacciava da dove erano venuti e ce li seppelliva scavando ancora più a fondo, come un assassino lucido e spietato occulta un cadavere per bene, si scrolla la polvere da dosso, poi si aggira per strada, entra nei negozi, dispensa sorrisi ai commessi ed infine ritorna a casa, si lava le mani e si siede a tavola con la sua famiglia come se niente fosse mai successo.

Vegeta era appunto un assassino che aveva occultato i suoi cadaveri nel recondito della sua coscienza e riusciva ad andare avanti ignorando di averli seppelliti vivi.

Perché a volte urlavano, ma egli sapeva farli  tacere sentenziando sprezzante che il passato era passato.

E quando anche questo non bastava a tenerli a bada, sibilava a denti stretti che in tutto l’universo qualcuno era stato disposto ad amarlo lo stesso.

Non avrebbe ammassato più altri cadaveri, ma se avesse chiesto indulgenza presso quelli che già c’erano, avrebbe significato provare rimorso ed il rimorso suo sarebbe stato talmente grande da logorare la coscienza più di un cancro.

Meglio allora andare avanti e convincersi che né il ricordo, né il pentimento, né la compassione avrebbero potuto riportare in vita i suoi morti.

“Da quando hai imparato a fare questo?” sottostava con piacere alle sue dita febbrili che non ordivano inganni.

“Al centro di benessere ho dato qualche mancia in più al ragazzo che di solito mi pratica i massaggi, per farmi insegnare qualche trucco del mestiere”.

Vegeta si irrigidì ancora una volta nell’immaginare la sua schiena bianca sotto le mani di un altro pagato apposta per procurarle piacere.

Bulma rincorse quella tensione palpandola:

“Un ragazzo? Ma non sono cose che ad una donna dovrebbe fare un’altra donna?” cercò di non scomporsi più di tanto.

“All’inizio provavo un po’ di imbarazzo, ma sono persone che fanno il loro mestiere con molta professionalità. Ti dà fastidio, forse?” insinuò birichina.

“Perché ti tocca un poco la schiena?” minimizzò beffardo.

“La schiena, ma anche tutte le gambe…” rincarò la dose.

“Per me puoi anche andarci tutti i giorni” si sciolse dall’incantesimo delle sue mani e si alzò con risolutezza.

Bulma aveva ancora un falso sorriso di accondiscendenza stampato sulle labbra quando sbirciò l’orologio alla parete:

“Bra deve essersi svegliata, vado ad allattarla”.

Vegeta non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito.

Dalle premesse si era convinto che avrebbero finito per ruzzolare nudi ed avvinghiati su quel pavimento o che l’avrebbe spinta contro il muro e le avrebbe fatto gridare di non smettere.

Digrignò torvo contro la sua schiena mentre se ne andava.

Ma sull’uscio Bulma tornò a voltarsi:

“Se vieni tra un po’, lascio un goccio anche a te…” ed ammiccò maliziosa.

 

 

FINE

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Episodio IV - Lo squalo nel laboratorio ***


“Convivendo in… capsule”

“Convivendo in… capsule”

 

 

Episodio IV

 

 

 

Bulma strisciò con la schiena a terra fino a quando non rivide la luce a neon del soffitto, si buttò su di un fianco e tossì convulsamente per alcuni minuti.

Poi col braccio si allungò a cercare un appiglio, come un naufrago si aggrappa ad uno scoglio nell’ultima speranza, afferrò un piolo della scala di ferro che le stava vicino, e prima con una gamba e poi con l’altra riuscì a mettersi in piedi.

Con stizza si sfilò i guanti da lavoro e li gettò a terra vicino ad una cassetta degli attrezzi.

La divisa col marchio della sua azienda era imbrattata di un nero oleaginoso e sul volto coperto di fuliggine gli occhi risaltavano più per la rabbia che per il cangiante colore azzurro.

Intenta nel collaudo di un nuovo jet da piazzare sul mercato, stesa sul dorso, uno dei motori, a tradimento, aveva sfiatato diritto sulla sua faccia, come lo starnuto di un elefante o uno sputo espettorato con sdegno nel bel mezzo di una discussione più accesa.

Bulma continuò a tenere le braccia staccate dal corpo e ad osservarsi con disgusto.

Anche le dita che osò passare tra i capelli si unsero di grasso.

Con passo goffo ed appesantito si avvicinò ad un armadietto in ghisa ed afferrò dal fondo con cautela un telo bianco di spugna, si tolse le scarpe prima con un piede poi con l’altro e tracciò una scia di indumenti sudici in direzione della toilette, ritenendo più opportuno utilizzare quella del laboratorio anziché ritornare in casa e farsi chiedere se per caso avesse spurgato una fogna.

“Ma guarda che roba!” commentò davanti allo specchio.

Pensò che era stato un vero attentato organizzato nei minimi dettagli quello capitato ai capelli e alla sua pelle di porcellana.

Lo scroscio della doccia fu intenso e lungo, intervallato da strofinii vigorosi ed esalazioni dal sapore muschiato.

Meditò che il lavoro per quel giorno poteva andare al diavolo.

Era stata una giornata intensa, suo padre si era ritirato già da un pezzo e lei senza accorgersene aveva fatto lo straordinario non per spirito di dedizione all’azienda ma solo perché, impegnandosi a massimo, riusciva a pensare di meno a quel saiyan che viveva sotto il suo tetto e non le rivolgeva parola quasi parlassero due lingue diverse.

Non riusciva a capire come la situazione le fosse sfuggita a tal punto da mano ed il suo grillo parlante, dalla voce stridula e con una zampetta puntata contro, le rinfacciava che in realtà non l’aveva mai avuta, che era Vegeta a far girare la giostra, a lei non restava che salirci ed aspettare, che si era innamorata di un uomo che definirlo difficile era come dire che l’esperienza su Namecc era stata una scampagnata, che sarebbe invecchiata zitella, che avrebbe fatto meglio a tenersi l’altro fidanzato  corna comprese.

Un’altra parte della sua coscienza, quella più appassionata, profonda e veramente lesionata, bisbigliava che pur tornando indietro non avrebbe rinnegato niente, piuttosto sarebbe morta, rinata e diventata adulta un’altra volta per sentire soltanto il sapore delle sue labbra e poi morire di nuovo.

Questi pensieri la fecero sbuffare e restare affranta a guardare il muro di piastrelle per minuti interminabili, con l’acqua che le appesantiva la chioma ed il sapone che gorgogliava nelle tubature senza lasciare più residui intorno ai suoi piedi.

Quando ritenne di averne abbastanza dell’acqua, del sapone e di quei pensieri troppe volte scandagliati e lasciati sempre in sospeso, allungò un braccio fuori la doccia ma la mano si mosse a tentoni sul muro senza trovare niente.

Aveva lasciato il telo bianco di spugna su di un tavolo mentre scioglieva i lacci delle scarpe.

Si guardò intorno: nel bagno non c’era niente con cui coprirsi, persino il rotolo di carta era finito e né lei né suo padre si erano presi la briga di sostituirlo.

Lo specchio riflesse la sua immagine ancora più furibonda di prima.

Decisamente non era serata, pensò Bulma aprendo la porta e gettando intorno un’occhiata circospetta.

Il laboratorio della Capsule Corp. era un grande capannone costruito nel retro della villa: la separavano dal tavolo su cui aveva lasciato l’asciugamano circa una ventina di metri.

Per giunta, gli abiti che aveva gettato a terra erano stati raccolti da uno dei robot programmati a pulire l’impiantito a fine giornata.

Coi piedi nudi e gocciolanti per poco non rischiò di ritrovarsi col sedere a terra, così avanzò lentamente, tenendosi in equilibrio con le braccia allargate.

Quando il principe dei saiyan entrò nel laboratorio da una delle entrate secondarie, la trovò lì al centro dell’edificio, nuda, fradicia e con due occhi che la morte avrebbe trovato meno sbarrati e sconvolti.

“Possibile che fra tanti momenti dovevi trovarti qui proprio adesso?! Vattene immediatamente!” Bulma si voltò di scatto e gli offrì la schiena, raggelata e tremante.

Il volto divenne preda di un rossore incandescente, se le gambe non risposero agli impulsi più ordinari, gli occhi invece rotearono quasi al di fuori delle orbite alla ricerca disperata di qualsiasi cosa che la sottraesse a quella vergogna.

Ma non c’era niente intorno se non ferro, metallo, bulloni, computer, niente che fosse fatto di stoffa, che fosse almeno avvolgibile intorno ad un corpo.

Era una naufraga sperduta in alto mare, il tavolo l’isola troppo lontana da raggiungere a nuoto, Vegeta lo squalo che aspettava in silenzio le sue mosse.

“Sei ancora lì? Abbi la decenza di voltarti!” l’affanno e l’imbarazzo resero la voce irriconoscibile alle sue stesse orecchie.

“Dovresti avere tu la decenza di coprirti quando non sei nella tua stanza”.

Vegeta non si era mosso.

Dopo quell’attimo in cui l’istinto più incorrotto gli aveva fatto deviare lo sguardo nel realizzare la figura nuda della donna, non un muscolo della sua faccia era più vibrato.

Bulma si strinse nella braccia con un gesto di collera:

“Ho soltanto dimenticato di prendere l’asciugamano prima di fare la doccia! Voltati! Hai guardato già troppo!”.

Poteva immaginare la sua bocca piegata nel solito ghigno quando disse:

“E da quando mi dai degli ordini?”.

Non passò un altro battito di ciglia, non un altro istante per godersi quello spettacolo gratuito ed imprevisto che la vide correre d’improvviso in direzione di un vecchio armadio, l’unico mobile che fosse alla sua portata, che custodiva all’interno, su quattro ripiani, oggetti da laboratorio ed utensili vari.

Bulma aprì un’anta e la usò come fosse una sporgenza del muro, riparandosi dietro: un rifugio precario quanto un asse di legno in mezzo al mare, ma almeno le consentì di tirare un leggero sospiro di sollievo:

“Ora che ti sei divertito abbastanza ad umiliarmi, potresti andartene via o renderti utile e gettarmi quell’asciugamano che hai proprio vicino!”.

Il silenzio che seguì fu interrotto dai passi lenti del saiyan che echeggiarono nel grande edificio inquietanti e pericolosi.

Bulma sentì che si stava approssimando oltre il dovuto:

“Ti ho detto di gettarmi l’asciugamano, possibilmente in modo che io lo recuperi, non di…” ma le parole non avevano più senso perché lui l’aveva già raggiunta e tra le mani non aveva niente di quello che gli era stato chiesto.

“Dannazione! Devi fare sempre di testa tua! Non è giusto! Come devo dirti che devi andartene, che non voglio che mi guardi?!” l’offesa bollì fino al punto in cui si liquefece in lacrime, così veloci ed involontarie che trattenerle equivaleva ad arginare le onde del mare.

Si confondevano insieme alle gocce che scendevano dai suoi capelli, scivolavano dalle spalle tremanti, percorrevano anfratti nascosti e si raccoglievano infine ai suoi piedi.

Il braccio stretto intorno ai seni non bastò a contenerne la pienezza e Vegeta osservò uno dei suoi capezzoli indurirsi come una piccola pietruzza.

Il saiyan provò un desiderio profondo, lo sentì nascere sulla lingua, contorcersi per le viscere, consolidarsi più in basso.

Era una sera afosa d'estate, di quelle dove si boccheggia, le falene piroettano intorno ai lampioni, i ventilatori in casa ruotano senza sosta, ma la donna tremava e la sua pelle si intirizziva come sorpresa da una gelida tramontana:

“Sei soddisfatto ora? Che altro vuoi?”.

Dalla piega sottile delle sue labbra non uscì risposta né si poteva cercarla in quel piglio sempre fosco ed inalterato anche nell’eccitazione.

Bulma pensò di ricevere conferma quando lo vide avvicinarsi di più ed allungare un braccio:

“Guai a te se ti azzardi a toccarmi!”.

In quegli occhi, che del mare avevano ora solo i colori più cupi di quando è in burrasca, c’era la risolutezza di una donna che avrebbe difeso la sua dignità con i denti, che non gli avrebbe permesso di fare i suoi comodi in nome di quell’amore che tutto scusa e tutto sopporta.

L’anta del mobile fu chiusa con uno scatto rimbombante che fece sussultare lei e gli utensili di vetri custoditi dentro.

Vegeta restò con quel braccio agganciato all’armadio a pochi centimetri dalla sua testa:

“Parli e ti comporti come se io non l’avessi mai fatto prima d’ora”.

Per non subire quell’indagine ella abbassò gli occhi ed attese qualche istante per mormorare:

“Noi due non stiamo più insieme…”.

Poi, come se da questo pensiero attingesse più forza e più rabbia, ritornò a guardarlo e rincarò la dose:

“E’ passato molto tempo ormai, tu non hai più il diritto di vedermi così…” sottolineò stringendosi di più tra le braccia “di invadere la mia intimità e di ignorare le mie richieste. Avresti dovuto girare i tacchi quando ti ho detto di farlo!”.

Lo vide ritrarre il braccio, darle la schiena più per indifferenza che per scrupolo, ed infine infilare le mani nelle tasche dei pantaloni:

“Voglio che rimetti in sesto il trainer gravitazionale”.

Le ciglia della donna fremettero disorientate.

Oltre il fatto quell’ordine impartito niente avesse a che vedere con il discorso che aveva iniziato, Vegeta aveva smesso di allenarsi da circa due mesi, da quando Cell era stato sconfitto, Goku si era sacrificato per la salvezza della Terra, Trunks era ritornato nel suo futuro per sempre.

Da allora il principe dei saiyan aveva decretato che non avrebbe più combattuto, che né sangue né altro sudore sarebbero stati più gettati dalla sua fronte, e non perché avesse visto troppi innocenti perdere la vita o la mente volesse alleggerirsi dal ricordo di aver goduto delle loro urla, ma solo perché Kakaroth era morto.

Senza più quel parametro di forza, energia e potenza con cui potersi misurare valeva ben poco tornare ad allenarsi.

Questo fu quello che pensò allora, ciò che meditò in quei due mesi trascorsi su di un letto a cercare risposte contro il soffitto, attraverso battaglie mentali altrettanto ardue, dove sempre più spesso allo sbiadirsi di Kakaroth prendevano sopravvento il volto di un ragazzo cresciuto troppo in fretta e della sua giovane madre.

Ma le migliori risoluzioni a volte stanno nei pensieri più elementari e meno tribolati ed il principe dei saiyan decise quel giorno che sarebbe tornato a combattere quando pensò che Kakaroth all’altro mondo non se ne sarebbe stato di certo con le mani in mano.

Se un giorno, per qualche strano miracolo, fosse ritornato in vita o si fossero incontrati nell’aldilà in un ipotetico scontro tra inferno e paradiso, non poteva farsi trovare impreparato.

“Vuoi riprendere davvero ad allenarti?”

Bulma sentì ciò che in due mesi aveva sperato di sentirgli pronunciare e questo le provocò un calore nel sangue che le fece dimenticare di essere ancora nuda ed infradiciata.

Riprendere gli allenamenti nel trainer equivaleva a dichiarare di aver deciso almeno di restare sulla Terra.

“A cosa dovrebbe altrimenti servirmi una stanza gravitazionale?” ribatté seccato, dandole ancora le spalle.

Bulma provò una certa soddisfazione nel fargli sapere che l’aveva smantellata con le sue stesse mani quando se ne era andato via l’ultima volta:

“Mi servirà qualche giorno per accontentarti”

“Non importa, era venuto solo per farti sapere che intendo usarla di nuovo”

“Soltanto per questo?”

Vegeta sentì incombere sulle sue spalle uno dei suoi sguardi più risentiti.

Bulma non riusciva a capacitarsi che in due mesi di silenzio avesse maturato solo quella decisione, che dopo tanto tempo l’unico argomento del quale discutere fosse soltanto una stupida camera in cui gettarci il sudore:

“Hai anche un figlio o forse lo hai dimenticato? Sei davvero sicuro che tu non abbia niente altro da dirmi, niente che riguardi direttamente me?”

“In tal caso, poco fa, ti conveniva stare zitta” si mosse per andare via “e lasciarmi fare…”.

 

 

 

FINE

 

 

 

Ringrazio di cuore chi ha lasciato commenti alle storie precedenti e chi ne lascerà una anche per questa.

 

 

 

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Capitolo 5
*** Episodio V - L'eroe del pianeta ***


Una piccola capsula confezionata in pochi giorni per quanti mi hanno chiesto di continuare a scrivere

Una piccola capsula confezionata in pochi giorni per quanti mi hanno chiesto di continuare a scrivere. Buona lettura e grazie per il vostro sostegno!

 

 

“Convivendo in... capsule”

 

 

Episodio V

 

 

 

Se fosse stata una spiga di grano le sue gambe sarebbero stati esili fuscelli sferzati dal vento, e le pietruzze, che la costringevano a serrare le palpebre e a schermarle con una mano, granelli di mais induriti dal sole.

L’altra mano che stringeva la gonna non bastava a domarne le pieghe svolazzanti, ma in quello stato di forza maggiore l’interesse primario di Bulma Brief non era quello di preservare il colore delle sue mutande, ma riuscire a rientrare in casa incolume nel tragitto che la separava dai laboratori posti nel retro del giardino, un tratto breve fatto di ciottoli e di erbetta, ma quella mattina divenuto insidioso come una steppa nel mezzo delle montagne, dove vorticavano a raffica foglie, rami spezzati, terriccio, petali di fiori, e in più, a dimostrazione di trovarsi ancora in città, scatole, cartacce varie e perfino la ruota di una bicicletta che scansò abbassandosi in tempo, sotto un cielo degradato ad uno strano e sinistro colore giallognolo.

Il vento fece appiccicare una ciocca di capelli sulle labbra lucide di rosso ed una carta oleata di pizza, sollevata in volo insieme agli altri rifiuti contenuti nel cassonetto fuori la strada, finì diritto sulla sua faccia come un pugno sul naso ed ella dovette scuotere il capo ripetutamente ed imprecare qualcosa di molto sconveniente per liberarsene.

Quando riuscì a chiudere la porta spingendo con tutte le sue forze, il vento urlò nell’ultimo spiraglio come un branco di cani affamati a cui era stato tolto il guinzaglio.

Tirò un respirò di sollievo, diede una scrollata alla gonna, ricompose la chioma passando le dita prima da un lato poi dall’altro e realizzò che Trunks era rimasto seduto sul tappeto a giocare con i suoi dinosauri di gomma, ignaro del pericolo incombente, perché all’età di quasi quattro anni è più importante concentrarsi sulle proprie fantasie e decidere se l’esito di uno scontro immaginario deve volgere in favore del tirannosauro o gratificare una volta tanto la famigliola dei quattro branchiosauri e concludere che anche l’unione può fare la forza e tutti alla fine possono vivere felici e contenti.

Il bambino non badò all’ingresso della madre, sull’orlo del divano continuò a far rincorrere i mansueti erbivori da quello più grande e minaccioso, mimando con la voce la loro corsa forsennata ed i ruggiti tremendi del persecutore, che grazie ad un gioco di squadra, finì oltre i cuscini in un dirupo della sua fantasia con la testa staccata.

Bulma afferrò il telecomando e si sintonizzò sulla prima rete nazionale per avere conferme ulteriori sulla notizia che aveva appreso via radio mentre era nei laboratori.

Il mezzo busto incravattato ed incipriato alla meglio pochi istanti prima della diretta straordinaria annunciava il terribile tornado che si sarebbe abbattuto a nord-ovest della regione 446.

Assorta nell’apprendere ciò che il cielo della città già presagiva nel suo assurdo colore giallastro, sussultò quando alle spalle sentì stappare una lattina di limonata.

Vegeta poggiò indolente una spalla contro il muro e dopo alcuni sorsi, che servivano a dissetare l’arsura della gola nella prima pausa degli allenamenti mattutini, prestò attenzione al televisore soltanto per trovarvi dentro una spiegazione al pallore della donna e alla voracità con cui si spuntava le unghie e con piccoli sbuffi le disseminava intorno ai suoi piedi.

“Di cosa ti preoccupi?” minimizzò con la solita arroganza che ostentava innanzi ad ogni nemico “ha detto che la Città dell’Ovest verrà soltanto sfiorata”.

Pronunciare quelle parole più per scherno che per consolazione non servirono a ridurre il cipiglio di ansia sotto la frangetta scompigliata e Bulma si strinse nelle spalle significativamente e commentò con la gravità di donna di scienza qual era:

“Il tempo sta cambiando, non si sono mai visti simili fenomeni nelle nostre regioni”.

Per un istante elucubrò che avrebbe dovuto inventare qualche dispositivo per prevedere e prevenire tali cataclismi, ma rammentando di aver lasciato nei laboratori oltre che un lavoro in sospeso anche suo padre, si mosse all’improvviso in direzione del telefono per raccomandargli di non muoversi da lì e di attivare i generatori di corrente alternativa per continuare ad alimentare i motori su cui stava lavorando e salvaguardare la realizzazione del progetto nel caso in cui la corrente fosse mancata.

Le rispose invece la madre che piagnucolò di non aver potuto fare niente per salvare le rose e le sue piante, che il giardino era distrutto e che aveva trovato rifugio nei laboratori perché erano più vicini alla serra.

“Migliaia di persone stanno decidendo come mettersi in salvo la pelle e lei pensa alle sue piante!” agganciò Bulma il telefono.

Nel voltarsi, vide che Vegeta scrutava l’esterno da dietro l’ampia vetrata, sorseggiando la sua bibita con calma, incurante degli alberi sradicati nel giardino, dei lampioni che oscillavano pericolosamente, dell’ululato del vento che ghermiva sull’asfalto desolato come gli artigli di un falco, sollevava e disperdeva tegole come avessero avuto la stessa consistenza della polvere.

I negozi che affacciavano su quella strada avevano abbassato le serrande, le loro insegne producevano soltanto un monotono cigolio di metallo, una nenia dolorosa che si sovrapponeva al sibilo del vento, lo rincorreva, lo smorzava, e qualche volta ne restava tramortito.

Allo scurirsi ulteriore del cielo, Bulma accese la luce con un anticipo di quasi otto ore e Vegeta vide restituirsi dalla vetrata il cruccio inalterato della sua ampia fronte.

Alle sue spalle, il mezzobusto in televisione continuava ad illustrare con angoscia crescente le immagini di una popolazione in esodo, dell’esercito che marciava in loro soccorso, dei saccheggi già perpetrati, di bambini urlanti e smarriti, di case derelitte prossime ad essere scoperchiate.

Non avrebbero avuto il tempo di allontanarsi dalla zona a rischio giacché il tifone andava loro incontro senza deviazione alcuna.

Vegeta schiacciò la lattina, la cestinò a volo e ritornò sui suoi passi, ma fu bloccato dalla voce di Bulma che gli chiese dove stesse andando:

“Continuo ad allenarmi, ovviamente” calcò l’ultima parola, come se la sua domanda e le ciglia stranite non avessero ragione di essere.

“Ti pare il momento questo di andare a menare all’aria pugni e calci?” l’espressione strabuzzata degenerò in un piglio più acceso in meno che non si dica.

“Cioè…?” ora aveva lui quello sguardo smarrito, ma volutamente provocatorio perché già sapeva con quali argomentazioni ella avrebbe proseguito.

“Hai visto che cosa sta succedendo fuori, hai prestato un po’ della tua preziosa attenzione al televisore?”

“E con questo?” recuperò il suo sogghigno “hai forse paura che il tetto ci crolli addosso?”

“Non ho paura che il tetto ci crolli addosso, ho paura e basta, non mi sento tranquilla!” ammise a testa alta “è troppo pretendere che tu stia qui insieme a noi?”.

Il televisore tacque d’improvviso e dopo qualche istante scattò la luce a neon di emergenza.

Trunks, che intanto aveva fatto risuscitare il suo tirannosauro, il quale, recuperata la testa staccata e sollevatosi dal dirupo in cui era caduto, aveva gettato scompiglio tra i branchiosauri che si erano defilati dietro i cuscini, si guardò intorno interrogativo come se solo in quell’istante realizzasse di trovarsi nel salotto di casa sua.

“Hai visto?” batté la punta del piede a terra e rovesciò una mano sul fianco esultante “senza corrente la camera gravitazionale non può funzionare!”

Ricevette in risposta un mugugno a denti stretti ed uno scatto di mento nella direzione opposta, ad osservare il cielo che adesso aveva assunto le gradazioni più scure del grigio.

Nessuno dei tre disse nulla, anche Trunks rinunciò alla caccia dei poveri branchiosauri, e per alcuni minuti si sentì solo il cigolio dell’insegna di un negozio farsi sempre più insistente e poi ad un tratto, come se qualcosa lo avesse fermato, sovvenire il silenzio più lugubre.

Fu in quell’attimo il cui il tempo sembrò annullarsi che Vegeta vide qualcosa di indefinito dirigersi velocemente verso la finestra:

“Sta giù!” urlò a squarciagola alla donna che era voltata di spalle, gettandosi contro di lei mentre la grande insegna di “Intimo e collant” riduceva in pezzi la finestra, si abbatteva sul tavolo, rovesciava le sedie, restava in bilico su di un fianco e poi cadeva a terra con un tonfo pesante e sonoro che continuò a ripetersi fino a quando non si stabilizzò del tutto.

Vegeta alitò contro il suo collo, la sentì muoversi piano sotto di lui, i suoi seni sollevarsi con affanno sotto la camicetta strappata, alzò la testa, incrociò i suoi occhi sconvolti ed increduli e per un istante si fissarono come si vedessero per la prima volta.

“Gra… grazie…” farfugliò la donna.

Non ci fu il tempo di pensare che Vegeta le aveva salvato la vita, che si era gettato su di lei per proteggerla come avrebbe dovuto fare quel giorno nel deserto contro l’insidia del dott. Gero, né per l’altro di meditare che il suo gesto era stato qualcosa in più dell’istinto e che nel suo cuore sentiva un calore più forte dell’orgoglio per il quale non avrebbe dovuto compierlo, perché una raffica di vento irruppe nella stanza, strappò quello che restava delle tende, rovesciò i suppellettili di una mensola, sbatacchiò tappeti e mise le ali a fogli di giornale:

“Mamma!” il pianto di Trunks si inserì in quel fragore come una sirena di emergenza.

Bulma, ancora a terra, si aggrappò alle spalle del saiyan, e in quel gesto disperato con cui lo scosse, Vegeta capì di dover assicurare protezione alla sua famiglia, mettere a riparo la sua casa, essere una volta tanto un uomo qualunque e non il principe dei saiyan, e questo oblio effimero quanto un’impronta sulla riva del mare fu un’altra incrinatura nella sua coscienza di saiyan che volutamente non avrebbe rappezzato.

Con una leggerezza tale da farle liquefare le viscere, sollevò la donna, se la mise sotto un braccio come fosse stata una borsa da passeggio, corse verso il bambino, lo afferrò per le bretelle alla pari di un bambolotto ed andò a metterli al sicuro nel corridoio.

Bulma cascò seduta all’indietro:

“Dove stai andando?”

“Andate nella stanza gravitazionale, lì sarete al sicuro, io cerco di trovare un modo per serrare quella dannata finestra!”.

Anche Bulma, piena di fiducia e di speranza, sulle tracce di quello stesso oblio, commise l’errore di appellarsi alla sua umanità quando gli chiese di fermarsi e di ascoltarla.

Vegeta non capì cosa ci fosse da dire più importante di trovare un rimedio per arginare il subbuglio portato dal vento, né il perché dei suoi occhi improvvisamente supplichevoli e così illuminati da costringerlo a fermarsi e a prestarle ascolto senza replicare che quello non era il momento:

“Tu potresti salvare migliaia di innocenti da morte sicura, non ti costerebbe niente, aiutali, ti basterebbe l’imposizione di un dito per disperdere la forza di un uragano!”.

Un’altra ruga si contrasse sulla sua fronte, più scavata di tutte le altre:

“Cosa ti passa per la testa? Pensi che io sia Kakaroth? Io non sono l’eroe di questo pianeta”

“Ma so che se ora sono in piedi è perché mi hai salvato tu!”

“Non è la stessa cosa!” la sopraffece.

Avrebbe forse dovuto dirle che solo lei e quel marmocchio contavano nella sua vita?

Che il resto del mondo poteva anche crepare, a lui non sarebbe importato nulla?

No, Vegeta scelse di aggiungere altro:

“Chiama i tuoi amici”

“Non ci sarebbe tempo, tu sei quello più vicino, e poi scommetto che se alzassi la cornetta del telefono, troverei le linee anche interrotte!”

All’apparire improvviso della luce, il saiyan si guardò intorno, poi si mosse alla volta del salone da cui non si sentiva più alcun tumulto, seguito a ruota dalla donna che tirò per mano un Trunks più maldisposto.

“Se si fosse trattato di un nemico venuto dalla spazio” seguitò Bulma “saresti corso di tua iniziativa senza fartelo ripetere due volte!”

“Quanta ovvietà! Se il tuo uragano avesse avuto carne ed ossa avrei trovato pane per i miei denti!”.

Il salotto che si profilò davanti a loro aveva al centro la vecchia insegna fracassata di “Intimo e collant”, fogli di giornale e cocci di ceramica ovunque sparpagliati.

In compenso, la tendina squarciata al centro si agitava più placidamente.

“Il vento si è fermato” commentò Trunks che lasciò la mano della madre per mettersi alla ricerca dei suoi dinosauri smarriti nei pressi del divano.

Il mezzobusto in televisione ricomparso insieme alla luce annunciò gravemente che dalla regione 446 non pervenivano più immagini.

C’era stato un tempo in cui Bulma aveva avuto a cuore soltanto la propria incolumità, dove in nome della sua bellezza e gioventù avrebbe sacrificato l’interesse di molti altri, ma quella parte superficiale della sua vita era stata spazzata dalla venuta di un figlio e da una relazione fatta di tormento, dedizione e pazienza.

Bulma era cresciuta in ogni senso e quel giorno avrebbe voluto che il suo uomo alzasse un dito anche per salvare quella gente.

A mente fredda di certo si sarebbe compiaciuta della forza e della responsabilità di quelle braccia da cui era stata travolta, sollevata e portata al sicuro insieme a suo figlio, avrebbe meditato sui cambiamenti di Vegeta, sui sentimenti che non era in grado più di nascondere, a sua volta lo avrebbe amato più di quanto già facesse, ma per il momento aveva in corpo rabbia e dolore:

“Sei contento ora?” si ricacciò le lacrime dentro senza voltarsi a guardarlo, stringendo le nocche della mani “non hai colpa per quello che è successo, non sei tu a gestire le forze della natura, ma avresti potuto fare qualcosa per salvare il destino di quegli innocenti e non l’hai fatto. Che cosa ti costava? Ti meriti di averli tutti sulla coscienza!”

“Ne ho già parecchi, un migliaio in più un migliaio in meno non fa alcuna differenza” ed ignorando volutamente il subbuglio della stanza, ritornò ad allenarsi come se niente fosse stato.

 

 

FINE

 

 

 

Grazie di cuore a chi lascerà un commento anche a questa storia.

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Episodio VI - Tormento e tregua ***


“Convivendo in

“Convivendo in... capsule

 

Episodio VI

 

 

 

 

 

Il fumo contornò le labbra senza rossetto come il languido bacio di un fantasma, avvolse la frangetta scostata ai lati della fronte pallida, si disperse nel colore nero della notte.

Sospeso oltre il davanzale in voluttuosa attesa, tra gli indugi della sua mano, si approssimò con audacia ad agguantare la sua bocca come un amante insaziabile molte volte ancora ed altrettante fu respinto con una smorfia seccata e alla fine ridotto in cenere.

La sigaretta tra le dita dava a Bulma un’aria matura ed assorta, non fosse altro perché a quell’ora della sera l’angoscia e la solitudine si facevano più forti, si gonfiavano in gola e le scavavano lo sguardo.

Da qualche sera aveva preso l’abitudine di accendersene una prima di coricarsi: un monologo di sguardi annoiati e sbuffi caliginosi in direzione della luna che quella sera non si era levata a farle da platea, dove l’atto principale in cui raggiungere il vertice del suo pathos, era la domanda esistenziale su quando quel bastardo di Vegeta avrebbe varcato la sua porta e si sarebbe infilato in quel letto che disertava da oltre venti giorni.

Il saiyan aveva preso le sue cose ed era ritornato a dormire nella sua stanza come non accadeva da molto tempo, da quando nell’ultimo periodo della loro convivenza, con la stessa naturalezza con cui respirava, andava a trascorrere la notte insieme a lei anche quando, sfiniti dal giorno trascorso, si coricavano l’uno da un lato e l’una dall’altro.

Ora, se lui aveva smesso di respirare il profumo delle sue lenzuola, di desiderarla, di toccarla, di farla sua, non era per colpa di un’altra donna, ma di un uomo a cui lo accomunava l’origine e la stirpe di guerriero.

Nel pensare a Goku, Bulma provò un moto di risentimento che non avrebbe ritenuto possibile nei suoi confronti.

Non bastavano a reprimerlo il ricordo di tutte le volte in cui lui l’aveva tolta dai pericoli, né il suo sorriso candido ed ingenuo, o la mano che avrebbe passato dietro la zazzera cespugliosa per chiederle scusa senza sapere per cosa.

Bulma avrebbe voluto schiaffeggiare entrambi se questo non avesse comportato rompersi una mano contro l’acciaio che avevano a posto della pelle.

Goku era stato una mina vagante che aveva infranto il suo equilibrio familiare, delicato e precario quanto un vaso di cristallo sull’orlo di un tavolo.

Lo sapeva che prima o poi sarebbe successo, che per lui Vegeta sarebbe stato capace di rinunciare a tutto ciò che avevano costruito insieme.

Questo era solo l’inizio.

Fece l’ultimo tiro e mentre la brezza assorbiva la nuvola di fumo, concluse che se Vegeta avesse avuto per lei lo stesso morboso interesse che nutriva per l’altro saiyan, sarebbe stato l’uomo più innamorato e più fedele che una donna avesse potuto desiderare accanto.

Ma Goku evidentemente era su un gradino più in alto.

Non sapeva quest’ultimo che oltre al principe dei saiyan, anche l’amica dell’infanzia aveva ingaggiato una lotta personale per sottrargli ogni primato.

Strofinò il mozzicone sul marmo del davanzale annerito in più punti, ognuno per ogni sigaretta spenta, poi entrò nel bagno, lo gettò nel water e tirò lo scarico.

Lo specchio riflesse la sua immagine e da quel che vide Bulma capì che il fumo le stava facendo venire le fosse sotto gli occhi, che le avrebbe fatto spuntare le rughe prima del tempo, che le aveva messo addosso un tanfo da saloon western.

Aveva iniziato da un po’ di tempo senza neanche rendersene conto: aveva preso la prima sigaretta dal pacchetto di suo padre, che ne aveva sempre incollata una sotto i baffi.

Dopo un delicato intervento a motore acceso, aveva trovato l’integratore giusto per i suoi nervi e così aveva continuato a farne uso, dapprima nelle pause di lavoro, poi dopo cena e da qualche giorno, per il crescente nervosismo, anche prima di mettersi a letto.

Dopo la brutta cera che lo specchio le aveva rinfacciato, mettendo in guardia vanità ed ego, Bulma aveva capito che era arrivato il momento di correre ai ripari e di smettere.

Frattanto si lavò il viso con acqua fredda, tolse i residui di trucco con un batuffolo di cotone e si strofinò i denti con vigore.

Si spogliò e prima di foderarsi in lenzuola di lino, uscì dalla stanza con la sola casacca del pigiama per recuperare il pc portatile lasciato nel salotto ed ordinare, una volta nel letto, quelle cartelle che aveva lasciato in sospeso nel pomeriggio.

Il buio del salotto non era filtrato neanche dalle luci del giardino, lasciate spente durante la notte per risparmio di energia.

Così mosse la mano a tentoni contro il muro e spinse l’interruttore:

“Spegni quella maledetta luce!” la voce contrariata di Vegeta la fece sussultare.

Quando riuscì a trovare tra gli interruttori quello collegato alla luce più fioca dell’abatjour accanto al divano, lo trovò adagiato lì con gli occhi strizzati come gli fosse stato spruzzato a tradimento un liquido caustico.

Aveva addosso solo i pantaloni leggeri del pigiama.

“Per quale ragione stai dormendo qui sul divano?” il fatto era deducibile dal cuscino che aveva portato dalla sua stanza da letto.

Aveva ancora la voce impastata quando mormorò a denti stretti che la colpa era di due dannate zanzare:

“E da quando il principe dei saiyan non riesce a liberarsi di due miseri insetti?” il sarcasmo Bulma lo usava come il sale, in ogni occasione in cui ci andava messo lo teneva sempre a portata di mano.

“Da quando l’ultima volta ho fatto crollare una parete, o lo hai dimenticato?”.

Era visibilmente infastidito da quel brusco risveglio, si era messo a sedere ed aveva raccolto la testa tra le mani come gli dolesse.

Bulma sospirò frustrata, si sedette accanto a lui, si portò al petto le gambe nude poggiando il mento sulle ginocchia:

“Da quando ci siamo ridotti a questo?” mormorò come a sé stessa.

Vegeta rialzò la testa, ignorò la sua domanda senza voltarsi a guardarla, e per liquidarla prima si servì di un’osservazione molto offensiva:

“Hai lo stesso tanfo di tuo padre”.

Ma ella non si scompose come si sarebbe aspettato, al contrario:

“Ho deciso di smettere di fumare, incomincerò da domani” lo informò con distacco.

“E adesso che cosa vuoi? Se non te ne sei accorta, stavo dormendo, faresti meglio ad andartene”.

Le labbra di Bulma si piegarono in un riso amaro:

“Se si fosse trattato di Goku, non ti sarebbe importato di dormire”.

Non una contrazione scompose il suo volto, restò concentrato sul disegno geometrico appeso al muro di fronte fino a quando lei non proseguì e disse:

“Tu sei ossessionato da lui”.

Allora la sua mascella si indurì ed una ruga si accentuò intorno alla tempia impercettibilmente.

Ad un tratto la sentì muoversi, avvicinarsi senza esitazione, allargare una delle gambe nude e sedersi su di lui faccia a faccia.

Bulma aveva nella spina dorsale più sicurezza di quanta ne avesse lui nell’istante in cui la vide sbottonarsi la casacca del pigiama e lasciarla cadere alle sue spalle, svelando nude ed invitanti le rotondità dei suoi seni:

“Sono ventisette giorni che hai smesso di farlo” cercò la sua mano e la strinse contro il petto, facendogli sentire la pienezza ed il desiderio “toccami, ti prego, toccami”.

Le labbra sottili del saiyan si dischiusero: non erano un ghigno, né un sorriso, né un diniego, fu l’attimo in cui il respiro si spezza mentre la brama invade le vene e la vista si annebbia.

Bulma guidò la sua mano lungo il pendio dei suoi seni, nel solco che li divideva, sulle curve rotonde culminanti in due piccole sporgenze indurite, con lentezza ed attenzione come fosse la prima volta che gli ostentava le sue bellezze.

Lui non capiva dove volesse arrivare, il perché della fermezza del suo sguardo azzurro che andava oltre la passione e l’audacia, si inerpicava per cammini più impervi, si aggrappava a rocce friabili svelando la precarietà del suo equilibrio, pretendeva risposte e conferme.

La lasciò fare senza chiederle niente, troppo tardi per sciogliere le catene infuocate con cui lo aveva fatto prigioniero.

Bulma era maestra nell’arte della seduzione e la usava come meglio poteva quando non aveva altri mezzi a sua disposizione, e da quando era Vegeta ad andarci di mezzo lo faceva senza misure dando tutta sé stessa.

“Goku potrebbe farti sentire questo?” chiese suadente.

Vegeta chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, ai lati della bocca un’increspatura rasentava un mezzo sorriso:

“Siete due cose distinte, da come parli si direbbe che sei gelosa di lui”

“Perché viene prima di tutto” replicò fermando la mano e dando sfogo a qualcosa di molto distante dal desiderio “Goku è un’ossessione, non puoi fare a meno di pensare a lui, va contro ogni tuo volere, neanche per me hai lo stesso interesse, valgo molto di meno, se non ci fosse lui a cui rivolgere costantemente il tuo pensiero, non avresti alcun obiettivo nella vita” parlò svilita e seria.

“Voglio soltanto combattere contro di lui, non voglio averlo tra i piedi per tutta la vita, ecco la differenza che passa tra voi due!”.

Le lunghe ciglia fremettero mentre provò a scandagliare una delle osservazioni più sentimentali che le avesse mai fatto.

“Devo dedurre che sono io quella che vorresti avere tra i piedi per tutta la vita…” in risposta il saiyan assalì famelico uno dei suoi capezzoli, come un mendicante addenta un morso di pane trovato sull’asfalto.

“Lascialo in pace” proseguì la donna trovando la forza di farlo smettere, di afferrare i suoi capelli ed inclinargli il capo all’indietro per guardarlo meglio negli occhi “a Goku è stata data la possibilità di tornare nel mondo dei vivi per un solo giorno. Ha il diritto di starsene tranquillo con la sua famiglia”.

Lo vide sogghignare:

“E’ qui che ti sbagli. Lui non torna per la sua famiglia, torna per combattere, in questo mi somiglia” fece con una punta di orgoglio, insolita quando l’accenno era rivolto al suo rivale più acerrimo.

“E’ soltanto uno stupido torneo!” e tornò ad offrirgli quasi con rabbia quel calice delizioso che gli aveva sottratto dalla bocca.

Era stato nell’istante in cui la voce di Goku aveva echeggiato nei laboratori della Capsule corp., annunciando la partecipazione al torneo di arti marziali, che si era sbriciolato il suo equilibrio familiare: quella sera stessa Vegeta aveva smesso di dormire con lei, come se l’eccitazione di quel pensiero fosse maggiore di quella fisica che potevano sperimentare insieme.

In lui si era ridestato quel tormento che negli ultimi anni aveva sotterrato, ma senza metterci sopra nessuna pietra, perché quella fossa in cui giaceva l’odio e la vendetta restasse sempre aperta alla possibilità di un risveglio.

Quei sentimenti erano due cadaveri risuscitati che con le braccia ossute protese in avanti lo avevano afferrato per la gola, succhiato il raziocinio e quanto di umano fosse germogliato nel suo cuore.

Esigevano allenamento, concentrazione e solitudine.

L’unico a beneficiarne era stato il piccolo Trunks che trascorreva gran parte del tempo insieme a lui nella stanza gravitazionale.

Su Bulma, sul suo profumo, i suoi seni vogliosi, le sue gambe levigate, quei due cadaveri ci avevano gettato il loro putridume: era una distrazione che non si sarebbe potuto concedere durante quel mese.

Ora, per il grande Vegeta contavano soltanto Goku ed il giorno in cui la sua faccia pulita e generosa avrebbe mangiato polvere e sputato fiele.

Ma il tumulo consacrato all’odio e alla vendetta era rimasto ancora aperto ad attenderne il ritorno, la vanga per rigettarci terreno sopra era lì a sua disposizione, e in quegli attimi di inebriamento pensò che Kakaroth poteva andarsene anche all’inferno, che un soldato prima della guerra ha bisogno di imprimersi nella mente le ragioni per cui fare ritorno.

Ora, i suoi seni travolgenti, la bocca arroventata, le gambe dischiuse già pronte ad accoglierlo erano validi motivi ma non gli unici perché erano soltanto il dettaglio di un quadro più complesso, di un discorso più importante che la sua coscienza ebbra ed esaltata non sarebbe stata capace di argomentare.

Si lasciò andare e basta perché aveva bisogno di lei più di quanto volesse ammettere, perché Kakaroth era il tormento e Bulma la tregua, perché in certi momenti le giustificazioni non contano niente.

Allora, la sua lingua si mescolò nel gusto di menta e di tabacco della sua bocca, dietro l’orecchio annusò ancora il profumo spruzzato quella mattina dal sapore zuccheroso.

Con un’unica manovra la sottomise al suo corpo fremente e strappò l’ultima barriera di cotone.

“Non pensi che dovremmo almeno andare in camera mia?” sibilò Bulma soggiacendo ai suoi baci intrepidi e a carezze inenarrabili.

A Vegeta quella stanza non era sembrata mai così lontana:

“Potrebbe arrivare Trunks…” ribadì lei con meno convinzione mentre ruotava il collo prima da un lato e poi dall’altro per assecondare meglio la sua lingua.

“Era talmente stanco quando è andato a dormire che non lo tireresti dal letto neanche se gli dicessi di aver costruito un luna park tutto per lui in giardino” scese tra le sue gambe facendola inarcare dal godimento.

Vegeta allungò un braccio, spense il lume e tornò ad amarla.

Faceva bene ad imprimere nella memoria il trasporto palpitante di quegli attimi poiché erano gli ultimi che avrebbe condiviso con lei prima di vedere l’inferno.

 

 

FINE

 

 

Grazie mille a quanti hanno commentato la capsula n°5, sono rimasta molto sorpresa che ci sia stato qualcuno in più del solito. Continuate a farlo perché i giudizi sono sempre molto stimolanti.

A chi non avrà niente da dire, grazie lo stesso per avermi dedicato del tempo. Ciao!!

 

 

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Capitolo 7
*** Episodio VII - I due alieni ***


“Convivendo in… capsule”

“Convivendo in… capsule”

 

 

EPISODIO VII

 

 

 

Aleggiò nell’aria una polvere bianca, come nebbia persistente dalla consistenza più pesante si appiccicò sul sudore dei suoi muscoli, effuse sotto il naso l’aroma del cemento diroccato e a terra una coltre spessa su cui lasciò impronte al suo incedere.

Sotto i piedi nudi, Vegeta calpestò pietrisco e frantumi di calce, non elargì uno solo dei suoi sguardi irrequieti ai divani coperti da vecchie lenzuola o alle sedie lasciate a mangiar polvere in un angolo del salone.

Aveva i pantaloni strappati, e la vena ancora febbricitante della sua tempia dava ad intendere che aveva ancora molta adrenalina iniettata nel sangue.

Dalla finestra senza tende la brezza dissipò la nube polverosa arretrandola fino al corridoio da dove era venuto, ma il crollo ulteriore del muro alimentò di nuovo la sua robustezza e questa volta il saiyan dovette arrendere il naso ad una smorfia arricciata di disturbo e ridurre le palpebre a due fessure.

Neanche questo lo distolse dal tragitto che compiva ogni volta che usciva dalla stanza gravitazionale.

Tralasciando quello che accadeva, entrò in cucina, aprì il frigorifero e senza interrogarlo tracannò l’intero cartone di succo di frutta tropicale vitaminizzato.

Il rumore dei picconi si rincorreva con quello dei calcestruzzi che franavano, restituiva polvere alla polvere dal sorgere del sole.

Bulma aveva avuto la felice idea di ingrandire il salone e di farne un ambiente aperto abbattendo il divisorio dell’ingresso.

Diceva che l’entrata avrebbe guadagnato luce ed aria, che la stanza necessitava di una rinfrescata alle pareti, e che aveva letto sulla rivista “Case e giardini” che una tinta di giallo paglierino sarebbe stata più rilassante per la vista.

Se presa da quell’entusiasmo non pensò di ammodernare l’intera villa, fu soltanto perché Vegeta minacciò di non fare più ritorno fino alla conclusione dei lavori.

Quando il rumore dei picconi cessò d’improvviso, seguito dall’ultimo crollo, Vegeta ebbe l’impressione che in quell’istante il modo circostante si azzerasse, e le sue orecchie da sempre insensibili ai richiami della natura finirono per dare risalto perfino al canto degli uccellini.

Restò sostenuto al muro a sorseggiare lentamente gli ultimi sorsi che gli restavano e a godersi l’attimo di quiete sopraggiunto.

Gli operai addetti ai lavori erano due trentenni dei quali aveva intravisto soltanto le schiene ricurve abbronzate dal sole.

Non si erano accorti del passaggio del saiyan e così uno dei due riprese il discorso lasciato in sospeso:

“Morale della storia…” si asciugò la fronte madida e respirò ancora trafelato “ho speso una cifra per farle passare una bella serata e quella stronza non si è degnata neanche di farmi salire sopra quando l’ho riaccompagnata a casa!”.

L’altro, un viso deturpato dall’acne adolescenziale e spalle smilze, che ammassava con la scopa polvere e pietre, soggiunse di conoscere bene la tipa in questione e che era il suo passatempo preferito quello di scroccare serate per poi non farsi più sentire.

Ancora per molto parlarono di questa e di altre donne, di fiaschi e di trombate, mentre Vegeta, centellinando il cartone di succo di frutta tropicale vitaminizzato, rifletteva su quanto fossero patetici i terrestri ed i loro discorsi, neanche tanto per la volgarità insita quanto per l’inutile affanno, che faceva bene a restarne alla larga, che c’era sempre tempo per imporre un dito e far saltare in aria l’intero pianeta.

Il tenore di questi discorsi gli rammentò quelli snocciolati tra le pareti di metallo della Base di Freezer, nelle pause dei combattimenti o al ritorno da campagne vittoriose, tra gesti osceni e risate sguaiate rivide il piglio distaccato di chi alle parole preferiva i fatti, e concluse che di mondo in mondo, di razza in razza, molti aprono la bocca per farle prendere aria.

Lo stesso piglio supponente di allora si inarcò di scatto quando nel mezzo di quel calderone di parole saltò un nome a lui ben noto.

“Ma tu l’hai vista Bulma Brief?” domandò quello col volto deturpato dall’acne, strizzando un occhio d’intesa.

“E chi non la vedrebbe! Con una come quella anche i morti si risvegliano!” fece l’altro di rimando impastando calce con le ginocchia a terra.

Vegeta tese l’orecchio e tornò ad irrigidire la schiena.

L’imperturbabilità di prima tramutò nel raccoglimento di chi si sente chiamato in causa anche soltanto per una ragione indiretta.

I due erano convinti di essere rimasti soli in casa, perciò si limitarono ad abbassare il tono ma non a frenare la lingua.

Così il principe dei saiyan apprese dell’incontro che avevano avuto con lei quel mattino quando aveva dato loro istruzioni sulla parete da gettare a terra, del suo vestitino di colore arancio, della scollatura a pizzo su cui  non era possibile non far cadere lo sguardo, del profumo esotico che effondeva ad ogni movimento:

“E’ una puledra di razza, mi venderei la casa di mia madre per una scopata con lei!” e mentre lo diceva, il giovane dalle braccia tatuate e naso rincagnato smise per un istante di impastare calce, come se la profondità di quel pensiero non ammettesse altro.

“Io mi accontenterei di vederle anche solo le tette” fece l’altro raccogliendo i detriti nella carriola “avanti e dietro ha tanta di quella roba che c’è l’imbarazzo della scelta! Beato chi se la spassa! Quella sì che è una vera femmina ed io sono nato nel luogo e nel posto sbagliato!”.

Mentre a Vegeta la vena della tempia era ritornata a pulsargli spasmodica, sentì uno dei due domandare se era sposata.

L’altra voce, tossicchiante e fastidiosa più di una marmitta danneggiata, spiegò di aver visto il vecchio scienziato dare la mano ad un bimbetto di quattro o cinque anni, di non sapere se viveva qualche altro uomo in casa, ma di aver sentito una volta da sua sorella, che l’incontrava dal parrucchiere presso il quale lavorava, che non si era mai sposata.

“Sarebbe un vero spreco se non avesse nessuno a farla godere. Più ci penso e più mi convinco che è un vero spettacolo della natura quella donna!” commentò il tatuato rialzandosi e strofinando le mani piene di calce sui pantaloni “mi verrebbe voglia di andarmi ad intrufolare nel suo letto e farle una bella sorpresa!”.

“Non ci pensare nemmeno a consolarla, una come quella punta in alto, è roba pregiata!” ed il colpo di piccone che tornò ad assestare aprì nel muro un’altra breccia, indusse alla fuga l’uccellino posato sul davanzale e concluse il turpiloquio.

Non ebbe il potere di smuovere una fibra del principe dei saiyan, solido come una roccia a picco sul mare che la salsedine logora ma non discosta, né di produrre un battito di ciglia in più del dovuto.

Soltanto la mano si strinse per accartocciare in un unico colpo il cartone di succo di frutta.

Uscendo dalla cucina, andò incontro alla nuvola di polvere alimentata dai picconi quale vento che soffia sul fuoco, non storse il naso e non assottigliò lo sguardo.

Superò i due operai che anche questa volta non si avvidero di lui, si trattenne per un istante sulla soglia, e passando per il giardino raggiunse i laboratori di Bulma.

 

Armeggiando accovacciata vicino al telaio di una motocicletta, la donna si accorse del suo arrivo soltanto quando spense il saldatore e si tolse lo schermo che le proteggeva la vista.

Si rialzò accompagnando il movimento del suo corpo con una smorfietta dolorante del volto:

“Ohi… la mia povera schiena!” esclamò flettendo il busto avanti ed indietro.

Aveva bisogno di una pausa e Vegeta, qualsiasi cosa volesse, era arrivato al momento giusto, giacché era servito a farle alzare la testa, a prendere un respiro e ad emetterne uno più profondo e sfinito.

Prima di sfilarsi i guanti, si scostò dalla fronte la frangetta e la imbrattò di una striscia di lubrificante al di sopra del sopracciglio destro.

Aveva smesso il vestitino di colore arancio per un pantalone largo e scuro ed una t-shirt con il marchio della sua azienda, non aveva scollatura in cui perderci lo sguardo ed il profumo esotico si era confuso tra il lezzo di oli e carburanti.

Notò che lui se ne stava zitto a fissarla con la spalla appoggiata ad un muro ed un piede puntato a terra dietro l’altro:

“Sei venuto per dirmi qualcosa?” gettò i guanti su una cassetta degli attrezzi e lo scrutò ben disposta, ma interrogativa.

Non poteva immaginare che in quella mascella indurita il principe dei saiyan fermentasse il desiderio di assalire le sue labbra, che un discorso sconcio sentito per caso tra due trentenni in astinenza sessuale avesse destato in lui qualcosa che andava oltre l’eccitazione fisica ed oltre il desiderio più carnale.

Era la percezione di un possesso tangibile, di qualcosa che era soltanto suo, che altri non avrebbero potuto avere né strappargli.

Aveva l’aspetto delle sue forme e della sua bellezza, suscitava brama, dominio, gelosia e fierezza.

Che la guardassero pure, che la rendessero oggetto dei desideri più proibiti, tanto lui poteva avere più di una fantasia, perché poteva prendersi tutto senza chiederle niente.

Mai gli era sembrata così desiderabile come in quel momento.

Poco contava l’abbigliamento trasandato e l’unto sul sopracciglio destro.

Bulma lo vide smuoversi dal muro, non indebolire la mascella né dargli altro ad intendere fino a quando non si fermò ad un palmo da lei.

Allora la sollevò e se la gettò sulla spalla, suscitando proteste e sconcerto si avvicinò al tavolo da lavoro, con un gesto del braccio lo sgombrò dagli attrezzi che si sparpagliarono a terra con tonfi metallici e la sistemò lì con rudezza.

“Ma ti pare questo…” le fu sollevata la maglia e tolta parola come se la testa fosse stata spinta in una vasca da bagno “…il momento?!” ne uscì fuori con i capelli arruffati.

“E da quando ci sono momenti giusti ed altri che non lo sono?” fu contento di trovarla senza l’ingombro del reggiseno e come un affamato non perse tempo a cingere d’assedio il suo petto.

Lei tentò ancora di respingerlo:

“Ma potrebbe arrivare mio padre!”

“Sai bene che Trunks costringerà i tuoi al luna park fino a quando non avranno chiusi i cancelli!” e si diede da fare per liberarla dagli altri indumenti.

Bulma non riusciva a capacitarsi di una reazione tale, soprattutto ricordando che nelle due sere precedenti gli aveva girato intorno con una camiciola semitrasparente e lui, oltre ad averla ignorata come fosse stata appunto un fantasma, non si era preso la briga neanche di andare a dormire nella sua stanza.

Per non aggiungere che proprio quel mattino erano venuti a farle visita i soliti ospiti di ogni mese.

“Ma non vedi come siamo ridotti? Siamo sporchi e sudati, avresti potuto almeno aspettare stasera e poi non è decisamente giornata…” spinse ancora le mani contro il suo petto d’acciaio ma il risultato che ottenne fu quello di farsi imprigionare i polsi in una morsa indomabile dietro la schiena.

“Non mi fermeresti neanche se ti mettessi a gridare aiuto” la minacciò a denti stretti ed il suo fiato fu caldo e stuzzicante vicino all’orecchio.

Bulma arrese il collo alla sua lingua e socchiuse le palpebre, poi si appigliò all’ultimo filo di lucidità mentale per ribadirgli l’impaccio che aveva.

Non era certa se gli andava di condividere con lei anche questo.

“Non è mai stato un problema” attirò le gambe nude contro di lui e si cinse i fianchi “o pensi che possa farmi desistere questo?”

L’avrebbe fatta sua anche se avesse stillato fango.

Allora in risposta si sentì baciare in modo profondo e travolgente.

Le lasciò i polsi indolenziti perché fosse libera di toccarlo, di far scivolare le dita sul madore dei suoi muscoli, di appigliarsi ai suoi capelli, di spingergli la bocca dove più desiderava.

Fecero l’amore su un tavolo da lavoro, tra scartoffie, ferraglie, sangue e sudore.

Quando di questo restò soltanto l’affanno, ed il piacere aveva già vibrato in ogni fibra del loro essere, fu Bulma a ricoprirsi per prima recuperando gli abiti da terra.

Pensò che rimettersi a lavoro e trovare concentrazione sarebbe stato difficile dopo la passione consumata e così decise che per quell’oggi poteva bastare e che una doccia sarebbe stata l’ideale per recuperare decenza e vigore.

Rivolse uno sguardo al suo ombroso compagno, rimasto appoggiato al tavolo, ripulito alla svelta dalle tracce lasciate con uno strofinaccio di carta, con gli occhi socchiusi e le braccia incrociate.

Avrebbe voluto dirgli che era stato fantastico, che quel suo temperamento imprevedibile un giorno o l’altro l’avrebbe fatta impazzire, ma sapeva che quella posa era un modo per comunicarle di non fare commenti e lasciarlo in pace.

Mentre allacciava la scarpa col piede poggiato su uno scranno e le dita ancora tremanti e febbrili, si accorse di non percepire alcun tipo di rumore provenire dalla casa.

In realtà, era dall’arrivo di Vegeta che aveva smesso di sentire i picconi rincorrersi per demolire il muro.

“Non avranno mica già finito di lavorare? Mi sembra molto strano…” sbirciò l’orologio e registrò che non era ancora orario.

Vegeta alzò una palpebra quando sentì la gomma delle sue scarpette muoversi per dirigersi alla volta della casa.

Poi, rimasto solo, senza scomporre una ruga della fronte, si alzò i pantaloni e strinse il legaccio ai fianchi.

Sul prato, tra vetri infranti e detriti di calce, giacevano i due operai.

Dopo aver perso entrambi i sensi, quello con l’acne adolescenziale si reggeva ancora la testa sofferente tra le mani, mentre l’altro dalle braccia tatuate cercava a fatica di ritrovare equilibrio.

“Ma cosa è successo?!” accorse Bulma allarmata.

Dai primi indizi si deduceva che a farli catapultare in giardino era stata un’esplosione interna alla casa.

Ma i due, ancora confusi, narrarono di un vento improvviso, di un’energia silenziosa…

 

 

FINE

 

 

 

 

Il settimo episodio si è classificato al secondo posto nel 25° concorso indetto da Efp e dedicato alla sezione Dragonball

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Capitolo 8
*** Episodio VIII - Non aprite quella porta ***


“Convivendo in… capsule”

“Convivendo in… capsule

 

 

 

                                                              EPISODIO VIII        

 

 

 

La pelle era un secondo tessuto che i rovi artigliavano e strappavano via insieme ai brandelli di raso della camicetta, come cani famelici invasati di furore e di odio, come uno stupratore spuntato dal buio voglioso di arrivare al sodo, neanche avessero anima ed istinto nei loro rami adusti e spinosi.

Laddove le gambe e le braccia erano nude si abbeveravano direttamente al suo sangue con sadismo ulteriore.

Eppure in quella corsa forsennata rischiarata dai flebili raggi della luna erano un tocco carezzevole e quasi materno in confronto alla spaventosa minaccia che l’aveva presa di mira, poiché questa aveva gambe per incalzarla, braccia robuste per brandire una sega a motore, e sufficiente follia per insinuare il dubbio che quell’uomo, apparso innanzi all’unica casa che nella zona boschiva aveva le finestre rischiarate, avesse natura umana dietro la sua maschera di cuoio.

Bulma aveva il cuore che batteva non meno del pendolo di un metronomo posizionato sull’ultima incisione, lo sguardo atterrito orientato in un unico punto in avanti, né una destra né una sinistra nella quale guadagnare distanza, col buio che le incombeva dietro la schiena e la cognizione cruda e grottesca che tranciare i rovi con quell’attrezzo era per il persecutore come arrotare la lama di un coltello prima di allestire un banchetto a base di bistecche.

La donna non aveva neanche avuto il tempo di avvedersi del pericolo spuntato dal buio.

Era la morte che arriva come un ladro senza preavviso, in un giorno iniziato con una gita senza meta precisa purché lontana dai trambusti cittadini, e terminato a corto di benzina nel mezzo dei boschi e col sole prossimo al declino.

E se così poco vale la vita di una donna, mentre si incomincia a correre non si ha tempo di fare domande al proprio aguzzino e di sapere per cosa si muore, se mai esista una ragione più ovvia per cui trapassare quando sono altri a decidere il giorno, l’ora ed il come.

Il rumore della motosega, che affettava le urla della donna ed era insistente tanto da smorzare il forte boato seguito ad un fulmine, era una percezione sonora, ossessiva e molesta, come quella delle unghie strisciate su una lastra di ardesia.

Il corpo scorticato dai rami scheletrici e rotolato nel fango, ancor prima di essere scuoiato, era già carne da macello.

L’istinto di sopravvivenza è un’ancora a cui aggrapparsi, è l’ultima fatica e talvolta un fragile inganno: Bulma era certa che non ci sarebbe stato scampo, che inutile era la corsa e vano l’affanno.

Aveva tanta di quella tensione in corpo che l’unico modo per scrollarsene fu quello di muovere la mano a tentoni vicino ad un fianco e poi all’altro, alla ricerca di un attrezzo più efficace e diretto.

Ma giacché non trovava ciò di cui aveva bisogno, mentre la motosega si approssimava ad ultimare il massacro, si gettò in avanti, allungò il braccio e spense il televisore.

Restarono il fiato corto, il cuore in gola, e l’acquazzone scrosciante contro i vetri.

Stava lavorando sul divano col suo computer portatile ed aveva finito per farsi adescare da un vecchio film dell’orrore proiettato in seconda serata.

Contro la penombra realizzata dalle luci del giardino si stagliò il suo profilo inquieto e guardingo, che non perse tempo ad alzarsi e a rischiararsi il percorso fino alla camera da letto per colpa di quella tensione che le bolliva ancora nel sangue e che era certa si sarebbe sedimentata fino allo spuntar del giorno, perché la visione di certi film non è consigliabile prima di andare a coricarsi senza averli smaltiti in qualche modo, esattamente come non lo è per un abbondante pasto a cena.

Aprì la porta della stanza ed un fulmine le diede la visione istantanea dell’uomo che occupava il letto.

Con le braccia incrociate dietro la testa dava l’impressione di non essersi addormentato e che stesse prestando attenzione allo strofinio che i jeans producevano contro le gambe mentre la donna se ne disfaceva con un equilibrio goffo e barcollante.

Bulma si mosse ad afferrare il pigiama sotto al cuscino quando ai piedi del letto inciampò contro qualcosa di morbido e di vivo.

L’ansito che emise fece sussultare il saiyan in realtà addormentato che meccanicamente portò una mano contro la fronte e se la sorresse come avesse un cerchio doloroso alla testa, annaspando nel vuoto mentale dell’ultima mezz’ora di tempo.

 “Si può sapere come Bra è finita addormentata sullo scendiletto?” sibilò sotto voce, come il vento tagliente che spifferò tra le imposte e si ridusse ad un tocco carezzevole a contatto con le tendine.

Vegeta scattò seduto sul letto e si sporse incredulo per constatare la presenza della figlia.

Bulma si meravigliò di come una bimbetta di quasi due anni prendesse da sola certe iniziative, ma Vegeta, tornata vivida la memoria al dissiparsi della caligine intorno alle tempie, risaltò per un’espressione dapprima interdetta, poi rischiarata da un tenue bagliore di rincrescimento ed infine adombrata dalla maschera arcigna di sempre, pronta subito a rivendicare il suo posto neanche le altre fossero rughe che si concedeva tanto per mantenere elastica la pelle:

“Forse non dovevi toglierle le sbarre!” le rimandò sullo stesso tono.

“Era una culla, non un carcere…” l’abatjour che accese sul comodino mostrò la bambina rannicchiata a piedi nudi con un coniglio di pezza tra le mani dall’orecchio rattoppato.

Bulma conosceva bene la paura di Bra per i temporali e per qualsiasi cosa rintronasse in cielo ma non riusciva a spiegarsi perché non avesse svegliato il padre, né aveva voglia in quel momento, ad un passo dalle invitanti coperte, di analizzare i fatti avvenuti mezz’ora prima.

Vegeta aveva pensato fosse stato il vento a sospingere la porta, visto che dalla sua posizione supina non aveva scorto nessuno entrare.

Si era rigirato dall’altro lato, troppo addormentato per indagare oltre, fino a quando non aveva percepito dietro la schiena, oltre il materasso, una presenza che respirava ed attendeva in timoroso silenzio un suo cenno.

“Che diavolo vuoi, Bra?” aveva chiesto impastato e continuando ad offrirle con predeterminata noncuranza la schiena.

“Ho paùa io…” aveva mugugnato continuando a stringere il vecchio coniglio di pezza, che aveva avuto la fortuna di non finire nella pattumiera perché assolveva l’importante compito di conciliarla al sonno tutte le sere.

Trunks la prendeva amorevolmente in giro dicendo che quel coniglio era più somigliante ad una scimmia tanto era penzolante negli arti ed imbruttito.

Bulma allora lo rimbrottava con un’occhiataccia al primo segnale della piccola di allestire il teatrino  delle lacrime comode e pronte, prendeva ago e cotone, lei che non aveva mai cucito un bottone in vita sua ed avrebbe potuto comprare a sua figlia un’intera fabbrica di conigli di pezza, e lo rammendava al meglio, auspicando tra sé e sé, con un sorrisetto contraffatto, gusti più decenti e pretenziosi almeno nell’abbigliamento, quando sarebbe stata più grande.

Trunks concludeva dicendo che quel povero pupazzo aveva tante di quelle suture di colore diverso, a seconda della matassa di cotone che le capitava a tiro, da sembrare in ultima analisi un pappagallo tropicale.

L’uomo si era limitato ad aprire una palpebra:

“E di cosa?”

Otti..” tornò a mordicchiare l’orecchio rappezzato del coniglio.

“Non sono botti, sono soltanto tuoni ed io voglio dormire” si era lamentato stringendosi di più al cuscino e corrugando le sopracciglia contrariate fino ad unirle.

“Pure io…” aveva scalpitato in tono di supplica la bambina, tirando il lenzuolo come fosse la corda di un campanello che serviva a farlo mantenere sveglio.

La pioggia, battendo a raffica contro le imposte, era stata tagliata in due da un lampo ed aveva realizzato, attraverso le fessure dell’imposte, l’istantanea di una bimbetta dal pigiama bianco e le stelline rosse, con la capigliatura arruffata che seguiva la piega indomita di due codini sciolti.

Bra aveva sussultato al fragore del tuono ed aveva incominciato a battere i piedini nudi a terra e a frignare:

“Ti pego papi, paùa io sola!”.

Ma Vegeta non le aveva risposto e questa volta il suo silenzio non era stato intenzionale, né egoistico o infame, aveva smesso di sentirla, la sua vocina era divenuta un’eco in lontananza come la pioggia contro i vetri, catturata e distorta nel dolce intrigo del sonno.

Il saiyan non avrebbe mai creduto di potersi addormentare con quella lagna in sottofondo, aveva sempre pensato che il suo pianto nel cuore della notte avesse le stesse potenzialità dannose di una scoria radioattiva.

Per la prima volta ebbe la certezza che quel tappo di bambina non era così pericoloso, che poteva essere ignorato senza subire nessun attacco terroristico, e al risveglio quella constatazione gli fece provare per qualche secondo un insano godimento.

Alla povera Bra non era rimasto altro che tirare su col naso, dopo aver tentato invano di salire sul letto, mordicchiare l’orecchio del suo coniglio di stoffa, neanche fosse il fegato che rosicava per la sconfitta, e raggomitolarsi sullo scendiletto a righe rosse.

Meglio quel cantuccio che la sua stanzetta solitaria ed enorme.

Ma sarebbero arrivate le braccia materne a riscattarla, il principe dei saiyan non l’avrebbe mai avuta vinta così facilmente a discapito della cocca di casa.

Ed infatti Bulma non attese a prenderla in braccio, la dondolò quando diede segno di aprire gli occhi e la mise al suo posto rimboccando le coperte:

“Perché non la porti nella sua stanza?” fece l’uomo contrariato.

“Si risveglierebbe” sussultò Bra all’ennesimo tuono stringendo di più l’amico di pezza “non ho voglia di andare avanti ed indietro”.

“Ed allora vai tu a dormire con lei” ma Bulma aveva ancora nelle orecchie l’inquietante rumore della motosega.

Lo sapeva che quel film sarebbe stato indigesto quanto un’insalata di peperoni consumata prima di andare a letto.

Non riusciva a pensare a niente di diverso e a poco serviva convincersi che fosse soltanto uno stupido film.

Vegeta seguì senza capire i suoi movimenti, la vide andare dal lato suo, o meglio dal lato dove sarebbe dovuto essere visto che senza sapere come si era ritrovato ad occupare il centro del letto, scoprire le coperte e sistemarsi vicino a lui.

 “Vi siete messe d’accordo per cingermi d’assedio?” fiatò il saiyan e dovette farlo con moderazione per non svegliare la figlia e subire altri mugugni, ma la vena pulsante sulla tempia lasciava intendere sola la metà della rabbia che stava montando dentro.

Tornò a gettarsi all’indietro e guardò il soffitto perché gli suggerisse il punto più lontano della casa in cui passare il resto della notte:

“Voglio dormire vicino a te” si accucciò contro la sua spalla e le sue gambe furono percorse dall’ultimo fremito di freddo prima di intrecciarsi al calore dei suoi muscoli.

“Bra ha paura dei tuoni, tu quale altro problema avresti?” sputò sarcasmo con un’occhiata sbieca.

Bulma alle volte amava fare gli stessi capricci di sua figlia, petulante ed appiccicosa nella stessa misura.

“Stavo vedendo un film dell’orrore” spiegò sottovoce  e con una certa gravità “mi ha messo addosso una brutta sensazione” tracciò con un dito una scia invisibile sul torace nudo dell’uomo alla ricerca di una distrazione.

Al seguito di un lampo abbagliante immaginò di vedere la motosega tranciare in due la finestra e così spostò lo sguardo irrequieto sul profilo rassicurante del saiyan.

“E chi te lo ha prescritto?” le rimandò tagliante.

“Mi ha incuriosito, tutto qui” socchiuse gli occhi.

“I film sono solo stupide invenzioni” le disse in tono di rimprovero più che di conforto.

Lei sollevò il capo per argomentare meglio:

“Sì, ma questo è tratto da una storia vera, forse per questo mi ha inquietata di più. Un’intera famiglia scuoiava le sue vittime e ne realizzava orrendi cimeli come arredo della casa” pensò che parlarne avrebbe smorzato di più la tensione “quello più folle rincorreva come un indemoniato la povera ragazza che urlava con tutto il fiato che aveva in gola brandendo una sega a motore” fece tremare il braccio tanto era immedesimata nel racconto “ho spento, non ho resistito oltre… Non riesco a credere che la natura umana possa partorire crimini talmente atroci ed assurdi, per cosa poi? Togliamo pure la finzione cinematografica, che di certo sarà presente in buona dose, ma davvero possono esistere individui talmente spregevoli e malati?” Vegeta ascoltò assorto le sue parole che non pretendevano risposta, e mosse lo sguardo accigliato in direzione della finestra ad osservare la pioggia scrosciare gagliarda contro i vetri.

Possibile non si rendesse conto di quello che aveva appena detto?

Era folle, ingenua o viveva in un mondo a parte?

Vegeta si chiese come si sarebbe comportata se in risposta le avesse raccontato quello che aveva visto lui.

Certe urla non si dimenticano facilmente, lui le ricordava eccome, soprattutto se ascoltate nel silenzio pesante della notte, nell’atmosfera polverosa e tetra di un pianeta desolato, la cui terra esala il lezzo del sangue appena versato ed il vento lo mescola al fumo degli edifici diroccati.

Non si dimenticano se scandite dal ticchettio affrettato della scarpe sull’asfalto, se si dà vantaggio alla propria vittima soltanto per il gusto di una caccia.

Quella donna era caduta due volte ed altrettante si era rialzata per riprendere disperata la corsa, ma quando il gioco si era fatto seccante, si era ritrovata il suo persecutore davanti agli occhi.

Se avesse guardato una pietra avrebbe visto meno freddezza.

La morte non sempre arriva come un ladro senza preavviso, qualche volta ti dà il tempo di correre, di pregare e di inorridire.

Aveva due grandi occhi verdi e la pelle dello stesso colore, ma andava bene comunque.

Era stata trascinata con i capelli fino al luogo in cui si trovavano gli altri due compagni, era stata lasciata in vita per dimostrare di non aver preso una carcassa qualunque.

La donna piangente e straziata si era ritrovata accerchiata da tre uomini dalle lunghe code fulve, e in una lingua a loro sconosciuta aveva invocato pietà e misericordia.

Qualsiasi fosse l’idioma, loro avevano inteso la supplica.

Alla morte si parla in un’unica lingua.

Sarebbe stato meglio per lei se avessero avuta un’altra voglia, ma in quel momento avevano soltanto… fame.

“Ed ora di cosa hai paura?” chiese guardando un punto impreciso della stanza, mentre sotto al naso ritornò il profumo dei suoi capelli.

Lei si strinse di più e sorrise rassicurata:

“Di nulla quando sono vicino a te”.

Quella stessa espressione beata si dipinse sul volto paffuto della bambina, che lasciò l’orecchio del coniglio, emise un mormorio incomprensibile accompagnato da un adorabile sbadiglio e si strinse al braccio di suo padre.

Vegeta non osò turbare la quiete e frangere quella convinzione, seppellì il ricordo dell’inseguimento e del misfatto perpetrato di mano sua.

Anche tra due braccia immonde talvolta il sonno giunge gradito e la paura trova conforto.

 

 

FINE

 

 

 

Il film a cui assiste Bulma è un classico del cinema horror, “Non aprite quella porta”, datato 1974.

 

Per chi non le avesse già viste, andando nel mio account d’autore, potete trovare i links delle vignette che la bravissima Crazybulma ha realizzato ispirandosi a due miei racconti.

 

 

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Capitolo 9
*** Episodio IX - La scimmia ladra e l'elefantessa offesa ***


Ad un anno di distanza dall’ultima fan fiction “L’apparenza inganna e condanna”, ho il piacere di aggiornare questa raccolta con una nuova “capsula”, perché la passione per Dragonball dopo tanti anni a volte è sopita, altre volte deflagra improvvisa graz

 

 

 

 

Ad un anno di distanza dall’ultima fan fiction “L’apparenza inganna e condanna”, ho il piacere di aggiornare questa raccolta con una nuova “capsula”, perché la passione per Dragonball dopo tanti anni a volte è sopita, altre volte deflagra improvvisa grazie a poco. Un ringraziamento anticipato a quanto leggeranno e doppio a chi lascerà il ricordo del suo passaggio. Buona lettura!

 

“Convivendo in… capsule

 

 

Episodio IX

 

 

 

 

Certi atteggiamenti fisici sono innati, connotano una persona più del colore dei capelli, perché se questi diradano, si tingono o incanutiscono, gli altri non fanno una piega all’avanzare del tempo.

Più ostinati di certe idee che vanno e vengono a seconda dell’incostanza del momento, di esse non hanno l’inconsistenza né l’intimità, ma sono riconoscibili nella loro immediatezza a chi ha un occhio attento o familiare; talvolta sono vezzi simpatici e alle volte vizi che storpiano quanto un dente mancante dietro ad un sorriso spontaneo e caloroso.

Diventano abitudini di cui il corpo si appropria e restituisce al momento giusto, naturali come uno starnuto o un singhiozzo, può essere un certo modo di storcere il naso, di atteggiare le labbra, di tormentarsi le unghie, di grattarsi la testa, di attorcigliare una ciocca di capelli, di camminare o di fermarsi.

Son Goku si meravigliò di come Bulma dormisse nell’identica posa di quando anni addietro osò sflilarle le mutandine nel sonno, scomposta in posizione supina e con le lenzuola sradicate con isterismo notturno dal materasso neanche fossero state erba maligna.

Con gli occhi ancora assonnati e l’innocenza di quel tempo ormai corrotta restò a guardarla, tanto rilassate erano le lunghe ciglia ed inermi le sue braccia, appena rischiarate dal sole trapelante tra le imposte, che egli pensò fosse una prerogativa di tutte le donne sembrare angeliche soltanto nel sonno, come un virus letale in periodo di incubazione raggira l’organismo che lo ospita.

Pure Chichi, la quale a quest’ora al di là delle montagne, rassettava il letto e con la mente andava al suo uomo accorso di buon’ora al fiume a pescare o forse intento a tagliar legna nel bosco, non scampava a quell’inganno confezionato apposta per gli uomini ammogliati perché almeno nel sonno trovassero tregua.

A differenza di Chichi però, meticolosa pure sotto le lenzuola, Bulma aveva la parvenza di angelo solo nella piega rilassata delle labbra appena dischiuse, poiché la sua posa scomposta, con le braccia agganciate al cuscino in segno di resa, i pugni stretti, i talloni rigorosamente distanti l’uno dall’altro, svelava uno spirito ribelle pure nel sonno, e nessuno meglio di lui poteva sapere come pure i pensieri che si contorcevano sotto quella frangetta scapigliata fossero tutt’altro che celestiali ed innocenti, prossimi a corrodersi di una passione proibita e colpevole.

Non era possibile azzardarsi in un simile desiderio e non provare almeno un principio di senso di colpa, fosse anche solo un po’ di smarrimento e titubanza, lo prova un ragazzino ai primi tumulti ormonali, lo provava in quell’istante pure lui, l’eroe dal cuore puro, che sapeva di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato.

Quantunque fosse sprovveduta e qualche volta un po’ superficiale, non era possibile che Bulma vivesse quel sentimento con la coscienza sgombra di pregiudizi e senza la paura delle conseguenze.

Alla sua età le donne si fanno più caute con gli uomini, si slacciano la camicetta con spudoratezza ma intanto si guardano le spalle e a portata di mano hanno sempre un conto salato da tirare fuori al momento giusto.

Da lui cosa poteva pretendere invece?

La famiglia ed una vita normale sono prerogativa di chi la mattina si alza, prende il tram e va a lavorare, non di chi deroga ad ogni forza gravitazionale ed il sudore lo getta per vederlo mescolato al sangue del nemico.

Pazza, sciocca, ingenua ragazza!

Se Chichi, così intransigente e morigerata, lo avesse scoperto l’avrebbe apostrofata con epiteti ben più efficaci.

La verità era che Goku non ne capiva molto di donne e d’amore giacché d’amore non aveva mai sofferto, Bulma sì che era folle e per quella follia si stava giocando tutta l’esistenza.

Eppure, confidando più nei segni del destino che nella fermezza della donna in questione, dalla quale mai si sarebbe aspettato tanta imprudenza per quanto fosse nota la sua inclinazione a cacciarsi nei guai, non si era neanche posto il problema se quella relazione fosse un errore o soltanto un volere della provvidenza, non sarebbe stato lui a dirle di tenersi distante, a farle presente che la posta in gioco era troppo alta, che sarebbe stata la vita di due amanti appagati solo nel letto.

Il saiyan si strinse meglio la cinghia intorno ai pantaloni, dello sbadiglio che emise restò una ruga di ottimismo e di tenerezza ai lati della bocca, mentre le lanciò un’ultima occhiata.

Era meglio andarsene via al più presto, prima che Vegeta percepisse la sua aura sotto quel tetto e la terra si squarciasse sotto i suoi piedi per fargli da tomba.

Era stata una notte così agitata, che non si accorse nemmeno di aver lasciato lo stivaletto slacciato, e fu questo a tradirlo nel momento in cui arretrò di un passo ed inciampò contro una pila traballante di grossi libri, di quelli con la copertina rigida e sbiadita da una coltre di polvere perenne, ammassata sul pavimento.

Il tonfo fu imprevedibile ed inatteso, inopportuno, conciso e fragoroso come una scrosciata passeggera di grandine sul tettuccio dell’auto in autostrada mentre si sonnecchia sul sedile posteriore.

Pure Bulma, che era una che non si alzava neanche a colpi di cannone, balzò sul letto, si guardò a destra e a sinistra senza connettere fino a quando non mise a fuoco tra le dita con cui si schermò la vista l’immagine mortificata dell’uomo:

“Si può sapere cosa ci fai qui?” tossicchiò per schiarirsi la voce impastata.

Goku le fece cenno di non allarmarsi, indirizzando un’occhiata ansiosa alla porta:

“Per teletrasportarmi ho bisogno di percepire l’aura, non potevo immaginare che a quest’ora stessi ancora dormendo” la colonna di libri riesumata dalla soffitta ed innalzata dopo un estenuante andirivieni, il computer portatile rimasto accanto a lei sul materasso, i fogli di appunti sparpagliati a terra erano traccia di una notte andata avanti a tazzine di caffè.

Proprio di questo era rimasta una piccola chiazza scura ad imbrattare la federa a fiorellini del cuscino.

“Vorresti dire che se ero sotto la doccia saresti comparso lì al mio fianco?” sradicò ancora di più le lenzuola e si coprì di fretta le gambe quando di lì a poco a quella domanda si accorse di essere in mutande.

Il computer finì in bilico sull’orlo del letto ed i fogli restanti svolazzarono e si sparsero ai suoi piedi, ma Goku, che era genuino come il latte di una mucca pasciuta sulla sommità di una montagna, non aveva badato a quel dettaglio, come non si erano attardati i suoi occhi sul profilo rilassato ed abbondante dei suoi seni ben inquadrabile sotto la canotta di cotone bianco.

Hem… veramente non mi è mai capitata una cosa simile…” si grattò la nuca.

“Bene…” concluse severa “vedi di non insegnare mai una tecnica simile al vecchio eremita!”.

Si accorse piuttosto che l’oggetto del desiderio era il vassoio della colazione che sua madre le aveva messo accanto mezz’ora prima, così, dopo un discreto cenno di invito, inutile da ribadire due volte, Goku era già seduto sulla sponda del letto, ad inzuppare nella ciotola del latte il cornetto alla crema ed i biscotti col ripieno di confettura di albicocche, e a raccontare quanto fosse stata dispettosa una scimmietta nel cuore della notte, poiché, approfittatasi della finestra lasciata aperta, era penetrata in camera da letto e si era defilata con la sfera a quattro stelle che faceva da suppellettile sulla cassettiera come la bomboniera di un matrimonio o il souvenir da viaggio di nozze.

Mentre gustava il cornetto lentamente, altrimenti con i bocconi a cui era abituato avrebbe finito già da un pezzo, proseguì, incurante del rivolo di latte che gli scendeva per il mento, a narrare della peripezia affrontata nel bosco in piena notte alla ricerca della furfante scimmietta.

“Sono venuto a chiederti il radar cerca-sfere, lo sai quanto sono affezionato a quel ricordo del nonno…” si asciugò alla fine la bocca col dorso della mano.

“Un saiyan come te, un tempo con tanto di coda, che si fa abbindolare da una innocua scimmietta…” sorrise Bulma constatando come gli anni non avessero scalfito di un centimetro la sua tempra di eterno bambino.

Goku era come il profumo del mare, l’odore di un fiore, il rumore del vento, l’aroma della terra bagnata: sarebbe sempre stato lo stesso.

La natura mai perde i suoi dettagli per quanti oltraggi possa subire: non muta il cinguettio dell’uccellino che si posa sul tetto di amianto, né meno verde è il filo d’erba che spunta a ridosso di una discarica.

“Ed io che per un istante mi sono illusa che fossi venuto per sapere se almeno ero viva o morta…” fece una smorfietta fintamente delusa.

“Ti ho lasciato in buone mani…” convenne sicuro “ehm… come sta Iamcha?” ora, ogni volta che veniva pronunciato quel nome, Bulma aveva bisogno di prendere respiro, come si fa quando ci si immerge in acqua o accanto alla tazza da bagno prima di un conato di vomito.

Iamcha era come una di quelle pietanze digerite male: basta sentirne anche solo l’odore a distanza di tempo per rivivere lo stesso malessere.

La ragazza annunciò afona che la loro storia era finita da due mesi.

“Già così presto?” esclamò l’altro facendo sobbalzare il vassoio sulle ginocchia.

Cosa intendi?” fremettero disorientate le lunghe ciglia.

Goku non si aspettava che il destino avesse incominciato a tessere le sue trame con tanta sollecitudine e così restò con un’espressione gongolante sulla faccia nell’assodare come si materializzassero poco alla volta le profezie del giovane venuto dal futuro.

“Assolutamente niente!” fece sussultare ancora il vassoio sulle ginocchia “pensavo che avreste resistito un po’ di più, ma è meglio così…” sorrise scioccamente “ora c’è Vegeta…”.

Bulma sgranò gli occhi e fu come se la pressione sanguigna si fosse concentrata tutta in prossimità del suo volto ed il sangue fosse sul punto di uscirle dalle orecchie per trovare una valvola di sfogo.

“Ma che cosa… che cosa stai dicendo?” ad un tratto Goku non le sembrò più il ragazzo del cui candore avrebbe innalzato un vessillo fino ad un istante prima, ma un uomo navigato che stava scavando nei suoi sentimenti, li indovinava uno ad uno, li agguantava come un ricercatore esperto trova pietre preziose occultate per bene sotto terra, le spolvera, se le rigira tra le dita, le mette in tasca e finge che siano ninnoli senza valore.

Così doppiamente subdolo apparve Goku ai suoi occhi perché per quell’insinuazione egli continuò a servirsi  della sua faccia più pulita e sorridente.

Bulma si sentì nuda davanti e lui ed istintivamente tirò più su il lenzuolo.

Solo quando si accorse del porpore che aveva invaso le sue guance e delle dita che contorcevano la stoffa, Goku afferrò il senso di quella reazione, nel sorprendersi la inquisì ancora di più con un cipiglio appena accennato; avuta ulteriormente conferma di come il destino procedesse per schemi prefissati si sbrogliò alla fine nel sorriso spensierato da finto tonto.

“Intendevo dire che sei comunque in buone mani visto che c’è pure Vegeta… perché…” con la schiena si spinse in avanti in attesa di una risposta  “lui è qui, non è così?”.

“Lui è qui, come no… ma non penso di essere in buone mani visto che la frase più gentile che mi rivolge è quella che ben presto mi farà fuori senza farmi soffrire con un unico colpo…”.

“Se avesse voluto lo avrebbe già fatto”

“Non lo fa solo perché gli serve una cameriera!”.

Goku proruppe in un’altra allegra risata sapendo che tra un battibecco e l’altro quei due sarebbero prima o poi finiti a letto.

Se fosse stato un altro tipo, più malizioso e spudorato, sarebbe andato a fare una scommessa col maestro Muten su quando ed in che modo questo si sarebbe realizzato, avrebbe puntato tutto sul rovesciamento dei ruoli tra maschio e femmina, sicuro che a dover cedere una volta tanto sarebbe stato il principe dei saiyan mentre sarebbe stato di Bulma il corteggiamento serrato, esattamente come fu per lui e per sua moglie anni addietro.

Si sarebbe potuto divagare sul luogo in cui si sarebbe consumata la loro prima volta, forse proprio su quel letto, sotto le coperte invernali o rinfrescati dal climatizzatore posizionato alla parete opposta.

Considerati i modi rozzi di Vegeta c’era pure da supporre che l’avrebbe messa contro un muro o sul pavimento.

O forse c’era poco da scommettere ed ironizzare: la questione gli apparve d’un tratto più seria che mai nel momento in cui ella si portò le ginocchia al petto e poggiò la testa contro con fare angosciante:

“Uffa… perché gli uomini non sono tutti quanti come te?”.

Più che gratificato, Goku restò spiazzato da quella considerazione:

“Se parli con Chichi, ehm… ti dirà che pure io ho mille difetti…” disse dopo qualche istante.

Lo avrebbe potuto affettare con un coltello quel senso di colpa che opacizzava l’azzurro dei suoi occhi, così evidente che per discrezione Goku spostò lo sguardo e lo fissò in un punto imprecisato della stanza.

Aveva già immaginato che quel sentimento era un fardello da portare anche per l’indomita Bulma Brief, che non era possibile viverlo senza un senso di colpa, quello per cui  la sua coscienza urlava che di tutti avrebbe potuto perdere la testa ma non per uno dei guerrieri più disumani che avesse scorazzato per le galassie.

Forse le avrebbe potuto alleggerire il cuore se le avesse confidato che da quel sentimento sarebbe nato un figlio meraviglioso disposto a mettersi in prima fila per salvare la vita di tutti quanti loro, ma avrebbe continuato a tacere e a lasciare che il destino si compisse senza artifici.

“Tu sei diverso” insistesse Bulma che trovava tutto ad un tratto interessante torcere un lembo del lenzuolo a turno intorno a ciascun dito.

“Ci sono tanti uomini, Bulma, anche se… quello che più mi somiglia probabilmente è proprio Vegeta considerato il sangue che scorre nelle nostre vene…” ancora una volta la ragazza si irrigidì a quel nome ed ebbe la sensazione che i suoi pensieri venissero scandagliati in maniera troppo facile.

O Goku era diventato tutto ad un tratto un esperto confidente o lei era così innamorata di Vegeta da non riuscirlo a nascondere neanche all’uomo più ingenuo esistito sulla faccia della terra.

“Perché mi dici questo?” si cautelò ancora una volta.

Allora Goku comprese di dover tenere a freno la lingua e recuperò uno dei suoi sorrisi più spensierati.

“Non stavi forse dicendo che ti avrebbe ammazzato? Stai tranquilla, gli piace fare il duro, ma scommetto che su di lui riesci ad avere un ascendente più forte di quello che tu possa immaginare…” le strizzò un occhio in segno di intesa, suscitandole un mezzo sorriso disincantato.

Infonderle fiducia in quel periodo era come spingere una tartaruga con il dito per farla andare più veloce al traguardo: se l’animale, senza aiuto, diventa più lento di quando da solo si impegna a muovere i suoi passi, pure Bulma dopo il breve palpito di illusione e di conforto sprofondava in un affanno più incurabile di prima.

“Avevo sentito la tua aura… “ il tono irriverente che si affacciò alla porta fu la sferza che fece definitivamente saltare in aria il vassoio che Goku teneva poggiato sulle ginocchia “dunque non mi sbagliavo… in qualunque punto della casa avrei pensato di trovarti, ma mai proprio in questa stanza…”.

L’intera casa sembrò sorretta dall’insolenza di quel bracciò che si poggiò allo stipite e l’aria parve in pochi istanti rarefarsi sorprendendoli come cadaveri nelle tombe risvegliati  da morte presunta.

Goku fu lesto ad afferrare l’equivoco una volta tanto, ma prima che portasse le mani avanti a giustificarsi, fu Bulma, rediviva e pungente più che mai, a cogliere l’occasione al volo:

“Cosa c’è? Sei geloso? Non è affar tuo se decido di avere compagnia a letto…”.

Goku ebbe una torsione del busto nella sua direzione da far oscillare il lampadario che pendeva sulla sua testa:

“Ma cosa… cosa… vai dicendo?” davanti ai suoi occhi si era già affacciato un futuro con un mezzo saiyan in meno “io mi sono solo teletrasportato nel momento sbagliato, ho bisogno soltanto del radar cerca-sfere, non pensavo che lei stesse ancora dormendo a quest’ora!” la indicò a Vegeta agitando un pollice indignato all’indietro.

Non ebbe neanche il tempo di accennare al furto della sfera a quattro stelle che Vegeta aveva già fatto sapere con una scrollata di spalle che in ogni caso non gliene sarebbe importato un bel niente:

“Hai più volte ribadito che questa è casa tua, puoi portarci chi ti pare e piace”.

Bulma lanciò uno sbuffo all’altro lato: le era sembrato, o forse era la speranza stessa ad averla fuorviata, di aver visto nei suoi occhi incomprensibili un bagliore di disappunto, ben dissimulato dalla sfrontatezza con cui li aveva colti, in quell’unico istante in cui aveva puntato gli occhi su di lei prima di deviarli su Goku e tenerceli inchiodati neanche fosse stato solo lui quello degno della sua attenzione.

Possibile che non suscitasse in lui una benché minima reazione, neanche saperla in compagnia del suo più acerrimo rivale?

“Ero solo curioso di vederti faccia a faccia per scoprire quali erano stati i tuoi progressi” proseguì il principe dei saiyan compiaciuto “non mi sembri molto cambiato dall’ultima volta”.

“Neanche tu” fece molto candidamente l’altro, recuperando il suo piglio più serio.

A Vegeta stava già ardendo la brace negli occhi e la vena sui polsi era divenuta rigonfia come un cordone ombelicale quando Bulma saltò in piedi sul letto:

“Uffa! Possibile che voi due dobbiate pensare soltanto alla guerra?!”.

Nessuno dei due, prossimi ad incenerire con lo sguardo chiunque si fosse trovato di mezzo, si era accorto della donna in canotta e mutande alzata sul letto, e per un istante neanche lei se ne era resa conto.

Il rossore che sopravvenne fu disfatto in quei pochi secondi di ritardo in cui ragionò esattamente come la sua vanità ferita di donna avrebbe voluto ragionasse.

Fu come se le fosse stato messo un filo di paglia sotto al naso per farla starnutire:

“Dannazione! Ma cosa avete al posto degli occhi, siete due uomini sì o no?!” sfuriò saltando giù dal letto e andandosene risentita col passo sgraziato di un’elefantessa respinta.

Solo al tonfo della porta sbattuta Vegeta mosse lo sguardo sul punto occupato prima da Bulma:

“Lo sai bene che non si misura ad occhio la forza di un avversario” gli disse Goku.

“Mi stai lanciando una sfida?” sogghignò.

La sua mano si apriva e si richiudeva, percorsa dal formicolio irresistibile di chi aveva voglia di farla sgranchire nella sola maniera che conosceva.

Averlo davanti era come dare sostanza alle fantasie che l’atmosfera surreale del trainer gravitazionale generava nel suo inconscio ad ogni allenamento.

“E’ il mio giorno di riposo e penso che ogni tanto anche tu dovresti concederti qualche distrazione” tornò a rilassarsi.

“Io non abbasso mai la guardia” gli impresse diritto sulla faccia.

“E fai male perché le distrazioni rigenerano ogni tanto l’organismo” stese le braccia per sgranchirle.

Allora Vegeta cambiò piglio e poiché non capiva da dove muovessero i suoi consigli, gli chiese a quale genere di distrazione stesse alludendo.

La sua sicurezza e la sua tranquillità in particolar modo, non conoscendone la sorgente, a volte lo lasciavano spiazzato: era qualcosa che andava al di là della forza fisica e di qualsiasi addestramento.

Pensò che se avesse attinto a quella stessa fonte forse avrebbe guadagnato quel divario che lo scontro con Freezer aveva scavato tra loro due troppo profondamente, per quanto alla sua arroganza costasse caro, oltre che riconoscere la superiorità dell’avversario, anche assecondare quella curiosità, secondo il suo metro di giudizio, troppo debole ed umana.

“Qualsiasi distrazione… forse il tuo problema è che continui a vedere questo pianeta solo come un luogo da distruggere” scrollò le spalle con un fare fintamente noncurante “invece può offrirti molte cose, anche una bella e giovane terrestre potrebbe essere la distrazione giusta!” aggiunse trionfante vedendo materializzarsi avanti un bebè dai capelli lilla.

Non si aspettava certo di contagiarlo col suo entusiasmo ma neanche di lasciarlo indifferente come se gli avesse proposto di portare a spasso un cane:

“Insomma Vegeta, sei un uomo cresciuto e pasciuto, non sono certo io a doverti spiegare certe cose, vivi in questa casa, quando hai finito di allenarti, sotto questo tetto, tanto per dire, c’è una ragazza molto affascinante, per giunta sola…” lo imboccò piano.

Vegeta non riuscì a credere che per un istante avesse ceduto alla debolezza di voler carpire i segreti di quel babbeo:

“Hai ragione…” proseguì Goku senza che l’altro desse un solo cenno di risposta a parte lo sdegno di un sopracciglio finalmente sollevato “parla un poco troppo, è disordinata… guarda qui che roba!” raccolse le lenzuola da terra “però…” stava per dire che era una brava ragazza, intelligente, interessante e piena di vita ma si ritrovò in mano un reggiseno di pizzo nero dalla quarta taglia “ehm… sì…” si fece paonazzo “Bulma è anche questo…” e se ne disfece velocemente gettandolo dietro la schiena.

Vegeta tornò a rilassare la spalla contro lo stipite della porta, ora più sicuro che mai che un giorno lo avrebbe schiacciato come il verme di cui aveva l’intelligenza:

“Non deve starti molto a cuore se mi stai proponendo di portarmela a letto” concluse spiccio e pericoloso.

Hem… no” fece Goku saggiamente “con lei devi comportarti bene… ci sono altre donne per questo… cioè no…” rettificò colto da folgorazione improvvisa “non ci devono essere…” scosse la testa in evidente difficoltà ed impaccio “va bene, come non detto, fai pure finta che non ti abbia detto niente, cioè no… voglio dire… fai pure quello che vuoi, oh… insomma, tolgo il disturbo…”.

Davanti a Vegeta restarono le tendine agitate dal movimento improvviso ed il reggiseno nero di pizzo caduto sulla moquette.

Su questo restò posato il suo sguardo accigliato e non si smosse neanche quando l’uscio si spalancò concitato alle sue spalle:

“Dove è finito Goku?” Bulma, la quale intanto aveva recuperato un paio di pantaloncini ancora sgualciti dall’asciugatrice, restò in mano con il radar cerca-sfere.

“Perché secondo te Kakaroth è riuscito a sconfiggere Freezer?” si sentì domandare senza che l’interlocutore voltasse le spalle “illuminami…” condì questi con sarcasmo“ se sei così intelligente come spesso dici di essere…”.

Tanto inconsueti erano i discorsi sensati che avevano intavolato insieme, che le spalle nude e bianche si sorpresero con un sussulto quasi fossero state scosse da due mani disperate e brutali.

“Perché Goku non è evidentemente un saiyan qualunque” abbozzò la donna un mezzo sorriso di trepidazione.

Non aveva idea di quale fosse stato l’epilogo del colloquio con Goku, ma il fatto Vegeta ora si stesse appellando a lei, anche soltanto per dar fiato alle corde o per non passare per il pazzo che farneticava da solo, consegnava alla sua memoria quel momento vissuto con lui come uno di quelli rari che le scaldavano il cuore, alimentandone le speranze, ed accorciavano gli anni luce che la distanziavano da lui.

“Per cosa sta quell’evidentemente?” inquisì indispettito.

Bulma si umettò le labbra e la punta della lingua le restituì il sapore del burro cacao.

Voleva una volta tanto calibrare bene ogni parola, senza ferirlo, ma con la premura di alleviare quei tormenti che poteva soltanto immaginare al di là delle possenti spalle che volutamente continuava ad offrirle come un’armatura imbattibile.

“Suppongo che il fatto sia cresciuto sulla Terra abbia in qualche modo potenziato le sue capacità” tentò di spiegare non senza difficoltà.

“Potenziare in che maniera?” tornò ad accigliarsi, quasi quelle contrazioni intorno agli occhi non potessero mai trovare tregua.

Bulma scosse il capo:

“Non lo so, davvero, lo stai chiedendo ad una che ha il potenziale combattivo di un moscerino, non ne capisco molto a riguardo, però… anche quando combatte lui riesce sempre ad essere così… come dire… rilassato… tranquillo…” trovò il termine giusto, quello dall’efficacia esplosiva.

Vegeta sbarrò gli occhi per poi sacrificarli ancora una volta alle molteplici contratture che li assalivano, come topi dati in pasto ad un covo di serpi.

“E pensi forse che questo abbia a che vedere con l’essere vissuto qui sulla Terra, che c’entrino suo figlio o la sua stupida moglie?”

Bulma non ebbe il tempo di replicare:

“Sei una sciocca se credi che lui si aggrappi a questo per trovare la carica giusta quando sta combattendo!”

“Per me può anche appendersi al diavolo in persona” si alterò la ragazza in breve mandando all’aria ogni buon proposito “quello che conta è che lui riesce sempre a vincere!” lo affondò implacabile.

Vegeta incassò il colpo con un sogghigno, trattenne per un ultimo istante lo sguardo sul reggiseno di pizzo nero rimasto a terra e poi finalmente tornò a voltarsi:

“Credo che uno di questi giorni mi prenderò una distrazione” le comunicò alla sua altezza lasciandola confusa.

La sorpassò e fece scattare l’uscio:

“Ti farò fuori una volta per tutte… tanto per distrarmi!”.

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Episodio X - Sequestro e riscatto ***


“Convivendo in… capsule”

“Convivendo in capsule”

 

Episodio X

 

 

 

Ci sono battaglie e battaglie, nemici e nemici.

Nella maggior parte dei casi, osservarli nel momento umiliante del trapasso era una perdita di tempo quanto assistere all’agonia di un insetto strisciante il quale, annusato il veleno ai margini della fogna, si contorce su stesso negli ultimi spasmi della sua ributtante esistenza, ma c’erano volte, quando valeva veramente la pena di fermarsi a guardarli prima di sopprimerli una volta per tutte, perché magari lo esigeva il loro nome altolocato o la fatica della battaglia stessa, in cui il principe dei saiyan era pervaso da un godimento così degenerato che rapportato ad una scala di valori sarebbe stato lo stesso di quello di un figlio che assiste soddisfatto al massacro del proprio padre.

La piega delle labbra si tirava a sinistra, laddove in condizioni normali restava un piccolo solco ormai scavato da un cronico sadismo, e in un meccanismo del tutto naturale ed ormai consolidato le braccia si incrociavano sul petto a contenerne la presunzione, tanto debordante questa era che, senza sollevare un altro dito, sarebbe bastata da sola a sancire la vittoria.

In quella posa restò a guardare la donna legata su una sedia, col capo reclinato e la bocca chiusa dal nastro adesivo che recava in sequenza il marchio in rosso della Capsule Corporation.

La corda le aveva reso le caviglie violacee ed il petto esuberante e generoso era compresso tra i lacci con un senso di asmatica oppressione.

Il ventilatore rimasto azionato sul soffitto del laboratorio le scompigliava la frangetta e raggelava il sudore sottostante ad ogni vorticata.

Con un piede Vegeta calpestò i frantumi di un vetro ed uno scatto a destra degli occhi anticipò la caduta di un barattolo di birra rimasto in bilico sulla scrivania.

Il rumore metallico fece sbarrare gli occhi inorriditi della donna e Bulma, ritornata in sé, osservò Vegeta per un solo istante prima di riprendere a torcersi sulla sedia come un pesce si dimena sul fondo di una barca.

L’alieno restò in quella posa imperturbabile, ma la paura della donna ed il suo dimenarsi vano alimentò la luce perversa del suo sguardo.

Vedere il nemico ridotto in quelle condizioni, a quel punto della battaglia, lo rendeva ebbro quanto tracannare un buon calice di vino invecchiato, ma questa volta aveva un retrogusto inspiegabilmente ancora più esaltante, poiché era sì una donna senza potenziale combattivo, ma con la forza nella lingua, più che sufficiente ad accanirlo allo scontro verbale, e nell’abbondanza dei suoi seni, capaci di stordire da un po’ di tempo pure la sua tempra che egli pensava impassibile a certi richiami.

Queste erano armi più raffinate di quelle di qualsiasi altro nemico: a volte ne usciva perdente senza neanche essere sfiorato e quell’ignoto lo turbava come uno spettro vagante dietro la sua schiena, che non si materializza, ma si fa sentire e ossessiona.

Era quello che meritava e forse non era neanche abbastanza, pensò mentre la squadrava dall’alto:

“E’ tutto inutile, ti conviene stare buona…” insinuò velenoso.

Bulma emise dei gemiti indecifrabili, intanto che scuoteva il capo e trovava chissà dove la forza per smuovere la sedia e guadagnare qualche passo, giusto per approssimarsi pericolosamente soltanto al suo interlocutore, il quale scoppiò in una risata paralizzante nel vederla finire a terra proprio innanzi ai suoi piedi regali, impedita come una tartaruga sul dorso, devota come una schiava.

La donna riprese i suoi mugugni, ancora più incomprensibili e deformati dal dolore alla spalla e all’anca, e a strattonare le corde, ma gli occhi azzurri, rinnovati da una nuova rabbia, lasciarono intendere che in corpo aveva ancora dignità da vendere seppure così ridotta rendesse soltanto l’idea di una mummia egiziana non classificabile o di un salame caduto dal chiodo arrugginito e scorticato da un topo.

Forse fu per quell’orgoglio ferito che vibrò tra le funi come i sonagli di un serpente, che Vegeta si accovacciò accanto, le porse un altro sorriso impostore, che ebbe il potere come tutte le volte di lasciarla interdetta per una manciata di secondi, proprio come un pugno di riso in bianco imbroglia uno stomaco affamato. Le portò una mano guantata sul volto con un tocco platealmente gentile e, mentre indugiava le dita sulla sua pelle liscia ma provata, le strappò con un colpo deciso l’adesivo dalla bocca.

La sensazione di Bulma fu quella di un volto interamente sbrindellato e dovette osservare il nastro caduto a terra per assicurarsi che non ci fosse rimasto appiccicato altro oltre  il grumo di sangue formato frattanto sulla labbra e ritornato a sanguinare.

Vegeta si era già rialzato in piedi quando lei gli urlò contro:

“Adesso ne ho abbastanza! Ti decidi o no a liberarmi?!

“Chiunque ti ha conciato così non ha compiuto neanche un terzo del suo dovere, ciò nonostante potrei anche essergli riconoscente se ha trovato il modo di zittirti per una buona mezz’ora di tempo…

Mezz’ora un corno! Sono qui da ieri sera!”

“Allora gli sarò ancora più riconoscente…” fece untuoso prima di tornare ad indurire la mascella.

Stava completando i suoi lavori, quando un rumore di vetri infranti aveva anticipato l’ingresso di due balordi, i quali dopo averla invano minacciata con una pistola per farsi dare le chiavi del prototipo di jet da poco ultimato esibito in giardino, l’avevano legata, si erano presi pure la briga di scolarsi una lattina di birra frattanto che lei si decidesse a collaborare, erano riusciti a sapere dove erano custodite le chiavi solo dopo averla schiaffeggiata talmente forte da farle uscire il sangue dalle labbra.

Aveva continuato ad urlare il nome di Vegeta fino a quando non era stata imbavagliata dal nastro adesivo.

“Quel prototipo era importante!” spiegò la donna “di certo il loro intento è quello di chiedere un riscatto, non è la prima volta che succede, maledetti!” il pensiero che suo padre non si fosse adoperato abbastanza per prendere le dovute precauzioni le avrebbe fatto dimenticare per un istante la posizione in cui giaceva se non fosse stato per il formicolio insopportabile risvegliatosi alle caviglie e ai polsi.

“Allora, non ti sei divertito forse abbastanza?” si ridestò pure la sua lingua intorpidita “liberami!”.

Pensò che stesse per ricevere il colpo di grazia allorquando lo vide sollevare il famigerato indice e tenderlo nella sua direzione, ma ad un tratto sentì la pressione delle corde allentarsi intorno ai muscoli e sotto al naso l’odore del bruciato.

Sperare altro da lui era come illudersi di ricevere la carità da un altro mendicante, perciò dovette fare presa sulle braccia e sollevarsi da sola con fatica, massaggiare i polsi indolenziti e rivitalizzare la spina dorsale con piccoli movimenti del busto.

Col dorso della mano scoprì il labbro insanguinato ed innanzi a quel colore tutta la tensione in corpo prese a sciogliersi ed allora scoppiò a piangere innanzi all’insensibile principe dei saiyan, il quale non mosse un muscolo a parte l’ impercettibile movimento della nuca all’indietro che gli servì per esaminare più a fondo quella reazione o forse per gettare più distanza tra loro.

“Non puoi immaginare quanta paura abbia avuto, ho gridato il tuo nome non una ma molte volte” era certa che sarebbe venuto anche solo per la curiosità di conoscere la ragione dei suoi strepiti e per questo in un primo momento si era mostrata ai due criminali disinvolta “ti rendi conto cosa avrebbero potuto farmi? Perché non sei accorso? Se tu fossi venuto non solo non avrei perso un progetto importante sul quale ho lavorato per mesi, ma mi sarei risparmiata questa paura! Non penso di potermi più permettere simili colpi!” si sostenne la fronte con gravità rendendosi solo ora conto del rischio corso e di aver commesso lo stesso errore di chi confida nella solidità della sabbia.

Vegeta aveva pensato che le urla di quella terrestre fossero solo l’eco di un incubo dai contorni indefiniti: se si era imbattuto in lei alle prime luci dell’alba, era stato solo perché si era recato in laboratorio per attivare il generatore del trainer gravitazionale.

“Pensi forse che io sia il cane da guardia di questa casa?” fece indignato.

Bulma tornò ad osservarlo con ovvietà:

“E’ da alcuni mesi che vivi in questa casa, è il minimo che tu possa fare anche solo per ringraziamento!”.

L’immediatezza di quella risposta ebbe il potere distruttivo di renderlo ancor più indisposto:

“Ringraziamento per cosa? Sei tu e tutta la tua razza che dovete essermi grati per avervi risparmiato!”.

Vegeta era un motore ormai prossimo a partire, ma Bulma non aveva voglia di farsi investire dal solito ritornello, aveva addosso una delle notti più terribili che le fossero capitate dopo Namecc, il labbro che non smetteva di sanguinare, la schiena a pezzi, una mascella illividita, come non bastasse aveva urgenza di andare al bagno, perciò si mosse per oltrepassarlo, ma raggiunta la sua altezza l’uomo le sbarrò inaspettatamente il passo, non che al guerriero interessasse incrementare l’alterco con quella donna, considerato che solitamente era lui quello che si prendeva la soddisfazione di girare i tacchi, né il suo orgoglio fu ferito dall’indifferenza con cui venne questa volta liquidato, ma i conti non gli tornavano, qualcosa doveva essergli evidentemente sfuggito di mano, era come se lo spettro vagante alle sue spalle insistesse a prendere una volta per tutte sostanza:

“Tu devi essere semplicemente matta” le comunicò con una vibrazione oramai farneticante che ella non afferrò al volo.

“Di cosa stai parlando?” lo vide muoversi ed agguantare con rabbia le corde che aveva reciso.

Fece un passo indietro allarmata, neanche tanto per il gesto ma in quanto scorse nei suoi occhi una rabbia più furibonda e più sottile del normale.

“Hai paura di due ladruncoli che hanno bisogno di queste per tenerti a bada” le spezzò come fossero state un rotolo di carta assorbente “che per entrare in casa hanno bisogno di un martello per rompere il vetro” sollevò un braccio mentre camminò aggressivo alla sua volta e, come se scacciasse una mosca, disintegrò una parete laterale che crollò rovinosamente al suolo “e non temi me, anzi, addirittura invochi il mio nome?”.

Bulma ebbe la percezione di non essere mai stata guardata da Vegeta con tanta ossessione, che mai nessuno fosse riuscito come lui in quell’istante a scandagliare il suo intimo, forse per incapacità o disinteresse a farlo.

“Cosa c’è? Ad un tratto non hai più il coraggio di guardarmi? Per sottometterti devo ricordarti di continuo io chi sono?”

“Io non ho più paura di te da molto tempo ormai…” riuscì a sollevare gli occhi e ad inchiodarglieli in faccia con un colpo deciso.

Non fu fierezza ciò che plasmò ciascuna di quelle sillabe, ma una verità più imbarazzante, torturante come un’inguaribile infermità, avvolgente come il fuoco di un camino, appagante come una morte lenta e sospirata: in quel sentimento Bulma annegava con la consapevolezza di una suicida.

“Fai male ad invocare il mio nome! Io, che ho ucciso anche chi mi tendeva la mano...” l’afferrò brutalmente per le spalle e la scosse a più riprese “non lo sai che mi basterebbe stringere solo di più le dita per ridurti in polvere?” si sentiva dio quando poteva decidere della vita o della morte altrui.

L’osservò compiaciuto con la mascella serrata, i suoi occhi passarono in rassegna ogni tratto di quel viso stravolto, l’esaltazione si mescolò con un desiderio oscuro, che non sapeva bene cosa fosse ma in quel momento gli piaceva, gli fermentava sotto la lingua l’istinto di assalire quelle labbra tumide e lucide di sangue, di spingerla ancora di più contro di sé.

“Vedo che stai tremando” Bulma sentì il suo fiato tanto era vicino “è questo quello che devi provare quando sei alla mia presenza…” la sua voce non ebbe l’inflessione ostile che avrebbe voluto imprimerle, piuttosto suonò stranamente roca.

“Non tremo di paura…” riuscì a sibilare ansimante e a dimenticare la pressione dolorosa intorno alle braccia già sfibrate.

“E di cosa allora?” tornò a scuotere lei e medesimo.

Risalì da quell’abisso con un respiro più profondo e recuperò il suo piglio di sfida:

“Tu non vuoi veramente uccidermi”.

 Chiederle da dove venisse questa certezza era come pretendere una volte per tutte di stabilire l’origine dell’universo.

Vegeta sogghignò, ma non smise di osservare la sua bocca:

“Non essere presuntuosa” aumentò la pressione delle sue dita “cosa allora pensi io voglia fare?” la sicurezza di lei scuoteva le fondamenta di ogni sua convinzione, le fessurava  allo stesso modo di una faglia sotterranea dalla posizione imprecisata, così nascosta da eludere anche i meccanismi di rilevazione più rodati come era la sua indole. Se non avesse scoperto al più presto quel punto correva il rischio di franare e restarci sotto, o forse il segreto era quello di rendere più flessibili i sostegni per assecondarne meglio i movimenti.

Incominciava a persuadersi che i primi scuotimenti fossero stati proprio generati dalla sicurezza che lei ostentava ad ogni incontro, che quella scossa molesta provocasse da un po’ di tempo, ad intervalli irregolari, delle oscillazioni insolite e bizzarre.

Forse, se avesse messo da parte il suo rigido protocollo ed avesse favorito l’istinto di quel momento, avrebbe trovato ogni risposta.

Di sua iniziativa Bulma tornò a sprofondare in quell’abisso, prese respiro, chiuse gli occhi.

Osò dire quello che non avrebbe mai pensato di avere il coraggio di esprimere, attingendo il vigore da quella vicinanza truce e pure così calda, affetta da un malessere ancora poco chiaro ma di certo contagioso:

“Baciami… ti prego… non fare altro... baciami soltanto”.

Allora Vegeta lasciò la stretta come fossero state le sue dita a farsi male, scrutò con uno dei suoi rarissimi bagliori di disorientamento gli occhi chiusi, le ciglia frementi, il mento sollevato, le labbra dischiuse e sentì quell’attesa, in tutto il suo ingombro, proprio sulle sue spalle:

“Che cosa significa?” per quel che ne sapeva lui, poteva anche avergli chiesto di gonfiarle l’altra guancia giacché quel verbo non figurava nel suo vocabolario alquanto scarno.

Bulma riemerse senza fiato da quelle acque raggelate d’improvviso, dopo aver smarrito il contatto con lui si guardò intorno per trovare al più presto e prima che fosse troppo tardi un nuovo appiglio.

Si accorse di averlo proprio davanti agli occhi, che se si fosse sporta solo un po’ di più lo avrebbe afferrato e si sarebbe tenuta salda pur conoscendo la precarietà e l’insidiosità di quel sostegno, ma l’ingresso di suo padre, con addosso ancora la vestaglia da camera e la sigaretta incollata sotto i baffi, l’affondò come la più implacabile delle maree.

Venne ed annunciò di due tizi piuttosto nervosi che la cercavano a telefono…

 

 

FINE

 

 

 

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Capitolo 11
*** Episodio XI - L'eloquenza di una risposta ***


A quasi tre anni dal primo episodio la raccolta prosegue…

A quasi tre anni dal primo episodio la raccolta prosegue…

 

“Convivendo in… Capsule”

 

EPISODIO XI

 

 

Mai innanzi ad alcun nemico il grande Vegeta avrebbe pensato di tenere la testa talmente bassa da dare l’impressione che fosse staccata dal resto del collo, ciondolante come un qualsiasi arto appena rotto e sanguinolento, del quale avrebbe potuto fare momentaneamente a meno.

Dove erano la gloria, l’orgoglio, la stirpe reale in quel momento?

Con la dignità di un verme e la normalità di un essere qualunque le calpestava alla pari di chiodi sotto le ginocchia aderenti a terra nella più deplorevole delle suppliche.

Quella forza invisibile lo tirò ancora un’altra volta per il collo, come un cavallo prima scudisciato a dovere e poi frenato nella corsa scrollò la testa, tossì convulsamente, scalpitò con le ginocchia producendo un rimbombo sul pavimento, emise lo stesso rantolo di chi è sul punto di annegare ed infine un sospiro liberatorio: del purosangue indomito e selvaggio gli restarono solo il respiro affannoso, le narici dilatate, il mento allungato.

Nella vergognosa tregua che gli fu concessa ebbe il tempo di meditare che mai niente lo aveva reso così vulnerabile ed umano e per questo nello sputo che lanciò in avanti ci mise tutto lo sdegno per sé stesso.

Il suo corpo era preda di una furia senza fattezze, gli oltrepassava la carne e gli assaliva senza ritegno le budella, eppure la percepiva alle spalle come qualcosa di terribilmente terrestre, alla quale, tuttavia, non riusciva ad opporsi neppure chiamando in causa le sue doti di grande guerriero: il suo organismo semplicemente aveva smesso di obbedirgli.

Vegeta intuì che non c’era rimedio, che era troppo tardi per capire da dove quella cosa fosse arrivata e per quale ragione fosse proprio lui a farne le spese, così si preparò a subire un altro attacco: questa volta non si fece trovare impreparato e in quell’unico barlume di coscienza, giacché era la sola cosa di cui gli era rimasto il governo, pensò che avrebbe subìto meglio il colpo successivo se fosse rimasto in quella stessa posizione.

Il nemico lo assalì questa volta con un impeto minore, quasi mosso da una più umiliante compassione gli diede il tempo di prendere un respiro più ampio prima di tornare a piegargli in due la schiena.

Di nuovo la tosse convulsa, il rimbombo delle ginocchia sul pavimento, il rantolo strozzato di chi cattura appena in tempo l’ultimo soffio di aria.

Il rigurgito che emise non aveva neanche il sapore eccitante del sangue o del fiele, ma recava il retrogusto assai mortificante degli spiedini di maiale consumati a cena quella sera.

Vegeta sollevò con lentezza un ginocchio, poggiò tutto il peso sulle braccia tremebonde, percorse da un improvviso brivido di freddo che dalla schiena si propagò a tutto il corpo, e restò ad osservare la sua ombra tagliente proiettata contro il coperchio sollevato del water.

Lo restò a fissare come se solo ora lo vedesse per la prima volta, quasi potesse trovarci scritto una risposta al suo malessere, poi tornò a fare presa sulle braccia, sollevò prima un ginocchio malfermo e poi l’altro, ed assestò un colpo deciso e indignato contro la parete.

Lo scarico trascinò nel condotto gli spiedini di maiale e molte altre cose indefinite, il tutto amalgamato in un liquido giallastro e fetido.

Lo specchio sopra il lavandino riflesse il volto ancora accaldato dallo sforzo e le stesse rughe di incredulità che avrebbe avuto se dal water avesse visto spuntare le corna di Freezer: mai nella sua vita aveva fatto indigestione.

Parecchie cose gli erano rimaste sullo stomaco in verità, ma mai una cena.

Un’ultima espressione contrariata fu rinviata dallo specchio prima di aprirne lo sportello e prendere il kit dei medicinali.

Tra garze, bende, cerotti e disinfettanti sembrava che la boccetta dei sali digestivi fosse stata inserita lì dentro per farsi beffa di lui: si era sempre chiesto a cosa diavolo potesse servirgli una boccetta con i sali digestivi se non ad ingombrare di più quella valigetta che troppo spesso gli ritornava utile per ben altro genere di inconvenienti.

Lesse a fatica la minuscola etichetta delle istruzioni e la data di scadenza, si guardò intorno, prese il primo bicchiere che gli capitò a volo, quello dove teneva lo spazzolino, lo riempì sotto la fontana, sciolse una manciata di sali dentro, li sentì friggere ad uno ad uno e poi lo bevve tutto di un sorso.

Ma guarda che roba…” grugnì chiudendo lo sportello e tornando a rivedere il proprio volto allo specchio, ora più pallido ed emaciato.

Riaprì la fontana, sciacquò la bocca e la tamponò con l’asciugamano.

Si trascinò nella stanza attigua col passo malfermo di un ubriaco, inciampò in un paio di pantaloni, la moquette restituì solo un tonfo attutito, imprecò, li gettò su una sedia nell’angolo e con pesantezza terminò sul ciglio del letto, illuminato dal fascio di luce proveniente dal bagno era il protagonista indiscusso di quell’imperdibile scena.

Neanche il cigolio delle toghe in legno servì a svegliare la donna accoccolata sotto il piumone, la quale in tutta risposta si voltò dall’altro lato e si strinse al cuscino.

Vegeta si voltò a fissarla, richiamato dal fruscio delle coperte, e sembrò che solo in quel momento si ricordasse veramente di lei.

Ma guarda che roba…” commentò un’altra volta con sdegno.

Neanche fosse stata lei la causa del suo malore, si alzò, sradicò con una mossa farneticante le lenzuola dal materasso e le gettò a terra dall’altro lato con tutto il suo occupante.

“Ahi! Ma cosa… aiuto!” esclamò Bulma, la quale non pensò ad un terremoto ma alla prospettiva ancora più disastrosa di essere stata chiusa in un sacco e gettata in una fossa di rifiuti non smaltibili.

Non sia mai che si ritrovasse con la ruota di una macchina intorno al collo o con la testa in una lavatrice arrugginita.

“Si può sapere cosa diavolo ti prende?” gli domandò dopo aver trovato la via d’uscita da sotto le coperte.

Era capitato a volte di sentirlo mentre si svegliava di soprassalto nel cuore della notte, domandargli quale incubo avesse fatto e non ricevere mai risposta, ritrovarsi al mattino anche con un livido per qualche colpo fortuito ricevuto nel sonno, ma mai essere sbatacchiata così di proposito: dormire con Vegeta equivaleva ad avere nel letto un orso, le sue braccia erano tanto calde quanto insidiose, era come riposare su uno splendido giaciglio di fiori ed ignorare di aver attirato uno sciame di vespe.

Ora, il fatto che ci avesse messo del gusto nel farlo era evidente dal modo soddisfatto con cui teneva le braccia incrociate e dallo sguardo più truce del solito, scavato in profondità dal fascio di luce che giocava alle spalle.

Pareva una creatura della notte, un tutt’uno col buio, che sarebbe scomparsa con lo spegnersi della luce come la luna quando non è illuminata dai raggi del sole.

Con gli occhi ancora indolenti Bulma dubitò che si trattasse proprio di lui fino a quando non ne ebbe riconosciuta la voce:

“Sono stato almeno cinque minuti a gettare finanche l’anima nel gabinetto, se hai intenzione di startene beata sotto le coperte è meglio che tu ti tolga dalla mia vista e te ne ritorni nella tua stanza!”.

A Bulma occorse molto più di un secondo per capire cosa fosse successo, sia perché non era da saiyan fare una cattiva digestione, sia perché non era da principe dei saiyan esigere la presenza di qualcuno anche quando stava gettando il sangue, mentre era tipico di Vegeta non trovare pace senza un capro espiatorio, fosse anche soltanto per sfogarsi più platealmente.

A volte cospargeva il suo malumore come un terrorista diffonde un virus in metropolitana all’ora di punta, altre volte invece lo faceva detonare di nascosto come una bomba all’idrogeno su un’isola deserta.

Quello che era certo è che nell’uno o nell’altro caso c’era sempre qualcuno a farne le spese e che non era dato sapere sulla base di quale criterio scegliesse la sua valvola di sfogo: vivere con lui era una continua scommessa, anticipare le sue mosse era come pretendere di avere la certezza del buono o del cattivo tempo.

Bulma era quel raro essere nell’universo che lo conosceva bene e che aveva smesso di sorprendersi:

“Mi dispiace che tu sia stato poco bene” l’intonazione sarcastica la teneva ormai sintonizzata neanche fosse stata la frequenza della sua radio preferita, subito pronta all’uso “ma ti rammento che una settimana fa mi torcevo sul letto per i miei…” si batté una mano sul petto “…dolori mestruali e tu non ti sei degnato neanche di andarmi a fare una camomilla come ti avevo chiesto!”.

Con un altro grugnito, tagliente e sibilante quanto uno spiffero di vento attraverso una fessura, Vegeta sciolse le braccia e tornò a sedersi sulla sponda del letto, come un pescatore di granchi attende la bassa marea pure lui attese che il subbuglio nello stomaco trovasse una quiete.

Bulma stizzita si massaggiò i glutei doloranti, poi prese una boccata di pazienza, sormontò il letto e si avvicinò alle sue spalle:

“Forse hai la febbre” gli mise la mano sulla fronte.

Accudire Vegeta era come allevare uno squalo bianco in un acquario: per quanta dedizione potesse consacrargli, correva il rischio di trovarsi un arto mancante.

Ed infatti lui la scostò brutale:

“Non ho mai avuto la febbre e neanche ho fatto mai un’indigestione”.

Lei allora dovette ricordargli la cena consumata quella sera: cinquanta spiedini di maiale arrostiti alla brace - meno male che se ne erano occupati i robot perché con il freddo di quella sera le sarebbe venuta una bronchite - una scodella di fave tanto per ingannare il tempo, tre bicchieri di vino rosso, una caciotta, mezzo salame, cinque budini al cioccolato bianco ed uno a crema, una porzione di…

“La finisci?! Ho mangiato esattamente come tutte le altre volte, sono un saiyan io, piuttosto mi domando se tu ci abbia messo del cianuro…” voltò il capo e le rivolse un’occhiata bieca che la costrinse ad indietreggiare all’altra sponda con un’alzata di mani in segno di resa.

“Non essere esagerato, se fosse stato per qualche condimento avrei dovuto avere qualche problema pure io ed invece sto benissimo, saranno mica state le castagne?”  si domandò gravemente dopo una pausa “le hai mangiate addirittura con tutta la buccia!”

Incenerita da un’altra espressione eloquente, Bulma si sporse dal materasso, raccolse il piumone e se lo gettò addosso alla meglio:

“Dovrebbero esserci dei sali digestivi nel bagno

“Li ho già usati” la informò caustico.

Tanto per rompere il silenzio, visto che era evidente che difficilmente avrebbero ripreso sonno entro breve, la donna aggiunse di averli messi lì per lei, nell’ipotesi ne avesse avuto bisogno quando veniva a dormire nella sua stanza, che il suo stomaco diventava delicato soprattutto alla sera, che non poteva permettersi di passare una notte in bianco perché l’indomani l’umanità intera avrebbe avuto bisogno del suo ingegno a lavoro:

“Almeno sono serviti a qualcosa…” gettò lì alla fine, senza importanza, intrecciando una ciocca di capelli intorno al dito, prima di scoppiare in una risata come colta da una folgorazione improvvisa.

Con un senso di rinnovata nausea visibile dalle orbite spalancate e dalla mascella vibrante, Vegeta la vide dimenarsi sul materasso e scalciare sotto il piumone che finì di nuovo a terra.

“Smettila! Ehi, dico a te! Smettila!” neanche la cuscinata diritto in faccia la fece desistere, piuttosto accrebbe il suo divertimento, tanto spassoso questo era da farla rassomigliare ad una bambina.

Per non crocifiggerla alla spalliera del letto con un raggio energetico, Vegeta dovette fare ricorso al proprio autocontrollo, andandolo a scovare in chissà quale parte nascosta della sua coscienza allo stesso modo di un esploratore alla ricerca nel deserto di un raro reperto archeologico, poi le risa scemarono a poco a poco ed il corpo smise di scuotersi come se il demone dispettoso avesse deciso finalmente di uscire dal suo corpo.

Lei si poggiò su un fianco:

“Dai… era solo un modo per farsi qualche risata” mormorò deliziosamente “almeno abbiamo scoperto che anche lo stomaco di un saiyan può avere qualche problema”.

“Forse il problema sei tu” ribatté con una serietà spiazzante “forse è l’aria di questa casa o magari di questo pianeta a farmi male” procedette per gradi ed aumentò il tono di pari passo fino ad alzare definitivamente la voce “forse ho dovuto digerire troppi bocconi amari ed altri mi sono rimasti ancora sullo stomaco!”.

Bulma incassò ognuna di quelle parole come se avesse ricevuto tre colpi a raffica, si strinse nelle braccia e la colse quel freddo che non viene da fuori ma nasce da dentro. Sperava che lui non avesse fatto caso alla data di quel giorno, ma era evidente che se qualcosa lo tormentava più del solito era perché pure lui l’aveva tenuta presente.

Bulma si domandò se ne avesse portato il conto o se gli fosse tornata in mente solo per caso: un anno era trascorso dal generoso sacrificio di Son Goku e lui ancora era tormentato dal suo fantasma, che di certo non veniva a reclamargli vendetta, ma solo a ricordargli che sarebbe stato un eterno secondo senza più alcuna possibilità di confronto.

Vegeta ritornò a sedersi, le sue spalle nude avevano in quella posa la stessa curva di chi porta troppo a lungo lo stesso peso, come un gobbo non è più in grado di raddrizzare la schiena pure lui appariva irrimediabilmente compromesso, visto da dietro sembrava un uomo qualunque, anzi, più triste e sconsolato di chiunque altro. Tanto smisurato era nell’orgoglio quanto nella sua solitudine.

Vegeta decisamente non conosceva le vie di mezzo.

Bulma dovette voltare gli occhi al soffitto per ricacciarsi le lacrime all’indietro, avrebbe voluto avvicinarsi a lui, stringerlo al suo petto, consolare le sue inquietudini infinite delle quali l’oblio era l’unico rimedio, ma restò immobile perché lo conosceva troppo bene.

Ed invece, neanche egli  l’avesse letta nel pensiero ed avesse trovato lì la soluzione ai suoi problemi, senza darle modo di scorgere l’ombra di esitazione che si era allungata sul suo volto, raddrizzò la schiena e si voltò a guardarla col piglio fermo di sempre:

“Avanti, spogliati…” le intimò senza battere ciglio.

Bulma fu scossa come se l’ordine le fosse stato impartito da un moribondo al quale stava prestando soccorso, sarebbe stato una sorta di ultimo desiderio prima di morire se almeno avesse avuto un tono implorante, oppure avrebbe potuto almeno prenderla per una provocazione molto audace se egli ci avesse messo l’enfasi giusta, ed invece sembrava averle chiesto di accendere la lampada che era sul comodino o di raccogliere le coperte da terra:

“Non… non eri tu quello che non stava bene?”

“A cosa serve essere un saiyan, altrimenti?” fece beffardo “le mie capacità di recupero sono superiori alle vostre”.

“Allora mi stai…” cercò di trovare il termine giusto “seducendo per davvero…” mormorò la donna che restò a fissarlo di stucco mentre lui si sfilava i pantaloni del pigiama.

“Chiamalo pure come ti pare e piace” li gettò all’indietro sulla moquette “se sei venuta a dormire nella mia stanza qualche ragione ci sarà” cavalcò il letto con una movenza felina, redivivo e attraente da toglierle il fiato le fu vicino.

“Veramente ero venuta perché il riscaldamento in camera mia è rotto” ammise con candore ma non abbastanza per camuffare la luce maliziosa che già brillava nei suoi occhi e lo allettava. Bastava poco per accenderla, era come un foglio di carta vicino al fuoco.

“Allora…” fece severo “ ti decidi a spogliarti sì o no?”.

Ma lei esitò ancora:

“E’ che ho un po’ freddo…” si agitò muovendo la mano a tentoni alla ricerca delle coperte “non trovi?”

Vegeta abbozzò un mezzo sorriso: questa finta ritrosia lo stava divertendo.

“Puoi pure startene così se è questo il problema” affettò indifferenza al suo ingombrante pigiama di pile, tanto già sapeva che tra un po’, tra un gemito e l’altro, se lo sarebbe sfilato di fretta quasi avesse preso fuoco “oppure preferisci dormire perché l’umanità domani non può fare a meno di te?”.

Non sapeva neanche da quanto tempo fosse proprio lui quello che aveva bisogno di lei per sentirsi meglio, ma aveva anche assimilato a sue spese che provare a darsi una risposta era come gettare altro alcool sulle ferite, mettere una mano in bocca ad un leone, sbattere la testa contro un muro: stoltamente si faceva del male da solo.

Sapeva, altresì, che era ormai qualcosa ben oltre la distrazione e il capriccio, cos’altro fosse poteva pure finire con lui nella tomba.

Era sul punto di assalire l’unico centimetro di pelle visibile, ovvero quella candida linea del collo che spuntava dalla maglia, quando ella lo respinse mettendo le mani avanti:

“E’ così difficile dire che hai voglia di fare l’amore con me?” gli pose un interrogativo a tal punto esistenziale che egli dovette ritornare a mettere distanza tra loro e restò a fissarla col medesimo cipiglio grave che gli sarebbe spuntato nel sentirsi domandare se davvero l’universo fosse infinito.

“Sul serio, Vegeta, non mi hai mai detto che hai voglia di fare l’amore con me” lui non chiedeva, lo faceva e basta.

Si prendeva il suo piacere come avesse tirato un vestito a sua disposizione dall’armadio senza sceglierne il criterio, come se avesse chiesto ad un gelataio di preparargli un cono ma non avesse specificato il gusto, era come presentare un regalo senza la confezione decorativa, assistere ad una recita di bambini e non incoraggiarli con un applauso, mandare un mazzo di fiori senza biglietto.

Il saiyan osservò la sveglia sul comodino che segnava da poco trascorse le 2.00:  nel silenzio della notte si sentì lo schioccare paziente della sua lingua sotto il palato ed il leggero sospiro che andò a riscaldarle la faccia:

“Avanti, non è poi così difficile, dillo una volta tanto… vo-glio fa-re l’a-mo-re con te…” sillabò e le sue labbra, dischiuse con lentezza, gli parvero soltanto più sensuali.

“D’accordo…” mormorò più impegnato ad infilare la mano sotto la maglia.

Allora lei si inarcò un’altra volta:

Ma non lo hai detto!” protestò.

A quel punto lui le agganciò le mani contro il cuscino in una morsa irriducibile:

“Ho voglia… ti sta bene?” le fiatò quasi sulla bocca “ho maledettamente voglia!” scandì per la precisione.

Ebbene, Bulma capì finalmente il nocciolo della questione, lo trovò proprio mentre lui afferrava uno dei suoi seni sotto il pigiama:

“Tu non vuoi pronunciare la parola amore!” esclamò, ormai disinteressata alle esplorazioni che l’altro stava compiendo.

Questa volta nella mente di Vegeta davvero si prospettò la possibilità di inchiodarla alla spalliera, tuttavia volle darle un avvertimento, un gesto di misericordia che raramente concedeva quando era sul campo di battaglia ed il nemico era di infimo livello:

“Per il tuo bene… penso sia meglio che tu scenda da questo letto

“Ma cosa ti costa?” obiettò l’altra “io e te ci conosciamo da tempo, abbiamo una famiglia, viviamo insieme, in che altro modo vuoi chiamare quello che facciamo se non … fare l’amore?” si mise pure lei a cavalcioni sul letto con i gomiti appuntati.

La sua analisi sembrava non fare una piega.

“Ma che importanza ha dargli un nome? Godresti forse di più?” non sapeva neanche per quale ragione stesse ancora fermo sul letto a discutere, forse perché sperava, cinico qual era, che, chiusa quella parentesi patetica, potesse finire quello che aveva incominciato.

“Non essere volgare, non è il nome in sé, è che tu hai paura di ammettere che è amore” centrò in pieno e glielo inchiodò nell’aria con tanto di dito rivolto alla sua direzione.

“Io non ho paura di niente” non sempre riusciva ad essere convincente quando lo diceva senza armatura, tra quattro mura domestiche, nel cuore della notte, nudo sopra ad un letto e per interlocutore aveva una donna che veramente non aveva paura di niente.

Tra loro due, nella vita di ogni giorno, era lui quello ad avere troppe esitazioni.

“Dimostramelo” lo sfidò allora Bulma “una volta tanto dimmi che vuoi fare l’amore con me”.

In risposta il suo sguardo si fece tremendamente vuoto, era come se si fosse estraniato dal contesto circostante, approdato in chissà quale luogo mentale alla ricerca di un ambiente più conforme alle sue esigenze, o forse era proprio lei che aveva smesso già di esistere.

Bulma vide la sua bocca vibrare impercettibilmente ma senza emettere suono, il petto sollevarsi con ritmo asmatico, una mano torcere il lembo del lenzuolo, la disperazione deformargli il volto.

Vegeta si guardò intorno ed il bagno gli parve troppo lontano.

Riuscì appena in tempo a sporgersi dal letto e a gettare sulla moquette un altro rigurgito.

 

FINE

 

 

 

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Capitolo 12
*** Episodio XII - Porno e cioccolata calda ***


“Convivendo in… capsule”

“Convivendo in… capsule

 

EPISODIO XII

 

 

Quanto dolce e quanto gustoso era sentire il sapore del sangue mescolarsi alla saliva!

Lo deglutì come una caramella balsamica, se lo buttò giù per la gola come un whisky corroborante in una serata d’inverno.

Vegeta restò a fissare quella punta di legno sporca di sangue che gli aveva trapassato la carne, tornò a leccarla senza vergogna mentre lo sguardo vagava ramingo nell’aria, si posava alla pari di una tremula farfalla prima sul tavolo di fronte, poi sul tappeto che aveva sotto i piedi scalzi, infine sulla finestra oscura, alla ricerca quasi di una via d’uscita che le membra ormai svigorite non gli avrebbero potuto offrire.

Il petto, che si sollevava con un moto lento, ebbe un fremito nel momento in cui il braccio si appesantì oltre il bracciolo del divano, quasi fosse stato un arto a sé stante, come una coda tranciata che ancora si contorce così il pugno chiuso ebbe ancora un palpito di vita e poi si sciolse.

Proprio lì sull’impiantito incominciò a raccogliersi una chiazza scura, la quale produsse un lugubre ticchettio, e alla pari di una serpe sbucata da un cespuglio scivolò piano nella penombra realizzata dalla lampada ed agguantò il margine del tappeto.

Non era mai arrivato a tal punto di disgusto per se stesso, ad una considerazione tanto infima della sua esistenza, aveva sempre pensato che i saiyan fossero nati soltanto per combattere e che combattendo avrebbero trovato la fine più degna, con la faccia nella polvere, gli occhi sbarrati, le budella da fuori: i saiyan  non morivano tra quattro mura domestiche, non si mettevano comodi su un divano come un vecchio decrepito.

Ora, il principe dei saiyan era simile a una balena arenata sulla spiaggia la quale non immagina quanto stretto possa diventare un oceano, quanta fallace sia la sua maestosità a confronto degli altri miseri pesci quando nuota e fa schiumare le acque.

Le balene muoiono negli abissi più profondi, il tonfo delle loro carcasse richiama gli altri pesci che accorrono veloci, allo stesso modo i saiyan si spengono sul campo di battaglia e la loro morte genera un’eco fino ai confini dell’universo, ma non sempre la natura segue schemi prefissi, a volte è come una donna volubile che prima ama un uomo e poi lo tradisce.

Vegeta avrebbe voluto morire alla maniera che più gli confaceva, ma ora non c’erano nemici, c’erano solo lui, il divano, quella chiazza scura che si allargava sul pavimento e la pioggia che scrosciava fuori senza sosta.

Eppure quanto piacevole era quel tepore che pervadeva le membra, quell’incoscienza che a poco a poco annebbiava il cervello e non gli faceva pensare alla sua miseria!

Voleva morire e sguazzava in quel desiderio come un bambino a piedi nudi che gioca in un putrido stagno, a tratti voleva risollevarsi ma era come se il fango si fosse già cementificato intorno alle ginocchia.

Il battito di ciglia sembrò definitivamente fermarsi quando un colpo assestato ai vetri della finestra lo fece tornare all’erta.

La sagoma apparsa gettò un’occhiata all’interno della stanza col naso schiacciato contro il vetro, poi tornò a bussare concitatamente prima contro la finestra, poi contro la porta in un disperato andirivieni:

“Apri! Ma che cosa stai facendo?” urlò Bulma che reggeva in braccio il piccolo Trunks “ti supplico, apri!” il pannello elettronico che apriva la porta automaticamente al riconoscimento dell’impronta digitale non rispose ai comandi, così la donna rovesciò tutto il contenuto della sua borsetta alla ricerca delle chiavi, mentre il bambino scalciava felice e osservava gli spiccioli e altre cianfrusaglie varie tintinnare sui gradini.

“Apri, ti ho detto! Mi senti sì o no?! Ma sei impazzito?!” la schiena era ricurva, il volto stravolto. Poco mancò che pure il bambino finisse a terra.

Vegeta restò immobile quasi fosse stato un elemento decorativo del divano, un altro inutile cuscino gettato lì sopra da scuotere ogni mattino al momento delle pulizie.

Quando Bulma riuscì a entrare da una porta secondaria collocata nel retro della villa e raggiunse la stanza, Vegeta si rigirò tra le dita lo stuzzicadenti e con la punta della lingua rimosse il grumo di sangue che era rimasto tra gli incisivi.

La donna e il piccolo Trunks erano fradici fino alle ossa, se il bambino sembrava divertito da quella situazione e scalciava con il pannolino inzuppato di pipì e di acqua, la donna gli avrebbe volentieri gettato contro la prima cosa capitata a tiro se fosse servita almeno a gonfiargli un occhio:

“Si può sapere perché non sei venuto ad aprirmi?” si avventarono addosso le sue domande senza scomporlo come uno sciame di vespe su un apicoltore “non mi dire che stavi dormendo, ho visto benissimo che avevi gli occhi aperti!”.

Bulma registrò la chiazza scura sul pavimento, notò anche la bottiglia con l’etichetta rossa riversa a terra:

“Sarai mica ubriaco?” lo squadrò con disappunto.

Allora Vegeta si sporse in avanti, raccolse la bottiglia di rum rimasta intatta al momento della caduta, la poggiò sul tavolino e ci mise sopra anche i suoi piedi:

“Mai stato più lucido”.

La donna allargò le braccia e altra acqua si raccolse ai suoi piedi, la mascella tremò per il freddo e le spalle tornarono a ingobbirsi: se non fosse stato per lo sguardo furioso, avrebbe fatto quasi pena poiché solo quello le era rimasto di riconoscibile e dignitoso.

“Non esistono più le mezze stagioni!” cambiò discorso “faceva caldo fino a poche settimane fa e ora guarda che tempo!” un nucleo di aria fredda spirava dai monti Paoz dalla notte precedente scacciando di prepotenza la stagione estiva.

Si avvicinò al camino e spinse un interruttore: come per incanto la legna al suo interno prese ad ardere con un’unica vampa.

Gli occhi vispi di Trunks danzarono insieme alle fiamme, le manine si allungarono quasi a volere afferrare quel prodigio mai visto e restò deluso quando si ritrovò nel buio soffocante della maglietta mentre la mamma gliela sfilava di fretta.

Alla fine restò nudo sul tappeto mentre Bulma usciva di corsa dal bagno più vicino con in mano l’asciugamano che l’avrebbe ancora una volta distolto dalla nuova attrazione:

“Cosa ti costava aprire la porta?” riprese la predica intanto che asciugava le carni paffute del bambino “se non per me, avresti potuto farlo almeno per tuo figlio!” i brividi di freddo non le fecero dare la giusta intonazione e alla fine sembrò solo un piagnucolio senza replica come un vecchio disco che s’inceppa e nessuno aggiusta.

Con una risposta assai eloquente il saiyan accese il televisore che aveva di fronte, ovvero l’elettrodomestico che egli reputava più inutile e fastidioso.

La donna si rialzò con un sospiro esasperato, gettò le scarpe in un angolo e sfilò i pantaloni infradiciati.

Le sue dita esitarono un istante sui bottoni della camicetta, si voltò in direzione dell’uomo che ascoltava le previsioni meteorologiche con la stessa attenzione con cui avrebbe ascoltato la sig.ra Brief parlare dei suoi fiori e dei probabili innesti, poi fece cadere a terra anche l’ultimo indumento.

Né malizia, né audacia accompagnarono quel gesto e neppure la forza dell’abitudine o la confidenza di due amanti, giacché niente di tutto questo era rimasto tra loro, piuttosto ci mise dentro una robusta dose di dignità e fermezza.

Solo quando Vegeta intuì che ella aveva finito, le lanciò un’occhiata e vide allora che aveva gettato sulle spalle la coperta di lana che suo padre aveva lasciato su una sedia dopo la pennichella pomeridiana consumata sul divano e che sedeva a terra insieme al bambino ad osservare il fuoco e a trarne altro beneficio.

Il fuoco cullava come una dolce nenia, più della mano materna che non smetteva di accarezzargli i capelli: lo aveva divertito col suo bagliore, con la sua danza irrequieta e lo scoppiettio a sorpresa, aveva lentamente bruciato la sua curiosità allo stesso ritmo di quel ciocco di legno massiccio che stava sotto gli altri e gli aveva appesantito le palpebre.

Alla fine Trunks, raccolto in uno scialle di lana, fu messo a riposare in una culletta che stava nell’angolo, lei invece con addosso la coperta a frange andò a sedersi accanto a Vegeta ed inchiodò il suo sguardo diritto alla televisione: mister Satan, ospite di un talk show nella fascia preserale del primo canale, raccontava per l’ennesima volta della battaglia contro Cell, metteva in scena insieme ai suoi discepoli le tecniche di lotta che avevano decretato la sua vittoria, ballava e cantava goffamente insieme a ragazze discinte in un tripudio di luci e di colori, acclamato come un dio sceso in terra, ridicolo quanto un vitello d’oro.

“Quattro settimane fa ho riparato la stanza gravitazionale come avevi chiesto (vedi Episodio IV n.d.a.), ora qual è il problema?” senza neanche guardarlo riusciva ad arrivare subito al dunque, lo sapeva trovare con l’abilità con cui un idraulico trova una falla nei condotti e col fastidio con cui un sondino scopre un nodulo alla gola.

Nella stanza si sentì solo il sospiro al rum di Vegeta quando il volume del televisore fu abbassato di colpo, eppure entrambi continuarono a tenere gli occhi piantati in quella direzione neanche avessero potuto trovare la risposta nei titoli di coda che scorrevano in sovrimpressione.

In verità, era tornato ad allenarsi non appena la camera era stata riparata, ci restava dentro tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio.

Ora, la questione non era tanto che l’allenamento non avesse più il ritmo frenetico di un tempo, che il nemico tanto odiato fosse morto, che gli ardori di prima si fossero spenti, che avesse acquisito una maggiore consapevolezza dei propri limiti, quello che non andava, e che lui non sapeva spiegare, era quella sensazione indefinita che lo assaliva quando smetteva di allenarsi e si chiudeva alle spalle lo sportello del trainer.

Che cosa era? Noia, apatia, depressione, insofferenza?

Avrebbe potuto smaltire questa frustrazione prolungando fino a notte fonda gli allenamenti, del resto era ciò che aveva fatto in attesa dell’arrivo dei cyborg, ma ora sapeva che non ne valeva la pena per tutte le ragioni suddette e francamente neanche aveva voglia di stramazzare al suolo per la fatica ogni sera.

Aveva ripreso ad allenarsi dopo un lungo periodo di sofferenza interiore, ma lo stava facendo nella giusta dose e sentiva che questo faceva bene al suo organismo, eppure non bastava a farlo stare meglio.

La verità era che non stava soffrendo il saiyan, era l’uomo che c’era in lui che si era risvegliato e guaiva allo stesso modo di un sopravvissuto sotto le macerie che scava invano con le unghie e mangia solo polvere.

Non riusciva a vedere lo spiraglio di luce e seppure lo avesse trovato sarebbe stato troppo debole per sollevarsi con le proprie forze.

Era come le radici non ancora consolidate di un arbusto appena piantato, era come il cemento non ancora impastato e solidificato: l’essenza esisteva ma qualcos’altro doveva plasmarlo.

“Su questo pianeta non c’è niente da fare” commentò piatto.

 “Se ti riferisci alla possibilità di distruggerlo, conquistarlo e vendere la popolazione… direi di no… non c’è molto da fare” avrebbe voluto essere ironica ma quella dichiarazione rimbombò come le campane di un funerale.

“Lo so” sibilò senza espressione.

Allora Bulma esaminò meglio la postura delle braccia che non erano intersecate come era sua abitudine ogni volta che stava fermo ma cadevano in grembo con pesantezza, pure lo sguardo, sempre assorto e profondo quando non era irrequieto, adesso era perso nel vuoto.

Bastò quella posa anomala per farle dedurre l’origine del suo problema, poi fece schioccare la lingua sotto il palato quasi a trovare la frase giusta:

“Non è che su questo pianeta non c’è niente da fare, anche noi terrestri ci annoiamo e ci deprimiamo, talvolta basta molto poco, sono stati d’animo normali, più o meno passeggeri o pensavi forse di esserne immune?” dal silenzio del suo interlocutore pareva essersi levato un responso affermativo.

“Anch’io vorrei avere il tempo di annoiarmi e invece non ne ho…” così prese a elencare tutto quello che aveva fatto dalla mattina, tra le pappe e i pannolini del bambino, il collaudo di un nuovo elettrodomestico da piazzare sul mercato, l’incontro con i pubblicitari, la conferenza abbozzata sul p.c. che avrebbe dovuto tenere fra solo due giorni, la spesa al supermercato all’angolo, l’acquisto dei biglietti per l’inaugurazione di un nuovo centro commerciale per suo padre e sua madre che si sarebbe tenuta quella sera stessa…

Piantala” la zittì senza tanti complimenti.

Lei si passò una mano tra i capelli ancora umidi:

“Forse potresti incominciare a trovarti un diversivo, un passatempo quando finisci di allenarti. I terrestri vanno in palestra quando finiscono di lavorare, ma questo non è il tuo caso visto che già trascorri così il tuo tempo. Il giardinaggio, i circoli ricreativi, la beneficenza non ti si addicono…” ed intanto il tono si alzava su un registro più nevrotico come il secondo tempo di una sinfonia “magari potresti darmi una mano in laboratorio, oppure potresti preoccuparti di tuo figlio tanto per dire” puntualizzò senza più alcuna ironia.

In risposta lo vide protendersi verso il tavolino e scolarsi quell’ultimo sorso di rum rimasto nella bottiglia.

Era così umano in quel comportamento che non riusciva a credere ai suoi occhi, sarebbe rimasta meno sbalordita se l’avesse visto raccogliere dei fiori in giardino, perché almeno in quel caso avrebbe potuto pensare che fosse impazzito.

“Credi che bere sia una soluzione?”

“E tu credi possa stordirmi questo?” gli fece da eco.

Bulma chiuse gli occhi quando sentì la bottiglia sfiorargli l’orecchio e infrangersi nel camino dove ravvivò la fiamma.

Pure il piccolo Trunks sbarrò gli occhi e poi tornò a chiuderli mettendosi un dito in bocca.

Bulma si strinse nella coperta poiché nella stanza calò il gelo, restò a fissare le dita dei piedi divenute violacee tanto erano fredde e comprese, mentre le sfregava, che rinfacciargli le sue mancanze non gli sarebbe stato d’aiuto.

Allora si diede una pacca sulle gambe e si alzò:

“Quando si è depressi, non c’è niente di meglio che mangiare un po’ di cioccolata, anzi bere una bella tazza di cioccolato caldo!” si avviò verso la cucina e i piedi tornarono a raffreddarsi a contatto con l’impiantito.

Con la coperta gettata sulle spalle sembrava da dietro una specie di supereroe imbranato che saltellava di qua e di là.

“Io non sono depresso!” ribadì Vegeta con ritrovata fermezza.

“Va bene” accondiscese per farlo contento mentre regolava la macchinetta “diciamo allora che fa bene a chi non ha il morale alle stelle”.

Fece ritorno con una ciotola da latte piena di cioccolato e con una tazzina da caffè, pose il vassoio sul tavolino e afferrò tra le dita la porzione più piccola.

L’aroma del cioccolato si mescolò con quello del rum esalato dalla chiazza rimasta ai piedi del divano.

Vegeta la osservò centellinare la bevanda, stringere la tazza per riscaldare l’estremità delle mani, vide anche che la coperta era caduta da un lato lasciando nuda una candida spalla.

“Bevi, altrimenti si raffredda” gli sorrise mostrando una fila di denti ormai nera.

Nessuno dei due fiatò e neanche si guardarono, ciascuno assorto nei propri pensieri dava l’impressione di vedere qualcosa di scritto nel fondo della tazza anche quando non ci rimase più nulla.

Vegeta alzò la testa solo nel momento in cui un fazzoletto di carta fu sventolato sotto il suo naso:

“I baffi non ti stanno bene” rise lei intanto che la coperta scendeva con innocenza anche dall’altra spalla “forse in futuro ma ora ti invecchiano”

“Guardati tu fece lui di rimando gettandola nel panico.

Bulma afferrò un altro fazzoletto di carta e lo strofinò vigorosamente sulle labbra senza trovare traccia:

“Ti stai prendendo gioco di me?”.

Con uno scatto del mento le fece capire che doveva andare più su e così scoprì una striscia di cioccolato proprio in prossimità della punta del naso.

Di nuovo il suo corpo sussultò sotto la coperta in un’allegra risata che non lo contagiò ma stranamente neanche gli diede fastidio.

“Sono proprio impresentabile” piagnucolò strofinando gli occhi e vedendo che la pioggia le aveva sciolto pure il mascara.

Non seppe per quale ragione le venne da fare quella domanda, forse perché lui era lì accanto e la stava osservando con un piglio indecifrabile:

“Mi trovi… mi trovi ridotta veramente così male?”.

Lui tornò a fissare la televisione costretta nel frattempo al silenzio: pareva che Mister Satan stesse sbraitando al microfono per fargli alzare il volume guardandolo diritto negli occhi.

Bulma colmò quel vuoto ingombrante con un altro dei suoi guizzi improvvisi:

“Bene, quando è sera e fuori piove, dopo aver bevuto una bella tazza di cioccolato caldo, non c’è niente di meglio da fare che guardare la televisione e vedere se danno un buon programma” aveva il tono di chi stava impartendo delle lezioni di vita a un giovane infermo appena risvegliatosi dopo lunghi anni da un coma irreversibile “almeno questo è quello che fanno i comuni mortali per ingannare il tempo quando non hanno altro da fare. Del resto neanche si può pretendere di essere attivi ventiquattro ore su ventiquattro!”.

Vegeta aveva l’espressione di chi si stava intrattenendo dall’incenerirla.

Al saiyan non importava un bel niente di come i terrestri passassero il loro tempo libero, ma l’uomo che era in lui, almeno in quel momento, non disdegnava la compagnia di quella terrestre, non fosse altro per l’ottima cioccolata che gli aveva preparato e per quella spalla scoperta, senza omettere il dettaglio che di meglio non aveva niente da fare.

Se poi si aggiungeva il fatto che fosse la madre di suo figlio e che per lei provasse un’attrazione fisica che la separazione non aveva spento, era cosa normale che egli restasse piantato sul divano, la tollerasse e le lasciasse prendere in mano pure il telecomando.

Sullo schermo passarono in rapida sequenza la faccia di Mister Satan, un cartone animato, ancora la faccia di Mister Satan, una pubblicità di merendine, le farfalline grigie ed ancora la faccia di Mister Satan che sponsorizzava un detersivo:

“Non se ne può più di lui!” commentò Bulma “giurami, Vegeta, che se proprio un giorno dovessi svegliarti con la voglia di fare del male a qualcuno andrai da lui”.

L’altro sogghignò:

“In tal caso, sarei ridotto veramente male”.

Ancora una volta Bulma si alzò, si sistemò la coperta sulle spalle e si avvicinò al televisore:

“Se non trasmettono nulla di interessante…” riprese di nuovo quel tono da maestrina “si può ricorrere sempre ad un dvd” si piegò sulle gambe e si mise a cercare nel mobiletto sottostante tra una ventina di dischetti.

“Uhm… sembra intrigante!” esclamò senza molta convinzione sventolando una delle custodie “un film sugli alieni venuti a conquistare la Terra, un epico scontro tra due mondi lontani…” citò la didascalia con tono volutamente impostato.

Vegeta non aveva ancora idea di come quella giornata sarebbe finita, forse avrebbe disintegrato il televisore o fatto saltare in aria l’intera abitazione ma intanto la lasciò fare.

Quando la donna accese il lettore si accorse che era già occupato da un altro dvd, lo avviò per accertarsi che fosse proprio il film in questione visto che la custodia che aveva tra le mani si era rivelata vuota.

Non fu subito chiara l’inquadratura, ma, man mano che lo zoom si riduceva, la sua mascella vibrava sempre più forte e alla fine cadde come se si fosse slogata dal resto della faccia.

L’impianto stereo diffuse nella stanza i gemiti di un amplesso e le immagini sullo schermo erano talmente esplicite da sembrare di assistere ad un’esibizione dal vivo:

“Stavi… stavi guardando un… un porno?!” si voltò verso l’uomo che sussultò colto alla sprovvista “come ti permetti in casa mia… qui, proprio in questa stanza, alla mercé di tutti, ed io che pensavo tu fossi diverso da tutti gli altri uomini!” gli lanciò contro prima la custodia del dvd e poi il telecomando che non lo scomposero di un centimetro.

“Avanti, piantala!” disse seccato “non sono l’unico uomo che sta in questa casa!”

Bulma ebbe bisogno di qualche secondo per capire a chi si riferisse:

“Vuoi dire che… che lo ha guardato… mio padre?” balbettò.

“Lui, tua madre… che vuoi che ne sappia!” scrollò le spalle “io no e di certo neppure il bambino!”.

L’espressione di Bulma cambiò colore come l’acqua mescolata col vino e scoppiò in una risata che la fece piegare letteralmente in due.

Alle sue spalle scorrevano ancora immagini sconce.

Singhiozzando riuscì ad arrivare fino al divano dove recuperò il telecomando:

Ma non funziona!” esclamò travolta da un’altra risata che la gettò a terra alla maniera di un cavallone in riva al mare “come… come si spegne?” incominciò a premere alla cieca qualsiasi tasto intanto che i due protagonisti cambiavano posizione come due contorsionisti.

A quel punto pure l’inossidabile principe dei saiyan aveva sulla faccia un’espressione divertita, tanto rara questa era che sembrava tutto ad un tratto trasfigurato.

Anche quel peso senza misura che si portava dietro sembrava essersi alleggerito, l’oceano spalancato davanti ai suoi occhi, il fango intorno alle ginocchia deterso, ma non avrebbe mai e poi mai riconosciuto che la via d’uscita, anche solo transitoria, potesse trovarsi su quel divano, in una cioccolata calda, in una sera di pioggia a guardare la televisione, in una spalla nuda, in una sciocca risata.

Dove erano il sangue, i lividi, l’affanno, il sudore, il dolore, la morte?

Dove erano il nemico e il campo di battaglia?

Se ne stava in un salotto col camino acceso, la pioggia che batteva contro i vetri, con una donna raccolta in una coperta di lana che gli stava togliendo il fiato, con suo figlio che dormiva nella culla… eppure non provava vergogna.

“Smettila! Smettila di guardare quella robaccia!” gattonò senza forze fino al televisore e pigiò trionfante il pulsante rosso.

Aveva ancora l’ombra svanente di quelle risa quando sfiancata si rigettò sul divano.

Ormai la coperta le avvolgeva soltanto il corpo lasciando nude le spalle, si era messa su di un fianco e con un braccio reggeva il capo arruffato:

“Beh… ognuno ha i suoi svaghi, come vedi”.

Vegeta non riusciva a toglierle gli occhi da dosso.

Quando ella percepì sulla pelle quel campo magnetico instaurato tra loro, subì quell’indagine col capo basso e con una tensione che si sarebbe potuta affettare, tanto che le mancò il respiro nel momento in cui lui allungò il braccio e fece scivolare la coperta.

Non un’altra goccia in più bagnò i vetri della finestra che lui si avvicinò flessuoso costringendola a distendersi.

Bulma non ricordava più quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che erano stati così vicini, ciò nonostante trovò chissà dove la fermezza di fissarlo negli occhi e di precisare:

“Io non sono il tuo svago, Vegeta”

“E che cosa saresti?” si mise a osservare le sue labbra.

“Io sono la madre di tuo figlio”

“E con questo?” sarebbe suonato troppo duro se non fosse andato a mettere la lingua nell’incavo della spalla.

“Voglio che torniamo a stare insieme” si aggrappò alle sue spalle e strinse le gambe intorno ai fianchi quasi con disperazione.

“Mi pare che lo stiamo già facendo” mormorò sfilandosi con impazienza la maglia.

“Ma non voglio che sia solo un passatempo qualunque” ribadì con affanno mentre l’altro faceva scendere la mano.

Lui allora sembrò pensarci un istante su prima di ritornare a sentire il profumo del suo petto:

“Puoi stare tranquilla, non intendo avere passatempi di alcun genere su questo pianeta”.

 

 

FINE

 

 

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Capitolo 13
*** Episodio XIII - La delicatezza di un saiyan ***


“Convivendo in… Capsule”

“Convivendo in… Capsule”

 

Episodio XIII

 

 

Una legge di natura vuole che, per assolvere certe funzioni, le gambe di una donna debbano essere divaricate.

Non si sarebbe donna, altrimenti.

Di più. Il mondo si fermerebbe se le donne non potessero più aprire le gambe.

Talmente congenito è starsene con la schiena riversa e le cosce allargate che pare quasi che una donna non sia nata per stare in piedi e camminare.

Questo penserebbe un alieno se, giunto sulla Terra, vedesse una donna giacere a quel modo.

Di certo, credendola una sorta di rettile strisciante, perfettamente autonomo e a suo agio, concluderebbe che la natura umana è completa e perfetta anche così.

Non si spiegherebbe, altrimenti, del perché non si provi imbarazzo, in particolare ad una certa età e dopo certe esperienze, a stare davanti ad uno sconosciuto con le mutandine sfilate, le cosce allargate e la stessa disinvoltura di un neonato al momento del cambio del pannolino.

In quei momenti, il pudore delle donne, si potrebbe dire, è calpestato da chi le sta di fronte.

Se Bulma spostò il mento e fissò gli occhi su un punto imprecisato della parete asettica e bianca non fu per quel senso di pudicizia, ormai perduto, ma solo perché non era certa che l’uomo che le stava davanti avrebbe continuato a credere alle sue parole.

Dunque, signora, lei è sempre convinta che si sia trattato di un incidente?”, domandò questi, alla fine, sfilandosi i guanti di lattice sporchi di sangue.

“Sono finita contro uno spigolo mentre ero nel mio laboratorio. Mi pare di averlo già spiegato. Prima di andarmi a coricare, mi sono recata lì per accertare di aver spento i computer. Era buio e non mi sono resa conto dell’ostacolo”.

Il medico ripose gli strumenti di sutura sul tavolo accanto e tornò a rivolgerle la sua faccia di cagnolone dalle orecchie grosse. A quell’ora della sera, prossimo a concludere il suo turno, aveva le palpebre appesantite, gli occhi stanchi ed iniettati di sangue, ma era disposto ad avere ancora pazienza.

A terra, i pantaloncini sporchi sembravano essere stati colti da un flusso mestruale improvviso.

“Signora…”, insistette quasi con premura, togliendosi gli occhiali e massaggiando il naso rincagnato con due dita grosse e pelose “io temo, invece, che lei abbia subito un’aggressione e per qualche ragione si vergogna di denunciare l’accaduto. Se io la metto a disagio, esiste uno staff competente con cui sarà libera di parlare. Mi permetta di aiutarla”.

“Ma che idiozie va dicendo?”, replicò l’altra, dimenticando i punti di sutura e provando a scendere dalla barella con l’euforia scattante di sempre.

“Signora, per carità, lei così riapre la ferita! Con calma, con calma!”, la redarguì, facendola tornare a distendere con una zampata quasi paterna.

“Sto benissimo, invece!”, rialzò la schiena ostinata l’altra.

“Aspetti che finisca l’effetto dell’anestesia per dirlo”, si asciugò la fronte sudata con un fazzoletto stropicciato che tirò dal camice bianco.

“Non sono stata aggredita. Le pare che io abbia la faccia di una donna che è stata aggredita?”.

Dalla grinta che sprigionavano i suoi occhi, dalla mascella decisa e serrata si sarebbe detto che era stata lei ad aggredire qualcuno. Le unghie laccate di rosso erano affilate alla stregua di un set di taglierini.

Eppure era giunta, da sola, in ospedale alle 23.17 col pigiama sporco di sangue e il volto sbiancato più di un lenzuolo.

A quel punto, il dottore tornò a sedersi di fronte a lei e per armarsi di altra pazienza prese ad accarezzarsi i baffi ispidi da cagnolone mezzo addormentato appena riemerso dalla cuccia.

“E allora per quale ragione il tampone ha evidenziato tracce… ehm… di sperma?”.

Bulma si limitò soltanto a sbattere una palpebra in più del dovuto prima di raccontare, senza mezzi termini, di aver avuto un rapporto con suo marito proprio poco prima dell’incidente.

A quel punto, il cagnolone si arrese, afferrò la cartella medica, estrasse una penna dal taschino e fece dei ghirigori sulla carta.

“Applichi questa pomata due volte al giorno. Domani starà già meglio. La chirurgia ha fatto passi da gigante. La prossima volta faccia più attenzione. Ehm… le raccomando un periodo di riposo di almeno venti giorni… ha capito a cosa mi riferisco?”.

“Può starne certo…”, sibilò Bulma torvamente, recuperando i pantaloncini inzuppati di sangue.

“Le suggerisco di chiamare suo marito e farsi venire a prendere”, fece turbato e, tuttavia, poco convinto di averle consigliato la cosa giusta.

Ma l’altra rispose di essere perfettamente in grado di ritornare a casa da sola.

La donna che azionò l’aircar imbrattato di sangue, estratto da una capsula tirata dalla borsa, non era più la stessa paziente indisciplinata e ribelle, giacché aveva lasciato tutta la baldanza e le menzogne sull’impiantito a scacchi dell’ospedale, tra gli sguardi interrogativi di un inserviente e dell’infermiera di turno allo sportello.

Man mano che si approssimava la cupola della Capsule Corp., immortalata nell’istantanea abbagliante di un fulmine, la spina dorsale si curvava in avanti e la frangetta sulla fronte pesava più di una corona estratta dal marmo.

Anche le unghie laccate di rosso, tremolanti e nervose intorno al manubrio, sembravano volersi spezzare ad una manovra più brusca.

Il corridoio di casa restituì il suono di un passo stanco e trascinato, interrotto solo dallo scricchiolio di un mattoncino di plastica sotto la scarpa a metà della scala.

Trunks era nell’età giusta per sparpagliare i propri giocattoli ovunque andasse; e proprio quel mattino il nonno aveva dovuto estrarre uno di quei mattoncini colorati dallo scarico del water. Non c’era da stupirsi se la nonna aveva cucinato uno di questi mattoncini insieme all’arrosto di tacchino giusto una settimana prima.

Entrare nella sua stanza equivalse pressappoco ad assistere alla scena di un omicidio, con una chiazza di sangue che imbrattava il centro del letto, una scia tracciata sulla moquette in direzione del bagno e un mucchio di fazzoletti di carta.

Non c’era impronta di chi avesse compiuto quel misfatto: la scientifica non l’avrebbe trovata di certo sul kit di pronto soccorso estratto d’urgenza dall’armadietto del bagno, né sull’abatjour dimenticata accesa o sul libro caduto ai piedi del comodino.

Solo un esame più attento della biancheria avrebbe rivelato qualche indizio, ma neppure sarebbe stato attendibile, preso atto che il letto veniva rassettato con le stesse lenzuola a pois rosa già da tre giorni.

Bulma uscì da quella stanza, dopo venti minuti, con un pigiama pulito di taglio maschile ed una mantellina di lana gettata sulle spalle.

Con passo trascinato e cauto, calpestato l’ennesimo mattoncino colorato disseminato da suo figlio, raggiunse la cucina alle ore 00.53; e fu allora che si imbatté nell’assassino.

Presunto o tale che fosse, questi si ritrovò a schermarsi gli occhi quando la penombra del soggiorno fu agguantata dai led posizionati proprio sul divano, ai piedi del quale se ne stava seduto occultato.

Stanata la belva, niente affatto assopita, e trascorso l’istante in cui i loro sguardi si incrociarono per poi deviare ciascuno in direzione opposte, il più lontano possibile l’uno dall’altro, Bulma si avviò ai fornelli, mise una tazza nel microonde e infuse una bustina di tiglio e camomilla. A dispetto della dieta e delle creme rassodanti, aggiunse tre zollette di zucchero oltre la dose normale.

Il tintinnio del cucchiaino sul bordo fumante della tazza servì a riempire il silenzio che ingombrava tutta la stanza.

Senza osare sedersi, giacché sentiva di avere la stessa libertà di movimento di uno dei suoi robot, si limitò ad appoggiare un fianco contro il tavolo snack della cucina.

Da quella posizione aveva una visione chiara di tutto l’ambiente, compreso il profilo dell’alieno rimasto seduto sul tappeto con una gamba allungata ed un’altra contratta.

Non aveva avuto il tempo di assuefarsi alla luce che lo sguardo era rimasto intrappolato tra gli schizzi astratti del grosso dipinto appeso sul camino.

Il ritratto in questione, acquistato ad un’asta di beneficenza senza pretese, occupava la parete del camino fin dalla prima volta in cui aveva messo piede in quella casa; ma adesso, ad una visione distorta, accadde che il nero, il viola prugna, il blu metallico, incominciassero a soffocarlo; il verde cobalto, il rosso carminio lo stordissero; il giallo lo accecasse, e il turchese… neppure riuscisse a guardarlo.

Solo nella pennellata di acquamarina trovò una tregua e lì inchiodò le pupille.

Era Bulma ad avere la situazione in mano, questo era chiaro, il potere assoluto di smuovere il silenzio, di spostare le cose, di produrre calore, di scuotere l’aria.

Da dove attingesse questo dominio era cosa sconosciuta, forse dal fastidio e dal bruciore che si risvegliavano tra le cosce e si diramavano fino alle unghie laccate di rosso.

Lo smalto adesso scintillava di nuovo.

Né il tiglio e la camomilla, né qualsiasi sedativo presente in natura e neppure la sigaretta, frattanto accesa, le avrebbero impedito di aprire bocca e di fargli sapere:

“La prima cosa che ha pensato il medico, quando mi ha vista, è stata che io avessi appena partorito. Non è un caso che abbia avuto gli stessi punti di sutura di quando nacque nostro figlio quasi quattro anni fa”.

La pennellata di acquamarina incominciò a trascinarlo verso un fondale sempre più scuro e melmoso; e così Vegeta spostò lo sguardo sul tappeto, lasciandosi avviluppare questa volta nella giungla geometrica del tessuto.

Il suo cuore produsse un sottofondo di tamburi. Non sembrava fatto, forse, di cuoio tanto era duro?

Allora, poteva eseguire anche il ritmo di una danza selvaggia!

“La seconda cosa che ha pensato…”, continuò l’altra imperterrita, calibrando con estrema precisione mezza dose di sarcasmo con un’altra di veleno, “…è stata che avessi subito un’aggressione”. Aspirò una sana boccata di fumo. “Sono quasi scoppiata a ridere. Come facevo a spiegargli che mio marito, il quale viene da un altro pianeta e che con un solo dito può disintegrare una galassia intera, mentre facevo l’amore con lui in tutta tranquillità, ha sgarrato quel tanto che bastava per mandarmi all’ospedale?”.

Piantala!”.

Il rullo di tamburi cessò all’istante e nel sangue restò solo l’adrenalina di quella danza selvaggia.

Uscito dalla giungla geometrica del tappeto, fu libero finalmente di mettere a fuoco il suo interlocutore.

“E’ stato un incidente”.

“Dove si è mai sentito che gli incidenti accadono mentre si sta sdraiati comodamente su di un materasso? Qui sulla Terra non succede e le tue parole non mi sono di alcun conforto. Che vuol dire che è stato un incidente? Ti stai, forse, giustificando? Ci mancava solo che lo avessi fatto con intenzione!”.

La mantellina di lana era ormai scivolata a terra.

“Sarebbe stato di gran lunga meglio!”.

Sì, lo aveva detto finalmente e nel modo più incisivo che poteva, lasciando una volta per tutte la giungla nella quale si era riparato e portandosi davanti a lei con la fierezza incontrastata di una tigre.

A Bulma non restò altro che spegnere la sigaretta nel posacenere, non senza avergli lasciato intendere, grazie alla freddezza con cui compì il gesto, che sarebbe stata lieta di strofinargliela su una ferita aperta.

“La colpa è soltanto tua”, soggiunse il saiyan, affilando la sua espressione più diabolica. “Possibile che tu non te ne sia mai resa conto? Dovresti sapere che, ogni volta che vieni a letto con me, sfidi la sorte, ma, evidentemente, ti piace così tanto che accetti il rischio. Io sono un saiyan e tu soltanto una debole terrestre: sono io che ogni volta ti lascio in vita”.

“Questa è davvero bella!”, scosse le spalle con una risata farneticante. “In tutti questi anni, mi sono accorta di essere andata a letto con una bestia soltanto quando stasera sei scappato via e mi hai lasciata a sanguinare da sola!”.

Vegeta emise un grugnito da tigre frustata e le voltò la schiena.

Una sensazione di disagio ed inadeguatezza si fece strada negli anfratti aggrovigliati ed ombrosi di quel suo cuore selvatico nel momento in cui si accorse che certi deliri di onnipotenza lasciavano oramai un retrogusto senza sapore.

Aveva bevuto un gustoso nettare di vino senza averne tratto alcun piacere, piuttosto uno strano malessere si era concentrato alla bocca dello stomaco.

La verità, paradossalmente difficile da ammettere, era che non aveva voluto farle del male con intenzione, non certo quella sera, non in quella stranissima giornata di inizio primavera.

Si era accorto quanto nell’aria ci fosse qualcosa di diverso quando, verso il tramonto, ultimata la sessione pomeridiana dei suoi allenamenti, si era portato sulla terrazza più alta della Capsule Corp.

La brezza fragrante recava un profumo di mandorli in fiore: di quanti pianeti avesse visitato mai aveva sentito un aroma tanto buono.

La sua indole insensibile alla bellezza della natura si era concentrata sul mandorlo piantato in giardino, a margine del ciottolato che conduceva ai laboratori, e aveva rammentato che, l’ultima volta che lo aveva osservato dalla finestra della sua stanza, appena qualche giorno prima, era scheletrico e senza vita.

Tra lande gelide o riarse, attraversate ai confini delle galassie, aveva pensato, un simile miracolo non si sarebbe mai generato, o meglio, sarebbe stato più facile vedere spuntare un germoglio piuttosto che egli si fosse soffermato a considerarne la straordinarietà.

Allora, cosa c’era di diverso quel giorno?

Non era la prima stagione fiorita che trascorreva sulla Terra, ma la sensazione di benessere trasmessa dall’aria fragrante, dal mandorlo in fiore, dalle cime frastagliate dei monti Paoz in lontananza, talmente nitide da poter scorgere persino i vapori generati dalle grandi cascate, sapeva quasi di prodigioso, e i prodigi, si sa, sono tali quando si manifestano in modo spontaneo: le sue mani non avevano ucciso nessuno, la sua bocca non aveva sputato sangue, i suoi piedi non avevano calpestato rivali.

Non si accorgeva Vegeta che quel benessere veniva da dentro di lui e poco importava che fosse perituro come le foglie di un albero: a cicli alterni il suo cuore iniziava a conoscere nuove stagioni.

Neanche l’arrivo di Bulma aveva sconvolto quella quiete.

Toniche, bianche, lisce: era ritornata a scoprirsi le gambe.

La sua presenza non discordava affatto con l’atmosfera circostante, al contrario, ne delimitava meglio i contorni, concentrando quella stranissima sensazione di appagamento in un unico punto.

Kakaroth, tutto sommato, poteva quel giorno restare pure all’inferno!

Dunque, Bulma gli aveva portato un vassoio zeppo di biscotti.

L’aveva guardata con sospetto, perché dalla madre della suddetta - benché a lui poco importassero certe informazioni - aveva saputo che per tutto il giorno non era uscita dal laboratorio.

Che fossero, forse, fatti di plutonio, di zinco, di mercurio?

Invece, seppe che l’oggetto delle sue ricerche era proprio un nuovo robot da cucina: un robot vero e proprio, con gambe e con braccia, in grado di cucinare qualsiasi pietanza.

“Assaggia”, aveva esibito con trepidazione.

“Poco zucchero”, aveva farfugliato ingerendone cinque in un solo boccone.

“Evidentemente è un robot che ci tiene alla linea…”, aveva concluso, scoppiando a ridere.

Non tutte le ciambelle, tanto per restare in tema, riescono col buco, e l’umanità intera poteva anche fare a meno di questa invenzione!

La fragranza del mandorlo aveva stuzzicato anche il suo olfatto, perché il nasino eccentrico e vivace si era mosso per indovinarne la sorgente e, scorto l’albero, aveva sorriso di chissà quali ricordi.

Neppure l’arrivo di Trunks, intento a minare l’incolumità del micio nero del nonno, correndo, senza sosta, per tutta la casa, aveva guastato la serenità di quel tramonto di primavera: quando il gatto si era intrufolato nel canale dell’acqua piovana, Trunks, ignaro di poter far ricorso ad una dote ereditata dal padre, aveva divelto la conduttura con un naturale incremento dell’aura.

Sì, era stata proprio una piacevole giornata di inizio primavera, talmente strana che, intorno alle 22.45, Vegeta si era ritrovato per la prima volta ad indugiare davanti alla porta della stanza di Bulma.

In genere, era la donna ad invadere i suoi territori, ma quella sera non lo aveva fatto, né gli aveva lanciato un segnale per fargli intendere che, dopo aver messo Trunks a letto, sarebbe stata lei ad aspettarlo.

Non era raro che, un po’ per pigrizia, un po’ per ricordargli dell’esistenza di quel piccolo angolo di casa, si servisse di allusioni del tipo “stasera ho i piedi talmente gonfi che credo proprio che andrò in camera mia e non ne uscirò fino a domani”, oppure “dalla finestra della mia stanza vedo uno strano segno nel cielo, non è che potresti passare e dirmi se si tratta di una stella o di un pianeta?”.

Stava al principe dei saiyan interpretare certi messaggi: talvolta li ignorava di proposito e altre volte, pur fiutando l’esca, si lasciava adescare come un pesce nella rete.

Ora, passasse pure una vita intera, Vegeta avrebbe conservato sempre una certa timidezza da alieno venuto da lontano.

L’audacia che aveva ostentato con Bulma nei loro primi incontri intimi era stata solo una delle tante armature sfoggiate all’occorrenza, ma Vegeta, a parte le volte in cui era necessario ristabilire il suo primato, era uno per il quale il primo passo rappresentava uno sforzo sovrumano.

Perciò, il principe dei saiyan si era ritrovato a temporeggiare fuori la stanza della consorte con un’esitazione più degna della prima volta, grattando la fronte stempiata, e persuadendosi che fosse solo una questione di ormoni eccitati da risolvere al più presto.

Tutta colpa di quella stranissima giornata!

Alla fine, era entrato e l’aveva trovata già a letto.

A Bulma era bastato togliere gli occhiali e poggiare il libro sul comodino.

“Tesoro…”, aveva mormorato, scostando la coperta.

Cacciato ogni riserbo e interessato a ribadire a sé stesso la propria superiorità di principe dei saiyan, Vegeta si era fatto spazio sistemandosi direttamente sopra di lei.

Il languore delle carezze e dei baci, le esplorazioni audaci, la luce soffusa dell’abatjour, il piacere, le lenzuola di cotone a pois rosa, l’acquazzone improvviso contro i vetri della finestra, i gemiti crescenti, le mani intrecciate, le pressioni più efficaci, il cigolio della rete, e improvvisamente un urlo di dolore, lo sguardo atterrito, un tuono rimbombante su tutta la Città dell’Ovest.

Per spostarlo da sé, Bulma gli aveva mollato un ceffone:

Ma cosa… cosa mi hai fatto?”, era scoppiata a piangere alla vista della chiazza di sangue che si allargava sulle lenzuola.

Solo adesso, dopo aver vagato nel buio del soggiorno, valicato immagini astratte e giungle geometriche, Vegeta trovò una spiegazione, o meglio, ammise ciò che aveva intuito fin dall’attrito insignificante e pure oltraggioso della mano di Bulma contro la sua mascella.

Un saiyan che va a letto con una femmina terrestre o è un saiyan che ha voglia di trucidare qualcuno, e in questo caso sarebbe, comunque, un saiyan frustrato perché è da altre battaglie che egli dovrebbe trarre godimento, o è un saiyan che scende a molti compromessi con stesso.

A causa di quella fottutissima giornata, che della primavera era l’imitazione peggio riuscita,Vegeta aveva smarrito il compromesso più essenziale.

Mentre il temporale imperversava fuori, trascinando ogni profumo di albero in fiore diritto nelle fogne, con un movimento cauto, Bulma, recuperò da terra la mantellina di lana e se la rimise sulle spalle.

“Mi dispiace, mi sono soltanto distratto…”.

Ora, non importava che lo avesse mormorato a denti stretti, facendo sbiadire le nocche delle mani, o che il pomo d’Adamo sembrasse un boccone ingerito di traverso, tanto era sporgente e duro.

Era la prima volta che diceva “mi dispiace”.

Ma il bruciore della sutura era troppo martellante perché Bulma si soffermasse a ragionarci sopra.

“Come sarebbe a dire che ti sei… distratto? Non puoi permetterti di distrarti! Le tue distrazioni possono costarmi care! Io sono una donna delicata!”, ci tenne a ricordargli. “Neanche la prima volta sei stato così… maldestro!”.

La serenità di quel tramonto, il senso di appagamento sperimentato in modo insolito sulla terrazza, lo avevano rilassato al punto tale che egli aveva trascurato ciò che non trascurava mai:

“Ho soltanto dimenticato per un istante di essere un saiyan…”, disse assai significativamente, prima di mandarla al diavolo, “e scusami se è poco!”.

 

 

FINE

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Episodio XIV - Mandorle e cocco ***


“Convivendo in… Capsule”

“Convivendo in… Capsule

 

Episodio XIV

 

Aqua, Sodium Laureth Sulfate, Parfum, Sodium Laroyl Glutamate, Sodium Chloride, Disodium EDTA, 2-Bromo-2 Nitropropene-1,3-Diol, Phosphoric Acid, Citric Acid, Citronellol, Coumarin, Eugenol, Limogene, Linalool.

 

E le mandorle?

Le avevano raccolte dagli alberi, sgusciate una dopo l’altra e tritate insieme al cocco?

Come facevano a montare tanta schiuma bianca?

Da quando aveva piantato le proprie tende sulla Terra – si fa per dire, giacché, se non fosse stato per l’invito di un avvenente esemplare del posto, gli avrebbe fatto da tetto la chioma di un albero - Vegeta si stupiva delle cose più elementari: non del fatto che gli elicotteri e i jet potessero entrare comodamente nel taschino laterale di una borsetta, né della capacità dei terrestri di prevedere il sole o la pioggia; e neppure della ricerca scientifica e tantomeno dell’arte.

Bazzecole!

Aveva trovato più interessante, tanto per fare un esempio, la moka del caffè.

Erano occorsi almeno quattro anni di permanenza sulla Terra per accorgersi di quell’arnese che borbottava sui fornelli, ma quando aveva scoperto che proprio da lì si diffondeva, di buon mattino, quell’aroma capace di stimolargli l’appetito e dargli una carica in più, l’aveva fatta entrare nel limitato raggio della sua considerazione: poco importava che l’avesse afferrata con le mani nude, rovesciandone il contenuto bollente e imprecando bestemmie.

Alla base orbitante di Freezer non esistevano né moka né caffè.

Il semaforo: pure questo sconosciuto si era guadagnato un posto discreto nel limitato raggio sopracitato.

Incredibile come fossero tre colori a decidere l’andamento del traffico di auto.

Che stupida invenzione, verde, giallo e rosso, verde, giallo e rosso, verde giallo e rosso, eppure… logica e sensata!

Se la base orbitante di Freezer ne avesse avuto a disposizione un paio, l’andirivieni di navicelle da un pianeta all’altro sarebbe stato gestito meglio e non ci sarebbero state diatribe e scontri all’ultimo sangue su chi avesse avuto il diritto di atterrare o decollare per primo.

Sul pianeta di Freezer non esisteva neppure il bagnoschiuma, non certamente al sapore di mandorle e di cocco: ci si lavava con acqua e niente altro e la pelle manteneva sempre il sapore ferrigno del sangue.

 

Testato dermatologicamente. Ph neutro. Non ingerire. Non disperdere nell’ambiente dopo l’uso. Tenere lontano dalla portata dei bambini.

 

Ecco di cosa sapeva la pelle di Bulma la sera prima: l’aveva gustata centimetro per centimetro e non un angolo del suo corpo era rimasto inesplorato.

L’essenza di cocco e di mandorle era finito negli anfratti più umidi e nascosti ed era stato come scoprire banchetti di dolci allestiti in antri bui e stillanti di rugiada.

Da cacciatore errante, pensò che anche quella sera sarebbe potuto andare in cerca di mandorle e di cocchi su e giù per i sentieri di quel corpo.

Per quanto ne conoscesse a memoria il percorso, ogni volta rischiava sempre di smarrirsi: le strade spianate si stringevano d’improvviso costringendolo a cambiare rotta; s’inerpicava, attraverso pendii scoscesi, sopra le vette più alte, e lassù, col fiato  corto e niente affatto esausto, si tratteneva in bilico a contemplare il paesaggio sottostante. Alcune delle vallate, se solo imboccate, trasmettevano segnali di allerta di là dei confini e qualcosa di tagliente e di laccato, in agguato sotto le lenzuola, lo assaliva alla schiena.

Quel tragitto, durante il quale mai si concedeva soste, se non all’ombra della vegetazione più fitta, non avrebbe avuto fine, e ogni volta si sarebbe ritrovato spossato, nudo, ansimante, ma soddisfatto del bottino.

Posò il flacone di bagnoschiuma sul bordo della vasca e tornò a flettere la testa all’indietro, intanto che il vapore, prodotto dall’idromassaggio, si depositava sulle mattonelle rosa del bagno come la sagoma di un fantasma.

Anche questa era una bella invenzione, la vasca idromassaggio.

Soprattutto dopo una giornata di allenamenti, era il posto ideale nel quale trovare un po’ di quiete e scollare il sudore appiccicoso fermentato dalla battle suite.

Peccato che quella sera la quiete durasse un po’ meno delle altre volte, perché la testolina azzurra di Bulma fece capolino dalla porta e invase il suo territorio come una lepre impavida varca lo stesso sentiero del cacciatore.

Quella donna non aveva limiti: sarebbe entrata con la stessa disinvoltura, anche se fosse stato seduto sul water. Quante volte era già capitato con la scusa che doveva lavarsi i denti in fretta!

Questo era il risultato per averle concesso troppa confidenza: a nulla servivano i codici individuali per la chiusura degli usci automatici se a lei bastavano pochi secondi per indovinarne le combinazioni.

Ma Vegeta decise di deporre il fucile e fare finta di non averla vista.

La lepre impavida non era sbucata per caso sul sentiero fucsia del bagno, saltellando tra un calzino puzzolente ed un paio di mutande, ma l’aveva cercato di proposito, infischiandosi, con un bel muso tosto, dell’arsenale che gorgogliava sotto l’idromassaggio.

“Ta-daaaaa!”, sventolò un giornale e gli esibì la prima pagina come un trofeo. “Eletta donna dell’anno! Non ci posso ancora credere! Non è stupendo?”.

A Vegeta interessava molto poco vedere la faccia di sua moglie stampata sulla copertina di “Vanity Dragon”, accanto ad un sommario che parlava di contraccezione, moda d’autunno, e cinquanta ricette da preparare con la zucca.

“Era così necessario farmelo sapere ora?”.

“Oh, tesoro! Non stavo più nella pelle! Non potevo aspettare l’ora di cena per fartelo sapere!”.

L’ora di cena? Non gli sarebbe interessato saperlo neppure tra un ventennio!

Tuttavia, valeva la pena di starla ad ascoltare, se non altro perché si era adagiata sul bordo della vasca e, nell’accavallare le gambe, aveva messo in risalto i ricami romboidali delle calze.

Al saiyan non restò altro che spegnere l’idromassaggio, confidando che la lepre impavida scorgesse nell’acqua sbollita il fucile, le munizioni e tutto l’arsenale di cui disponeva per farla fuori in qualsiasi momento.

Chissà se le lepri potevano cucinarsi con la zucca! O magari essere imbottite di mandorle e farcite di cocco!

Umettata la punta di un indice eccitato, Bulma sfogliò il giornale e, nella piega già formatasi a metà, trovò in quattro e quattr’otto la prima pagina delle cinque a lei dedicate: la numero 27.

Intelligente, briosa, risoluta, Bulma Brief, a quarant’anni, sfoggia le forme di una splendida ventenne. Eletta donna dell’anno dai nostri milioni di lettori sparsi in tutto il mondo, per il contributo che offre all’umanità intera grazie alle sue indispensabili  invenzioni ed incredibili scoperte, l’ultima delle quali l’esistenza di un pianeta a ridosso di Mercurio…”.

“Tu non hai scoperto un bel niente”, la interruppe Vegeta. “Sono stato io a dirti che Mercurio non è il primo pianeta del vostro sistema solare”.

Non era stato facile persuaderla a riguardo, perché quel pianeta proprio non riusciva ad essere visualizzato dai telescopi terrestri e soltanto la spedizione di un robot, appositamente costruito, le aveva fatto tirare la lingua e scendere dal piedistallo marmoreo di miss scienziata alla quale non sfugge mai niente.

“E’ soltanto l’ultima scoperta!”, sdrammatizzò Bulma. “Non hanno mica detto che era la più importante che avessi fatto!”, passò una mano tra i capelli che incominciavano ad incresparsi sotto l’effetto dei vapori mandorlati.

Dunque, dove ero rimasta… sì… Intelligente, briosa, decisa, Bulma Brief, a quarant’anni, sfoggia le forme di una splendida ventenne…”.

“L’hai già letto, passa avanti!”, sbuffò l’altro il quale, nell’atto di incrociare le braccia, sollevò un’onda anomala nella vasca.

A farne le spese furono le frange del tappeto all’altro lato e le colonie di acari che alloggiavano dentro.

“Allora… ecco…”, scorse il rigo, “…Bulma Brief ha scelto di aprire, solo per i lettori di Vanity Dragon, le porte della sua casa…”.

E mentre la voce della donna diventava un’eco distorta, imprigionata dai fantasmi di vapore che andavano e venivano dalle mattonelle, a Vegeta venne in mente la troupe di giornalisti che aveva invaso la Capsule Corp. circa due settimane prima.

Nessuno di loro aveva saputo trovare una spiegazione al fatto che le macchine fotografiche fossero saltate in aria al passaggio di un uomo misterioso: tutti avevano pensato di aver esagerato un tantino troppo con gli aperitivi e gli stuzzichini quando avevano visto lo stesso uomo saltare dalla finestra e librarsi in aria.

“…La facoltosa scienziata, dopo aver mostrato i laboratori ed esibito il progetto di un nuovo kit di capsule ancora più spazioso, che sarà immesso sul mercato prima di Natale per la gioia di tutti i consumatori, si è mostrata reticente a parlare della sua vita privata, della quale si conosce soltanto l’esistenza di un figlio e di un uomo scontroso e riservato, nondimeno, si è detta assai soddisfatta e felice…”.

A sentirsi chiamare in causa, Vegeta sogghignò e un rivolo d’acqua scese lungo il collo e si raccolse nelle fosse giugulari:

Visto che sono anni che ti infischi del fatto che io sia un tipo scontroso e riservato, ti consiglio di ritagliare quell’ultimo pezzo ed incollartelo da qualche parte. Può essere che tu riesca a ricordarlo meglio”.

“Mi dispiace, ma questa è stata una mia licenza”, chiuse la rivista. “Non sei affatto menzionato nell’articolo e sai perché?”.

Vegeta sembrò più interessato alla bolla di sapone rimasta in bilico sotto la fontana: persino le paperelle di gomma sarebbero state un intrattenimento migliore, se solo Trunks avesse avuto l’età giusta per giocarci ancora.

“L’unico modo che avevo per evitare una mattanza gratuita di giornalisti in casa mia, era raccontare che del padre di mio figlio non avessi più notizie da molti anni. Non so se mi hanno creduto…”, fece soprappensiero, arrotolando il giornale, “…anche perché tu sei apparso proprio in quel momento e quando ti hanno visto spiccare il volo dalla finestra, ho dovuto far loro credere che eri uno dei miei robot”.

Quando parlava a quel modo, il saiyan non riusciva mai a capire se stesse facendo davvero sul serio.

Con lo stesso scetticismo, la vide posare il giornale sulla cesta del bucato – aveva acquistato almeno una ventina di copie ed una era stata già incorniciata e inchiodata sopra la scrivania tra gli altri titoli di studio – e mettersi ad armeggiare con un paio di forcine tra i capelli davanti allo specchio.

“Il direttore di Vanity Dragon mi ha chiamato proprio stamattina e mi ha proposto di posare per un calendario di beneficenza. Mica ti dispiace?”.

Non solo non gli dispiaceva ma non gliene importava un fico secco. Tornò ad appoggiare la testa contro il bordo della vasca e la schiuma osò avvolgergli il mento di una barba profumata e bianca.

Bulma non ricevette risposta e si voltò per accertarsi che lui avesse inteso giusto:

“Te lo chiedo perché si tratta… ehm… di un calendario di nudo”.

I fichi secchi gli rimasero in gola ed ebbe la sensazione che cinquanta centimetri di acqua sarebbero stati più che sufficienti per annegarci dentro.

“Cosa… cosa vuol dire beneficenza?”. Forse, aveva perso qualche passaggio, e intanto la barba da anacoreta appena disceso dalla vetta di una montagna gli era già caduta dal mento, ed un’altra onda anomala era stata generata a danno del tappeto e delle colonie di acari alloggiate tra le frange.

“Che il ricavato del calendario servirà a costruire un ospedale per bambini”.

E tutta la beneficenza che già faceva a cosa diavolo serviva? Montagne di lettere, calendari, bigliettini che riempivano la cassetta postale ogni mattina. I robot non facevano in tempo a portarli in casa che già si traducevano in bollettini postali. Neppure le leggeva! Avrebbe potuto finanziare anche un’associazione a delinquere e non se ne sarebbe accorta!

“Il direttore dice che si aspetta di triplicare le vendite”.

Non poteva triplicarle con le tette di qualcun’altra?

“E i bambini cosa dovrebbero farci con un tuo calendario?”,  non aveva mai avuto tanta premura verso i più piccoli come con questo pensiero.

Bulma scoppiò a ridere:

“Sciocchino! I calendari non sono mica per i bambini! La gente acquista il giornale, paga un sovrapprezzo per ricevere anche l’allegato e con il ricavato si finanzia la costruzione dell’ospedale”.

Ma questo gli era stato chiaro fin dall’inizio: dare il calendario in mano ai bambini era stata soltanto una speranza.

Nel suo cervello di alieno disadattato non riusciva proprio a prendere forma l’idea che il calendario sarebbe stato acquistato da chiunque e che tutti, compreso il lattaio di fronte, il gelataio col carretto, il fioraio all’angolo, il ragazzino brufoloso, l’autista dello scuolabus che stazionava in prossimità dei laboratori, tutti avrebbero avuto una visione chiara, mese per mese, giorno per giorno, delle tette di sua moglie.

Già si era accorto del modo in cui il postino con i baffi squadrava Bulma ogni volta che c’era una raccomandata da ritirare. Lei firmava e lui effettuava una scansione radiografica dalle gambe fino al collo.

Ma che bel regalo che adesso gli avrebbe fatto! Tanto valeva che andasse a ritirare la raccomandata a seno nudo! Chissà quante volte l’aveva già sfogliata per ricordare una tassa da pagare o un appuntamento dal dottore!

“Ovviamente sto parlando di foto artistiche. Non c’è niente di osceno e di sconcio. Se ne occuperà una troupe di professionisti”.

Si sbottonò la camicetta e con una sculettata uscì dalla minigonna.

Mica ti dispiace se ne approfitto e faccio un bagno pure io?”.

Vegeta non rispose. Restò a fissarla mentre, sfilate le calze e il reggiseno, mise prima un piede e poi l’altro nella vasca; e intanto si chiedeva se con quella stessa familiarità si sarebbe spogliata dinanzi ad una decina di… professionisti.

Altro che foto artistiche! Tra le sue tette ognuno ci avrebbe annotato quello che voleva!

Un’altra onda anomala si abbatté sulla colonia di acari e l’acqua incominciò a ribollire di nuovo, ma non era l’idromassaggio.

Come un moribondo nel deserto, Vegeta fu vittima di mostruose visioni, e mentre il numero dei calendari si moltiplicava sotto i rulli delle stampe, ripensò alla fotografia che Kakaroth aveva promesso a Kaioshin appena qualche settimana prima.

Era la giusta punizione divina per non aver voluto persuadere il vecchio con una foto di sua moglie, ed ora avrebbe affrontato di nuovo Majinbu in tutte le sue metamorfosi, sacrificio compreso, perché le migliaia e migliaia di copie finissero tra le vereconde mani di Kaioshin e fossero confinate anni luce da lì.

Mentre le mandorle e il cocco sfrigolavano intorno alle mammelle e la spugna tamponava con delicatezza estenuante il collo e le piccole spalle, Vegeta rifletté che, se pure un ingenuo come Kakaroth aveva notato la generosità di certi dettagli, allora non c’era scampo.

Il problema andava estirpato alla radice e, considerato che impedire la diffusione a mezzo stampa sarebbe stato come provare a debellare un virus, solo due erano le soluzioni da passare al vaglio: o trovare il modo di spianare il petto di sua moglie, magari sotto il rullo compressore di una stampante, ma, rinunciando a tanta abbondanza, avrebbe fatto un torto a sé stesso prima che agli altri, o il genocidio finale di tutta la razza umana, che per lui valeva molto meno.

In quest’ultimo caso, con Bulma e suo figlio avrebbe potuto trovare riparo sul pianeta di Kaioshin e lì sua moglie, per la gioia del vecchio, sarebbe potuta anche andare in giro con le tette al vento.

La soluzione più semplice, ovvero dichiararle che non era il caso di fare beneficenza senza vestiti, equivaleva a fare un picnic da solo con Kakaroth su di una tovaglia a quadretti bianchi e rossi: avrebbe preferito morire.

“Tu non lo fai per beneficenza, lo fai perché ti piace essere guardata”.

“Anche per questo”, ammise la lepre impavida senza vergogna, farcendo di mandorle e cocco pure la faccia.

Vegeta cercò di tenere a bada la contrazione della tempia, ma non ci riuscì.

“Che c’è di male? Alla mia età può essere un’esperienza in più”.

“Non mi farebbe piacere essere visto nudo da gente estranea”, aggiunse fingendo noncuranza, ma intanto la frustrazione montava nell’acqua e irrobustiva la schiuma.

“E’ soltanto una forma d’arte, niente di più. Che vuoi che sia? Non è una questione di pudore. Mi vergognerei di più se mi spiassero in questo momento dai vetri della finestra e mi scattassero una fotografia”.

Davanti a tanta disinvoltura, il principe dei saiyan sentì che sotto l’acqua calda uno dei suoi muscoli, quello più virile, si era ritirato oramai in un eloquente ermetismo e che, quando il resto del corpo avrebbe smesso di generare nervosismo sottoforma di idromassaggio, sarebbe venuto a galla un pesce morto.

 

Aqua, Sodium Laureth Sulfate, Parfum, Sodium Laroyl Glutamate, Sodium Chloride, Disodium EDTA, 2-Bromo-2 Nitropropene-1,3-Diol, Phosphoric Acid, Citric Acid, Citronellol, Coumarin, Eugenol, Limogene, Linalool.

 

Anche da lontano, riusciva a scorgere ogni lettera impressa sul flacone del bagnoschiuma.

Non riusciva a vedere altro che questo: la spuma era diventata una sostanza tossica che gli stava togliendo il respiro; nel delirio, cresceva a dismisura, arrivando a lambire anche la moquette della camera da letto attraverso la fessura della porta, e i fantasmi di vapore andavano e venivano dalle mattonelle prendendosi gioco di lui.

Si risolse ad alzarsi con una scrollata d’acqua che debellò definitivamente le colonie di acari e inzuppò pure gli altri indumenti lasciati a terra.

“Vegeta, sei sicuro di sentirti bene?”.

Che avesse trovato un pesce stecchito nell’acqua?

Il saiyan davvero osservò la vasca e vide che il livello dell’acqua era tornato ad abbassarsi svelando l’intero profilo, cosparso di schiuma, dei seni della donna.

Prenderli a morsi poteva essere la mossa giusta per costringerla a ritardare i suoi empi propositi di visibilità, ma non aveva voglia di avvicinarsi a lei e neppure di guardarla.

“Certo che sto bene. Sono a mollo da parecchio”, ringhiò e, anziché incrementare l’aura come sempre faceva quando si asciugava, tirò dal gancio il telo da bagno e se lo strofinò addosso come un comune terrestre.

“Mi sembri accaldato”.

“C’è una temperatura di 50° gradi qua dentro”, superò il guado formatosi a terra, a ridosso dei calzini puzzolenti e delle mutande, e fece scattare l’uscio automatico.

L’impatto con l’aria più fresca della stanza da letto gli fece realizzare che non c’erano più schiuma, fantasmi, lepri impavide, né sentieri boscosi di colore fucsia, solo quel profumo di cocco e di mandorle che si portava addosso e che non avrebbe voluto sentire per i prossimi anni.

Con la faccia schiacciata contro il cuscino, si domandò tutto quel malessere a cosa fosse dovuto.

Era gelosia? Ma la gelosia non era prerogativa dei terrestri?

Voltò la schiena e restò a fissare il soffitto tagliato in due dall’abatjour.

La verità era che non gli andava di condividere sua moglie con nessuno e meno che mai con quel branco di smidollati che erano i suoi amici.

Già sentiva la pacca di Kakaroth sulle spalle:

“E pensare che ti sei arrabbiato tanto quando ho proposto di dare una foto di Bulma a Kaioshin. Siccome adesso tutti conoscono le tette di tua moglie, non è che potremmo inviare una copia al vecchio come ringraziamento per averci aiutato durante lo scontro con Majinbu?”.

Vegeta sussultò come se davvero una presenza gli avesse sfiorato la spalla. Era il colmo!

Al pensiero che il calendario avrebbe arricchito la collezione di giornaletti porno del vecchio eremita delle tartarughe, o rinfrescato la memoria dell’ex fidanzato, che sicuramente, in passato, aveva sbirciato a sufficienza sotto le magliette aderenti di Bulma, il suo petto fatto di acciaio blindato rantolò, producendo lo stridio di un cardine arrugginito.

Tuttavia, la certezza che Iamcha non avesse mai trovato banchetti di dolci allestiti in antri bui e stillanti di rugiada, gli permise di trovare un istante di lucidità mentale e con questo lubrificare meglio gli ingranaggi dell’acciaio blindato.

Alla fine di tutti questi pensieri, volle illudersi che non si trattasse di gelosia, ma soltanto di amarezza e che le donne non meritavano tanto affanno.

Facesse pure la sua beneficenza! In un modo o nell’altro, gliela avrebbe fatta pagare cara!

La lepre impavida uscì dal bagno portando altro odore nauseabondo di cocco e di mandorle. Il cacciatore errante pensò che la preda fosse diventata troppo poco appetitosa per sprecare una munizione; e la ignorò girandosi su di un fianco.

“Domani chiamerò il direttore di Vanity Dragon e gli dirò che il calendario non è una buona idea. L’ospedale può essere realizzato anche con una percentuale ricavata dalla vendita del nuovo kit di capsule che sarà messo sul mercato a breve”.

Vegeta tornò ad aprire gli occhi, ma non si mosse.

“Il bagno caldo mi ha permesso di riflettere meglio”, continuò Bulma, slacciando la vestaglia. “E’ che non mi sembra giusto nei confronti di Trunks. E’ ancora un bambino e ne potrebbe restare turbato. Non credi?”.

Dunque, era soltanto per suo figlio che lo faceva? Ma se Trunks aveva smesso di interessarsi alle sue tette da almeno sette anni!

Oltraggiato e ferito, Vegeta sentiva la puzza di pesce morto proveniente dal bagno farsi più insistente.

Bulma, che lo conosceva troppo bene da indovinare il cruccio del suo volto anche soltanto seguendo le linee tortuose della schiena, scosse la testa e sorrise:

“Inoltre…”, aggiunse, infilandosi sotto le coperte, “…ho pensato che solo la persona di cui sono innamorata ha il diritto di vedere certe cose ”.

Finalmente le sentì dire una cosa sensata, ma gli oppose una tenace resistenza pure quando la morbidezza del suo petto incriminato sgusciò dal pile del pigiama e finì contro la sua schiena.

L’impronta umida di un bacio sul lobo dell’orecchio neppure servì a risvegliarlo dal rigor mortis del suo orgoglio; e così Bulma, ricordando di aver abbozzato delle e-mail urgenti da spedire alle filiali in oriente, aprì il pc portatile lasciato sul comodino e si mise a lavorare in attesa che il sonno, varcata la porta, entrasse in punta di piedi.

La normalità di quella situazione – non era raro che Bulma per addormentarsi leggiucchiasse qualcosa e il pc facesse da terzo incomodo sopra le coperte – si tradusse per Vegeta in una specie di respiro di sollievo: Kakaroth non lo avrebbe commiserato, Muten non avrebbe arricchito la sua collezione, Iamcha non si sarebbe rinfrescato la memoria e il postino con i baffi avrebbe continuato a effettuare scansioni radiografiche ogni volta che ci sarebbe stata una raccomandata da firmare.

Giorno per giorno, mese dopo mese, stagione dopo stagione, soltanto a lui sarebbe spettato il diritto – Bulma non si era avvalsa proprio di questo concetto? - di guardare sua moglie a quel modo.

La sensazione di pericolo scampato rasentò quasi quella sperimentata al ritorno dal santuario di Dende, in compagnia di Bulma e di suo figlio, qualche settimana prima.

Il letto profumava di nuovo di cocchi e di mandorle e proprio nel momento in cui il saiyan si domandava se fosse il caso di voltarsi e mettersi di nuovo alla ricerca di banchetti di dolci allestiti in antri bui e stillanti di rugiada, sentì Bulma esclamare sconvolta:

“Ma come è potuto succedere?”.

In genere, sceglieva quella gamma di interrogativo anche quando sbagliava la combinazione del sudoku o scopriva di aver perso l’inaugurazione di un nuovo centro commerciale, perciò, Vegeta continuò a crogiolarsi nel pensiero confortante del pericolo scampato.

Trasmesse le e-mail urgenti, la scienziata si era messa a navigare su acque più basse e tranquille, ignorando che le insidie si nascondono anche in un metro d’acqua.

 “Ti ricordi quando la scorsa settimana sono andata a quella conferenza nella Città dell’Est?”.

Se non altro, ricordava il broncio che Bulma aveva tenuto il giorno prima di partire, quando si era arresa all’evidenza che né lui né Trunks le avrebbero fatto compagnia.

 “In albergo mi è stata data una camera al primo piano. Mi hanno detto che le suite erano già tutte occupate. Non so come sia potuto succedere, è stata una frazione di pochi secondi, oh, è terribile… tutto questo è successo perché mi avete lasciato andare da sola!”, si mise a singhiozzare.

A quel punto, Vegeta decise di risorgere dal rigor mortis del suo orgoglio, si voltò e vide che sul monitor del pc era visualizzata la pagina di un giornale.

“Un paparazzo mi ha scattato una fotografia proprio nel momento in cui mi sono avvicinata alla finestra per chiudere le tende”.

“E allora?”, tralasciando il dettaglio che per lui un paparazzo era un incrocio sperimentale tra un papero starnazzante e un missile, una creatura abominevole che solo uno scienziato come il Dott. Gero avrebbe potuto partorire, non poteva sapere che “Gossip ball” era una delle principali testate scandalistiche e non un giornale di divulgazione scientifica; né poteva immaginare, il grande conquistatore di galassie, che un popolo innocuo come quello dei terrestri disponesse di armi alternative ed altrettanto micidiali.

Povera scimmia venuta da lontano! Si sarebbe sempre potuto consolare con i cocchi e le mandorle, giacché su certi dettagli l’esclusiva sarebbe stata sua, e continuare a banchettare solo soletto in antri bui e stillanti di rugiada, nel confortante pensiero che soltanto con gli occhi non ci si sfama sul serio, ma intanto chi gli spiegava, senza mettere a repentaglio l’incolumità della razza umana, i concetti di “pubblico dominio” e “privacy violata”?

Vedendo che l’altra incominciava a rosicchiare le unghie e a singhiozzare come se queste si ficcassero in gola, si decise a girare il monitor dalla sua parte: l’immagine mostrava sua moglie intenta a tirare le tende dietro i vetri di una finestra d’albergo, nuda come mamma l’aveva fatta e come solo lui si era illuso di vederla.

“Esclusivo: dopo la scoperta di un nuovo pianeta, a Bulma Brief, genio indiscusso della C.C., non resta altro che tirare una tenda e scoprire… stessa”.

 

FINE

 

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