Iridescent

di lady vampira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1


 
Il sogno americano. Tutti ne parlano, tutti lo perseguono, tutti lo vogliono. Ma, come accade per la già  nota Araba Fenice, nessuno lo trova. Ho lasciato il mio Paese, un puntino minuscolo nel cuore dell’America Latina che non appartiene a nessuno degli Stati confinanti, ma solo stesso e ad un feroce tiranno di estrema che ha travisato tutti i principi, giusti o ingiusti che siano, non tocca a me stabilirlo- del socialismo per fare di quei pochi chilometri quadrati di terra e foresta il suo regno personale. Ovvero, questo avveniva  fino a qualche mese fa, quando la dittatura è crollata sotto il peso delle sue stesse malefatte e di colpo ci si è ritrovati immersi nel caos più totale, scontri che hanno insanguinato il suolo finché non è esplosa la guerra civile tra i fedelissimi del Generale e i rivoluzionari Sentivo di dover andare via giù da un pezzo da lì, ma l’occasione propizia si è presentata un po’ prima dello scoppio della guerra vera e propria durante le ostilità di maggio uomo con cui ero stata sposata a quindici anni, messosi in un brutto giro di narcos e delinquenti senza scrupoli, era stato fatto saltare in aria con la sua auto mentre cercava di battersela coi soldi che aveva fregato al capo della gang. Ora, loro pensavano che in quell’auto ci fossi anch’io con la bambina: in realtà erano la sua amante e la donna di servizio di quest’ultima, così piccola e bassa che dal finestrino posteriore di un’auto non troppo pulita poteva facilmente venire scambiata per una bimba. 
Con la guerra alle porte non c’era alcuna possibilità che la forza pubblica indagasse sul fatto: il caso era immediatamente stato chiuso come un regolamento di conti. Anastasia Vicente dos Santos era morta assieme alla figlioletta Jasmine Marie e al marito, Manuel Alonso Ortega. Nessuno avrebbe cercato nulla fino al termine della guerra e forse anche oltre. 
<< Ora sei Anja Millan, ho scelto il tuo diminutivo così avrai meno difficoltà  a confonderti. La bambina è Jasmine Millan, è meglio che conservare il suo nome perchè piuttosto piccola e gli errori possono capitare >>, aveva detto il ragazzo a cui avevo dato ordine di trovare, appunto, un passaggio per gli Stati Uniti e dei documenti falsi.
<< Okay, grazie >>. Con quel grazie esprimevo una gratitudine che non si limitava al ragazzo; ma si estendeva a tutto il mondo, l’universo intero. 
Così, io e la mia Jazz ci siamo lasciate alle spalle quel mondo amaro come fiele e siamo arrivate qui convinte che sarebbe andato tutto bene. 
Non è andata esattamente così. L’aggancio che il ragazzo ci aveva promesso qui negli Stati Uniti è finito in galera quattro giorni dopo il nostro ingresso nel “Paese della Libertà”; sono dovuta scappare di notte con Jazz in spalle per non venire rimpatriata. Mi sono rifugiata in un ricovero per senzatetto dove ho condiviso il letto col terrore che mia figlia potesse prendere i pidocchi, la tigna o chissà quale altro malanno. La mia più grande fortuna è stata incontrare Rosalyn, una delle volontarie che venivano a portare il cibo lì al ricovero. Jazz curiosa come sempre le aveva domandato se poteva prestarle la retina che portava sui capelli quando sarebbe andata a pescare nell’Hudson l’estate seguente e da lì avevano attaccato discorso; la mattina dopo, Ross mi offrì di dividere casa con lei. Era un bugigattolo dove in realtà tre persone erano già in troppe, ma io e Jazz non avevamo bisogno di molto spazio: tutti i nostri averi, quei pochi stracci che avevamo portato con noi in una valigia sbrindellata erano finiti catalogati in un verbale di polizia, imballati e spediti al commissariato per i controlli. Non mi preoccupai di quello: non ero schedata. Il vero problema era che non avevo neppure di che dar da mangiare a Jazz; e mi vergognavo di dover vivere della generosità di Rosalyn, io che avevo pagato con le umiliazioni, le botte e il mio corpo di adolescente intatta il pane - poco tra l’altro, e sporco per giunta - che Manuel portava a casa.
Dopo giorni di ricerca estenuante, camminate quotidiane protratte per ore e ore a caccia di un lavoro, uno qualsiasi, m’imbattei in Buzz che usciva allora dal suo locale per affiggere un cartello con su scritto: “CERCASI CAMERIERA“. Era un segno del cielo O almeno così pensavo. Finché non vidi il sorriso svanire dal volto di Ross quando le diedi l’annuncio. Ma io scacciai quell’impressione dolorosa: mi servivano soldi. Non avevo scelta. L’atmosfera era ripugnante. Uomini affamati come pochi ne avevo visti di cibo perfino là al mio Paese che stavano a fissare le ragazze seminude che ballavano a bocca spalancata come pesci. Durante il giro delle ordinazioni ne beccato spesso qualcuno con le mani nel sacco ... Ehm, nei pantaloni. 
L’orrore più puro s’impossessava di me ogni volta che si avvicinava l’orario in cui attaccavo; ma non potevo fare altrimenti. 
Poi arrivò la botta. Visto il gradimento per un corpo che troppo aveva visto e subito ma nonostante tutto reggeva ancora bene, Buzz mi propose un … “salto di qualità”. Di passare al palo. 
Non avrei voluto, e Dio mi è testimone: ne avevo abbastanza degli uomini di quel genere. 
Ma non potevo far altro. Le spese erano sempre più pesanti, e Jazz aveva bisogno di tante cose … 
E adesso sono qui, ad avvinghiarmi a quest’asta di metallo gelido, che le tante mani femminili dalle unghie laccate che vi passano ogni notte non riescono a scaldare. Gelido come il cuore di chi balla e quello di chi guarda. 
Il mio sogno però non accenna a voler morire. E’ un sogno in cui mi sono imbattuta per caso, un pomeriggio in cui mi avviavo al lavoro. Passando davanti ad una rivendita di elettrodomestici. Uno sguardo. Una voce. 
Un germoglio verde, bruno e madreperlaceo di speranza. Ha gettato il suo seme nella mia anima e … da allora, vi è fiorito come un rampicante, legandola saldamente a sé perché non potesse andar via, fuggire da lui. 
Ed è ancora lì, si tiene stretto a me e il mio spirito si tiene stretto a lui, una simbiosi inscindibile che rende meno amara questa condizione.  
Un sogno che non si arrende. Come un gabbiano agonizzante che ancora sbatte le ali, convinto di potersi alzare in volo da un istante all’altro e non sa che l’unico volo che gli spetta è quello verso il buio eterno. 
Ma i resti di lui palpitano ancora. E mentre le mie dita s’intrecciano a fili invisibili e filamenti iridescenti di fantasia, sento i suoi occhi, grandi, potenti, magnetici e contemporaneamente così dolci, malinconici e innocenti addosso e … il cuore prende a frullarmi in petto. Quel piccolo gabbiano morente stringe il becco e si tira su, sulle zampine, raggiunge la riva e si tuffa. 
Non si lascerà spegnere come un ciocco di legna secca e annerita sulla sabbia. Andrà nell’oceano, lo stesso oceano caldo e incredibilmente azzurro di Los Angeles. La prima volta che l’ho visto, sono scoppiata a piangere come una bambina, stringendo Jasmine a me come una bambola di pezza.
E riprendo forza. I miei gesti si fanno decisi e morbidi insieme, sembrano lasciarsi dietro una scia luminosa di piccoli cristalli, frammenti di una luce che questi uomini non conoscono; e in quest’istante, nonostante tutto, voglio condividerla con loro, sperando che queste schegge affilate possano affondare nelle loro anime spente e svegliarle, anche se con un piccolo dolore. 
Ma non accade. Quando la base termina, fischi di approvazione, grugniti e applausi mi lasciano intendere che … nulla è cambiato, dentro di loro. 
Né dentro me. 
Ma anche stasera è passata. 
Scendo nelle “quinte”, slaccio velocemente il completo di scena, una gonna a macchie di leopardo e un top che a malapena mi copre il seno, sfilo il fermacapelli con le orecchie feline e mi avvicino alla mia specchiera. Via i brillantini finti sotto gli occhi, le ciglia finte, le calze a rete e le scarpe dai tacchi vertiginosi. 
<< Brava, Lux. Tieni, queste sono le tue mance >>. Eline, la ragazza che si è esibita dopo di me, mi ha portato i soldi che ha raccolto dal palco, quelli lanciati durante la mia performance; anche le altre, fanno sempre così con me. Io non ho cuore di farlo, sarebbe come spezzare l’incantesimo, il filo magico che mi permette di tirare avanti questo lavoro. 
Loro all’inizio non capivano, spesso per terra  in cinque minuti c’è più di due giorni di paga. Solo quando hanno visto il piccolo ritaglio di giornale che tengo accanto alla foto di Jazz, e il fatto che abbia chiesto a Joyce, il “disc-jockey” di mettermi sempre e solo delle basi … “sue”, hanno cominciato a farsi un’idea di quello che c’è nella mia testa mentre mi esibisco, con gli occhi quasi sempre chiusi. 
In fondo sono buone. Molte sono come me, messe qui dal coltello alla gola. C’è chi si paga gli studi per fuggire da una vita di violenza, chi ha avuto a che fare con la droga in casa e non ha visto altra via d’uscita, chi ha avuto figli troppo presto e non sa come dar loro da mangiare. 
Per questo qui dividiamo tutto, quasi come sorelle. Eline mi sorride e mi porge cinque dollari. << Compra qualcosa a Jazz >>, mi dice. 
<< Oh, no, dai, Eline … >>.
<< Non accetto scuse. Un regalo non si rifiuta mai. Non è molto ma … >>.
Sento che se rifiutassi ancora la offenderei, così non la lascio continuare. << Grazie, Eline. Davvero >>. 
Mi rivesto in fretta, infilo le scarpe da ginnastica e abbraccio la mia collega. Lei ha ancora una lunga notte davanti: si prende cura di due fratellini più piccoli e del padre paralizzato. La madre è andata via di casa tre anni fa. 
Raggiungo la fermata dell’autobus, ci salgo su al volo, senza guardarmi indietro. Una lieve nebbia cosparge la notte losangelina, bianca e sanguigna. 
Arrivo a casa stordita, annebbiata anch’io, come se una parte di quella bruma fosse penetrata anche nel mio cervello; entro in punta di piedi e corro in bagno, apro l’acqua bollente e mi ci ficco sotto, lavandomi di dosso come ogni notte i resti di quello ch’è avvenuto. Metto su il pigiama, m’infilo sotto le coperte e abbraccio stretta stretta la mia bambina, che dorme già. 
Quando finirà tutto questo? 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2


 
Un nuovo giorno, che però ha ancora tutto di quello vecchio. Dopo aver accompagnato Jasmine a scuola, sono rientrata a casa e ho iniziato a sbrigare le faccende quotidiane. Un’attività in cui riesco a trovare uno sprazzo di quiete. 
Per un momento. Perché ho appena cominciato a dare lo straccio ai pavimenti, che immediatamente, il cellulare preistorico che tengo solo per le emergenze si mette a ballare la break-dance sul piano del tavolo, dato ch’è in modalità vibrazione. 
Guardo il display. E’ Rosalyn. Strano … è uscita stamattina all’alba per andare al lavoro, giù in caffetteria. Che abbia dimenticato qualcosa a casa?
Rispondo. << Ross, tesoro, che succede? >>.
<< Ehm … niente, sono in ospedale >>. 
Il respiro mi si spezza in gola. << Come, in ospedale?! >>.
<< Ehi, calma, respira, sto bene. Solo, ho avuto un attacco di appendicite e adesso devono operarmi. Senti, ho già chiamato Coop, gli ho detto che mi sostituisci tu >>.
Qualcuno a sentire così s’incazzerebbe, direbbe che la mia “amica” è stata un’irresponsabile e prepotente. 
A me si spezza il cuore. Ha pensato subito a me. 
<< Ho una settimana di prognosi >>.
Una settimana di vita normale. Una ventata d’aria fresca. 
<< Santo cielo, Rosalyn … oddio … >>.
<< Non nominare il nome di Dio invano, Anastasia >>.
<< Hai ragione, scusa >>, mormoro asciugandomi la lacrimuccia ribelle che mi si forma all’angolo dell’occhio. << Quando comincio? >>.
<< Se ci vai adesso è meglio. Tra un … be’, diciamo una mezz’ora Cooper sarà nei casini neri, quindi potresti già avviarti >>.
<< Ross >>.
<< Sì? >>.
<< Grazie >>.
Lei fa un piccolo sbuffo, e se la conosco, di certo avrà scosso le spalle. << E di che? >>. 
<< Passo a trovarti dopo il lavoro, okay? >>.
<< Okay, vai. A dopo >>. 
Chiudo la conversazione come un senso di … liberazione. 
Sono sette giorni. 
Abbastanza per riprendere fiato per sette anni. 
Scendo immediatamente, prendo la bici parcheggiata nel sottoscala e mi avvio. Sono appena dieci minuti di tragitto, e appena mi presento sulla soglia, Cooper mi sorride. Spesso, mi sono fermata qui con Jasmine al suo ritorno da scuola, a prendere una cioccolata o un dolcetto. Mi conosce ma non tanto bene da sapere il mio “altro” lavoro. 
<< Ehi, ciao Annie, come va? >>. Lui mi chiama Annie, dice ch’è troppo vecchio per mettersi a imparare novità linguistiche. In realtà ha solo sessant’anni, e non li dimostra neppure, con quella camicia di flanella blu e verde che fa da sfondo ai blu jeans e a un velo di barba brizzolata. 
E’ evidente ch’è preoccupato, ha la fronte aggrottata, e gli occhi chiari si muovono da un angolo all’altro del piccolo, delizioso locale pulito e accogliente, dalle mura azzurre e i banconi splendenti, le vetrine perfettamente tenute e un profumo invitante. Niente tanfo di fumo rancido o alcol passato, dopobarba scadente e … 
Basta. Ora sono qui. 
E devo pensare soltanto a questo. 
<< Bene, grazie. Mi ha chiamato Ross … >>.
<< Come sta? Sarei voluto andare con lei ma non me l’hanno permesso >>.
<< Sta bene, è tutto sotto controllo. Appena possibile la operano … io andrò a trovarla dopo il lavoro >>.
<< Okay. Non serve che ti dica niente, vero? >>.
<< Magari servisse, … significherebbe che finora sono stata a rigirarmi i pollici! >>, sorrido, e lui di nuovo. 
<< Allora, puoi cominciare subito. Le divise sono nell’armadietto nel retro, e dopo puoi fare la doccia nello spogliatoio >>.
<< Okay, grazie mille, Coop >>.
<< Grazie a te, mi hai appena salvato la vita, Annie >>. 
Mi cambio e mi metto al lavoro, l’allegra confusione e il via vai di gente disperata che fugge dagli uffici per concedersi un attimo di pausa non mi disturba. Sono persone “sane”, almeno apparentemente, non applaudono, sorridono gentilmente e mettono le mance nel barattolo accanto alla cassa, non nelle mutande di chi li serve. 
Approfitto di un istante di relativa calma per dare una spolverata al piano della macchina del caffè. E’ così che sento solo la voce del cliente ch’è appena entrato, e non lo vedo. 
<< Salve. Un decaffeinato da portare via, per favore >>.
<< Subi … to >>, biascico, voltandomi e … 
Guardandolo. Ritrovandomi davanti il mio sogno, in carne, ossa e … tutta la sua disarmante, eloquente, inevitabile bellezza.  
A volte la vita sa essere davvero maligna. Ti fa vedere cose strane, che ti fanno prendere un colpo. 
Sento il sangue defluirmi dalle guance, dalle mani, da ogni parte del mio corpo e rincantucciarsi stretto stretto in un remoto angolino del mio essere. Spaventato a morte. 
Il fiato mi esce dalla gola a sprazzi, d’un tratto davanti ai miei occhi vedo solo ombre indistinte che mi traballano intorno. 
Il mondo si ferma per un secondo. E’ un viaggio lungo milioni di anni, in orizzontale; e anni luce, in verticale. Vengo balzata indietro all’istante puro e perfetto in cui la materia è esplosa e ogni suo pezzo di massa incandescente è rotolato via dal centro informe e pulsante ch’era per dar vita a qualcosa di nuovo e completamente diverso. Testimone del Big Bang, della creazione. 
Tornata alle origini. Non potrebbe esistere definizione più adatta di questa. 
Ora ho una vaga idea di cosa siano le “esperienze di premorte“. Perché sono sicura che almeno per qualche istante il mio petto e quello che c’è dentro ha smesso di contrarsi e dilatarsi, l’ossigeno non è più affluito al cervello e di conseguenza, sono andata in blackout. Ma in fondo a questo tunnel non c’è nessuna luce bianca, solo la realtà che ho lasciato un attimo fa dall’altra parte. 
No, non è una cosa strana. Non è uno scherzo della mia immaginazione. E’ lui. E’ reale. E’ … qui, di fronte a me, separato da me soltanto da questo bancone e dallo schermo nero dei suoi occhiali da sole. 
Immediatamente li sfila e con un suo semplice battito di ciglia, riprende a battere anche il mio cuore. Forte. Più forte. 
Ancora più forte. 
Dicono che in modo o nell’altro tutto ciò ch’esiste viene dalle stelle.
Guardando lo splendore di questi occhi mi rendo conto ch’è vero.   
<< Signorina? Si sente bene? >>.
Solo adesso mi accorgo anche dell’espressione con cui mi fissano: sgranati, e stupiti in riflesso ai miei. Infilo con fare noncurante una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorrido gentilmente, come niente fosse stato. 
<< Ehm, io … sì, naturalmente. E’ solo un po’ di stanchezza, mi scusi >>.  
<< Ma si figuri, ci mancherebbe. Sicura di star bene? >>.
<< Sì, certo. Grazie >>. Preparo immediatamente il caffé sforzandomi di non avere un altro calo di lucidità, e glielo porgo. 
Maledizione. Troppo tardi mi rendo conto che avrei dovuto lasciarlo sul bancone. 
Perché appena mi sfiora le dita ho come l’impressione che mi si apra la terra sotto i piedi. 
<< Grazie, signorina >>, mormora, e inclina dolcemente la testa biondissima, dello stesso colore della luce del giorno. 
<< Prego. Le auguro una buona giornata >>. 
Lui si volta e si dirige alla cassa, aspetto che esca e chiamo un attimo Cooper. 
<< Scusa, Coop, ti spiace? Dovrei … andare un istante alla toilette >>.
<< Okay, cara, vai tranquilla >>. 
Mi asciugo le mani nel grembiule e vado svelta nello spogliatoio. Mi chiudo la porta alle spalle e appoggiandomi al muro, congiungo le mani allo sterno e stringo tra le dita il piccolo crocifisso d’oro sospeso alla catenina, l’ultimo regalo di mia zia Rita, l‘unica che mi volesse bene, lì al paese, e l’unica che abbia tentato di opporsi al mio matrimonio. Ha avuto appena il tempo di vedermi, prima di morire per un attacco cardiaco. Ho sempre pensato fosse stato a causa mia, si è spenta dal dispiacere nel vedermi costretta a sposarmi contro la mia volontà. 
Non riesco a reggere oltre. Due lunghe lacrime roventi mi scorrono sulle guance, scivolano giù fino alla mandibola e s’infrangono sulle pulitissime piastrelle azzurro oceano sotto le mie scarpe da ginnastica bianche e nere. 
Grazie. Grazie. Grazie. 
Grazie, mio Signore, grazie. 
Passo le dita sotto gli occhi ed esco, inspiro a fondo. 
Ho appena vissuto l’istante più bello della mia vita. 
Il resto della giornata va via in un baleno. Mi sembra arrivato fin troppo presto il momento di staccare e andare a prendere Jazz all’uscita da scuola. 
Mia figlia è bellissima, e non lo dico perché, per l’appunto, è mia figlia. La guardo raggiungermi con un sorriso incredibile come i suoi occhi nerissimi, profondi come l’abisso e sconfinati come il cielo di notte. Somigliano molto ai miei, ma sono molto più belli, i suoi. Innocenti. Lei non ha visto quasi nulla, delle brutture che la vita ha presentato a me. Prego Dio ogni giorno che non debba mai vedere nulla. Io faccio del mio meglio … non mi piace mentirle, ma lei non sa niente del mio vero lavoro. M’illudo dicendomi che non capirebbe … ma in realtà so che comprenderebbe benissimo, e lo giustificherebbe anche. 
Ed è questo che non voglio. Che debba credere fin d’ora che l’esistenza altro non è che un compromesso. Lei non dovrà mai scendere a compromessi, mai. 
Mi getta le braccia al collo e mi stringe, i suoi capelli corvini mi solleticano il naso. Ha sette anni ma ne dimostra almeno dodici, uno stelo rigoglioso in boccio. E in questo non mi assomiglia … io sono piccola e nonostante la gravidanza sono rimasta anche piuttosto esile, a parte i seni. 
E’ anche merito di questo se … posso fare il mio mestiere. Se fossi rimasta sfigurata, con una pancia cadente piena di smagliature o con la cicatrice di un cesareo, amen. 
Forse sarebbe stato meglio. 
Ma oggi sono troppo grata al cielo, al destino, alla vita per pensare a queste cose tristi. Ho incontrato il mio angelo. Mi ha parlato, mi ha sfiorato la mano con la sua. 
Ora sto stringendo l‘altro mio bene più prezioso. E ho davanti una settimana di tregua. 
Non c’è altro ch’io desideri.
<< Ciao, mamma! >>. 
<< Jazz, amore! Hai avuto una buona giornata? >>. 
<< Oh sì, mamma! Oggi abbiamo imparato la tabellina del quattro, e io la so già tutta! >>.
<< Sei fantastica, Jasmine. La mia bimba è un genio! >>. L’abbraccio ancora. Santo cielo, persino mia figlia mi sembra ancora più luminosa, tenera e acuta. Tutto intorno a me splende, e vibra, e pulsa, e riecheggia di nuove note. 
<< Andiamo a casa? >>.
<< No, tesoro, dobbiamo andare in ospedale. Zia Ross è stata ricoverata >>.
<< Perché? >>.
<< Un piccolo intervento. E io la sostituisco per questa settimana, quindi la sera posso stare a casa con te >>.
<< Davvero!? Oh, mamma, è bellissimo! >>. 
<< Sì, tesoro. E’ bellissimo >>. Le porgo la mano, e lei la stringe nella sua, piccola e bruna come la corteccia di un giovane albero ma liscissima. << Lo è davvero >>. 

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