Hope

di varietyofdreams
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Danza ***
Capitolo 2: *** Còrea ***
Capitolo 3: *** Hair ***
Capitolo 4: *** Heartbeat ***
Capitolo 5: *** Hope ***
Capitolo 6: *** Sognare ***



Capitolo 1
*** Danza ***


DANZA
Le era sempre piaciuto ballare. Aveva ballato molte volte sulla malinconica cadenza del blues che sua madre metteva in camera quando era triste. Qualcuno diceva che il blues non è roba da ballare, è di quel tipo che si ascolta e basta; e che se hai una bella voce e tanta fortuna, lo puoi cantare.
Ma Matilde lo ballava.
Matilde non aveva nient’altro nel suo mondo se non il suo corpo. Era l’unica cosa di cui era sicura: il resto erano tutti sogni da inseguire o da abbandonare. La maggior parte delle volte la abbandonavano loro, non poteva nemmeno scegliere lei. Era la vittima del sistema, più o meno. Il suo mondo si divideva in scelte e sogni.
L’unica scelta che, in un primo momento, sembrava le appartenesse, era quella di fare danza classica. Era arrivata molto in alto, ed era brava. A 12 anni l’avevano già messa sulle punte. Un astro nascente, dicevano le insegnanti. Andrà lontano. Roma, Milano, Venezia. Sembravano tutte così vicine per loro.
E anche a Matilde sembravano vicine. Si allenava costantemente, con tutta se stessa. Sua madre era fiera di lei e lei continuava ad andare avanti nella sua scelta.
Ma era un sogno, non una scelta.
Finalmente, a 16 anni, l’insegnante le diede l’autorizzazione a partecipare ad una rassegna di danza. Sarebbe stata preparata per un assolo dai migliori ballerini in circolazione e avrebbe potuto esibirsi a livello nazionale. Sarebbero accorsi da tutta Italia per vedere quella rassegna.
Sua madre acconsentì senza problemi ma non la seguì in quell’esperienza che durò cinque giorni. E che cambiò per sempre la vita di sua figlia.

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Capitolo 2
*** Còrea ***


Erano passati due mesi dalla fatidica rassegna. Madre e figlia erano nella sala d’aspetto dell’ospedale, in attesa dei risultati delle analisi della ragazza. Matilde sapeva che alla rassegna avrebbe incontrato artisti molto più bravi di lei, ma non sospettava che la criticassero anche. Molti dei ballerini lì, avevano notato una certa scoordinazione nei suoi movimenti, a quanto dicevano. All’inizio non ci aveva fatto troppo caso, fino a che un giorno, durante un “assemblé battu”, le sue gambe non si erano mosse contro la sua volontà, facendola atterrare male e facendole sbagliare tutto il balletto. Così aveva mandato a monte anche i passi delle altre. Le prove erano state interrotte immediatamente in modo da accertarsi che andasse tutto bene. L’insegnante di Matilde era sbalordita. Non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto peggiorare in così poco tempo. All’inizio la ragazzina non parlò a nessuno dei movimenti inconsulti che le muovevano il corpo senza che lei potesse farci niente. Non voleva passare per una psicopatica e probabilmente, pensò, nessuno le avrebbe mai creduto. Durante uno degli ennesimi incidenti, si provocò una distorsione alla caviglia che le impedì di proseguire nella rassegna. La sua insegnante aveva quasi le lacrime agli occhi quando il medico le confermò che non avrebbe potuto andare avanti con quell’esperienza. E, quando si fermò a parlare con altre ballerine fuori dalla porta del camerino, a Matilde sembrò che la sua voce sussurrasse qualcosa in più oltre alle scuse per l’inconveniente. Qualcosa che somigliava moltissimo a: “Se non altro, non vi farà perdere la faccia. Sono desolata”. Non era un buon segno. Nonostante questo, Matilde si era rifiutata di tornare a casa. Avrebbe assistito alla rassegna come spettatrice. La sua insegnante accolse di buon grado quella scelta, rassicurandola sul fatto che nessuno ce l’aveva con lei. Gli incidenti capitano e, sicuramente, avrebbe avuto un’altra opportunità nella sua vita di partecipare ad una rassegna. Quando le chiese cosa poteva averla fatta cambiare così tanto, Matilde fece spallucce, senza rivelare il vero motivo. Si limitò solo a dire: «Probabilmente la tensione. Devo imparare a controllarla come si deve, altrimenti mi frenerà sempre.» La sua insegnante aveva assentito. Quella conversazione si era svolta a pochi giorni dall’apertura al pubblico e, in quegli ultimi giorni che la separavano dalla fine di un’ingrata esperienza, Matilde si convinse che i suoi movimenti strani erano proprio dovuti allo stress che aveva provato in quei giorni. Infatti, essi andarono diminuendo e divenendo sempre meno evidenti. Il giorno dello spettacolo, se ne era quasi dimenticata. Ovviamente era impossibile per lei dimenticarsi del tutto della causa per la quale adesso lei era su una poltrona a guardare delle agili creature, come lo era lei, muoversi su un palcoscenico su cui avrebbe dovuto esserci anche lei, al loro pari. Se ci ripensava si sentiva frustrata e le venivano le lacrime agli occhi, ma cercò di non darci troppo peso. Durante lo spettacolo, una delle sue braccia ebbe un movimento involontario così violento che fece uscire il sangue dal naso alla sua insegnante che le sedeva accanto e che si era beccata l’arto in pieno viso. «M-Matilde, togli questo braccio! Cosa ti salta in mente?!» Ma il braccio di Matilde non si mosse, per quanto la ragazzina stesse ordinando al cervello di farlo. Quando l’insegnante la spronò di nuovo, sottovoce, per non disturbare lo spettacolo, a togliere il braccio, una pallida Matilde, tremante, rispose in un soffio: «Non posso. Si è mosso da solo.» In quel momento, capì quanto fosse stata sciocca a pensare che fosse stato soltanto frutto dello stress. L’incidente aveva turbato entrambe le donne. L’insegnante di Matilde ne aveva parlato al ritorno dalla rassegna con sua madre, consigliandole di farsi visitare. Dopo l’increscioso incidente, era riuscita a farsi rivelare tutto, compresa la vera causa della distorsione. I singhiozzi colpevoli di Matilde riecheggiavano nella sala d’aspetto. Sua madre la consolava, continuando a ripeterle che non era stata colpa sua e che forse non era niente di grave. Il medico aprì la porta e le invitò ad entrare. Aveva un’aria cupa, che la madre di Matilde captò subito. La diagnosi era chiara: Còrea di Huntington. Quando il dottore spiegò alla madre e alla figlia di cosa si trattasse, fu chiaro ad entrambe come la carriera da ballerina di Matilde stesse andando a farsi benedire, lentamente. Era una malattia rara, genetica, che si manifestava, nella forma tradizionale, intorno ai 40-50 anni. Quella di Matilde era una forma giovanile, rara, il cui esordio era intorno ai 20 anni. I sintomi erano un iniziale scoordinamento degli arti, con spasmi ripetuti e sempre più duraturi, seguiti dalla perdita della ragione. Era un processo lento. La morte del paziente affetto da Còrea di Huntington era spesso per cause intercorrenti, non per la malattia stessa. Prima che se ne andassero e fissassero un altro appuntamento, il medico le prescrisse delle medicine che avrebbero smorzato, anche se poco, gli spasmi muscolari. Quella parola, spasmo aveva fatto molta paura alla ragazza che aveva sentito il suo cuore stretto da delle dita ossute e gelide. Che fossero le dita della morte? Avevano detto che la Còrea era inguaribile. Non erano state trovate molte medicine che la potessero salvare; avrebbero solo ritardato il momento della sua dipartita. Presto o tardi, avrebbe cominciato a degenerare anche psicologicamente, aveva spiegato il medico. La malattia continuava a manifestarsi solitamente per una durata di 15-25 anni, al termine della quale, non c’era più niente da fare: cause intercorrenti, solitamente, stroncavano definitivamente il debole fisico del portatore. Nel suo cuore, Matilde pregò segretamente che di lì a poco la comunità degli scienziati di tutto il mondo trovasse un rimedio. Avrebbe voluto offrirsi come cavia per la sperimentazione dell’antidoto, addirittura, se ciò fosse successo. Ma la razionalità che aveva e che avrebbe mantenuto ancora per qualche anno, la smentì prontamente: non ci sarebbe stata nessuna svolta scientifica sul suo caso. Il medico diede a Matilde anche un piccolo foglietto informativo sulla sua malattia. Quando uscirono dalla stanza, mentre sua madre fissava un appuntamento con la segretaria, Matilde cominciò a leggere l’opuscolo. Ma non riuscì ad andare oltre la prima riga che le lacrime le sgorgarono copiose dagli occhi: Còrea, dal greco “ Danza”. Il destino giocava veramente brutti scherzi. Forse, questa Còrea di Huntington, non colpiva a caso.

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Capitolo 3
*** Hair ***


La vita di Matilde non cambiò agli occhi degli altri per i tempi successivi. Le medicine che prendeva, riuscivano a far passare i suoi spasmi muscolari per movimenti volontari, perciò nessuno sospettava che lei fosse malata.
Lei si sforzava di comportarsi normalmente, anche se sapeva benissimo che non ci riusciva molto bene: più di una volta, qualcuno le chiese se si sentiva bene. La sua migliore amica, insinuò molte volte che era diventata più malinconica. E, pensando che fosse dovuto all’impossibilità di partecipare alla rassegna, tutti la consolavano dicendole che avrebbe potuto tornare presto a ballare.
Ma Matilde sorprese tutti con una decisione che, per quanto imprevista e sorprendente, era anche necessaria: si ritirò dalla scuola di danza. In fondo, a cosa le serviva frequentare un luogo che tanto, prima o poi, avrebbe dovuto lasciare comunque?
La notizia della malattia non era stata data nemmeno all’insegnante di danza. I movimenti che avevano scosso Matilde durante la rassegna di danza erano stati giustificati come spasmi dovuti allo sforzo muscolare a cui la ragazza era stata sottoposta durante le prove. Pertanto, la notizia dell’abbandono di Matilde, colse la giovane insegnante impreparata, che provò ad opporsi con tutte le sue forze, con ogni tesi possibile, ma niente fece desistere la ragazza. Avrebbe dovuto adeguarsi alle circostanze, come aveva sempre fatto.
Dentro di sé, i sentimenti e le idee cominciavano a sovrastarsi. Non si era mai sentita tanto confusa prima, nonostante più di una volta fosse arrivata quasi sul punto di lasciare tutto. La Còrea le fece capire come fosse vera l’affermazione “non si capisce il dolore fino a quando non lo si prova veramente”. Non tanto il dolore fisico, quello sopraggiungeva raramente (il più delle volte quando i suoi arti rifiutavano di muoversi e rimanevano bloccati per troppo tempo); il dolore che soffocava Matilde nel mezzo dei suoi incubi peggiori, che la faceva svegliare urlando, era un dolore che le prendeva lo stomaco in un senso di angoscia e le risaliva fino a bloccare il suo cuore che si dibatteva nelle grinfie di quella spiacevole sensazione, accelerando il proprio battito. La sua salivazione si azzerava in quei momenti e le veniva sempre in mente una frase letta in un libro: La nostalgia è quel ricordo che ti stringe forte il cuore, fino a farlo stillare sangue e lacrime.
Ebbene, quella frase era forse più adatta al dolore che provava lei, piuttosto che alla nostalgia. Infatti, sebbene più di una volta in passato avesse trovato quella definizione esatta, adesso poteva dire che si trattava di ben altro. Ciò che provava non era nostalgia, almeno di questo era sicura.
 
Il cambiamento che era avvenuto dentro di lei si mostrò anche fuori.
I medicinali che prendeva avevano cominciato a cambiarla un poco nella fisionomia. Infatti, spesso Matilde mangiava pochissimo ed era dimagrita ancora di più, accentuando le ossa già sporgenti di loro.
Aveva quasi 17 anni quando decise che era ora di contribuire al reddito familiare. Dopotutto, avere una malattia mortale non era una buona ragione per non comportarsi da adolescente normale. Inizialmente non le venne in mente niente di meglio che vendere alcuni dei suoi effetti personali: collanine d’oro bianco, braccialetti e orecchini. Vecchie console per cui ormai era troppo grande, libri che non leggeva più. Ne provò moltissime, fino a che non ebbe più niente di proprio da dare.
Fu allora che le venne l’idea. L’aveva visto fare solo nei film e l’aveva letto qualche volta nei libri, ma era ancora fiduciosa che la cosa non fosse caduta in disuso. Avrebbe venduto i suoi capelli, i suoi lunghi capelli lisci e neri.
Il giorno stesso che le era balenata in mente quell’idea, si recò dalla parrucchiera. La donna affermò di non essere abilitata per quel genere di cose, ma che forse avrebbe potuto rivolgersi alla clinica del capello, poco distante da lì.
 
Sospirando, Matilde spinse la porta della clinica. Un gradevole odore di lozioni per capelli la investì e le si appiccicò addosso non appena mosse i primi passi nella stanza d’attesa.
Il dottore non aveva clienti, quindi si dimostrò disponibile ad ascoltarla.
Senza rivelare le ragioni della sua scelta, Matilde raccontò della sua idea a quell’uomo di mezz’età, calvo e con una barba corta e brizzolata, ben curata.
L’uomo inarcò le sopracciglia, stupito, quando lo ragazza si fermò, riprendendo fiato.
Aveva fatto molti preamboli inutili, prima di arrivare al sodo e inoltre si era dimostrata insicura molte volte, lasciando delle sgradevoli pause fra una frase e l’altra. Non che fossero pause per riprendere fiato: infatti, se Matilde ne riprese da quando iniziò a parlare fino alla fine, il dottore non se ne accorse.
L’uomo studiò i suoi capelli molto attentamente e infine parlò.
«Be’, Matilde» disse con voce rassegnata «io potrei anche farlo, per quanto strana sia la tua richiesta. Ovviamente è una vendita, perciò tu dovrai firmare un contratto in cui acconsenti per iscritto al taglio. Però, ci sono solo due piccole restrizioni.»
Matilde si sentì sprofondare in basso, a quelle parole. Dal tono grave che aveva assunto il dottore le sembrò che sarebbe stato un ostacolo insormontabile, ciò che le stava per chiedere. Gli fece cenno di continuare.
«Ho assolutamente bisogno di sapere il motivo per cui vuoi fare tutto questo. Vedi, devo assicurarmi che tu non abbia un secondo fine. Criminalità, terrorismo…» si fermò per qualche istante a contemplare l’espressione scettica sul volto della ragazza, prima di affrettarsi a concludere: «…non so quanto i tuoi capelli possano essere usati per scopi terroristici, però, ecco, devo esserne sicuro.»
Matilde capiva le ragioni, ma non poteva certo dirgli la verità. Obiettò che avrebbe potuto mentirgli e per risposta ottenne solo risposte che la inchiodavano al vicolo cieco della verità.
Nonostante questo, non era affatto decisa a dire al dottore la vera motivazione per cui si era rivolta a lui, perciò rispose: «Volevo tagliarmi i capelli, per cambiare un po’ look. Ma mi dispiaceva lasciare che il resto dei capelli rimanesse sul pavimento della parrucchiera.»
La scusa non reggeva e il dottore le chiese, con ilarità, se pensava che le avrebbero fatto un taglio fatto bene, come da una parrucchiera.
«No, però posso farmi sistemare il caschetto che mi lascerà lei.»
Il dottore assentì. «E, inoltre, hai 17 anni. Non sei ancora maggiorenne. Ho bisogno del permesso di uno dei tuoi genitori.»
Il permesso di sua madre..? Matilde sapeva che non gliel’avrebbe mai dato.
Stava per mettersi a piangere ma le sembrò molto più risoluto falsificarne uno. Annuì a sua volta, garantendo di portare il permesso scritto uno o due giorni prima del taglio definitivo.
A quel punto, il dottore aveva abbastanza informazioni e fissò con lei un appuntamento per la settimana seguente. Matilde ringraziò e se ne andò, attendendo con ansia che il tempo passasse in fretta.
Intanto, continuava ad accarezzarsi con le mani tremanti, che cercavano di resistere agli spasmi, i suoi bei capelli lunghi. Sarebbero ricresciuti, si disse. Niente di male.
 
Arrivò la settimana seguente e Matilde si recò di nuovo alla clinica del capello. Firmò il contratto, dopo averlo letto accuratamente (non voleva che un pezzo di carta con su scritte delle bugie le rovinasse quel poco che le restava da vivere consapevolmente).
Quando uscì di lì, i suoi capelli terminavano con un taglio netto all’altezza delle spalle. Matilde aveva quasi le lacrime agli occhi mentre ringraziava il giovane addetto che glieli aveva tagliati con tanta precisione. A lui aveva rivelato il vero motivo della sua scelta. Il ragazzo sembrò provare una profonda tenerezza per la storia della ragazza e le fece i suoi migliori auguri, promettendo che non avrebbe rivelato il suo segreto a nessuno.
Li aveva stimati una cinquantina di euro. Matilde non aveva osato chiedere dove sarebbero finiti, adesso che non erano più suoi; ma con ribrezzo immaginava che avrebbero potuto diventare parte di una parrucca per Halloween, dato che erano neri come la pece.
Adesso, aveva in mano 47 euro. All’inizio aveva pensato di usarli per sistemarsi i capelli meglio dalla parrucchiera, ma quando si fermò a scrutare il suo riflesso nella vetrina di un negozio, constatò che il ragazzo aveva fatto davvero un buon lavoro. Chissà, forse le aveva fatto pena abbastanza da farlo lavorare tanto precisamente.
Si rallegrò: 47 euro in più per comprare le medicine di cui aveva bisogno. Sorrise gioiosamente come non faceva da diverse settimane e si incamminò verso casa, pronta a dare la buona notizia a sua madre.
A lei aveva detto solamente che sarebbe andata a fare qualche ora di baby-sitting e dopo sarebbe passata dalla parrucchiera.
 
Tagliare i capelli non bastò per farla sentire meglio con sé stessa. Cominciò a fare baby-sitting per sua zia, poi, una volta compiuti 18 anni, andò a lavorare come commessa in un negozio di dolciumi.
Forse non guadagnava molto, ma quel che bastava per renderla felice.
La sua datrice di lavoro era a conoscenza della sua malattia e ne era molto preoccupata: la fissava spesso, di nascosto, per controllare che non avesse movimenti involontari.
Tali incidenti, capitarono comunque molto raramente e tanto discretamente che potevano essere scambiati per una distrazione: un acquisto che cadeva dal bancone, una cifra digitata male sulla cassa, la rottura di qualche contenitore di caramelle.
Successivamente, dovette lasciare anche quel lavoro.

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Capitolo 4
*** Heartbeat ***


La sua malattia divenne tanto forte da costringerla a continuare gli studi a casa per i successivi due anni. Un insegnante privato, messo al corrente della situazione, veniva ogni mattina per cinque ore a farle lezione, dal Lunedì al Sabato. Ben presto, fu congedato dalla madre di Matilde. La ragazza, a poche settimane dal suo esame di maturità, fu dichiarata inabile di intendere parzialmente. Infatti, i deliri annunciati dal medico al primo esame del sangue, avevano cominciato a farsi sentire. Matilde parlava molte volte da sola della sua malattia, seppure interagisse con gli atri normalmente. All’inizio sua madre non si era preoccupata, aveva solo attribuito quel fenomeno ad un bisogno di confidarsi con qualcuno. Infatti, quando la storia della Còrea era stata scoperta a scuola, nessuno aveva più voluto esserle amica. Sapere di avere un amico che morirà a breve, ti fa perdere la voglia di stargli vicino. Si può giustificare, un comportamento del genere? Forse sì. Probabilmente si ha paura di soffrire quando quell’amico ci lascerà. Ma allora, rifletteva Matilde parlando da sola, per tutto il tempo che le sei stato accanto, quella persona era veramente tua amica? Spesso la ragazza si chiudeva in camera. Fissava la parete bianca e si lanciava nei suoi lunghi monologhi, interrotti solo da sua madre che entrava in camera per annunciarle che era pronto da mangiare. L’evento cominciò a preoccupare seriamente la madre una giornata di Maggio, quando il ventesimo compleanno di Matilde era alle porte. Entrando in camera per chiamare Matilde, notò che la ragazza la fissava con sguardo vacuo e che rispondeva alle sue richieste solo dopo due, tre volte che la si esortava. Rivolgendosi al medico che aveva seguito Matilde fin da subito, fu lampante come la malattia procedesse velocemente nel cervello della ragazza. Ben presto, i monologhi divennero risate isteriche che potevano durare anche diversi minuti. Sua madre doveva coprirsi le orecchie con le mani per non sentire la sofferenza di sua figlia. Le medicine avevano sempre meno controllo sui movimento irregolari del corpo di Matilde; i suoi occhi perdevano colore ogni giorno di più; i suoi capelli erano sempre spettinati e nessuno si arrischiava a pettinarglieli. L’ultima volta che sua madre ci aveva provato era dovuta andare al pronto soccorso per farsi cucire un taglio sul fianco che la ragazza le aveva fatto con una lima per unghie. L’unica cosa che potevano farle era lavarla una volta alla settimana. Quello piaceva anche alla mente distorta della ragazza, che si lasciava cullare nella vasca da bagno, canticchiando canzoni senza senso e, talvolta, facendo domande che, seppure insensate, dovevano avere una risposta, altrimenti avrebbero scatenato la sua ira. La situazione degenerò nel giro di pochi mesi. Mentre sua figlia rideva istericamente, come se fosse posseduta dal demonio in persona, la madre piangeva, altrettanto istericamente. Ma non voleva che sua figlia le venisse tolta per venire affidata ad un ¬¬¬¬istituto psichiatrico. Voleva essere accanto a lei quando avrebbe visto i suoi occhi chiudersi e le sue membra fermarsi per sempre. Adesso, non poteva quasi più sopportare la vista della ‘danza’ che scuoteva sua figlia da capo a piedi. La sua sopportazione stava per culminare con un omicidio, pur di non vedere sua figlia soffrire, quando, un giorno, Matilde smise di urlare di colpo, dopo circa un’ora che andava avanti sgolandosi. Sua madre si accostò alla porta della camera, per origliare. La sentì stare in silenzio per molto tempo. Quando aprì bocca, fu per mormorare: «Sto morendo» A quel punto, la madre spiò dal buco della serratura. Matilde stava fissando il vuoto con un’aria stupita, come se avesse appena realizzato ciò che aveva detto. La madre fu presa da uno scompenso e pensò che quella era davvero la fine. Ma Matilde non ebbe più attacchi isterici, da quel giorno in poi. I suoi occhi, seppure sempre più chiari e vuoti, rispondevano con dolcezza alle chiamate della madre, anche se le sue membra si rifiutavano di eseguire gli ordini dati loro. I gesti della ragazza divennero più calmi, moderati. Stava tornando ad essere un’adolescente normale, seppure sempre dalla mente distorta da quella malattia degenerativa. Ogni tanto riprendeva con i suoi scleri, urlando come un’ossessa, ma si fermava sempre di colpo dopo un po’. Questo accessi di calma fece sperar bene la madre, anche se non sapeva a cosa fosse dovuto. Un giorno, la sorprese in camera che parlava dolcemente al muro, con occhi languidi, le guance rosee. Aprì la porta un poco per guardare meglio, ma la ragazza non si voltò nella sua direzione, troppo presa dal suo nuovo monologo. Il pavimento della stanza era cosparso dei trucchi che usava quando era ancora un ballerina. Il suo volto era impiastricciato di mascara, ombretti, segni di matita. Le sue mani tremanti non avevano fatto un buon lavoro e forse il suo cervello apprezzava la sua nuova immagine dettandole una mostruosa idea di bellezza. Matilde parlava con dolcezza a un compagno immaginario: non era più sola. «Oh, sei troppo gentile. Non avresti dovuto darti tanta pena per me… queste rose sono molto profumate» e, nel dire questo, si portava le mani al naso e inspirava, come se davvero avesse un mazzo di rose di fronte. La madre la lasciò parlare a ruota libera e capì molte cose: Matilde doveva essere innamorata di questo ragazzo immaginario e, a quanto pare, lui la ricambiava. Accarezzava la parete con le dita delicate e diafane, come se accarezzasse il volto del suo amato. Sorrideva, arrossiva se lui le faceva un complimento. Era una scena che spezzava il cuore alla madre che le si piazzò dietro, guardandola e commuovendosi talvolta. Aspettò che Matilde congedasse il suo nuovo amico e poi la chiamò con voce flebile. La ragazza la fissò per qualche secondo prima di riconoscerla. Poi le sorrise e si alzò, sapendo che era pronto il pranzo. La madre le sorrise. «Matilde, sei bellissima.» La ragazza spalancò gli occhi in maniera poco naturale e infine disse: «Me lo dice sempre anche lui.»

Pensava che sarebbe impazzita di dolore. Ogni fibra del suo corpo faceva del suo meglio per farle vivere un inferno. E non serviva a niente che lei gridasse o ridesse così forte, perché il dolore le avrebbe preso anche la voce, come aveva fatto con il colore dei suoi occhi. Era convinta che sarebbe collassata in quel momento. Sapeva che sua madre non la aiutava perché non poteva vederla soffrire. Comunque, non avrebbe potuto fare molto per il fuoco che le bruciava dentro e le alimentava gli scatti improvvisi delle gambe e delle braccia. Aveva molta paura di se stessa da quando gli spasmi erano cominciati e sapeva che le medicine per cui aveva sacrificato i suoi capelli non servivano a niente perché il dolore e la malattia stavano diventando più forti addirittura di loro. Deglutì a forza e si lanciò in una risata isterica per diversi minuti. Si interruppe solo quando un tocco leggero alla mano sinistra la fece sussultare. Aprì gli occhi e, attraverso il velo che da un po’ di tempo a quella parte era calato sui suoi occhi, intravide il ragazzo più bello che avesse mai visto. Era biondo, con degli occhi verdi che però Matilde avrebbe giurato avessero dei riflessi gialli. La pelle era bianca come porcellana, perfetta. «Ciao, Matilde.» Il suo nuovo dottore. Lo sapeva che sua madre l’avrebbe cambiato. Ebbe un moto di rabbia e batté con rabbia un pugno sul pavimento, ferendosi le nocche. Il ragazzo le prese la mano ferita e, dolcemente gliela fasciò con garze che sembravano fatte di aria pura delle montagne. Diedero un immediato sollievo alla pelle della ragazza. «Sono Elia. Ti ho visto molto arrabbiata e allora mi sono solo chiesto cosa tu stessi facendo.» «Sto morendo» aveva sussurrato Matilde. Lui aveva sorriso. «E’ brutto sapere di stare morendo. Dovresti avere qualcuno o qualcosa che ti distragga da questo brutto pensiero.» Matilde gli aveva raccontato, mormorando, la sua storia. Lui allora aveva promesso che sarebbe stato il suo confidente fino alla fine. E fu l’ancora di salvezza di Matilde.

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Capitolo 5
*** Hope ***


Cinque mesi dopo, Matilde aveva un ragazzo.
Un ragazzo che la apprezzava nonostante la sua cecità, la sua perdita di capelli, il suo corpo spigoloso e secco. Lui amava i suoi occhi bianchi e privi di vita, la stoppa che le medicine le avevano lasciato in testa, gli angoli acuti dei suoi gomiti. Appoggiava la testa sulle sue cosce smagrite, le accarezzava gli zigomi sporgenti, rimirava i suoi occhi spenti e le pettinava quello che rimaneva della sua vecchia chioma.
Lei non poteva vedersi, ma c’era lui a dirle quanto fosse bella.
I suoi capelli avevano riflessi viola, i suoi occhi erano blu come l’oceano e la sua pelle era morbida e fresca. Tutto questo lei sapeva. Ma non avrebbe mai saputo la verità.
La madre di Matilde non poteva non piangere ogni volta che Matilde si accarezzava le mani, se le stringeva, dicendo che erano quelle del suo ragazzo. Avrebbe voluto fare lei la parte del ragazzo, pur di non vedere quello squallore come spettatrice. Il medico ormai le aveva dato poco da vivere.
Le sue gambe erano rimaste ferme, poiché riusciva a stare intere giornate di seguito nella stessa posizione.
La madre poteva anche toccarla, adesso, mentre delirava, lei non se ne accorgeva. Spesso le cambiava posizione, ma non riuscì ad evitare che le gambe di sua figlia si fermassero per sempre.
Quando il suo ragazzo se ne andava, Matilde cadeva in uno stato di trance: fissava, senza poterlo vedere, il punto in cui, secondo lei, lui era sparito. Dopo, cominciava a vagare per la casa distribuendo sorrisi oppure mugolando incessantemente, a seconda dell’umore che aveva.
Alla beata età di 27 anni, Matilde era ormai ferma, paralizzata dalla vita in giù. Eppure continuava a correre nei prati insieme a Elia (così chiamava il suo ragazzo), a interagire con lui.
Ormai Matilde non riconosceva più nessuno se non Elia. Non si accorgeva nemmeno della presenza altrui. Più di una volta sua madre si chiese se, nel mondo in cui credeva di abitare lei, ci fossero altre persone. Probabilmente no, era sola con il suo ragazzo.
La madre ringraziava il cielo che fosse completamente pazza, in modo che non potesse rendersi conto delle sue condizioni. Alla fine, cedette prima lei: stanca di una vita spesa a soffrire e piangere per sua figlia, morì. Fu meglio così: non avrebbe mai sopportato di vedere sua figlia che non la riconosceva nemmeno in punto di morte.
Il suo ultimo desiderio fu di vedere sua figlia, ormai ferma in un letto d’ospedale. A 30 anni, sorrideva come una bambina e si abbracciava da sola, mormorando qualcosa.
«Elia!» diceva. Poi riprendeva a muovere le labbra, ma dalla sua gola non veniva articolato nemmeno il più mero dei suoni. Sua madre, al culmine della sopportazione, morì provando a leggere il labiale di sua figlia. Le sue ultime parole furono: «Proprio come suo padre.»

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Capitolo 6
*** Sognare ***


Ma, al contrario di ogni previsione, Matilde visse molto di più, purtroppo. Finì i suoi giorni contenta di ciò che –non- aveva.
I medici affermarono in seguito che quella di Matilde era stata la morte più serena che un malato di Còrea di Huntington potesse avere. Rideva sempre, continuamente.
Una volta, le sue corde vocali vibrarono dopo molto tempo per dire qualcosa di diverso dal nome del suo ragazzo. Un’infermiera la sentì dire, con un beato sorriso stampato sulle labbra: «Insieme fino alla fine che sta per arrivare.» Poi era scoppiata in una fragorosa risata.
Le cause intercorrenti per la morte di Matilde furono i problemi che la malnutrizione aveva creato. Comunque non soffrì, anzi, fino a 37 anni continuò ad amare incessantemente Elia e a passare delle bellissime giornate con lui. Doveva essere un delirio veramente dolce e faceva quasi sorridere per la tenerezza. Gli spasmi rendevano i suoi gesti molto dolorosi alla vista: vedere una ragazza che cerca di abbracciare il vuoto ma non ci riesce a causa di una disfunzione motoria, stringeva il cuore a tutte le infermiere.
Nell’ultimo respiro della ragazza, fievole, si sentirono tutte le passioni che aveva perduto e tutte i sogni che aveva inseguito. La danza; la speranza che qualcuno trovasse un rimedio alla sua malattia; Elia.
Morì abbracciandosi, o meglio, abbracciando il suo ragazzo.
Disse che avrebbe fatto un pisolino stretta a lui e che quando si sarebbero svegliati, sarebbero andati di nuovo al fiume a cogliere i fiori. Fu il discorso più lungo che i medici le avessero mai sentito fare. Infine, si addormentò facendo dei movimenti con la testa come se stesse trovando la posizione più comoda fra le braccia di qualcuno. Morì così, serenamente, nel sonno.


Era bellissimo. Avevano corso per molto tempo quando lei gli aveva chiesto se potevano riposarsi un po’ prima di riprendere a correre verso l’argine del fiume dove avrebbero raccolto altri fiori.
«Certamente. Vieni qui». L’aveva stretta a sé con forza e l’aveva guardata dormire. Dopo diverse ore, poiché non si svegliava, capì. La prese in braccio e, delicatamente, come se potesse ancora sentire dolore, la portò all’argine del fiume. La stese nell’erba alta e le decorò il corpo con i migliori fiori che poteva trovare. Infine, le baciò il dorso della mano e, delicatamente, le labbra.
La principessa se n’era andata, seguendo il destino che suo padre le aveva lasciato.
E lui era lì da secoli, ad assistere ogni Re o Regina e ogni loro figlio, come amico o come pretendente. Lo avrebbe fatto in eterno, finché loro lo volevano, assistere tutti quelli che stavano male.
Non avrebbe mai smesso.
E sarebbe stato per sempre fedele ad ognuno di loro.
Lui era Hope, la speranza dei malati, il delirio dei moribondi, il sollievo dei bisognosi. C’era per tutti, esisteva per nessuno.
Spinse delicatamente il corpo nel fiume che venne portato via dalla corrente; lo seguì camminando sulla riva del fiume, fino ad arrivare alla foce. Ciò che stava oltre la foce lui non poteva vederlo, seppure sapesse che c’era Qualcuno di più potente, là, ad accogliere chi arrivava fino a quel punto

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