Dawn Of A New War

di _yulen_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo1 ***


Ero a Praga quel giorno, dovevo cercare gli ultimi sopravvissuti e portarli via e alla vista dello scenario che mi si parava davanti, sentii una specie di rabbia pervadermi.
Come può l’essere umano uccidere i suoi simili? Dopotutto, non siamo tutti uguali? Non capirò mai questa necessità di distruggere e ridurre in cenere qualsiasi cosa.
Mi avvicinai con cautela al cadavere, poteva essere una trappola.
Cercai le medagliette di riconoscimento: Capitano John “Soap” MacTavish, Task Force 141.
Avevo sentito di quella squadra e sapevo anche che i suoi ultimi due componenti erano ricercati per tradimento e terrorismo, probabilmente un’idea di Sheperd quella di farli uccidere. Mi sono sempre fidata di quell’uomo e poi era venuta fuori la verità, ma pochi la sapevano.
La pace sembrava essere tornata tra la popolazione mondiale con il trattato di pace tra Russia e America, ma solo con la morte di Makarov si era concluso tutto, era stato sconfitto, da chi non si sapeva ancora, quando le autorità trovarono il cadavere penzolante da un tetto, non c’era traccia di nessun’altra persona ma solo un mozzicone di un sigaro.
Guardai attentamente il cadavere e notai del sudore. I cadaveri non sudano. Era ancora vivo e io ero sola, e mi maledii per aver preso questa scelta, non avevo nessuno che potesse aiutarmi e avevo finito anche la morfina che portavo dietro.
Sospirai, dovevo inventarmi qualcosa, non poteva morire, aveva resistito fino a quel momento nonostante le gravissime condizioni, doveva resistere ancora, almeno fino a quando non l’avrei salvato.
Legai un laccio al di sopra della ferita sul petto per impedire che perdesse altro sangue e poi cercai di caricarlo sulle mie spalle. Fu un totale disastro, facevo fatica a reggermi in piedi visto che erano giorni che non dormivo e non mangiavo e portare altro peso era una cosa stupida.
Mi serviva un piano B, mi guardai attorno ma non c’era nulla che potesse aiutarmi, c’erano solo macerie, cadaveri e sangue.
Osservai il tavolo sopra il quale era disteso e poi mi venne un’idea: ruppi le gambe del tavolo per ridurlo a una semplice lastra di legno e poi presi alcune sbarre per farla scorrere. Fu un’impresa che bruciò quelle poche energie che mi erano rimaste, le sbarre erano poche e piccole, dovetti spingere per portarlo fuori e caricarlo nel furgone con il quale ero venuta per portarlo nel mio rifugio a Prace, speravo solo che reggesse ancora quindici minuti. Il tempo di arrivare.

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Capitolo 2
*** Capitolo2 ***


Il viaggio fu tormentato, a un certo punto ho iniziato a credere che il mio passeggero sarebbe morto ma con un po’ di fortuna riuscii a portarlo al sicuro, la parte difficile veniva ora, dovevo fare in modo che sopravvivesse.
Era piuttosto mal concio e anche nel sonno, non riusciva a calmarsi e io non sapevo come fare per alleviare il dolore, se gli avessi dato troppa morfina sarei stata punto e a capo, ero sola perché tutti credevano che io fossi stata uccisa da quando “tradii” la Russia perché non mi trovavo d’accordo con i piani di Makarov. Eppure io ero viva, e loro lo sapevano perché qualche giorno fa, riuscii a mettermi in contatto con una delle squadre di salvataggio e non si erano nemmeno preoccupati di venirmi a cercare, le uniche persone che si mobilitarono furono il mio sottotenente e il mio sergente che puntualmente, mandai via perché avrebbero messo a rischio la loro carriera disobbedendo agli ordini dei superiori.
Pregavo solo che ce la facesse, una volta rimesso in sesto, lo avrei fatto rimpatriare. Era di questo che mi occupavo dopo che mi abbandonarono, convinta che fossi passata a miglior vita, cercare i sopravvissuti e farli ritornare a casa loro, sempre sperando che una casa ce l’avessero ancora, era il mio nuovo lavoro.
Continuavo a guardarlo mentre si agitava, provai a svegliarlo per farlo mangiare, ma fu inutile.
Presi la radio per cercare aiuto ma tutti i canali erano occupati e non avevo nemmeno un dannatissimo computer per stabilire un collegamento con un satellite, sperando che facesse rimbalzare il segnale verso qualche caserma.
Mi appoggiai alla parete incrociando gambe e braccia e chiudendo gli occhi, non c’era alcun rumore intorno. Tutto silenzioso, nemmeno il vento sembrava soffiasse eppure sentivo qualche spiffero d’aria entrare dalla finestra, era uno scenario post-apocalittico, macerie ovunque, cadaveri dietro ogni angolo e la vita sembrava fosse stata spazzata via. Mi avvicinai alla finestra prendendo il mio fidato fucile di precisione, dovevo sorvegliare la zona e tenere fuori dalle palle qualsiasi nemico fosse sopravvissuto in quel paesino.
Quella notte sembrava interminabile, io ero distrutta e non avevo più le forze per reggermi in piedi e il soldato che avevo trovato, mi aveva fatto dannare in tutti i sensi. Non aveva smesso un solo secondo di agitarsi o delirare dicendo cosa senza senso.
La mattina arrivò gelida, portando solo un po’ di luce che non mi fece sentire meglio perché avevo mal di testa e il brillare del sole lo aveva fatto aumentare, se poi aggiungiamo che ero diventata fotosensibile da quando una flash bang mi scoppiò a meno di due centimetri dal naso, ero a cavallo.
Cercai i miei occhiali da sole che erano puntualmente spariti e imprecai a voce così alta che temevo che qualcuno mi avesse sentita.
Avvertii un leggero scricchiolio dietro di me e prontamente portai una mano alla pistola per poi girarmi con velocità. Rimasi sorpresa nel vedere che il soldato che avevo trovato stava cercando di reggersi in piedi, appoggiandosi alla branda, cercò di dire qualcosa e poi cadde.
“Uomini” pensai facendolo distendere di nuovo. Si era alzato nonostante sapesse di essere forte quanto un budino.
Perlomeno sembrava che stesse recuperando, anche se ci sarebbe voluto un po’ e io non avevo tutto quel tempo. Faceva parte della 141 ed era ancora un ricercato, se lo avessero trovato lì e in quello stato,non ci avrebbero pensato due volte prima di ucciderlo.
Mi buttai su una sedia e sospirai, avevo anche io bisogno di dormire, ma se lui si fosse svegliato mentre io ero addormentata, sarebbe stato un bel guaio perché non c’era nessuno lì pronto ad aiutarlo a parte me e poi non dubitavo che avrebbe cercato di uccidermi, dopotutto, ai suoi occhi, potevo sembrare un nemico che aspettava un suo risveglio per interrogarlo e ricavare chissà quali informazioni.
Chiusi gli occhi, sperando di non addormentarmi, non potevo permettermelo.
 
Un forte tuono mi costrinse ad alzarmi, guardai fuori dalla finestra e sembrava che fosse notte dato il cielo scuro e nero. Mi guardai intorno sospettosa e mi avvicinai alla branda.
Le condizioni del soldato andavano peggiorando, lo sapevo che alzarsi era stata una pessima mossa. Presi altre fasce per poterle cambiare e quando tolsi quella che aveva al petto, altro sangue iniziò a uscire copiosamente.
Cercai di premere sulla ferita e di prendere la cartina che avevo in tasca, sapevo che nelle vicinanze c’era un ospedale, ma non sapevo come arrivarci. Accesi la torcia e cercai di illuminare la mappa quel tanto che bastava per farmi trovare il percorso più semplice che era a tre minuti in’auto.
Spinsi la barella fino al furgone e la caricai cercando di assicurarla con le cinture di sicurezza.
Misi in moto sperando solo che l’edificio fosse ancora in buone condizioni e soprattutto pregando di non trovarvi nemici all’interno altrimenti sarebbe stato tutto inutile. Anche guidare sembrava impossibile, avevo li occhi che si chiudevano da soli e sbandai più di qualche volta.
Ero pronta a tutto, ero uno Spetsnaz ed ero stata addestrata per ritrovarmi in situazioni peggiori, eppure quella guerra mi aveva prosciugato qualsiasi energia, come un limone che viene spremuto fino a ridurlo alla sua sola buccia.
 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo3 ***


Arrivai davanti all’ospedale e anche se era in parte distrutto, mi sembrava che come rifugio momentaneo potesse funzionare. Scesi trascinandomi il corpo dietro e aprii la porta bloccata con un calcio.

Dentro, l’edificio, era ancora più disastrato di quanto non fosse all’esterno tanto che feci fatica a camminare a causa delle macerie spare ovunque e dei letti ribaltati.
Sentii dei passi poco lontani da me e un proiettile colpirmi la gamba.
-Dermo (merda)-mi lasciai sfuggire mentre appoggiai il corpo a terra.
-Russi-sentii una voce provenire dal corridoio.
I passi si facevano sempre più vicini, presi la pistola pronta a sparare.
-Non vorrai spararmi, sono disarmato-la stessa voce di prima solo che questa volta riuscii ad attribuirgli anche un volto.
il mio lavoro-risposi prendendo la mira.
-Il tuo lavoro?-chiese portando una mano vicino al coltello.
Ero pronta a fare fuoco ma un rantolo proveniente dal soldato ferito mi fece abbassare la guardia e in poco tempo il nemico mi fu addosso, strappandomi la pistola dalla mano.
Presi il coltello tattico e lo lanciai sperando di colpirlo in pieno petto ma lui fu molto più veloce e si procurò solo un leggero taglietto al braccio, imprecai di nuovo. Non avevo tempo da perdere, specie in un’inutile lotta.
Mi lanciai contro il nemico pronto a colpirlo ma mi immobilizzò prendendomi per le braccia.
-Di solito non sono così con le donne, e non credo di riuscire a fare un’eccezione-disse.
-Non sarà necessario-risposi con un evidente accento russo mentre mi liberavo sferrando una ginocchiata all’altezza dello stomaco.
Si piegò in due e poi si rialzò venendo verso di me per colpirmi con un pungo, lo bloccai con entrambe le mani e poi colpendolo alle gambe lo costrinsi a piegarsi di nuovo, gli feci battere la testa contro il mio ginocchio, recuperai la mia pistola e tornai verso il corpo immobile del ferito.
Sapevo che non sarebbe bastato, mi sembrava uno che non molla facilmente ma mi serviva tempo per spostare il soldato in una camera adeguata e dargli tutte le cure che gli servivano.
Lo caricai di nuovo sulla spalla ma non ce la faceva a stare in piedi e cadde rovinosamente per terra. Non poteva mollare adesso, aveva resistito. Lo schiaffeggiai per cercare di fargli prendere coscienza ma non servì a nulla, sentivo solo il suo respiro svanire piano, piano.
-Davay, ne vzdumay sdat'sya! (Forza, non mollare)-urlai schiaffeggiandolo.
Sentii un coltello alla gola e lentamente impugnai di nuovo la pistola per puntarla verso l’alto mentre con una mano continuavo a premere sulla ferita del soldato.
Di certo non era in quel posto che volevo trovarmi, a curare un soldato prossimo alla morte e a scontrarmi con un altro che a quanto pare odiava tutta la Russia. Mi immaginavo un fine guerra più tranquillo, magari ai Caraibi, visto che ormai ero morta e a nessuno importava di me e, se fossi uscita viva di lì, avrei dovuto cambiare identità, una cosa normale per un’ex spia sovietica e comunque mi piaceva quel continuo cambiare, rendeva più interessante la mia vita solitaria.
-Soap?-chiese l’uomo senza staccare il coltello.
-E che ne so io. L’ho solo trovato mezzo morto e dopo aver guardato le piastrine, mi sono accorta che stava sudando e…-
-I cadaveri non sudano-rispose ritirando il coltello dal collo e guardandomi in modo strano.
-Esatto, voglio solo aiutarlo ma se continua a cercare di uccidermi, dubito che sopravvivrà alle prossime ore- dissi con un marcato accento russo.
-D’accordo, piccola tregua-
Mi aiutò a rialzarlo e lo portammo verso una camera che sembrava ancora in buono stato e poi lo distesi piano mentre l’altro uomo cercava alcune fasce.
Mi appoggiai a una sedia avvertendo una fitta alla gamba destra, abbassai lo sguardo e vidi che stavo sanguinando.
“Il proiettile”pensai cercando uno specchio per verificare la gravità della situazione.
Non era entrato troppo e con un paio di pinze riuscii a estrarlo, imprecai di nuovo e poi mi fasciai la gamba.
Tornai verso il soldato ferito. Si stava dissanguando, usai l’anticoagulante e ci misi un po’ a fermare tutto quel sangue che continuava ad uscire. Alla fine, stremata ed esausta mi lasciai cadere contro il muro, avevo bisogno di dormire ma non potevo abbassare la guardia, dopotutto se loro due si conoscevano davvero, ci avrebbero messo poco a ridurmi a un mucchietto di ossa.
-Dormi pure, non ho intenzione di ucciderti, almeno per il momento-
Alzai lo sguardo verso l’uomo, non mi sentii sollevata, per niente, anche se aveva detto che non voleva uccidermi. Ghignai divertita e abbassai il capo.
-E chi me lo assicura?-chiesi.
-Bhè, ho constatato che sei brava a curare le ferite e quindi se ti uccido, Soap morirà-disse guardandomi.
-Soap. Lo conosce?-
-Si, Task Force 141, Capitano John “Soap” MacTavish. Prima faceva parte del 22° reggimento della Special Air Service-
-Inghilterra-sospirai incrociando le braccia.
-Già, io ero il suo capitano-
-Quindi deduco che lei sia Price. Sa, dopo aver ucciso Sheperd, il mondo non vede l’ora di vedervi sotto terra. Il punto è che nessuno a parte me e voi sa che il Generale era un traditore e pensare che mi fidavo di lui-dissi con rammarico.
-E che ci fa uno Spetsnaz in un posto come questo?-chiese piuttosto incuriosito.
-Storia lunga-risposi vagamente.
-Abbiamo tempo-
-Sono qui da due anni ormai e ho stretto una specie di accordo con i civili rimasti, se avessero trovato qualche superstite, se ne sarebbero presi cura fino al mio arrivo, in cambio li avrei protetti ma non ci sono riuscita-risposi desolata. -Ieri mi è arrivata la notizia che qualche mese fa trovarono un soldato ferito gravemente, si erano presi cura di lui ma visto l’aggravarsi delle sue condizioni, lo avevano dato per morto. Sarei dovuta andare subito da loro ma ho avuto un paio di contrattempi, l’esercito russo mi da la caccia e questo non ha facilitato il lavoro soprattutto perché fino a cinque giorni fa giravano per Praga e dintorni facendo delle vere e proprie carneficine-
-Ecco perché qui non c’è anima viva-commentò Price.
-Già, comunque, sono riuscita a raggiungerlo e a primo impatto avrei giurato che fosse passato a miglior vita ma fortunatamente è ancora qui-dissi appoggiandomi alla finestra.
-Perché l’esercito russo ti cerca?-
-Vogliono uccidermi-risposi facendo intuire che il discorso sarebbe finito lì.
Mi guardai bene dal dire la verità perché se gli avessi detto che il vero motivo era il fatto che avevo disertato per colpa di Makarov, mi sarei scoperta troppo, il mondo ormai sapeva di lui ma era meglio non dirgli che lo conoscevo di persona e che in pochi anni si dimostrò essere uno psicopatico. All’inizio mi ritrovai ad essere d’accordo con lui nel far brillare la grande Russia, ma quando scoprii quali metodi stava adottando, me ne andai, e lui, per vendicarsi, decise di far uccidere la mia intera famiglia, non aveva risparmiato nemmeno mio figlio di appena tre mesi e così decisi di arruolarmi per vendicarmi a mia volta. Fino a qui tutto normale, se non fosse stato per il semplice fatto che gran parte della popolazione russa, tra cui molti soldati, si erano schierati dalla sua parte, così mi ritrovai costretta a combattere questa guerra da sola.
-Ora tocca a lei, che ci fa qui?-rigirai la domanda per evitare di rispondere seriamente.
-Sono qui per lui-rispose indicando Soap. -Avrei portato il suo corpo in Inghilterra e gli avrei dato una degna sepoltura-
Guardai il letto sul quale era disteso, domandandomi per cosa avesse resistito e se ne avesse valso la pena.
Mi decisi a dormire, almeno per qualche ora, dovevo recuperare le energie.

Il rumore di alcuni cingolati mi fece sobbalzare, guardai l’orologio e non mi resi conto di aver dormito quasi per tredici ore.
Scattai in piedi e mi affacciai alla finestra, carrarmati e altri mezzi pesanti stavano marciando lungo le strade, vicino all’ospedale.
-Dobbiamo andarcene-sentii Price dire con affanno mentre caricava Soap su una spalla.
-Lo credo anche io ma il paese è circondato e siamo senza armi-risposi allontanandomi dalla finestra. -Senza contare il fatto che non possiamo scorrazzare qua e là con le sirene accese-aggiunsi mettendomi a lato della porta.
-Non servono ambulanze quando si dispone di un elicottero, dobbiamo solo arrivare ai confini del paese-rispose.
Non volevo perdermi in stupide spiegazioni, aprii lentamente la porta e mi sporsi quel po’ che bastava per controllare che nessuno fosse entrato.
-Ho un furgone parcheggiato di fuori-risposi aiutandolo a sollevare il soldato che stava cadendo.

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Capitolo 4
*** Capitolo4 ***


-Sali-sentii dire Price.
Scossi la testa.
-Non serve più il mio aiuto, avete un elicottero. Portatelo in un posto sicuro e fate in modo che riceva tutte le cure-urlai per sovrastare il rumore delle pale dell’elicottero.
-Non era una richiesta, muoviti o ti lascio qui-
Mi guardai indietro e vidi soldati nemici avanzare verso di noi, borbottai qualcosa e poi salii giusto in tempo.
Una domanda mi balzò subito in testa; la guerra era finita. Perché l’esercito russo stava marciando verso Prace?
Mi scrollai, non avevo voglia di pensarci, la guerra non era più un mio problema, dopo essermi assicurata delle condizioni del ferito e averlo curato, avrei ricominciato a cercare sopravvissuti che avevano bisogno di aiuto, gli avrei dato una mano e sarei sparita nel nulla cambiando nome e identità.
-Immagino che sappia dove si trovi San Pietroburgo-dissi guardando di fuori.
-Si, perché?-Price mi guardò inarcando un sopracciglio.
-Se siamo fortunati potremo usare una caserma come riparo e curare lui-dissi indicando il soldato.
Mi ero dimenticata il nome, sorrisi perché io ero conosciuta con due identità diverse, alle quali, a fine guerra se ne sarebbe aggiunta una terza, tutto quel cambiare mi avrebbe fatto dimenticare il nome di battesimo.
Gettai la testa all’indietro sospirando e poi mi addormentai di nuovo senza nemmeno rendermene conto.

 Riaprii gli occhi a fatica, pessima idea quella di dormire. Mi stiracchiai e guardai fuori, eravamo quasi arrivati.
Il ferito sembrava stesse dormendo tranquillamente, mi avvicinai per verificare se era il caso di cambiare le fasciature o aspettare di essere giunti a destinazione.
L’emorragia era stata fermata eppure il sangue passava oltre la giacca mimetica, sulla quale era inciso in cognome: MacTavish. Dovevo memorizzarlo.
Atterrammo su uno spiazzo d’erba poco lontano da una caserma militare, esaminai la zona per assicurarmi che fosse sicura e poi feci scendere anche gli altri.
Li condussi verso l’edificio e li feci entrare. Mi fermai guardando i corridoi, cercando di ricordarmi dove fossero l’infermeria e l’armeria. Erano anni che non mettevo piede lì e non mi ricordavo del posto, sapevo solo dov’erano le camerate e il parcheggio per i blindati.
San Pietroburgo, non era distrutta come Prace ma ugualmente si poteva capire che la guerra era arrivata fino lì e io speravo con tutto il cure che tutti i militari e i civili presenti in quel posto al momento dei bombardamenti, fossero riusciti a scappare in tempo.
Sbuffai e poi feci cenno di seguirmi verso un lungo corridoio che dava a una grande stanza piena di computer e dove, attaccato alla parete, c’era una cartina della caserma.
La strappai e la guardai perplessa, le camerate che erano nell’ala est ora erano nell’ala nord e il parcheggio per i blindati era stato spostato per far posto a un poligono di tiro, avevano fatto grandi modifiche. Feci scorrere lo sguardo lungo una linea blu e cercai di memorizzare il percorso da seguire per l’infermeria.
Borbottai qualcosa quando notai che l’accesso era ostruito da un cumulo di macerie.
Non avevamo tempo per spostarle, ci sarebbe servito troppo tempo e non potevo nemmeno usare l’esplosivo perché c’era il rischio che con le vibrazioni crollasse tutto. Doveva esserci un altro modo per entrare.
Tra le macerie, notai una piccola fessura, grande abbastanza da farmi passare.
-Io passo per lì, vado a vedere se c’è un altro modo per entrare-dissi infilandomi nel buco.
Era una situazione claustrofobica, lo spazio non era abbastanza grande da far passare molta aria e iniziai a pensare che sarei morta, continuai lo stesso cercando di farmi forza e pensando che visto che ero arrivata fino a lì, non potevo mollare. Continuando a muovermi, mi ferii a una gamba, la stessa dalla quale rimossi il proiettile. Avanzai qualche altro mentro e poco dopo ero finalmente fuori. Come pensavo, ero finita nell’infermeria.
Guardai la stanza e notai un’altra porta nello stesso lato di quella bloccata, mi avvicinai e la aprii.
-Di qua-dissi facendo capolino dalla porta secondaria.
Fortunatamente c’erano le attrezzature necessarie per curarlo, probabilmente non erano riusciti a evacuare la zona in tempo. Ripresi in mano la cartina e la guardai cercando il precorso per l’armeria. Se fossi riuscita a trovarla e se ci fossero state armi, avrei potuto usarle per difenderci in caso di attacco nemico.
Lasciai MacTavish con Price e il pilota dell’aereo e, a passo sicuro, mi diressi verso la porta con la cartina in mano.
-Dove stai andando…?-Price si fermò, non gli avevo ancora detto come mi chiamavo.
-Tenente Selena Markovna Yakova, Spetsnaz, reparto Vympel-risposi mettendomi sull’attenti. -É una caserma questa, deve esserci un deposito armi da qualche parte-continuai mostrandogli la cartina.
Annuì e io proseguii verso lunghi e stretti corridoi, stando bene a percepire anche il minimo movimento, il più piccolo spostamento d’aria, era una caserma e sarebbe stato normalissimo trovare qualche nemico.

Entrai nell’armeria e per un piccolo istante, mi sentii come Alice nel Paese delle Meraviglie nel vedere tutte quelle armi a mia completa disposizione. Presi tre fucili e seguendo lo stesso percorso dell’andata, tornai in infermeria.
-Ci sono armi di là, dovremmo spostare MacTavish in modo da non essere scoperti-annunciai posando due fucili d’assalto su un bancone e tenendone uno in mano.
Mi fermai a guardare il pilota, tipici tratti russi.
-Lui è Nikolai-disse Price prendendo un fucile.
-Non tutti i russi sono dei pazzi, psicopatici, assassini-risposi divertita con allusione a Makarov.
-Come conoscevi Makarov?-chiese incuriosito.
Domanda alla quale non avrei risposto sinceramente, se avessi detto qual’era il vero motivo, l’ultima cosa che avrei sentito, sarebbe stato lo sparo di quel fucile.
-Tutti sapevano di lui-risposi vagamente senza dire tutta la verità.
-D’accordo, spostiamolo-rispose lanciandomi una rapida occhiata.
Feci strada con il lettino fino all’armeria e poi mi appartai in un angolino buio della stanza tendendo ben stretta il mio fucile. Avevo esposto i miei occhi a troppa luce negli ultimi giorni e iniziavano a bruciarmi.
Sospirai tirando fuori dalla tasca una foto. La guardai e alcune lacrime iniziarono a rendere più lucidi i miei occhi. Quella era l’ultima cosa che mi rimaneva della mia famiglia, una stupida e sbiadita foto, non avevo più nulla a parte una casa distrutta a Mosca.
Mi rifiutai categoricamente di piangere, chiusi gli occhi e ricacciai dentro le lacrime, ero uno Spetsnaz, le emozioni per me erano solo ricordi, nulla di più, non mi ricordavo nemmeno cosa volesse dire voler bene a qualcuno.
Riposi la foto in una tasca dei pantaloni e mi sedetti su una sedia lì vicino cercando di recuperare le ore di sonno perso.

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Capitolo 5
*** Capitolo5 ***


Un incubo spezzò il mio sonno, decisi di alzarmi per verificare le condizioni del ferito, ma come mi affacciai alla luce naturale che entrava dalla finestra, fui costretta a coprirmi gli occhi.
Andavo peggiorando e avevo lasciato i miei occhiali a Prace, mi avvicinai alla branda cercando di tenere gli occhi aperti.
Osservai attentamente il corpo immobile e poi alzai la maglia, notai che la fascia era intrisa di sangue, la tolsi e la mia preoccupazione si fece più intensa quando vidi che la ferita si stava infettando, se non fossi riuscita a ripulirla e a curarla del tutto sarebbe morto.
-Price!-chiamai a gran voce.
Vidi l’uomo apparire da una porticina che dava su un’altra stanza e quando incrociò il suo sguardo con il mio preoccupato, si avvicinò velocemente.
-La  situazione sta peggiorando, la ferita si sta infettando velocemente-dissi aprendo con i denti una busta per prendere delle garze.
-Che devo fare?-chiese preoccupato.
-Bhè, come minimo tenere pulita la ferita-dissi passandogli le garze e allontanandomi.
-E tu dove vai?-
-A prendere una cosa in infermeria-risposi uscendo dalla stanza.
Sbuffai mentre percorrevo il corridoio, sarebbe morto, ne ero sicura, eppure lui nonostante quella brutta ferita, nonostante il dolore, stava lottando.
Sapevo come si sentiva perché anche io provai la stesse sue sensazioni. Quando mi spararono a bruciapelo, sapevo di morire ma speravo ugualmente che fosse tutto un brutto sogno, la pelle mi bruciava e il sangue stava colorando di rosso la neve fresca sotto di me, il dolore era insopportabile. Mi sono sentita pervadere da una stanchezza acuta, avevo sonno ma sapevo che non potevo chiudere gli occhi altrimenti non li avrei più riaperti, in quei pochi istanti, ripercorsi in poco tempo tutta la mia vita e non era stata un granché.
Mi scossi per cacciare via quei ricordi ed entrai in una stanza, presi alcuni barattoli da un cassetto e poi tornai in armeria.
Appoggiai tutto quello che avevo su un tavolo, presi alcune garze e le bagnai con del disinfettante per poi passarle sul bordo della ferita. Dovetti premere un po’ più forte e questo causò smorfie di dolore e scatti che non mi agevolavano il lavoro, sapevo che faceva male ma se continuava così, ci avrei messo più tempo, presi una siringa e gli somministrai altra morfina.
-Tenetelo fermo-dissi guardando Price e Nikolai girandomi per prendere ago e filo.
Infilai l’ago nella pelle e facendo rapidi movimenti come se dovessi riparare un maglione scucito, richiusi la ferita. Mi girai per prendere un piccolo barattolo.
Price mi guardò ancora più incuriosito, fece per dire qualcosa ma lo fermai per tempo.
-Polvere cicatrizzante antibiotica-risposi spargendola sopra la ferita. -Dovrebbe funzionare ma non ha effetto immediato-continuai fasciandolo nuovamente.
Mi allontanai per prendere il mio fucile e uscire.
-Vado a dare un’occhiata in giro-avvisai prima di sparire completamente.
A dire il vero, avevo bisogno di stare con me stessa. Tornai alla sala computer sperando che funzionassero ancora e che ci fosse un collegamento a internet, volevo sapere le ultime novità ma visto che la sfortuna mi perseguitava, fui costretta a cercare il generatore per ripristinare la corrente e sperare che la centrale elettrica non fosse stata abbattuta.
Ripresi la cartina e la guardai nuovamente, ancora un po’ e avrei imparato a memoria la nuova disposizione delle stanze.
Scesi le scale e percorsi un corridoio che sembrava non volesse finire mai, sbottai quando inciampai su alcune macerie.
Diedi un’altra rapida occhiata alla cartina ed entrai in una stanza, l’unica forse a essere ancora in buono stato, accesi la torcia e guardai in giro fino a che il mio sguardo si posò sul generatore, lo azionai e tornai in sala computer.  Avevo risolto il problema della corrente, ma non quello del collegamento a internet, per quello fui costretta a forzare non so quanti server. Stando bene attenta a non lasciare scoperta la fascia del server che stavo usando io, riuscii a stabilire un collegamento.
A parte piccole guerriglie, nel mondo sembrava essere tornata la pace. Tirai un respiro di sollievo, speravo davvero che fosse tutto finito, eppure c’era qualcosa che non mi convinceva molto, chiamiamolo pure intuito femminile ma io non mi sentivo tranquilla.
I membri della 141 non erano più dei ricercati, il presidente Vorshevsky, dopo che fu salvato dalla miniera in Siberia e tornò in Russia, raccontò tutti gli avvenimenti e diede il via al trattato di pace. Almeno loro potevano girare tranquilli senza il rischio di essere uccisi.
Gettai la testa all’indietro e mi rialzai per andare a fare un giro della città.
Odiavo quel posto, segnava il mio cambiamento da ragazza spensierata che credeva che ci fosse del buono in ogni persona, a stronza, fredda e insensibile.
Ero ingenua a credere che nel profondo di qualsiasi essere vivente ci fosse un briciolo di umanità, le persone tradiscono e io me ne accorsi troppo tardi per poter salvare chi mi era vicino, questo non me perdonerò mai. Mi sono sentita responsabile allora, e continuo a farlo anche adesso.
Se io mi trovavo a San Pietroburgo a curare un soldato mezzo morto e pregare che nessun’altro sapesse che io mi trovavo lì, era solo colpa mia. Cercai di incolpare Makarov per quello che mi era successo, ma se avessi scelto una vita più normale, un lavoro più normale, non mi sarei ritrovata in quella situazione che dire merda, era davvero poco.
Mi odiavo perché sapevo che la vita che vivevo era tutta una menzogna, a partire dal mio nome, Selena era il nome di mia madre, era di origine greca. Io non sono mai stata in Grecia ed è una vergogna. Dopo che fui costretta a cambiare identità, decisi di scegliere il nome di mia madre conscia del fatto che per chi mi cercava sarebbe stato facile ritrovarmi, ma quel nome mi faceva sentire meno la sua mancanza.
Non mi accorsi nemmeno di essermi addentrata troppo in città, era meglio sparire, mi voltai e tornai verso la caserma. 

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Capitolo 6
*** Capitolo6 ***


Un’altra noiosissima giornata era trascorsa lenta, come la guarigione del ferito, aveva ripreso coscienza anche se si riaddormentava poco dopo, ma almeno stava bene.
Io invece ero distrutta, passavo la maggior parte del tempo nel buio, i miei occhi bruciavano a causa dell’esposizione alla luce del sole e mi facevano tanto di quel male da causarmi un mal di testa insopportabile e questa cosa mi faceva innervosire perché in cinque mesi di reclusione, se così la vogliamo chiamare, limitai i miei movimenti solo quando calava la notte, sembravo una specie di vampiro.
Guardai l’orologio, era mezzanotte, decisi di tornare in sala computer e controllare le ultime notizie, sembrava che si stesse riaccendendo la scintilla della guerra, circolavano voci di bombardamenti sulla costa est del Giappone e di alcune truppe dell’esercito cinese in marcia da Seattle verso Vancouver, forse era arrivato il momento di avvisare anche Price.
Corsi verso l’armeria e rimasi quasi sorpresa nel vedere Soap seduto sul letto, mi guardò incuriosito riconoscendo la divisa dell’esercito russo.
-Chi cazzo è quella?-chiese a Price.
-Tenente Selena Markovna Yakova, Spetsnaz-rispose Price lanciandomi una rapida occhiata.
-Fottuti sovietici-borbottò toccandosi il torace.
Gli lanciai uno sguardo di disapprovazione, non perché aveva praticamente espresso il suo odio verso la Russia ma perché gli avevo salvato la vita, non mi aspettavo certo una cerimonia di ringraziamento, avrebbe potuto comunque fingersi quanto meno felice di essere ancora vivo.
-Lascia stare, lo fa sempre-disse Price percependo il mio nervosismo.
-Cosa? Arrivare a un passo dalla morte o mandare a fanculo chiunque gli salvi la vita?-chiesi calmandomi.
-Tutte e due le cose-
“Buono a sapersi” pensai avvicinandomi alla porta, mi ero dimenticata per cosa ero tornata fin lì.
Si era ripreso, non volevo aspettare oltre. Dovevo andarmene, se le notizie erano vere, voleva dire che la guerra aveva incontrato solo un breve periodo di tranquillità e che ben presto sarebbe tornato tutto un inferno.
Ero sulla soglia quando Price mi richiamò.
-C’è qualcosa che devi dirmi?-
Mi fermai e mi voltai, indecisa se rispondere.
-Si. Mi sono collegata con un satellite stabilendo una connessione internet. A parte le solite storie, la costa est del Giappone è stata bombardata e alcune truppe cinesi sono in marcia verso Vancouver -risposi rientrando e tornando nel mio posticino.
-Opera di Makarov?-chiese Soap, non sapeva della sua morte.
-Credo che Makarov non ci darà più problemi, l’ho ucciso io-rispose Price attirando l’attenzione di entrambi.
Era stato lui, lo aveva ucciso. Certo, volevo essere io a fargli esalare il suo ultimo respiro visto che mi aveva privato di tutto, ma la cosa più importante era la sua morte. Aveva distrutto abbastanza vite per poter camminare ancora su questa terra, non meritava di vivere, non l’ha meritato nemmeno per un secondo. Credevo che con la sua morte si fosse risolto tutto, ma a quanto pare non era così. Probabilmente uno dei suoi fedeli seguaci era sopravvissuto nascondendosi e ora voleva proseguire con l’intento di conquistare l’Europa e distruggere l’America. La cosa divertente è che probabilmente sapevo di chi si trattava ed era per questo che dovevo muovermi.
-Che posto è questo?-chiese Soap guardandosi attorno.
-Siamo in Russia, San Pietroburgo, questa è una caserma-risposi.
Lo guardai mentre studiava con occhio vigile ogni angolo di quella stanza.
Il mio compito era finito, era arrivata l’ora di andarmene, presi il fucile, una pistola, qualche granata, un fucile di precisione e alcuni caricatori.
Mi avvicinai alla porta. -Do svidaniya (Addio)-dissi prima di uscire.
-Dove stai andando?-mi chiese Price.
-Via, lui è vivo-dissi indicando Soap-necessita ancora di cure ma il mio aiuto non serve più. Comunque vi sconsiglio di riprendere subito le vostre attività, la ferita è ancora aperta-continuai voltandomi di nuovo verso la porta.
-Potresti aggiungerti, ci serve qualcuno che sia capace di medicare le ferite-disse Soap passandosi una mano sul torace.
Per un attimo iniziai a credere che il dolore gli avesse dato alla testa, che stesse delirando, ma per uno strano motivo lui era serissimo.
-Due militari inglesi e uno Spetsnaz… sembra l’inizio di una barzelletta-commentai sarcastica.
-Scozzese. Io sono nato in Scozia-mi corresse guardandomi.
Alzai le spalle scettica. Aggiungermi a una squadra voleva dire fidarsi dei compagni e io non riuscivo più a fidarmi di nessuno.
-Nemmeno per sogno, ho le mie cose ha cui pensare-
-Anche noi e un fucile in più può essere comodo-
Anche se il loro discorso aveva senso scossi la testa decisa ad andare per la mia strada.
-Scordatevelo, la Russia non vede l’ora di giocare con la mia testa, quindi è meglio che me ne vada-risposi decisa.
-Price?-Soap voleva sentire cosa ne pensava.
Fantastico, ora ci voleva anche il suo parere, non che per me contasse qualcosa, figuriamoci.
-Di certo un medico può ritornare utile-
-Vi ricordo che sono nata in Russia e noi russi siamo dei bastardi è per questo che me ne devo andare-risposi prendendo anche alcune fasce.
-Stai tranquilla, ti toglierò di mezzo personalmente se scopro che ci nascondi qualcosa-disse Price guardandomi.
Non dubitavo del fatto che mi avrebbe uccisa se avessi fatto o detto qualcosa fuori luogo, a volte anche io mi sarei presa a schiaffi da sola.
-No, resterò solo fino a quando non servirò più, poi leverò le tende-risposi guardando Soap.
Io ero della mia idea e per nessun motivo l’avrei cambiata e poi perché avrei dovuto prendere parte di una squadra? Stavo bene da sola, potevo fare quello che volevo senza dover dare spiegazioni a nessuno, non avevo bisogno di nessuno, sapevo cavarmela da sola, avevo imparato seguire solo il mio istinto e il mio intuito per sopravvivere e questo mi bastava.
E comunque, completamente sola, non lo ero. Avevo la solitudine ed eravamo come sorelle, lei non mi aveva abbandonata un secondo, era sempre rimasta al mio fianco, ascoltandomi quando parlavo al vento, capendomi quando piangevo e tenendomi compagnia nelle notti insonni.
La mia unica compagna di squadra era lei, fedele e leale ed ero sicura che non l’avrei rimpiazzata per niente al mondo.

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Capitolo 7
*** Capitolo7 ***


-Cosa porta uno Spetsnaz a disertare il suo paese?-mi chiese Soap mentre curavo la ferita.
Lo guardai e mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso.
-Volevo vedere com’era salvarle le vite invece che spezzarle-risposi fissando la fascia con alcuni ganci. -Comunque, dovrebbe dormire ed evitare di alzarsi per le prossime ore-dissi riprendendo il mio fucile.
-Nel mondo sembra che la guerra stia riprendendo il suo corso, e noi dovremo restare qui?-
-Esattamente-risposi uscendo e incrociando Price sul cammino.
-Soap sta dando i numeri, lo calmi e gli impedisca di fare qualsiasi movimento che lo metta sotto sforzo-dissi controllando che nell’arma ci fossero le munizioni.
-E tu dove vai?-
-A controllare i dintorni prima che il sole sorga-risposi allontanandomi.
Avevo tre ore a mia completa disposizione, volevo raggiungere la Baia della Neva per vedere l’alba. Mi piaceva quel posto, quando riuscivo a trovare un buco di tempo nel mio lavoro andavo lì, sia per vedere il sole sorgere sia per ammirare il tramonto, era uno spettacolo che valeva la pena vedere, avrei voluto vederlo di nuovo ma non avevo abbastanza tempo a diposizione.
Controllai solo le zone più a rischio, quelle che sarebbero potute essere un nascondiglio per il nemico e quando fui certa che la zona fosse sicura, tornai indietro.
Entrai in armeria e guardai Soap seduto sul letto chiacchierare con Nikolai.
Sembrava si stesse riprendendo, erano mesi che eravamo confinati in quella caserma e solo ultimamente sembrava essere tornato lucido e razionale tanto che aveva già provato ad alzarsi più di qualche volta, ma con scarsi risultati.
Mi lasciai cadere su una sedia nel lato scuro della stanza e chiusi gli occhi. Ero stanca, avevo vagato per la città per circa tre ore, ma non riuscivo a dormire, non che fosse una novità. Passavo poche ore dormendo e anche quel po’ di sonno era insoddisfacente e turbato e il fatto di essere costretta a dormire su una sedia non era di alcun aiuto.
Mossi prima il collo e poi la schiena facendo scricchiolare le mie ossa, ero da rottamare nonostante la giovane età.
Vidi Soap cercare di scendere dal letto.
-Non ci pensi nemmeno-dissi con voce ferma. –Si giri su un fianco ma non scenda-
Come se non avessi detto nulla, si alzò per cadere subito dopo.
Ero indecisa se restare lì a godermi la scena che testimoniava la sua stupidità, o dargli una mano.
-Idiota-borbottai avvicinandomi a lui per aiutarlo a rialzarsi.
-Cos’è che non capisce della frase “non si deve alzare per nessun motivo?”-chiesi facendolo distendere.
Fece per dire qualcosa ma con uno sguardo gli feci capire che doveva stare zitto.
Vidi un po’ di sangue fuoriuscire dalla ferita, probabilmente si era riaperta.
-La maglia. Se la tolga-ordinai cercando altre fasce.
-Non stiamo correndo troppo?-chiese divertito.
Quello era uno di quei momenti in cui lo avrei preso a testate.
-Se volete torno più tardi-disse Price sulla soglia della porta.
Non risposi altrimenti avrei fatto una strage tingendo le pareti della stanza di un bel rosso sangue.
Lo aiutai a sfilarsi la maglia e lo maledii quando vidi che erano saltati tre punti. Cercai l’ago e il filo e tornai verso di lui.
-Che intenzioni hai?-chiese indicando l’ago.
-Ricucire la ferita e ora stia fermo-dissi facendo passare la punta attraverso la pelle.
Non so perché ma mi divertii a vederlo soffrire, gli stava bene, così imparava a darmi ascolto, Price lo guardava divertito quasi quanto me.
-Fa male-mugugnò stringendo i pugni.
-Vuole farmi credere che è sopravvissuto a un salto di oltre 50 metri, ma non riesce a sopportare un semplice buchino nella pelle?-chiesi concentrata su quello che stavo facendo. -E ora resti fermo e non muova un muscolo-ordinai tagliando il filo in eccesso.
Lo vidi distendersi senza opporsi e anche io mi ritirai nello spazio che mi ero ritagliata per riposare.
Se avessi avuto un letto, ero sicura che avrei dormito per due giorni interi anche a costo di svegliarmi ancora più stanca. Io ero miss pigrizia, se non dovevo lavorare stavo a letto tutto il giorno.
Appoggiai il fucile contro la parete e poi mi distesi per terra improvvisando un cuscino con la giacca della divisa. Non era il massimo della comodità ma era meglio di niente.
-E Yuri?-chiese Soap rialzandosi e guardandosi attorno.
-È morto per mano di Makarov-vidi Price sorridere tristemente.
-E come lo conosceva?-
-Dai tempi di Zakhaev. Quando morì, Makarov prese il suo posto continuando con il piano e Yuri si ribellò quando scoprì quello che  stava succedendo davvero-rispose facendo un riassunto degli avvenimenti. Makarov era uno psicopatico-concluse in tono di affermazione.
Price aveva trovato l’aggettivo giusto: psicopatico, io avrei anche aggiunto completamente pazzo e senza senso della vita altrui.
Distruggere il mondo intero per conquistare solo una parte di esso era un piano che non aveva senso ma qualsiasi cosa architettata da lui non aveva logica o era impossibile da fare.
Mi lasciai sfuggire una risata, qualsiasi persona con un po’ di sale in zucca avrebbe mandato al diavolo Makarov e il suo piano megalomane.
-Cosa c’è di divertente?-chiese Price guardandomi.
Tutto mi faceva ridere, anche il fatto essere costretta a dormire per terra aveva il suo lato comico anche se in quel momento non riuscivo a coglierlo.
-Nulla, pensavo solo che chiunque fosse Yuri, ha fatto la cosa giusta mandando al diavolo Makarov-risposi cercando una posizione comoda sul pavimento.

 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo8 ***


Mi svegliai all’improvviso tutta sudata e uscii per respirare un po’ d’aria. I soliti incubi, le solite paure che ogni notte disturbavano il mio quieto sonno.
Sentii il naso prudermi come se fossi sul punto di piangere, diedi un pugno al muro ferendomi le nocche, non mi importava del dolore fisico, quello era una cosa che andava controllata, non conoscevo il suo significato. Il dolore era solo mentale.
-Ty v poryadke? (Va tutto bene?)-
Mi voltai e scorsi la figura di Nikolai appoggiato al montante della porta.
-Da (Si)-risposi guardando un punto non ben definito.
Rientrai per sciacquarmi subito la mano. Guardai lo specchio sopra il lavandino e provai rabbia nel vedere la mia immagine riflessa, non era per niente somigliante a quello che ero. I lunghi e ricci capelli neri erano sostituiti da un taglio abbastanza corto ma che mi permetteva di raccogliere i capelli in una cosa che assomigliava molto a quella di un coniglio, gli occhi argentei e pieni di vita erano spenti da due occhiaie marcate e la mia pelle bianca, quasi diafana era diventata scura e ricoperta di cicatrici.
Invece di mettere la mano sotto l’acqua colpii lo specchio tagliandomi tutta la mano mentre piccoli pezzi di vetro, caddero frantumandosi in altre schegge più piccole.
Sbuffai come se quella ferita fosse un fastidio e non qualcosa a cui rimediare subito.
Mi tolsi la maglia con la quale fasciai stretta la mano e poi aprii il rubinetto. Lasciai che l’acqua scorresse sui tagli lavando via il sangue che tinse tutto il lavello di rosso.
Tornai in infermeria e presi alcune fasce per coprire la ferita, indossai di nuovo la maglia e mi diressi verso l’armeria per recuperare la giacca.
Appena entrai, fui colpita dallo sguardo indagatore di Soap-Che ti è successo?-
Non risposi, non avevo voglia di rispondere alle domande, raccolsi la giacca e la indossai chiudendola.
-A quanto pare ha litigato con lo specchio-rispose Price apparendo dal nulla.
Sussultai perché non lo avevo sentito arrivare.
-E perché hai preso a pugni lo specchio?-continuò.
-Mi chiami Selena-risposi deviando la domanda.
-Non hai risposto alla mia domanda, Selena-disse alzando la voce per pronunciare il mio nome.
-Hobby, mi piace rompere gli specchi-risposi ironica.
Soap e Price mi guardarono con la coda nell’occhio, non era la risposta che volevano, ma non avrei mai detto la verità del mio comportamento. Quando dovevo parlare di me, rimanevo sempre molto evasiva. Nikolai rientrò poco dopo guardando la mano fasciata.
Mi sentivo al centro dell’attenzione e questa cosa mi creava un grande disagio.
Tornai nell’angolino buio, chiamiamola pure ritirata ma non mi piaceva sentirmi osservata in quel modo. Appoggiai la schiena contro una cassa e gettai la testa all’indietro, estrassi di nuovo la foto dalla tasca e la guardai con nostalgia. C’eravamo io, quello che era mio marito e un bambino di soli tre mesi. La risposi in tasca prima di fare altre cazzate e mi rialzai.
-Vado a dare un’occhiata in giro-dissi senza aggiungere alto.
Uscii dalla caserma senza una meta ben precisa, era il mio cervello a guidarmi e senza che me accorgessi, arrivai alla mia vecchia casa, quella in cui vissi dopo essere scappata da Mosca.
Restai lì ferma a guardare quelle mura che mi cambiarono così profondamente. Dovevo entrare, volevo farlo, ma come se fossi improvvisamente fatta di marmo mi bloccai all’entrata senza decidermi a fare il passo successivo. Avevo paura di quello che ci avrei trovato, una casa piena di foto di una vita che già non era più mia.
-Leytenant (Tenente)-
Mi sentii chiamare e con uno scatto, mi girai tenendo stretto il mio fucile.
Rimasi stupita nel vedere uno dei miei ex uomini, teneva l’arma abbassata e non sembrava volesse uccidermi.
Lo guardai sospetta e quando notai che era solo, mi rilassai.
-Ivan poprosil menya skazatʹ vam, chto on zhdet vas na Prosyane (Ivan mi ha chiesto di dirti che ti aspetta a Prosyane)-disse prima che potessi formulare una domanda.
-Zhiv li on? (È vivo?)-chiesi con troppa felicità.
Annuì leggermente e poi mi diede alcuni fogli.
Li guardai perplessa, erano documenti di trasporto appartenenti a un carico che sarebbe partito da Kiev per fermarsi in un’Oblast’ vicino al confine con la Russia.
Capii cosa voleva io facessi e dopo un’ultima occhiata a quei fogli dissi -Skazhite yemu, chto ya perestanu nagruzki (Digli che fermerò il carico)-
Annuì e poi mi salutò come un soldato saluta un suo superiore.
Risposi quei fogli in tasca e mi avviai verso la caserma per recuperare un po’ di caricatori. Per me era arrivato davvero il momento di andarmene.
Non riuscivo a meno di pensare a Ivan, sentivo il cuore scoppiarmi per la felicità. Sorrisi involontariamente, non riuscivo a non essere contenta.
Corsi per raggiungere l’edificio più in fretta ed entrai in armeria come un uragano, presi un Dragunov insieme a qualche caricatore e mi diressi verso la porta.
-Videt’ vas (Ci si vede)-dissi prima di uscire.
-Dove stai andando?-chiese Price fermandomi.
-Ci sono alcune cose da fare-risposi vagamente.
-Correggo la domanda. Dove andiamo?-
Restai sulla soglia per cercare una scusa che li tenesse lontani da me, non volevo averli intorno.
-Quando ho detto che si sono alcune cose da fare, intendevo che io devo farle-precisai.
Quella era la mia guerra e non volevo intralci, si trattava di una questione personale, di vendetta.
Sbuffai pentendomi per quello che stavo per fare ma una mano poteva essermi utile. Estrassi i fogli e li passai a Price.
-Sono documenti di trasporto ma non c’è scritto il carico, è evidenziata solo la priorità e a giudicarne l’urgenza, è una cosa abbastanza importante-spiegai.
-Dove li hai trovati?-chiese sospetto.
-Non ha importanza-risposi. -Partirà da Kiev per fermarsi nell’Oblast’ di Luhanks, al confine con la Russia. Ci sono solo campi per la coltivazione, la copertura quindi è quasi scarsa, sorveglianza all’interno della zona assente, ma in compenso ci sono cani randagi ovunque-
-Cani?-chiese Soap.
Mi guardò come se avessi detto qualcosa di incomprensibile, avevo come l’impressione che non li amasse particolarmente.
-Si, quadrupedi, discendenti dei lupi-
-So cos’è un cane-rispose guardandomi quasi sconcertato.
Andai a sedermi sulla sedia mentre pensavo ai miei viaggetti in Ucraina e a quando restavo a Kiev per “lavoro”, ora apparteneva tutto al passato ma ero sicura che ben presto i fantasmi sarebbero tornati, non ero riuscita a sconfiggerli allora, ma in quel momento mi sentivo preparata ed ero sicura di poter fare qualsiasi cosa e non mi importava di rimetterci la pelle.
Mi alzai senza dare spiegazioni e uscii senza una meta, avevo semplicemente bisogno di restare un po’ da sola.
Arrivai alla sala computer e cercai se c’erano notizie riguardo gli spostamenti sospetti tra Russia e Ucraina.
Luhans’k non era solo un caso, era vicino al confine e quindi spostare merce, era meno rischioso specie se si trattava di una landa desolata come quella, dopotutto a chi sarebbe mai venuto in mente di cercare in ogni paesino sperduto qualcosa che quasi nessuno sapeva ci fosse?
Mi grattai la testa quando vidi che non c’erano informazioni. Le possibilità erano due, o si trattava di un’unica consegna o si trattava di un traffico ben nascosto.
Spensi il computer e tornai nell’armeria, qualsiasi piano avessero in mente, ero sicura che non mi sarebbe piaciuto.
-Come ci muoviamo?-chiesi entrando nella stanza.
-Il piano è questo: Selena, tu vai avanti e dai un’occhiata, vedi se riesci a capire cosa contengono le casse, io e Soap ti copriamo-disse Price controllando la funzionalità del Dragunov.
-Che piano di merda-mugugnai, farmi sentire non mi importava.
-Sei tu quella che vogliono uccidere-
-Grazie per avermelo ricordato-risposi.
Dovevo praticamente fare da esca ma non avevo voglia di ribattere, avevo troppi pensieri per la testa, al massimo, se qualcosa non mi fosse andata a genio, avrei improvvisato sul momento.
Tolsi la fascia dalla mano, adesso mi sembrava così stupido aver tirato un pugno allo specchio, il mio problema tra tanti era anche che non riuscivo a controllare la rabbia, ed era uno tra i tanti che mi portò a scegliere il lavoro solitario.
Tornai in bagno e sciacquai di nuovo la mano, la asciugai con cura e la fasciai un po’ meno stretta.
Con la stessa grinta di un orso in letargo, camminai nel lungo corridoio per tornare in armeria, la mia stanchezza si faceva sentire sempre di più, dovevo dormire.
Entrai nella stanza distendendomi per terra e chiusi gli occhi cercando invano di addormentarmi.
Mi rialzai sbuffando e mi avvicinai a Soap.
-Mi faccia dare un’occhiata-dissi togliendo la fascia.
Restai quasi soddisfatta nel vedere che stava guarendo, le mie doti mediche si rivelarono utili. Al contrario di quello che ero solita fare, stavolta riuscii a salvare una vita invece di spezzarla ma questo non mi faceva certo sentire una persona migliore, una buona azione non basta a compensarne cento cattive.
Mi voltai per prendere le forbici e cercando il punto giusto, iniziai a togliere i punti, erano passati cinque mesi ormai e la ferita era cicatrizzata.
-Ci vorrà un po’ ma tornerà come nuovo-dissi posando le forbici.
Mi stiracchiai e mi sedetti su una sedia vicino alla finestra pensando che quello fosse il momento adatto per andarmene. Soap si era ripreso, il mio aiuto non serviva più e se non fossi stata io a mettermi a nudo l’avrebbe fatto qualcun altro e non sapevo cosa sarebbe stato peggio perché in ogni caso avrebbero saputo la verità. Non era quello che mi preoccupava, io in primis continuo a condannarmi per quello che ho fatto, quello che mi faceva sentire in un misto tra il triste e l’incazzato era il fatto che tutte quelle cose erano passato e farle riemergere sarebbe stato doloroso per me.

 
 

Angolo dell’autrice (?)
     Aaaallora, innanzitutto volevo ringraziare tutti quelli che leggono,
seguono e recensiscono e per questo vi regalo
questa chicca trovata mentre vagavo per youtube 
    Questo video è diventato la mia droga, se non lo guardo almeno una volta al giorno per me non è una bella giornata.
      Bye mates :33

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Capitolo 9
*** Capitolo9 ***


-Price, siamo in posizione-comunicò Soap attraverso la radio.
-Ricevuto, cinque minuti ed entriamo in azione-.
Sbuffai, era un piano assurdo quello di usare me come esca solo perché l’intero esercito russo voleva la mia testa. C’erano loro pronti a fornirmi copertura ma la cosa non mi piaceva, specie se ero totalmente disarmata.
-Selena, è il tuo turno, io e Soap spareremo appena le cose si metteranno male-
-Ricevuto, mi muovo-risposi.
Avanzai camminando, cercando di sembrare il più tranquilla possibile.
Non avevo paura, ero solo nervosa perché con me non avevo nemmeno il mio amato coltello tattico, l’unica arma che avevo era il mio stesso corpo e anche se ero uno Spetsnaz, non sarei mai riuscita a uscire viva da uno scontro contro due truppe nemiche armate di tutto punto.
Guardai il cielo grigio e ricoperto da nuvole, il sole sembrava sparito, eppure a San Pietroburgo i suoi raggi illuminavano quel poco di bello rimasto della città. Un leggero manto di nebbia si stava depositando sui campi, se la foschia si fosse fatta più intensa sarei stata nei guai.
Mi fermai quando vidi due furgoni e alcuni soldati scortare un uomo ammanettato.
Mi distesi nei campi per non rimanere troppo scoperta e mi fermai per osservare la situazione. Non riuscivo a vedere nulla che potesse essermi utile, ero ancora troppo distante per capire chi fosse.
Senza pensarci due volte, continuai a strisciare insieme ad alcuni pensieri che mi stavano tormentando a tal punto da non farmi accorgere che ero un po’ troppo vicina, sembrava però che loro non mi avessero vista.
Restai lì immobile finché la figura del uomo ammanettato non si fece più chiara.
Quel volto incorniciato da riccioli dorati non lo avrei mai dimenticato.
-Nikita-sussurrai.
Il cuore prese a battermi più velocemente tanto che temetti che qualcuno potesse sentirmi, respirai profondamente per calmarmi e scacciare alcuni ricordi che stavano tornando.
Era lui il carico e conscia della fine che avrebbe fatto, decisi di salvarlo come lui aveva salvato me anni prima.

Tre anni fa, Oymyakon, Siberia.
Avvolta nella coperta termica guardavo la neve depositarsi sul suolo e su tetti delle case.
Sentii la porta di casa aprirsi e portare dentro una folata di vento che mi fece rabbrividire ancora di più.
-Nika zakrytʹ proklyatuyu dverʹ (Nika chiudi quella dannata porta)-dissi stringendomi nella coperta.
-Ty plaksa (Sei una frignona)-rispose aggiungendo altra legna nel camino.
-I ty mogli vybratʹ boleye teploye mesto (E tu potevi scegliere un posto più caldo)-risposi battendo i denti.
Seguii i suoi movimenti fino a quando lo vidi scomparire dietro la porta della cucina, poco dopo lo sentii trafficare con una pentola. Quasi spaventata da quello che stava per fare, mi alzai lasciando cadere a terra la coperta. Fui subito investita dal gelo. Tremante, la raccolsi e mi coprii trascinandola con me per tutto il corridoio.
Faceva freddo nonostante avessi il riscaldamento acceso e la casupola dove ci eravamo rifugiati, non era di certo il massimo. Sembrava molto un’abitazione da film horror di terza categoria. Se avessi dovuto passare un’altro inverno lì, sarei sicuramente morta.
Arrivata in cucina guardai Nikita mentre cucinava e mi lasciai sfuggire un sorriso.
Mi guardò divertito dalla mia espressione.
Sospirai e lo spinsi leggermente per avere più spazio, non avevo voglia di cucinare ma non potevo lasciare che lo facesse lui, avrebbe fatto saltare in aria tutto, questo era poco ma sicuro.
Nikita come cuoco faceva schifo, mettere lui in cucina era come mettere un bambino in una stanza piena di esplosivi, il risultato era sempre quello, con l’unica eccezione che vedere Nikita ai fornelli era uno spettacolo.
-Ne mogli by vy nauchitʹ menya gotovitʹ (Potresti insegnarmi a cucinare)-disse con una punta di malizia.
Cercai di dire qualcosa ma non trovavo una risposta, avevo capito dove voleva arrivare ma non sapevo cosa dire. Restai li ferma a guardarlo per un istante che sembrò infinito.
Gli diedi un leggero schiaffetto sul braccio e tornai ai fornelli.
-I yezhednevnoye menyu vklyuchayet v sebya ...? (E il menu del giorno comprende…?)-chiese avvicinandosi di nuovo.
-Yesli ty ne vykhodite, ya budu ispolʹzovatʹ vas v kachestve osnovnogo blyuda (Se non esci userò te come piatto principale)-lo minacciai divertita.
Troppo occupata a tenerlo fuori dalla cucina, non mi accorsi che la casa era circondata e in poco la porta fu sfondata, in pochi minuti mi ritrovai con le mani bloccate e una pistola alla testa.
Feci vagare lo sguardo alla ricerca di Nikita, speravo che almeno lui fosse riuscito a scappare in tempo ma era nella mia stessa situazione.
Mi liberai colpendo prima l’uomo a sinistra con una testata, poi mi abbassai per prendere il coltello svizzero che tenevo nascosto nello stivale e tagliai la gola di quello a destra che cadde a terra senza vita.
Subito dopo altri tre uomini mi raggiunsero e uno mi colpì allo stomaco facendomi piegare in due.
-Yesli vy ostavite yemu, chto ya ne vystupayu protiv soprotivleniya (Se lo lasciate non opporrò resistenza)-dissi rialzandomi.
-Ty okruzheny, net nikakogo sposoba izbezhatʹ (Sei circondata, non puoi fuggire)-rispose il soldato che prese il posto di quello morto.
Abbassai lo sguardo a terra e indicai l’uomo privo di vita. -No eto ne pomeshalo mne ubitʹ yego (Ma questo non mi ha fermato dall’ucciderlo)-replicai sicura di me.
Sentii dei passi avvicinarsi, era una camminata familiare ma non riuscii a capire chi fosse fino a quando non incrociai due occhi belli quanto pericolosi; uno verde e l’altro azzurro.
-Vladimir-mormorai.
-Nikita teperʹ ostanovitʹ igru (Nikita ora basta giocare)-disse guardandolo.
Lo vidi raggiungere il resto della squadra e schierarsi con loro. Restai senza parole, avrei voluto urlare per la rabbia ma quello che era appena accaduto mi aveva lasciata attonita.
Il mio migliore amico, quello per cui avrei dato la mia vita, la stessa persona che giurò a mio fratello che mi avrebbe protetta, mi aveva tradita. Mi ero fidata ancora una volta della persona sbagliata.
Lo guardai con disprezzo, se fossi riuscita a scappare avrei ucciso anche lui.
-Kak dlya vas, ty poydete so mnoy (Quanto a te, verrai con me)-continuò prendendomi per un braccio.
-Ty znayete, chto samoye smeshnoye eto? (Sai qual’è la parte divertente?)-mi chiese trascinandomi fuori.
Lo guardai con rabbia ma non risposi.
-Ty mozhete bezhatʹ, no ne skryvayut. Ya navsegda naydu tebya (Puoi scappare ma non nasconderti. Io ti troverò sempre)-rispose con sorriso beffardo.
Mi spinse su un furgone insieme a otto soldati ben addestrati ma non mi facevano paura, ci avrei messo solo un po’ di più a eliminarli.
Il veicolo partì, sapevo dove sarei finita, e tornare a Mosca avrebbe firmato la mia condanna a morte, dovevo liberarmi ma mi serviva il momento adatto per questo restai seduta fino al momento in cui ci fermammo.
Il portellone si aprì rivelando la figura di Nikita. Lo guardai arrabbiata e allo stesso tempo delusa.
-Spuskatʹsya (Scendi)-ordinò puntandomi contro il fucile.
Scesi nel freddo siberiano e mi guardai attorno sospetta, c’era solo il furgone su cui viaggiavo io.
Con la canna dell’arma alla schiena mi obbligò a camminare fino a un boschetto, sapevo la fine che mi aspettava e mi voltai, volevo che mi guardasse in faccia.
-Neuzheli ty dumayete, chto ya obmanul tebya? (Credevi davvero che ti avessi tradita?)-chiese slegandomi.
Lo guardai perplessa, non mi aveva ingannata. Sorrisi e lo abbracciai. Ero felice di aver trovato qualcuno che avrebbe fatto di tutto per salvarmi.
-Ya poklyalsya vashemu bratu, chto ty khoteli zashchititʹ (Ho giurato a tuo fratello che ti avrei protetta)-
Lo abbracciai di nuovo con più forza.
-Da, no pozvolʹte mne dyshatʹ (Sì però lasciami respirare)-disse sorridendo.
Nikita lo conoscevo bene, conoscevo meglio lui che non me stessa e c’era sempre stato un rapporto profondo tra noi.
Sentii delle voci venire verso di noi e lo guardai sperando che decidesse di venire con me.
-A teper’ ukhodi (Ora va via)-.
-Ya ne khochu ostavlyatʹ tebya (Non voglio lasciarti)-dissi tremando come una foglia a causa del freddo.
Mi diede un leggero bacio sulla fronte dopo avermi dato il fucile. Lo presi timorosa e dopo averlo abbracciato un’ultima volta iniziai a correre. Stavo abbandonando il mio unico compagno di squadra ma sentivo che era una cosa giusta seppur dolorosa, se fossi rimasta lì sarei morta e non potevo, dovevo vendicarmi.
Sentii degli spari e mi voltai con le lacrime agli occhi rifiutandomi di pensare al suo corpo privo di vita.

-Selena si può sapere dove sei? Non ti vediamo più-
La radio insieme alla voce di Price mi strapparono da quei ricordi.
-Non posso rispondere ora, aspettate-risposi.
Mi scossi e dopo essermi alzata, mi tolsi il terriccio dalla divisa. Mi guardai attorno sospetta e ripresi a camminare.
Ero ormai vicina ma non ancora nel loro campo visivo, usando uno dei furgoni come riparo, avanzai verso Nikita. Gli tappai la bocca e lo trascinai dietro di me.
I nostri sguardi si incrociarono per un breve istante e mi sorrise, non potei fare a meno di ricambiare, in tre anni mi era mancato terribilmente.
- Davay ubiratʹsya otsyuda, ladno?? (Andiamo via di qui, ok?)-sussurrai.
Annuì, era pronto a muoversi ma gli feci cenno di restare fermo quando vidi un soldato avvicinarsi alla nostra postazione.
Mi nascosi dietro il furgone e attesi che fosse più vicino per colpirlo alle spalle e rompergli l’osso del collo, raccolsi le armi e feci cenno a Nikita di seguirmi.
-Kak ty nashel menya (Come sapevi dove trovarmi?)-mi chiese.
Stavo per rispondergli quando sentii il freddo del ferro premere contro la mia testa, chiusi gli occhi e passai la punta della lingua sul labbro superiore.
-Povernisʹ! (Voltati!)-disse una voce forte.
Mi girai e mostrai che ero disarmata, il soldato urlò qualcosa verso un gruppo poco distante da noi e poi mi ammanettò.
Il capitano di quel gruppo guardò il cognome inciso sulla divisa e capii che le cose si sarebbero messe molto male per me. Mi lasciò con tre soldati e se ne andò.
Dovevo andarmene ed evitare di fungere da bersaglio per i loro proiettili.
Non c’erano bagni quindi quella scusa non avrebbe retto e non potevo nemmeno comunicare tramite la radio. Cercando di non farmi scoprire, presi una molletta dai capelli e cercai di liberarmi.
-Khoroshaya pogoda, ne tak li? (Bel tempo, vero?)-chiesi il più innocentemente possibile.
Uno dei soldati mi guardò ma non rispose, gli altri tre continuarono a guardare tra i campi fino a che il capitano di quel gruppo tornò da loro e disse qualcosa sotto voce. Mi lanciarono una rapida occhiata e puntarono di nuovo i fucili contro di me.
Sbuffai e maledii mentalmente Price e Soap per avermi mandata lì senza armi per difendermi.
Rimasi ferma fino al momento in cui uno dei soldati presenti mi raggiunse, presi la pistola che teneva nella fondina e gli piazzai due proiettili nel cuore poi usai il suo cadavere come scudo, raccolsi il fucile che aveva lasciato cadere e sparai ai nemici rimanenti.
Lanciai una rapida occhiata a Nikita che mi raggiunse in poco, se stavamo aspettando il momento adatto per andarcene, era quello. Non volevo trovarmi lì quando gli altri soldati nemici avrebbero raggiunto i loro compagni.
-Selena che cazzo è successo?-chiese Soap.
-A parte il fatto che stavo per diventare uno scolapasta? Nulla-risposi correndo.
Mi fermai per voltarmi verso il punto in cui eravamo prima.
-Price non posso raggiungervi, tornare indietro sarebbe troppo rischioso. Procedo verso est, c’è un villaggio di nome Prosyane, al centro villaggio c’è una Chiesa abbandonata, vi aspetto là-dissi.
-Ricevuto. Quanto tempo ti serve?-.
-Mezz’ora credo-risposi.
-Allora ci vediamo là, Soap muoviamoci-disse chiudendo la conversazione.
Mi guardai dietro un’ultima volta per essere sicura che nessuno fosse sulle nostre tracce e poi continuai a muovermi.
Non so quante volte imprecai, stavamo correndo senza sapere bene se la direzione che avevamo preso fosse giusta e l’unico orientamento che avevamo era il mio istinto che non mi aveva mai tradito e non volevo che quella fosse la prima volta.
Mi fermai per prendere fiato e mi sedetti sul terreno freddo e umido.
Mi ricordava molto il prato in cui da piccola andavo a giocare e tornavo a casa sporca di fango, allora mia madre si arrabbiava sempre perché secondo lei una femmina non si doveva comportare in quel modo. Si faceva sempre un mare di problemi quando mi presentavo sulla soglia con i vestiti tutti rovinati, io invece mi divertivo a saltare e arrampicarmi sugli alberi.
Quando avevo sei anni e mi slogai la caviglia, mia madre si spaventò tantissimo, stessa cosa quando un anno dopo ruppi la spalla destra in tre parti, in quell’occasione sembrava le stesse per venire un infarto, lei era più preoccupata di me, io avevo pianto i primi minuti e poi mi ero tranquillizzata.
Sorrisi, mia madre mi mancava, ma piangerla non l’avrebbe riportata da me.
-Ty otvechayete mne? kak ty uznal chto ya zdesʹ? (Mi rispondi? come sapevi che ero qui?)-chiese Nikita sedendosi affianco a me.
Sospirai e poi risposi.
-Ivan. On zhiv (Ivan. È vivo)-.
Mi guardò inarcando un sopracciglio, anche lui se lo ricordava morto.
-S kem ty govorishʹ? (Con chi stavi parlando?)-.
Sbuffai e mi alzai, tolsi il terriccio dai pantaloni e gli tesi una mano.
-Eto ne imeyet znacheniya (Non ha importanza)-risposi tirandolo su.
A dire il vero non sapevo nemmeno io come definirli, non potevano essere compagni di squadra, io non avevo una squadra.
Ripresi il cammino, eravamo a poco meno di metà percorso e se non ci fossimo dati una mossa, le squadre nemiche ci avrebbero raggiunto, il secondo problema era il freddo, era quasi sera e le temperature stavano calando sempre di più.

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Capitolo 10
*** Capitolo10 ***


Eravamo arrivati e quel piccolo villaggio sembrava ancora più desolato di quanto non fosse in realtà.
C’erano poche case e la Chiesa abbandonata che mi sarebbe servita come riparo, intorno c’erano solo campi per la coltivazione.
Alzai gli occhi al cielo, era sera e la luna splendeva illuminando quel paesaggio. Visto da un’altra prospettiva e in un momento migliore, sarebbe stato anche un paesaggio carino ma i due gradi mi fecero ricredere. Ero abituata e temperature ben più fredde, una volta mi ritrovai a dover partecipare a una missione in una città in Siberia la cui temperatura era inferiore ai 40 gradi, fu la mia prima missione, ero un semplice soldato ed ero ancora inesperta. Il freddo non era nulla in confronto al dolore al polmone bucato da due costole rotte, e il forte trauma alla testa non mi aiutava. Mi sono svegliata due giorni dopo in un letto d’ospedale dove le pareti bianche mi mettevano una terribile angoscia. I medici mi dissero che ero stata fortunata, che qualcuno mi aveva protetta. Dopo che mi ripresi, tornai a Mosca per ringraziare mia madre. In quel momento non mi importava se qualcuno mi avesse presa, dovevo ringraziarla per avermi salvata. Quella fu solo la seconda volta in cui rischiai di morire.
Abbassai lo sguardo verso Nikita intento a trafficare con qualcosa di non ben identificato. Lui aveva la mania di smanettare con qualsiasi cosa gli capitasse a tiro.
-Ty dolzhna uyti seychas zhe. Skoro zdes’ budyet (Devi andartene ora. Presto saranno qui)-dissi con la schiena appoggiata al tronco di un albero.
-Kto? (Chi?)-chiese sedendosi affianco a me.
Mi guardò curioso in attesa di una spiegazione.
Risposi alzando le spalle e capì che era un argomento che non volevo trattare.
-Peretiy k Moskve. Ya tebya dogonyu kak tol’ko mogu(Vai a Mosca. Ti raggiungo appena posso)-disse rialzandosi.
-Moskva? (Mosca?)-
Ora ero io quella curiosa.
-Peretyi na staryy sklady, ofisy na vtorom etazhe. (Vai al vecchio magazzino, uffici del secondo piano)-
-O chem ty govorish? (Di che stai parlando?)-
-Aleksandr. On ne prinimal ochenʹ khorosho smerti Makarova. U nego yestʹ chto-to na ume (Aleksandr.
Non ha preso molto bene la morte di Makarov. Ha qualcosa in mente)-
Sobbalzai e poi sentii il cuore chiudersi in una morsa. Com’era possibile che fosse ancora vivo quando io stessa lo vidi cadere a peso morto da una scogliera?
Scacciai quei pensieri e prima che Nikita se ne andasse, lo fermai.
-Vstrechu vas vnutri (Ci vediamo dentro)-dissi.
Annuì e dopo avermi abbracciata, sparì nella gelida sera.
I miei sospetti erano fondati, sapevo che la guerra non era finita e che dietro c’era il suo zampino. I bombardamenti sul Giappone erano opera sua ma non ne capivo l’interesse e per quello che riguardava i cinesi in Canada, ero sicura che voleva attaccare l’America e creare un conflitto all’interno del suolo americano per avere meno lavoro e occuparsi di altro. Lo sapevo perché era la stessa cosa che avrei fatto io. Io e lui eravamo come una mente unica, pensavamo e agivamo allo stesso modo. Credevo che fosse una cosa buona ma non lo era affatto. Mi stava solo usando per i suoi scopi.
Sospirai gettando la testa all’indietro, le cose sarebbero peggiorate, me lo sentivo. Dovevo andare a Mosca il più presto possibile e cercare Aleksandr anche se non sapevo che scusa inventarmi con Price. Non potevo semplicemente dirgli di muoverci verso la capitale e ispezionare un magazzino in disuso.
Guardai l’orologio. Ero lì da più di un’ora e stavo gelando. Se non si fossero dati una mossa li avrei lasciati lì, poi li vidi arrivare.
-E il ritardo a cos’è dovuto?-chiesi.
-Alle truppe che controllavano la zona-rispose Soap.
-In cosa consisteva il carico?-chiese Price guardandomi.
Pensai a qualcosa che potesse essere una risposta soddisfacente, ma mi era difficile mentire se qualcuno mi fissava con quello sguardo. Era come se sapesse già tutto e aspettasse solo una mia risposta.
-Ero troppo occupata a non farmi ammazzare per capire cosa stessero trasportando-mentii distogliendo lo sguardo.
Era la prima volta che non riuscivo a mentire con qualcuno eppure per me era una cosa facile farlo.
Guardai le stelle per capire da che parte andare, non potevo avere anche loro in mezzo ai piedi. Non quella volta almeno.
Tornare a Mosca non mi avrebbe fatto bene. Quella città era il mio cimitero personale dove ogni anno tornavo per piangere su quattro tombe. Due erano quelle dei miei genitori, le altre erano quelle di mio marito e di mio figlio. Quel gesto era l’ultimo briciolo di umanità che mi rimaneva. Da allora solo poche persone riuscirono a vedere la vecchia Selena, quella felice e spensierata. Nikita e Ivan erano le uniche, loro non si aspettavano di certo che sorridessi dopo tutto quello che passai ma cercarono ugualmente di tirarmi su il morale anche se il risultato era negativo. Ivan era la persona a me più vicina, quella che si preoccupava per me anche solo per un raffreddore ed è una cosa comprensibile visto il legame indissolubile che ci legava.
-E ora che facciamo?-chiese Soap.
-I convogli nemici che abbiamo trovato andavano verso la Russia-rispose Price, poi guardò me.
Sbuffai. Mentire con loro era inutile.
-E va bene. Stanno andando a Mosca in un vecchio magazzino-risposi.
Mi rialzai levandomi il terriccio dai pantaloni.
-È più una specie di deposito armi. Era ed è ancora usato dagli ultranazionalisti non solo come armeria ma anche come prigione e per questo è molto sorvegliato. Oltre alle celle, c’è una stanza per la videosorveglianza-dissi con finta calma.
Ero terribilmente agitata, per il fatto che ero rimasta con loro più di quanto potessi prevedere. Il piano era che me ne sarei andata una volta che Soap si sarebbe ripreso e invece ero ancora lì.
-E il tuo piano per entrare?-chiese Price.
-Non ne ho ancora uno-risposi.
-Ci inventeremo qualcosa sull’elicottero. Dico a Nikolai di venirci a prendere-disse.      
Annuii e mi isolai. Respirai a pieni polmoni quell’aria gelida e per un momento mi sentii bene. Era una cosa che non mi capitava da un po’, vivevo una vita frenetica e non mi ero mai presa un momento tutto per me per rallentare un attimo e farmi apprezzare tutte quelle piccole cose a cui ormai non davo più peso. Nulla contava nulla per me a parte la mia vita.
Chiusi gli occhi e mi lasciai cadere contro il tronco di un albero. Era tutto silenzioso, non mi stupii visto il paesino piccolo ma a parte il vento che passava tra le foglie degli alberi producendo un lieve brusio e il latrato di qualche cane, non c’erano altri suoni.
Guardai l’orologio. Nikita se n’era andato circa da tre ore ed era completamente da solo. Forse avrei dovuto farlo rimanere lì con me.
Riaprii gli occhi e guardai il cielo stellato. Sentii una nota di nostalgia, mia madre mi chiamava “moya malenʹkaya zvezda”, vuol dire mia piccola stella. Era il suo modo di chiamarmi, me lo diede quando nacqui in una fredda notte come quella, diceva che la prima cosa che ha visto dopo il mio volto erano le stelle e ha aggiunto quel “piccola” per via della mia costituzione. Ero minuscola, questo lo ammetto anche io, ero una specie di molla sempre in movimento. Mia madre si ostinava a farmi mettere gonnelline e vestitini vari che io puntualmente facevo apposta a rovinare per mettermi un paio di pantaloni e andare a divertirmi insieme a mio fratello. Ho sempre avuto quel modo di comportarmi che mi caratterizzava, che mi distingueva dalle altre bambine della mia età e questa cosa è rimasta con me.
-Si può sapere cos’è successo?-
Alzai lo sguardo per incontrare quello di Soap e mi lasciai sfuggire una risata.
-È stata una vostra idea di mandarmi in avanscoperta, non c’è da meravigliarsi se volevano farmi fuori-risposi.
-È stata di Price-
Alzai le spalle. Mi era sembrata una mossa stupida ma ero un soldato, prendevo ordini e li eseguivo anche se non mi piacevano. Questo mi ricordava molto le accuse di insubordinazione che collezionai durante i primi anni e le varie punizioni che mi aspettarono e che mi rifiutavo di fare. Solo dopo due settimane di altro addestramento ai limiti dell’umano decisi di darmi una regolata.
Stavo per aggiungere altro ma Nikolai atterrò lì vicino facendomi cambiare idea.
Mi alzai per salire sull’elicottero e inventarmi un piano anche se ero più che sicura che qualcuno lo avrebbe cambiato. 

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Capitolo 11
*** Capitolo11 ***


Fuori dalle mura di quel vecchio magazzino guardai l’entrata del condotto dell’aria proprio sopra di me. La grata era appena stata rimossa e ora penzolava da un lato.
Controllai le funzionalità del mio fucile e attesi pazientemente l’ordine di Price.
La luna quella sera era più luminosa del solito, se ne stava lassù a illuminare il cielo come un grande lampione. Non c’era un filo d’aria e faceva davvero troppo caldo. Eravamo in pieno luglio e il gelo legato all’inverno sembrava essere sparito per lasciare spazio all’afa. Non mi piaceva l’estate.
Tutto intorno a me era silenzioso, la quiete era rotta solo dai miei respiri. Mi presi un po’ di tempo per me stessa. Avevo bisogno di rallentare ogni tanto, per non reprimere sempre la voglia di mostrarmi per quello che ero davvero. Fragile come una bambola di porcellana e rotta come se qualcuno l’avesse lasciata cadere e poi non si fosse nemmeno curato di raccogliere i pezzi.
Fingevo che la cosa non mi importava, ma in realtà non era così e anche in quel preciso istante, seduta su quelle macerie, finsi che tutto fosse normale, che io ero lì in squadra perché quel lavoro necessitava di altre persone e non perchè avevo bisogno aiuto.
Forse dovevo smetterla di scappare e combattere, è questo ciò che mi promisi di fare prima di nascondermi fuggendo da un posto all’altro.
-Siamo in posizione. Raggiungi la stanza della videosorveglianza e guidaci fino all’entrata-disse Price.
Mi rialzai e presi la rincorsa per avere un po’ di slancio, poi saltai aggrappandomi al bordo per riuscire ad entrare.
-Mi ci vorrà qualche minuto-risposi con voce piatta.
Accesi la torcia per illuminare la via di quei cunicoli sudici e sporchi. Non era come stare in un Hotel a cinque stelle. C’erano ragnatele ovunque e anche topi che correvano squittendo quando li illuminavo con la torcia. L’umidità e l’aria densa facevano ristagnare ancora di più la puzza di muffa e di vecchio. Le pareti in alluminio erano tutte ammaccate, in alcuni punti i fianchi si incastravano impedendomi di avanzare e a ogni minimo movimento il condotto oscillava. Avevo paura che cedesse quindi continuai a farmi strada con mosse lente e impercettibili per non cadere anche se non vedevo l’ora di uscire.
Mi fermai a una biforcazione cercando di ricordare da che parte fosse la stanza della videosorveglianza, erano più di quattro anni che non mettevo piede lì e non mi ricordavo nemmeno che la sorveglianza fosse così scarsa all’interno. Dalla mia postazione infatti vidi una pattuglia composta solo da due uomini che invece di fare il lavoro per cui erano pagati, stavano seduti a bere vodka e a fumare scambiandosi qualche battuta di pessimo gusto.
Cercai di avanzare ma sentii qualcosa trattenermi e quando con uno scatto riuscii a liberarmi avvertii un lieve bruciore sul fianco destro. Portai la mano sulla ferita e sentii qualcosa dentro la carne. Le mie dita sporche di sangue percorsero prima il segno del taglio e poi si soffermarono nel punto in cui prima avvertii la pelle aprirsi per capire cosa mi avesse ferita. Era qualcosa di sottile e dalla forma allungata, il ferro mi fece pensare a un chiodo e ne ebbi la conferma quando sentii una delle estremità diventare piatta.
Sbottai e mi voltai per trovarmi a pancia in su. Cercai di alzare la testa per verificare l’entità del danno ma lo spazio era troppo angusto per poter riuscirci così mi limitai a passarci sopra la mano. Non appena le dita sfiorarono nuovamente la ferita feci una piccola smorfia, non mi faceva male, era solo molto fastidioso, come la puntura di qualche insetto.
Fortunatamente il taglio non era grave, bastava solo coprirlo per evitare che si infettasse. Presi il coltello dal cinturino per tagliare il lembo strappato della maglia, poi da una tasca dei pantaloni recuperai una garza e del nastro per sistemare quel piccolo incidente. Ero solo all’inizio e già si prospettava una missione di merda.
Ripresi a muovermi cercando di stare più attenta per evitare di farmi male di nuovo, l’ultima cosa che mi mancava era ferirmi seriamente in modo da attirare tutti i nemici su di me.
Avanzai di qualche altro metro prima di vedere un’altra grata che dava proprio sulla sala dei monitor, tolsi la griglia lentamente per non fare rumore e osservai la stanza sotto di me. C’erano due guardie adagiate su due sedie in fondo alla stanza in modo da sembrare addormentate. Non c’era una goccia di sangue o segno di strangolamento che potessero testimoniare il loro omicidio.
Opera di Nikita.
-Nachinaya s zavtrashnego dnya diyeta (Da domani dieta)-borbottai scendendo cercando di far passare i fianchi.
Tolsi la polvere dai pantaloni e controllai velocemente i cadaveri per essere sicura che fossero davvero morti. Avevano entrambi il collo spezzato e uno di loro aveva anche una mano rotta, segno che almeno lui doveva aver reagito, ma senza successo.
-Price, sono dentro-dissi sedendomi.
-Trova un modo per farci entrare-rispose.
Guardai lo schermo che mi mostrò come fosse predisposta la sorveglianza. Il magazzino aveva telecamere sia all’esterno sia all’interno e ce n’era una posta proprio sopra l’entrata principale protetta da quattro guardie mentre il cortile era sorvegliato da tre unità cinofile. Lungo il perimetro c’erano altre entrate ma anche quelle erano sorvegliate da cecchini il cui occhio non sfuggiva a nulla.
Dovevo condurli fino al portone sul retro, era l’unica zona libera. Passare da lì sarebbe stato facile ma l’interno mi preoccupava. Il corridoio non aveva telecamere e una volta dentro non sarei stata più in grado di seguirli.
-Dovete tornare indietro e usare la porta dietro l’edificio, una volta che sarete entrati vi perderò di vista fino quando non arriverete alla fine del corridoio-dissi.
-Nulla di difficile-commentò Price.
Mi abbandonai sulla sedia, seguendo per quanto possibile i loro spostamenti.
Scossi la testa. Non dovevo essere lì, non per loro. Una parte di me mi diceva di alzarmi e cercare il mio amico mentre l’altra mi sussurrava di restare lì, e per un non ben precisato motivo diedi ascolto alla seconda.
Nikita per me era ben più importante di loro, ma poi la stessa vocina nella mia testa mi disse che lui sapeva badare a se stesso, che se era vivo era perché non si sarebbe lasciato uccidere tanto facilmente, invece loro due avevano bisogno di me per non farsi ammazzare e di nuovo mi ritrovai d’accordo con la mia coscienza. Nika conosceva quel posto come conosceva me, Price e MacTavish non sapevano nemmeno dove fossero i cessi.
Incrociai le braccia e feci un mezzo giro sulla sedia, poi guardai di nuovo le guardie.
Nikita aveva fatto in modo di semplificare le cose, per questo mi piaceva lavorare con lui, ci supportavamo a vicenda, coprendoci le spalle l’un l’altro. Io aiutavo lui e lui aiutava me.
Come quella volta a Grozny dove fu fatto prigioniero da un gruppo di ceceni. Nessuno sembrò realmente intenzionato a portarlo in salvo, i nostri superiori dissero che non potevano sprecare risorse e tempo per un uomo ormai morto, che la sua era una grave perdita ma che non si poteva fare nulla. Io non lo accettai, non potevo lasciarlo in mano nemica e darlo per spacciato, non dopo la lealtà mostratami e non dopo l’aiuto che mi diede appena arrivata a San Pietroburgo. Quindi dopo un piano studiato nei minimi dettagli, semplice e veloce da portare a termine, partii per la Cecenia, e anche se dopo quella piccola operazione di salvataggio mi sospesero per sei mesi e ci rimisi pure un dito rotto e la vista a causa di un’accecante che scoppiò proprio davanti ai miei occhi, non potei fare a meno di essere felice perché lui era ancora vivo.
Da allora la luce diventò un impedimento per me e i giorni nell’ex capitale sotto il sole non mi facilitarono le cose.
Anche in quel momento i miei occhi bruciavano a causa della luce intensa dei monitori. Socchiusi appena le palpebre per trarre un momento di sollievo, ma quando sentii la porta aprirsi sobbalzai sulla sedia. Presi la pistola e la puntai in direzione dell’entrata senza voltarmi. Quel passo mi era familiare, le prime volte quelle sue improvvise apparizioni mi spaventavano ma con il tempo riuscii a riconoscere la sua camminata.
-Ne strelyayete? (Non spari?)-
Mi voltai abbassando l’arma e mi soffermai a guardare Nikita. Il sudore gli colava dalla fronte e gli appiccicava alcune ciocche alla tempia, inoltre i capelli sempre ben curati erano spettinati e anche la maglia della divisa aveva zone più scure. Il suo volto era leggermente sporco e questo spegneva i suoi occhi verdi sempre vivi .
-Zavisit. Khochesh’ umeret? (Dipende. Vuoi morire?)-risposi tornando a concentrarmi.
Alzò le spalle e chiuse la porta per poi avvicinarsi e sedersi affianco a me senza dire nulla. Restò semplicemente lì a guardare i filmati come se fossero la cosa più interessante al mondo.
Il silenzio avvolse la stanza ma decisi di non interromperlo nonostante avessi tanto da raccontare e chiedergli. C’erano cose volevo sapere e altre che volevano uscire come troppi uccelli messi in gabbia, ma ogni volta che aprivo la bocca per domandargli dove fosse stato e perché non mi avesse cercata, il mio cervello smetteva di funzionare, la gola diventava secca e io incapace di parlare.
Mi era mancato in quell’anno in cui credetti di averlo perso per sempre, e temetti davvero che non lo avrei più rivisto dopo quel giorno a Oymyakon dove pensai stupidamente che mi avesse veramente tradita.
Poi presi coraggio per scacciare via quella mia metà debole.
-Gde ty propadal vso eto vremya? (Dove sei stato per tutto questo tempo?)-chiesi.
-Ya ne mog dogonyayu tebya, yesli eto to o chem ty khochesh' znat' (Non potevo raggiungerti se è questo quello che vuoi sapere)-rispose voltandosi verso di me.
Perché? Era la domanda che volevo fargli ma temevo che la sua risposta potesse ferirmi più di quanto non fece la sua assenza per tutto quel tempo, avevo paura che mi dicesse qualcosa che le mie orecchie non volevano sentire.
-Eto kto takiye? (Chi sono?)-chiese tornando a guardare lo schermo.
Mi lasciai a un respiro liberatorio prima di rispondere. Non aveva senso continuare con quel teatrino e nascondergli tutto.
-Kapitan John Price i Kapitan John “Soap” MacTavish (Capitano John Price e Capitano John “Soap” MacTavish)-
-Operativno-takticheskaya gruppa 141?1 (Task Force 141?)-
Il suo tono si alzò di alcune note e notai anche stupore nel suo sguardo. So a cosa stava pensando e non potevo dargli torto. Ero completamente fuori di testa, ma quell’alleanza non sarebbe durata per sempre. Ora che lui era tornato, avremmo ripreso il nostro cammino insieme.
-Ty znayesh' chto delayesh'? (Sai cosa stai facendo?)-chiese preoccupato.
Annuii per fargli capire che non volevo parlarne, non in quel momento. C’erano troppe cose da fare e iniziare una conversazione con lui, nonostante non avessi finito con le domande, non era nei miei piani.
Tornai a guardare i video per aver un quadro generale della situazione. La zona era libera, solo l’esterno era sorvegliato. Uscire non sarebbe stato così semplice come credevo, l’ora del cambio delle guardie si stava avvicinando e noi eravamo ancora in alto mare.
Notai Price e Soap dietro la porta del secondo piano, pronti ad agire.
-Ok, vi vedo. Datemi tre minuti e sono da voi-
Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai alla porta.
-Kuda vy napravlyayetes'? (Dove state andando?)-chiese Nikita.
-Gde ty skazala menya skhodit' (Dove tu mi hai detto di andare)-risposi come se fosse la cosa più ovvia al mondo, e in un certo senso lo era visto che era stato proprio lui a dirmi di farlo.
Scosse la testa e tornò a portare la concentrazione verso lo schermo.
-Prikhodite posmotret' (Vieni a vedere)-disse.
Guardai prima lui con un sopracciglio inarcato e poi i video della sorveglianza del secondo piano. Sbottai prima di lasciarmi cadere a peso morto sulla sedia. Passare inosservati non sarebbe stato così facile con un’interna unità di guardia, e usare la forza era un’idea che scartai a priori.
Feci vagare lo sguardo da uno schermo all’altro guardando la numerosa squadra nemica. Ora capivo perché l’intero edificio sembrava deserto, tutti i soldati erano messi a protezione del piano superiore.
Ci mancava solo quella scocciatura.
-Price, aspettate-dissi senza staccare lo sguardo dal grande monitor. -Ci sono quattro uomini dietro la porta dove siete voi, pattuglie lungo tutto il corridoio e altre due vicino agli uffici. Vi serve un diversivo se volete entrare-
Posai lo sguardo sulla piantina della struttura come se lì fosse scritta la risposta. Dovevo arrivare al piano terra e disattivare la corrente. La stanza con il generatore non era tanto lontana e se non avessi incontrato nessuno, l’avrei raggiunta in pochi minuti.
Guardai Nikita che annuì, si avvicinò ai cadaveri per prendere due auricolari e me ne diede uno prima di uscire dalla stanza.
-Ne hai uno?-chiese.
-Devo togliere la corrente. Appena le luci si saranno spente Nikita vi aiuterà ad entrare-
-Chi diavolo è Nikita adesso?-chiese spazientito.
-Non è meglio rimandare a dopo le presentazioni?-domandai retorica.
Il mio sguardo cadde sulle guardie e mi venne un’altra idea. Mi tolsi la mia divisa per prendere quella della security, facendo così avrei avuto più possibilità di passare senza attirare l’attenzione anche se la taglia non era proprio la mia. La maglia e i pantaloni mi stavano larghissimi, sembrava che dovessi andare a un concerto rap e chiunque guardandomi si sarebbe insospettito.
-Bud' ostorozhneye, ladno? (Fai attenzione, ok?)-dissi rivolgendomi a Nikita.
-Kak obychno (Come sempre)-rispose.
Guardai fuori dalla finestra il blu scomparire per lasciare spazio ad un rosa tenue. L’alba si stava avvicinando. Sapevo che ben presto le guardie si sarebbero date il cambio e noi non avevamo nemmeno iniziato. Il piano così come era stato studiato era semplice; dovevo entrare, recuperare le informazioni, cercare Aleksandr, ucciderlo, trovare Nikita e uscire di lì e per il momento ero riuscita a portare a termine solo due punti.
Sorrisi senza poterlo impedire, lui e Ivan erano vivi e non era un sogno. Fui intenzionata a darmi un pizzicotto ma quando risentii la sua voce attraverso l’auricolare che mi disse di essere arrivato, realizzai che era tutto vero.
Nonostante il destino avverso, ci eravamo ritrovati, e poco importava se eravamo dei ricercati perché finchè l’uno avrebbe avuto l’altro, sarebbe andato tutto bene.
Arrivai alla fine del corridoio, sporsi leggermente la testa per essere sicura che l’area fosse libera e camminai veloce fino alla stanza del generatore. Entrai richiudendo la porta alle mie spalle senza farla sbattere e mi avvicinai al grande pannello. Accesi la torcia per illuminare il quadro quel tanto che bastò per farmi trovare i cavi giusti. Invertii le loro posizioni per creare un corto circuito, tagliai i fili principali che portavano la corrente e in poco l’edificio restò al buio.
-Ho tolto la corrente. Vi raggiungo-dissi rivolgendomi a Price.
Non attesi nemmeno una risposta perché sapevo che Nikita mi avrebbe detto di andarmene e io non potevo farlo. Era solo questione di tempo prima che le luci si riaccendessero, l’allarme suonasse e tutto l’edificio fosse circondato. Mi immaginai già la sua espressione di rimprovero. Lui si preoccupava sempre per me, mi proteggeva e lo avrebbe fatto fino alla fine ma per me era come mettermi sotto una campana di vetro a osservare il lento degrado del mondo e questo io lo odiavo. Dovevo agire, non potevo restarmene con le mani in mano mentre tutto quello che c’era attorno a me spariva velocemente e cambiava come il giorno e la notte. Se c’era anche una sola possibilità che il mio aiuto potesse servire a qualcosa, dovevo darlo.
Uscii cauta dalla stanza e con passo felpato percorsi il corridoio per trovarmi nell’atrio al piano terra, mi guardai attorno furtiva prima di raggiungere le scale e fu proprio in quel momento che sentii un dolore acuto alla testa prima di vedere tutto nero.
 
Ripresi coscienza a causa di un forte boato seguito da una violenta scossa. Sentii la porta aprirsi, una voce urlare qualcosa e poi dei passi allontanarsi seguiti dal cigolio della porta che si richiudeva dietro di loro. Aprii gli occhi ma avevo la vista annebbiata, le immagini si sovrapponevano le une alle altre creando una visione distorta. Solo quando riuscii a mettere a fuoco la scena mi accorsi di essere legata. Le braccia erano dietro la schiena fissate ad una catena mentre le gambe premevano contro quelle fredde della sedia. Nel braccio sinistro avevo attaccato una sacca di sangue ormai finita mentre sulla gamba c’era un taglio profondo, l’unica cosa che gli impediva di sanguinare era il laccio emostatico. Potevo comunque sentire il dolore farsi strada su tutto il muscolo e poi espandersi fino a raggiungere la soglia della non sopportazione, probabilmente era stato danneggiato.
Guardai quella stanza con un sorriso sghembo. Non c’era nulla di nuovo. Tutto era rimasto come lo ricordavo. Le pareti e il pavimento, entrambi in pietra, erano ricchi di crepe e non c’era nessuna finestra. Solo una grata troppo piccola per passarci permetteva il cambio d’aria ed era posizionata ai piedi di un armadietto, dove se ricordavo bene, c’erano antidolorifici e altri tipi di medicazioni per gli interrogatori lunghi. Davanti a me c’era un vetro oscurante illuminato da una fioca luce che lasciava in penombra la parte in cui ero, sotto a esso un tavolo e una sedia entrambi in metallo.
In quel momento pensai a quanto ironica potesse essere la vita. Tempo fa io ero quelle che interrogava le persone sedute sulla stessa sedia in cui ero io, che torturava fino alla morte prigionieri che si rifiutavano di collaborare o che semplicemente uccidevo. Vederli agonizzare era una cosa che mi faceva sentire soddisfatta e potente.
Abbassai lo sguardo verso il pavimento coperto di sangue per poi rialzarlo verso lo specchio. Alcuni brividi si fecero largo sulla mia schiena per arrivare alla nuca. Aleksandr era là dietro, me lo sentivo. Percepivo quella paura ogni volta che lui era nei paraggi. Un nodo alla gola mi impedì di deglutire, sembrava quasi che avessi paura.
Dopo qualche minuto la porta si aprì di nuovo mostrandomi la sua figura. Nonostante la sua età aveva ancora una muscolatura robusta merito di anni di servizio militare. Lo guardai di sbieco meravigliandomi del fatto che il suo aspetto fosse rimasto immutato negli anni come i lineamenti duri e ben marcati messi in risalto da due occhi neri che gli conferivano un aspetto ancora più cattivo. L’unica cosa che trovai cambiata furono i suoi capelli neri anch’essi cresciuti e legati alla base del capo. Per il resto era rimasto lo stesso stronzo.
Sorrisi divertita nel vedere una cicatrice all’altezza dello zigomo, la stessa che gli procurai io quando cercai di ucciderlo.
Si avvicinò a me per togliermi l’ago e gettare via la sacca vuota, poi prese dall’armadietto delle garze con cui medicò il braccio e mi guardò. Era uno sguardo che non riuscii a decifrare, c’erano crudeltà, odio, stanchezza e una calma che faceva paura più della sua presenza.
-Tak chto zachem ty syuda priyekhali? (Allora, cosa ci sei venuta a fare qui?)-chiese.
-Nostal'giya starye dobrye vremena (Nostaglia dei vecchi tempi)-risposi sarcastica.
Ghignò divertito prima di sedersi di fronte a me e incrociare le braccia al petto.
-Ty v bodrom nastroyenii, uchityvaya obstoyatel'stva (Sei di buon umore considerando il tutto)-
Spostai lo sguardo per non dover incrociare il suo e mi concentrai su ciò che mi passava per la testa. Un groviglio di pensieri e ricordi non collegati tra loro che si rincorrevano per cercare un nesso logico che non esisteva. Ci ero già finita in una situazione simile, solo che non ero legata con delle catene e non potevo contare sul fatto che Aleksandr fosse impegnato a fare altro per badare a me.
Lo guardai giocherellare con il suo coltello. Sapevo come sarebbe andata a finire ma non mi diedi per vinta. Avrei lottato fino alla fine con tutte le mie forze pur di non aprire bocca e dire qualcosa che potesse mettere in pericolo Nikita o peggio ancora, Ivan.
Dopo vari minuti in cui non dissi una parola, Aleksandr si alzò e fece un giro in torno alla sedia, il coltello sempre in mano.
-Ya videl Nikita. Gde teper on? (Ho visto Nikita. Dov’è ora?)-
Lo guardai con aria di sfida. Anche se avessi saputo dove fosse non glielo avrei mai detto.
-Ne budu povtoryatʹ. Gde on? (Non lo ripeterò di nuovo. Dov’è?)-
-Mne nechego skazat’ (Non ho nulla da dirti)-risposi con tranquillità. –I poshel k chertu (e va all’inferno)-
Sorrise e poi appoggiò la punta del coltello sul dorso della mano.
-Ya predprezhdal (Ti avevo avvertita)-disse spingendo la lama dentro la carne.
Mi lasciai sfuggire un gemito di dolore e mi mossi sulla sedia con una violenza tale da tagliarmi i polsi con le catene.
-Kto byli ostalʹnyye? (Chi erano gli altri?)-
Invece di rispondere gli sputai in un occhio. Sorrise pulendosi e mi diede uno schiaffo con il dorso della mano. Sentii un terribile sapore ferreo in bocca, sputai il sangue a terra e tornai a guardarlo. La rabbia ribolliva dentro di me. Era come essere investiti da tante piccole scariche piene di energia, la quale mi dava poi una forza nuova, che non sapevo nemmeno io di avere.
-Yesli khochesh' igrat' sdelayem eto po- moim pravilam (Se vuoi giocare lo faremo a modo mio)-disse. La calma di prima sembrava essere sparita.
Liberò i polsi e poi tirò la catena che avevo legata ai piedi, la issò al soffitto e in un secondo mi ritrovai a testa in giù, mi immobilizzò le mani e si piegò sulle ginocchia per potermi guardare meglio.
I suoi occhi neri brillavano di una nuova luce e sul suo volto si formò un sorriso sadico.
-Gde Ivan? (Dov’è Ivan?)-chiese.
Mi dondolai in avanti e gli diedi una testata che gli fece perdere l’equilibrio. Cadde all’indietro ghignando di nuovo prima di tornare verso di me.
-Skazhi mne gde Nikita i Ivan i ty budesh' svoboden. Ty prosto podumay no znayete chto u tebya net mnogo vremeni  (Dimmi dove sono Nikita e Ivan e sarai libera. Riflettici ma sappi che non hai molto tempo)-disse, poi uscì.
Mi dimenai di nuovo sperando di poter almeno allentare le catene ma fu tutto inutile, dovevo trovare un altro modo per liberarmi prima che fosse troppo tardi. In quella posizione non sarei durata a lungo, il sangue sarebbe defluito verso la testa e in meno di un’ora sarei morta.
Guardai prima i piedi e poi le mani. Se fossi riuscita a slegare i polsi avrei potuto alzarmi e cercare un modo per liberare anche le caviglie ma non c’era nulla a portata di mano. Il coltello se lo era portato via e le mie armi erano sparite. Probabilmente le avevano prese prima di legarmi e torturarmi quando mi catturarono.
Ripensai a quanto stupida fossi stata. Ero abituata a captare anche i più piccoli respiri eppure non mi accorsi di quegli uomini dietro alle mie spalle.
Provai tristezza per loro che non sapevano nemmeno perché erano lì o cosa stessero facendo. Non ero nemmeno sicura che gli importasse qualcosa della loro vita. Erano solo certi del perché stavano facendo quello che stavano facendo; volevano avere la loro fetta di torta una volta che i loro piano sarebbero andati in porto, ma non avevano calcolato una cosa. Me. Finché ci fossi riuscita li avrei ostacolati in tutti i modi possibili.
Chiusi appena gli occhi e come in un flash mi ritrovai a guardare una scena familiare in una casa nel centro di Mosca sette anni prima. Casa mia, la mia vita, la stessa sera in cui tutto cambiò.
Quando varcai la soglia mi accorsi subito che c’era qualcosa che non andava, le luci erano tutte spente e la porta era rimasta aperta, il salotto era sottosopra e verso le scale c’era una scia di sangue che portava verso il piano superiore dove c’erano le camere. Il mio cervello aveva già elaborato cos’era successo ma il mio cuore si rifiutò di crederci e solo quando trovai i loro corpi privi di vita dovetti accettare il fatto che loro non c’erano più. Erano morti, spariti.
Caddi in ginocchio ma non piansi, non riuscii a versare nemmeno una lacrima perché non c’era più nulla per cui valesse la pena farlo, restai semplicemente piegata su me stessa con sguardo vuoto senza prestare attenzione a nulla in particolare perché ovunque dirigessi lo sguardo, vedevo tutto nero come un buco destinato a non chiudersi mai e a trascinarmi con sé nell’oblio dal quale sarei riemersa ancora più distrutta.
Il giorno dopo il funerale partii verso San Pietroburgo. Non potevo continuare a stare in quella casa, troppa paura dei ricordi, non sarei mai riuscita a dormire nella nostra camera da letto o camminare in quelle stanze ormai vuote. Sarebbe stato un po’ come vivere in una città fantasma, avrei continuato a percepire la loro presenza ovunque, sarei impazzita nel guardare tutte quelle foto che mi rimandavano a un passato che dovevo cancellare.
Abbassai lo sguardo per guardare le mani e avvertii un forte senso di nausea, seguito da un momentaneo offuscamento della vista e da una terribile una fitta ai polmoni. Dovevo slegarmi, e anche subito se non volevo rimetterci la pelle per davvero.
Guardai di nuovo le catene e mi venne un’idea. Non potevo sfilare le mani però potevo spezzarmi i pollici.
Esitai qualche secondo quando vidi il vetro oscurante. Se ci fosse stato qualcuno là dietro mi avrebbero vista, ma non avevo tempo per ripensarci.
-Davay, ty soldat. Ne bud' devchonkoy (Coraggio, sei un soldato. Non fare la femminuccia)-dissi per darmi forza e proprio un attimo prima di rompermi le due dita sentii la porta aprirsi.
Il mio cuore aumentò i battiti nel timore che fosse ancora una volta Aleksandr, ma quando vidi MacTavish avvicinarsi a me, tirai un respiro di sollievo.
-Price, l’ho trovata-disse attraverso l’auricolare.
Lo guardai di sbieco come a voler formulare una muta domanda. So che dovevo essere felice che qualcuno mi stesse aiutando ma non era lui che volevo. Guardai dietro di lui sperando di vedere Nikita. Nulla era solo.
-Serve una mano?-chiese avvicinandosi.
-No, stavo pensando di restare in questa posizione ancora per qualche ora, tanto non ho di meglio da fare-risposi ironica.
Scosse la testa forse divertito dal mio comportamento. Lo guardai inarcando un sopracciglio non riuscendo a cogliere bene la parte divertente di quella situazione, a parte il fatto che sembravo un maiale pronto a essere portato al macello.
-Dov’è Nikita?-chiesi curiosa.
Mi guardò per un paio di secondi prima di tornare a trafficare con le catene ai polsi.
-Non ne ho idea, siamo entrati e poi è sparito-rispose.
Dalla mia gola uscii un verso strozzato il quale voleva essere più un sussulto ma la mia scomoda posizione mi fece andare di traverso la saliva. Possibile che fosse stato così incosciente da volerlo affrontare pur sapendo che non ne sarebbe uscito tutto intero?
E poi quella che si cacciava sempre nei guai ero io. Quando saremmo usciti gli avrei fatto un bel discorsetto.
Sentii la presa ai polsi allentarsi fino quando penzolarono liberi. Le braccia diventarono pesanti e per un breve istante iniziai a temere che si sarebbero staccate se non avessi fatto qualcosa.
-E tutte le guardie all’esterno?-continuai.
-Hanno il loro bel da fare-rispose prendendomi sotto braccio, poi sparò al lucchetto che teneva ancora prigioniere le caviglie.
Aprì bocca per chiedere cosa volesse dire ma la richiusi subito dopo. Le esplosioni sentite prima dovevano essere opera loro. Avrebbero potuto trovare un modo più discreto per entrare ma non mi lamentai, probabilmente anche io avrei fatto la stessa cosa.
Mi massaggiai i polsi divenuti ormai viola e mossi il collo che scricchiolò.
Respirai felice di non sentire più il fiato morirmi in gola.
-Fatti dare un’occhiata-disse.
E prima che potessi rispondere o fare qualsiasi altra cosa, prese la torcia e la puntò verso i miei occhi che chiusi immediatamente. Voltai la testa dall’altra parte e abbassai il capo sbattendo le palpebre un paio di volte prima di veder scomparire l’ologramma del il flash che si era creato.
-Sto bene-protestai neppure troppo convinta.
-Hai le pupille dilatate-
-Sì, beh, un trauma cranico non fa bene a nessuno-
Sogghignò prima di controllare la mano che continuava a sanguinare.
Non capii subito quel suo sorrisino e solo quando mi accorsi della mia risposta mi morsi la lingua per punire la mia stupidità. Indirettamente gli avevo detto che non ero proprio nella mia forma migliore.
-A nessuno tranne che a me-corressi la frase di prima.
-Non credi che chiedere aiuto renda le cose più facili?- chiese assicurandosi delle mie condizioni.
Fortunatamente non si soffermò troppo a guardare i lividi o i tagli e di questo gliene fui davvero grata, era troppo vicino e la cosa non mi piaceva. Avevo bisogno dei miei spazi per non sentirmi così vulnerabile, se stavo da sola potevo tranquillamente piangere perché nessuno mi avrebbe giudicata, ma quando le persone mi stavano attorno, sembrava che volessero abbattere quella corazza che mi ero costruita con tanta fatica per scoprire i miei segreti e usarli contro di me. È per questo che piano, piano iniziai a isolarmi nella mia solitudine stando bene attenta a non farci entrare nessun’altro se non i miei demoni interiori con i quali conversavo pure nell’inutile speranza che almeno loro mi comprendessero, a volte mi capitava pure di sentirli ridere mentre raccontavo loro i miei problemi.
Per questo non mi piaceva sembrare debole. La prima e unica volta in cui mi mostrai per la ragazza fragile quale ero mi ritrovai un proiettile nel polmone destro e un coltello all’altezza del cuore. Tutta gentile concessione di Aleksandr che dopo essersi occupato di mio fratello pensò di riservare lo stesso trattamento anche a me.
Alzai lo sguardo verso MacTavish ma non risposi. Per la prima volta non trovai una risposta adeguata eppure ero sempre stata una che non smetteva mai di parlare, sapevo sempre e in qualsiasi situazione cosa dire perché anche se solo verbale, io il duello lo dovevo vincere.
Indicai l’armadio dietro di lui. –Lì ci sono delle garze-
Avevo solo bisogno che si allontanasse.
Mi guardò per qualche secondo temendo che potessi andarmene, e fui davvero tentata di farlo ma avevo bisogno di curare le ferite prima.
-Non vado da nessuna parte-dissi per convincerlo.
Raggiunse l’armadietto e fece qualche passo indietro prima di inginocchiarsi per prendere qualcosa dall’ultimo ripiano.
Guardai la porta temendo di vedere tornare Aleksandr da un momento all’altro, dopotutto aveva detto che sarebbe tornato per conoscere la mia risposta anche se sapeva che non gli avrei detto un bel nulla e, comunque, dubitavo che dopo aver cercato di ucciderci a vicenda saremmo tornati in squadra come nulla fosse, alla prima occasione mi sarei ritrovata con un coltello alla gola, poco ma sicuro. E poi anche io avrei tentato di toglierlo di mezzo. È questo quello che fanno due nemici, cercano di distruggersi a vicenda.
-Perché tengono delle sacche di sangue?-chiese.
-È una cosa scomoda far morire un prigioniero di dissanguamento se può…-
Mi appoggiai al tavolino quando sentii le mie gambe cedere sotto il mio peso e scossi la testa per scacciare quel senso di smarrimento. Quello non era il momento adatto per svenire, prima di farlo dovevo quantomeno trovare un luogo adatto.
-…se può rivelare informazioni utili-finii la frase.
Mi rialzai trovandomi a guardare dentro due piccoli oceani. Non mi resi nemmeno conto che Mac riuscì ad afferrarmi proprio un secondo prima di cadere. Il suo braccio destro mi cingeva il fianco per darmi un minimo di supporto e l’altra mano corse sulla schiena. Sostenei quel suo sguardo fino quando non riuscii più a reggere il confronto, sembrava chiedermi se stessi davvero bene; non mi avrebbe creduto se gli avessi detto di sì ma non potevo nemmeno dirgli che riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti.
Appoggiai le mani sul suo petto e spinsi leggermente per liberarmi. Dopo il disastro a Mosca non ho mai amato che le persone si avvicinassero così tanto a me, Nikita era l’ unica eccezione anche se all’inizio non mi fidavo nemmeno di lui e lo trattavo con la stessa diffidenza di sempre.
Appoggiò sul ripiano un flaconcino bianco e tre fasce che usai per medicare la mano e la gola. La gamba mi limitai a disinfettarla e poi fasciarla con cura, il laccio lo avrei tolto una volta al sicuro.
-Riesci a camminare?-chiese porgendomi una pistola e un coltello.
Annuii prima di fare qualche passo barcollante verso la porta. La testa riprese a girare, mi sembrava di stare su una giostra.
Lo seguii lungo il corridoio guardando furtivamente ogni angolo, avevo paura che Aleksandr potesse saltare fuori e non volevo incontrarlo dopo essere riuscita a scappare. Trovarmi di nuovo faccia a faccia con lui avrebbe confermato quanto sfortunata fossi. La dea bendata si divertiva a prendersi costantemente gioco di me, all’inizio la prendevo un po’ come una sfida che adoravo cogliere, ma con l’avanzare del tempo mi resi conto che quelle continue lotte mi stavano rovinando. Le cose non andavano mai come prevedevo, cambiavano senza il minimo preavviso. Ogni mio piano veniva sempre modificato e io non potevo fare nient’altro se non abituarmi a quella nuova situazione.
Mi fermai improvvisamente quando mi ricordai di Nikita, non avrei mai lasciato che lo fronteggiasse, lo avrebbe ucciso.
-Dove stai andando?-chiese Soap.
-A cercare Nika, non lo lascio da solo-ribattei sicura.
-Sì? Ma se riesci a malapena camminare-
Non risposi, lo sorpassai senza degnarlo di uno sguardo. È vero che non riuscivo a fare quattro passi senza sembrare ubriaca ma non potevo andarmene senza di lui.
-Selena, aspetta-sbuffò.
Lo guardai con la coda nell’occhio, se aveva intenzione di fermarmi non ci sarebbe riuscito.
-Hai dieci minuti, poi partiamo senza di te-disse.
Alzai le spalle noncurante. Per me potevano andarsene anche in quel momento, la cosa non mi avrebbe toccata minimamente.
Tornai indietro fino alla sala della video sorveglianza, da lì avrei avuto più possibilità di trovarlo. Aprii la porta e andai verso i monitor che non mi mostrarono nulla di utile. Le celle erano occupate da prigionieri di guerra ma di Nikita nemmeno l’ombra. Il magazzino era grande e non potevo perquisirlo da cima a fondo. Mi grattai la testa come se quel movimento potesse essermi d’aiuto e risalii le scale, forse sapevo dove poteva essersi cacciato. Arrivai di nuovo al secondo piano e percorsi il corridoio con una spalla attaccata al muro fino quando giunsi alla fine. Quella stanza era l’ufficio personale di Aleksandr, sperai che Nikita fosse lì, intento a cercare qualsiasi cosa che secondo lui potesse essere utile.
Posai una mano sulla maniglia e spinsi leggermente la porta. Feci dardeggiare lo sguardo da un angolo all’altro della stanza vuota. Quella calma non mi convinceva, anche se molti soldati erano alle prese con il loro diversivo, qualcuno doveva pur essere rimasto all’interno.
Estrassi la pistola ed entrai tenendo l’impugnatura ben salda. Le mani mi sudavano e tremavano allo stesso tempo.
Qualcuno mi afferrò il braccio e mi sbattè contro la parete con forza, nell’impatto l’arma mi cadde dalle mani. Il mio aggressore le diede un calcio per allontanarla poi con una mano mi colpì il viso, gli sferrai una ginocchiata nello stomaco che lo fece arretrare di qualche passo lasciandomi abbastanza spazio per staccarmi dal muro e guardare chi fosse.
La sua faccia mi era nuova, doveva essere un nuovo acquisto degli ultranazionalisti. Non poteva avere più di vent’anni, più o meno la stessa età che avevo io. Chissà quali stronzate gli avevano propinato per convincerlo ad unirsi a loro.
Cercai di colpirlo un’altra volta nello stomaco con un calcio ma lui mi prese il piede fermandomi, usai l’altra gamba per saltare e sferrargliene un altro sotto il mento, accusò il colpo indietreggiando di nuovo, lasciandomi il tempo di riprendermi. Ero ormai allo stremo delle forze ma non potevo mollare. Corsi verso di lui e mi abbassai all’ultimo momento per colpire le ginocchia facendolo cadere, tentai di recuperare la pistola per sparargli ma afferrò la mia caviglia e mi trascinò giù. Nell’impatto picchiai la testa molto violentemente, chiusi gli occhi involontariamente e quando li riaprii lo vidi inginocchiarsi vicino a me. Posò un ginocchio sul petto e premette.
Sentii lo stomaco schiacciarsi, l’aria presto iniziò a mancarmi e boccheggiai come un pesce fuori d’acqua per riuscire a respirare.
-Kakiye khrenoten' oni obeshchali tebe? (Quali stronzate ti hanno promesso?)-chiesi riuscendo malapena a scandire le parole.
-Takuyu ne khrenoten' (Non sono stronzate)-rispose premendo ancora di più.
Opposi resistenza cercando di scrollarmelo di dosso ma lui sembrava intenzionato ad andare fino in fondo.
-Uznayesh', kogda budet slishkom pozdno (Te ne accorgerai quando sarà troppo tardi)-
Mi guardai attorno cercando di trovare un’arma la pistola era troppo lontana e non riuscivo a raggiungere il coltello che aveva al fianco sinistro.
Le costole iniziarono a farmi male insieme ai polmoni. All’improvviso tutto diventò buio, mi sentii debole e stordita tanto che non riuscii più a capire se quello che stava accadendo in torno a me fosse reale o meno.  Poi con l’ultimo residuo di lucidità e forza che trovai, presi il coltello dalla mia cintura dei pantaloni e puntai diritto al collo. La lama entrò nella carne causando schizzi di sangue che caddero su di me insieme al suo corpo senza vita. Presi una grande boccata d’aria che i miei polmoni apprezzarono e mi avvicinai alla pistola a carponi tenendo una mano sullo stomaco. Tossicchiai un paio di volte prima di provare a rialzarmi e cadere come un sacco di patate.
In quel momento non c’era un solo muscolo o un solo osso che non mi facesse male, anche respirare mi causava spasmi  e ogni volta che inspiravo sentivo i polmoni arrivare fino alle costole.
Mi ci voleva decisamente una vacanza.
Mi aggrappai al montante della porta per rialzarmi, infilai la pistola nel retro dei pantaloni e uscii per andare verso il deposito documenti dove trovai Nikita intento a cercare qualcosa in uno degli scaffali.
-Nadeyusʹ ya vas ne prerval (Spero di non disturbarti)-dissi appoggiata allo stipite della porta.
Mi guardò per un istante e poi riprese a frugare scartando fascicoli che finirono sparsi sul pavimento.
-Day mne minutu (Dammi solo un minuto)-
-Privezti vodku? (Ti porto della vodka?)-chiesi sarcastica.
Alzò di nuovo lo sguardo verso di me e capì che dovevamo andarcene. Prese alcune carte e uscì dalla stanza.
Camminai lungo il corridoio aggrappandomi al muro, le forze ormai mi stavano abbandonano ma dovevo resistere, presto sarei uscita da lì e avrei cercato un posto dove curarmi.
Sapevo che poco lontano c’era un ospedale e che sicuramente quello sarebbe stato il primo posto in cui mi avrebbero cercata ma non avevo intenzione di restarci per molto, giusto il tempo di trovare degli antidolorifici, delle garze, qualcosa con cui rattopparmi  e della connettivina se ne avessi trovata, poi sarei uscita e sarei rimasta lontana dalla Russia per un po’ o almeno fino quando non si fossero calmate le acque.
Arrivammo alle scale e un lieve senso di vertigini mi colse all’improvviso costringendomi a chiudere gli occhi. Mi appoggiai al corrimano per scendere quella prima rampa ma caddi sul primo scalino. Ansimai sia per lo sforzo sia per il dolore. L’adrenalina il suo lavoro lo aveva fatto e ora stava svanendo.
Mi sedetti per guardare Nika senza dire una parola, non c’era bisogno di parlare in quel momento, volevo solo un po’ di silenzio. In sette anni le mie orecchie non riposarono un solo secondo, sempre sotto l’incessante rumore del fuoco nemico, delle urla e dei pianti disperati. Mai il suono della musica o la risata di un bambino che giocava felice in cortile. Tutto quello che udivo era odio puro, un odio disumano perché nessuno per me poteva essere capace di tanta crudeltà.
Mi rialzai con un lamento di dolore, una fitta al fianco sinistro mi fece piegare su me stessa.
-Davay, nam nado ubirat'sya otsyuda (Forza, dobbiamo uscire di qui)-
Guardai Nikita prendermi sotto braccio e aiutarmi a scendere le scale fino all’atrio del piano terra rischiarato un flebile raggio di sole che entrava dalla porta. Dovevano essere le prime luci, pensai.
Riuscii a fare solo qualche altro passo prima di sentire il mio corpo cadere in avanti e i miei occhi chiudersi.
 
 
 
1=ammetto che non sapevo come si dicesse in russo quindi, onde evitare di scrivere cagate, ho chiesto aiuto a un mio amico nato proprio in Russia per questa parte (tra l'altro mi aiuta a formare parecchie frasi quando non ci arrivo da sola con la mia testolina, quindi suppongo lo dovrò ringraziare il doppio :3 ).
 
 
 
        Angolo dell’autrice *risate generali*
Mi sono accorta che è da febbraio che non aggiorno
*si nasconde dietro il monitor*
ma non riuscivo davvero a scriverlo questo capitolo.
L’ho riscritto una decina di volte togliendo cose
e aggiungendone altre e questo è il meglio che sono riuscita a fare.
se questo è il meglio non voglio immaginare gli altri
starete pensando, e avete ragione, meglio che non sappiate com’erano.
Spero che la lunghezza mi faccia perdonare almeno un po’. C:
 
 yulen reporting. Over and out.

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