Titanic

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 10 aprile 1912 - L'imbarco ***
Capitolo 2: *** 10 aprile 1912 - Primi incontri ***
Capitolo 3: *** 10 aprile 1912 - Ora del thé, parte 1 ***
Capitolo 4: *** 10 aprile 1912 - Ora del thé, parte 2 ***
Capitolo 5: *** 11 aprile 1912 - Salvataggio! ***
Capitolo 6: *** 11 aprile 1912 - Tempo al tempo ***
Capitolo 7: *** 11 aprile 1912 - Dell'errore e della paura ***
Capitolo 8: *** 12 aprile 1912 - Una vita sottile ***
Capitolo 9: *** 12 aprile 1912 - Inviti ***
Capitolo 10: *** AVVISO! ***



Capitolo 1
*** 10 aprile 1912 - L'imbarco ***


Emma Swann guardò per la centesima volta il suo biglietto, ormai stropicciato a furia di rigirarselo fra le mani. Le era costato tutti i suoi risparmi; la sua nuova datrice di lavoro non si era certo preoccupata che lei avesse i mezzi per procurarsi un biglietto – era solo una tata, in fondo, avrebbe potuto essere sostituita in qualunque momento –, ma non ne era pentita. Lì in Inghilterra non le era rimasto nulla. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori, i pochi amici che aveva mai avuto erano tutti emigrati in qualche angolo dell’Europa continentale, e le rare relazioni amorose che aveva avuto non erano durate mai così tanto da trasformarsi in un legame stabile.

Quel biglietto era tutto ciò che le occorreva per iniziare una nuova vita. Quello, insieme a suo figlio.

Emma era stata assunta appena una settimana prima come tata del suo bambino, il bambino che aveva dato in adozione dieci anni prima. L’aveva ritrovato per caso un paio di mesi addietro – o meglio, era stato lui a trovare lei.

- Signorina Swann! E’ incantata, per caso?- la riprese la sua datrice di lavoro, la nuova madre di suo figlio. Emma si riscosse, afferrando la sua vecchia valigia consunta e affrettandosi a seguire la donna e il bambino. Henry, per mano a sua madre, si voltò e le rivolse un sorriso, che Emma ricambiò. Sua madre se ne accorse, e strinse più forte la mano del ragazzino in modo che si voltasse. Più tardi, Emma lo sapeva, lo avrebbe rimproverato dicendogli di non dare confidenza alla servitù. A quel pensiero, sentì una morsa gelida intorno al cuore.

Emma si domandava spesso come una donna come Regina Mills fosse riuscita ad ottenere l’adozione di suo figlio. Certo, era ricca, facoltosa – i posti riservati in prima classe ne erano una prova, con quel che costavano –, ma fredda, calcolatrice, poco incline a qualsiasi forma di dimostrazione d’affetto. Era rigida, severa, ed Emma avrebbe potuto giurare di non averla mai vista sorridere a suo figlio. Non era esattamente il prototipo di una madre perfetta.

E tu chi saresti, per giudicarla?

La strana voce nella sua testa fu in grado di mettere a tacere tutte le sue riflessioni. Emma accelerò il passo, facendosi strada fra la folla rumorosa e salendo in fretta la passerella a seguito di Henry e Regina. Lei non era nessuno per giudicare come la signora Mills facesse la madre, dal momento che aveva dato in adozione l’unico figlio che avesse mai avuto.

Emma sollevò lo sguardo, sussultando di fronte all’imponenza e alla magnificenza dell’imbarcazione. Non era la prima nave che vedeva, ma quella era senza dubbio la più spettacolare. Non si era fatto altro che parlare di lei sin da quando era ancora nel cantiere, e ora la leggenda era divenuta realtà. Dicevano che fosse estremamente lussuosa, enorme, e addirittura inaffondabile.

Emma non avrebbe saputo spiegare con esattezza l’effetto che le faceva sapere di stare salendo proprio lì sopra; era un misto di desiderio, di paura e di speranza. Quella nave l’avrebbe portata in America, lontano da quei luoghi senza significato in cui era nata e cresciuta, verso una nuova vita. Una nuova vita, sperava, accanto a suo figlio. Ancora non sapeva come avrebbe fatto a riprendersi Henry, ma era contenta di potergli stare vicino, seppure solo come bambinaia. Ma avrebbe trovato un modo, e stavolta non avrebbe abbandonato suo figlio.

Forse, pensò, era proprio vero che il Titanic era la nave dei sogni…

 

***

 

Il capitano Graham si specchiò un’ultima volta, aggiustandosi il colletto dell’uniforme. Rimirò la sua figura riflessa, soffermandosi sull’uniforme decorata di medaglie per poi passare al viso ancora giovane su cui una leggera barba spuntava incolta ma elegante. Graham si passò una mano fra i capelli, soddisfatto di se stesso. Dopo anni e anni passati a marcire in uno squallido ufficio di Southampton, finalmente aveva ricevuto ciò che meritava.

Ricordò il giorno in cui aveva ricevuto la lettera: quasi non gli era parso vero che la sua domanda fosse stata accettata, ma il contenuto della missiva sosteneva il contrario. Era stato assunto come capo della giustizia a bordo del Titanic, la nave inaffondabile, che di lì a mezz’ora lo avrebbe condotto insieme a migliaia di altri passeggeri a New York.

Era forse l’incarico più prestigioso e vantaggioso che avesse mai ricevuto in tutta la sua carriera, e includeva non solo un salario da fare invidia a uno sceicco, ma anche un posto in prima classe e vitto gratuito. E poi, pensò Graham, che mai sarebbe potuto succedere di così grave a bordo di quella nave da richiedere la sua presenza?

Aveva fatto i bagagli e salutato i pochi amici che aveva. I suoi sogni si stavano avverando.

 

***

 

- Ecco, questa è la nostra cabina…- Ruby Lucas entrò nell’angusto scompartimento di seconda classe, poggiando pesantemente i bagagli sul pavimento. Granny la seguì, sbuffando.

- Ti fa male?- chiese la ragazza, notando che la nonna si stava massaggiando l’avambraccio.

- Come ogni luna piena…- fece la donna, imbronciata. Ruby non ci badò, e iniziò a disfare i bagagli. Sapeva perché sua nonna fosse tanto brontolona, quel giorno, e non riusciva a spiegarsi perché, dato che era stata una cameriera per anni e non aveva mai protestato. Forse, pensò la ragazza, dipendeva dal fatto che il locale in cui serviva era di sua proprietà, ma questo valeva ben poco, ora. Dopo il fallimento del Bed & Breakfast, dovuto all’affitto troppo alto richiesto dal padrone, il signor Gold, l’unica possibilità che era rimasta loro era riposta in quei due biglietti di seconda classe che Ruby era riuscita a procurarsi scendendo a un compromesso: due posti a bordo del Titanic per lei e sua nonna, in cambio del suo servizio di cameriera sulla nave per tutta la durata del viaggio.

Granny aveva protestato con tutte le sue forze, ma alla fine Ruby, avvalendosi della razionalità, l’aveva avuta vinta: che altra scelta avevano? A Southampton non era rimasto loro nulla, mentre a New York, in America, avrebbero potuto ricominciare una nuova vita. E poi, era stata una cameriera per tutta la vita, esserlo ancora per quattro giorni non avrebbe fatto molta differenza.

Ruby gettò un’occhiata frettolosa all’orologio, quindi si sfilò il cappotto, sotto al quale aveva precedentemente indossato la divisa da cameriera. Granny le scoccò un’occhiata innervosita.

- Sarà meglio che mi metta al lavoro, il capo ci vuole pronti per quando la nave salperà…- disse, afferrando la maniglia della porta. Granny le rispose con un grugnito.

- Nonna, non fare così…- fece Ruby. - Dai, che vuoi che sia? E’ il mio mestiere, in fondo…

- Non è di te che mi preoccupo, mi preoccupo dei nobili maiali dei quali dovrai rifare i letti!- sbottò l’anziana donna.- Sta’ attenta, Ruby, quelli sono leoni travestiti da damerini!

- Credevo si dicesse leoni travestiti da agnelli…- ridacchiò la ragazza.

- E’ lo stesso. Comunque, fa’ attenzione. E se qualcuno ti da fastidio, vieni subito da me. Gli faccio passare la voglia!- Granny brandì un pugno con aria minacciosa. Ruby rise.

- Non stancarti troppo, nonna…- e uscì.

 

***

 

- Dite che è questa la passerella per la terza classe?- domandò Marco, guardandosi intorno con aria spaesata. Tutta quella confusione lo…confondeva. Si ritrovò a rimpiangere la sua vecchia bottega da falegname, la sua solitudine e il suo silenzio. Lì, in mezzo a tutti quegli spintoni e quegli schiamazzi, gli pareva quasi di trovarsi in una giungla. Si chiese con ansia se anche l’America fosse così caotica.

Suo figlio August notò il suo nervosismo, e gli avvolse un braccio intorno alle spalle.

- Sì, credo che sia questa…- disse, indicando una passerella.- Credo che dovremmo metterci in fila per la visita…

- Visita?- fece Marco, stupito.- Perché? Non abbiamo mica le pulci!

Alla parola pulci, il dottor Archibald Hopper scoccò un’occhiata preoccupata al suo cane.

- Dite che mi faranno storie?- chiese, accarezzando la testa del dalmata.- Non posso partire senza Pongo…

August rise.

- Tranquillo, Archie!- indicò la folla che si stava imbarcando per la prima classe.- Se quelle signore dell’alta società possono portarsi dietro quei batuffoli di pelo che chiamano barboncini, Pongo non avrà problemi a salire con noi…

- Lo spero tanto…

Marco fece una smorfia.

- Mi dispiace tanto, Archie…- mormorò.- Tu potresti permetterti un biglietto di prima classe, invece di startene con noi in chissà quale topaia…

- Sul serio, Marco, ne abbiamo già parlato - sorrise Archie.- Preferisco stare un po’ stretto, ma in vostra compagnia, che avere tutto lo spazi di questo mondo in mezzo a gente snob e sconosciuta.

Marco si zittì, seguendo suo figlio verso la passerella.

Archie sospirò, seguendo i due uomini. La cocciutaggine di Marco aveva pochi alti esempi nel genere umano. L’uomo era molto più vecchio di lui, ma era il suo migliore amico da quanto riuscisse a ricordare. Marco aveva avuto una bottega di falegnameria che aveva dovuto vendere per procurarsi i biglietti per il Titanic per lui e suo figlio August, uno scrittore sconosciuto e squattrinato, nella speranza di poter trovare a New York un guadagno migliore di quello scadente e destinato al fallimento di Southampton, nonché la giusta fama e il meritato riconoscimento per la bravura del figlio.

Quando aveva saputo della loro partenza, Archie non aveva esitato nemmeno un secondo e aveva fatto i bagagli. Si era laureato in medicina all’Università di Oxford qualche anno prima ed era un ottimo psicanalista, ma le possibilità di lavoro in Inghilterra erano poche, nel suo campo. A New York avrebbe potuto aprire uno studio proprio, e nel contempo stare vicino ai suoi due amici, l’unica cosa più vicina a una famiglia che avesse mai avuto.

Archie sorrise a quel pensiero, e accelerò il passo nel salire la passerella.

 

***

 

- Oh, santo cielo! Amore, guarda!- Kathryn Nolan prese suo marito per un braccio, indicando eccitata la nave. David sorrise, lasciando al facchino una generosa mancia e facendosi strada fra la folla insieme a sua moglie. Kathryn aveva parlato di quel viaggio per giorni, prima della partenza, decantando il Titanic in ogni suo aspetto. Dicevano addirittura che fosse inaffondabile, aveva esclamato a un certo punto, su di giri. David gettò un’occhiata al ponte: se era inaffondabile, perché c’erano delle scialuppe di salvataggio?

Fece spallucce; non gli importava che il Titanic fosse inaffondabile come dicevano, quello che gli interessava era che non affondasse durante quel tragitto.

Kathryn continuava a lanciare occhiate tutt’intorno, indicandogli eccitata ogni minimo particolare. David si sforzò di sorridere, e la prese sottobraccio. Ancora una volta, si chiese se ciò che stavano facendo fosse giusto. David Nolan era reduce da una brutta influenza che l’aveva costretto a letto per mesi e che, oltre al fisico, aveva colpito anche la sua psiche. Per diverso tempo aveva avuto problemi di memoria, amnesie, deliri senza capo né coda, e ancora adesso che la convalescenza stava volgendo al termine faticava a ricordare alcuni avvenimenti, anche importanti, della sua vita.

Il suo matrimonio ne aveva risentito.

Spesso si trovava a pensare a sua moglie come un’estranea, una sconosciuta che era entrata nella sua vita senza che lui sapesse come e perché. Kathryn se n’era accorta, e aveva fatto di tutto perché le cose si sistemassero. Se ci fosse riuscita, questo lui non lo sapeva.

Sapeva solo che, se avevano deciso di imbarcarsi per l’America, era solo per salvare il loro matrimonio. Suo suocero, il padre di Kathryn era un imprenditore molto facoltoso, che non avrebbe esitato a offrirgli un posto in una delle sue ditte. Avrebbero cambiato aria, aveva detto Kathryn. Era quello che ci voleva. Posti nuovi, persone nuove. Tutto sarebbe andato per il meglio. David lo sperava tanto.

La signora Nolan era talmente impegnata ad ammirare l’imbarcazione che non si rese conto che una giovane donna le stava passando proprio a fianco. L’urtò inavvertitamente, facendola cadere a terra. La sua valigia si aprì, e ne fuoriuscirono abiti e libri.

- Oh, cielo! Mi dispiace!- Kathryn si gettò in ginocchio accanto alla ragazza. David corse in suo soccorso, aiutandola a rialzarsi.

- Grazie…- la giovane gli sorrise. Era molto graziosa, con i capelli neri tagliati corti e gli occhi castani, snella, e con un colorito pallido. David sentì uno strano tuffo al cuore.

- Sono mortificata, mi dispiace infinitamente!- Kathryn si affannò a raccogliere gli oggetti sfuggiti dalla valigia della ragazza.

- Non fa niente, davvero…- disse quella gentilmente, raccattando i propri abiti.

- Sul serio, mi dispiace, ero distratta e…

- C’è così tanta confusione, può capitare. Davvero, non è successo nulla…

La ragazza chiuse la propria valigia, rialzandosi quasi all’unisono con Kathryn. Le tese la mano.

- Io sono Mary Margaret Blanchard, molto piacere.

- Kathryn Nolan, il piacere è tutto mio - sorrise la donna, stringendole la mano con vigore.- E lui è mio marito David.

David le strinse la mano a sua volta.

- Molto lieto. Anche lei a bordo del Titanic, immagino…

- Proprio così…- Mary Margaret sorrise; si chiese perché fosse arrossita.

- Noi siamo in prima classe, lei?- domandò Kathryn.

- Seconda.

- Oh, che peccato…! Sarebbe stato molto piacevole trascorrere il viaggio in sua compagnia…Beh, magari ci vedremo sul ponte!- sorrise Kathryn.- Arrivederci, signorina Blanchard, e buon viaggio!

- Grazie, buon viaggio anche a voi!- Mary Margaret salutò con la mano.

David le rivolse un timido sorriso, prima di voltarsi nuovamente verso sua moglie.

La ragazza rimase un attimo inebetita a causa di quel sorriso, ma subito s’impose di riscuotersi e afferrò con più vigore la valigia, dirigendosi con decisione verso la passerella. Era diretta a New York, dove l’aspettava un posto d’insegnante in una scuola elementare.

 

***

 

Leroy sbuffò, posando pesantemente a terra un sacco di carbone.

- Fra quanto si parte?- gridò a un suo collega per sovrastare il rumore dei motori.

- Mezz’ora, quarantacinque minuti al massimo!

Leroy grugnì, chiedendosi perché mai avesse accettato di spalare carbone su quella nave per uno stipendio da fame. Non appena fosse arrivato a New York, si ripromise, si sarebbe licenziato e avrebbe cercato un posto migliore. Anche se giravano parecchie voci sul fatto che quelli come lui, al massimo, potevano aspirare a lavorare in miniera.

Leroy afferrò la bottiglia di vino, aprendola e tracannandone un sorso.

- Ehi, ubriacone! Non si beve in servizio!- fece uno dei superiori.

Leroy imprecò, ritirando la bottiglia e salendo le scale per prendere un altro sacco di carbone.

Udì un rumore di oggetti spostati, quindi un gemito.

Sgranò gli occhi quando una giovane donna cadde letteralmente ai suoi piedi, gli abiti sporchi di carbone.

- Oh, buon Gesù, guarda che disastro!- gemette la donna, tentando di rialzarsi.

Leroy venne in suo soccorso, aiutandola a rimettersi in piedi.

- Grazie…- disse quella, con un sorriso di gratitudine. Aveva un bel viso, dolce, gentile, incorniciato da dei capelli castani raccolti in una crocchia. Indossava degli abiti molto semplici, sobri, e una mantella blu macchiata di carbone. Se ne accorse, e tentò di ripulirlo.

- Oh, cielo, che sciocca!- gemette.

- Non è nulla - fece Leroy.- Un po’ di sapone e torneranno come nuovi.

La donna sorrise. Leroy rimase un attimo imbambolato, ma subito si riscosse.

- Ehm, mi dispiace, signora, ma lei non può stare qui…

- Oh, sì, certo!- esclamò quella.- E’ che…mi sono persa, stavo cercando la seconda classe, e…

- Deve salire le scale, poi sempre dritto fino in fondo al corridoio, quindi svolti a destra - spiegò Leroy.- E’ a pochi metri da lì, non può sbagliarsi…

- Grazie! Lei è il mio eroe!- esclamò la donna.

Leroy sorrise.

- Io…io sono Leroy…- borbottò, tendendole una mano. - Lavoro nella sala macchine.

- Molto lieta di conoscerti, Leroy.

- Passeggera o dipendente?

- Passeggera. Mi chiamo Astrid, sono diretta a New York per diventare una suora - disse la donna.- Entrerò in convento e spero di prendere i voti.

Una suora. Peccato, era carina.

- Beh, spero di rivederti, Leroy…

- Lo spero anch’io…

Astrid sorrise e salì le scale. Leroy rimase imbambolato finché un’urlata del suo superiore lo riportò all’ordine.

 

***

 

Il signor Gold scese dalla sua automobile, sollevando lo sguardo verso il Titanic mentre i suoi bagagli venivano portati a bordo. Non poté trattenere un sorriso, quel suo sorriso molto simile a un ghigno che era divenuto famoso fra i suoi debitori e in generale nella cerchia di chi lo conosceva.

Il signor Gold era un uomo d’affari, cinico e spietato, tanto che epiteti come bestia e mostro non gli erano nuovi, soprattutto quando stringeva accordi infami con disperati che, dopo avergli dato quanto per loro era più importante, si ritrovavano ancor più miserabili di prima.

Il signor Gold sapeva della sua fama di usuraio, ma gli importava ben poco. Ciò che gli interessava veramente era il denaro, il potere. E l’avrebbe certamente trovato, molto più che in Inghilterra, a New York. Iniziò a salire la passerella che conduceva agli alloggi di prima classe, vestito completamente di nero nonostante la giornata primaverile, appoggiandosi al suo bastone per sostenersi.

Di nuovo, un ghigno di soddisfazione solcò il suo volto.

 

***

 

- Ti senti bene?- fece Sean, preoccupato, notando la smorfia di Ashley mentre si accarezzava il pancione.

- Sì, sto bene. Scalcia - sorrise la ragazza, poco più che diciannovenne. Sean sorrise a sua volta, ma era preoccupato.

- Speriamo che le doglie non comincino proprio durante il viaggio…

- Beh, se anche fosse, c’è un medico a bordo, no?

- Sì, ma preferirei non succedesse. Vorrei che il bimbo nascesse in America, in una bella casetta dipinta di bianco con un giardino…- Sean sorrise a quell’idea, e strinse a sé la fidanzata. Si sarebbero sposati non appena fossero sbarcati, avevano stabilito. Lui avrebbe trovato un buon posto di lavoro e sarebbero stati una famiglia felice, lui, Ashley e il loro piccolino.

 

***

 

- Grace! Grace, non ti allontanare!- Jefferson corse incontro a sua figlia, prendendola per mano. - Stammi vicino, con tutta questa confusione non vorrei che ti perdessi…

La bambina annuì, tornando a guardare la nave.

- E’ lì che dobbiamo salire, papà?

- Proprio così - Jefferson sorrise e prese in braccio sua figlia, facendosi strada fra le persone che affollavano la passerella della terza classe.- E fra quattro giorni ti sveglierai e saremo in America.

- Com’è l’America, papà?

Jefferson si fece serio, prendendosi qualche istante prima di rispondere.

- L’America è…è una specie di Paese delle Meraviglie…- mormorò infine.- Un luogo bellissimo dove tutti i sogni si avverano…

- Non vedo l’ora di essere là!- sorrise Grace con aria sognante.

Jefferson si sforzò di sorridere, e continuò a salire. Aveva raccontato a sua figlia ciò che dicevano tutti, e lui sperava con tutto il cuore che le dicerie che volevano l’America come un luogo di grandi speranze fossero vere. Era l’unica possibilità che gli era rimasta. L’unica possibilità per uscire dalla miseria e dare una vita dignitosa alla sua bambina. L’unica possibilità per rendere felice la sua Grace.

E lui l’avrebbe colta. Il Titanic era la sua possibilità.

Avrebbe fatto di tutto, perché sua figlia fosse felice.

 

***

 

Belle French corse a perdifiato, facendosi strada fra la folla, stringendo la valigia in una mano e il polso di suo padre nell’altra.

- Forza, papà! La nave parte fra cinque minuti!

Moe sbuffò, arrancando con due valige fra le braccia, tentando di stare dietro alla figura di sua figlia vestita di azzurro che si faceva largo fra le persone. Belle scorse la fila di persone sulla passerella di terza classe e si unì alla coda, cercando di riprendere fiato insieme a suo padre.

- Hai visto? Quanta fretta, ci saranno almeno ancora trenta persone!- borbottò Moe.

- Scusa, è che temevo di fare tardi…

- Hai i biglietti?

- Sì!- Belle estrasse dalla tasca dell’abito i due lasciapassare per la terza classe. Tutto ciò che era rimasto loro dalla vendita della casa e del negozio di fiori. A quel pensiero, Belle avvertì una stretta al cuore. Le sembravano passati secoli da che sua madre era scomparsa, da che gli affari avevano iniziato ad andare male e da che suo padre si era ritrovato costretto a vendere il negozio.

Come tanti altri, loro erano disperati senza più nulla che li trattenesse a Southampton; come tanti altri, anche loro avevano un’ultima speranza. L’America, New York. Belle sperava con tutto il cuore che, una volta giunti lì, le cose sarebbero state diverse, che lei e suo padre potessero riaprire il Game of Thorns e cominciare una nuova vita.

Belle avanzò sulla passerella, sollevando lo sguardo sulla folla delle persone dirette alla prima classe. Scorse fra la gente una figura completamente vestita di nero, alta e slanciata, un po’ claudicante.

Lo riconobbe: era il signor Gold.

- Quel bastardo ha deciso di rovinarci la vita anche nel Nuovo Mondo!- imprecò suo padre.

- La nave è grande, papà, non lo vedremo neppure…- mormorò Belle.

- Lo spero tanto per lui.

Belle distolse lo sguardo. Il signor Gold era uno di quelli che più ci aveva guadagnato dalle disgrazie della famiglia French e, benché quanto era successo non fosse colpa sua, suo padre non l’aveva sopportato.

Belle sperò davvero di non incontrarlo, e tornò a guardare la nave dei sogni, sperando che il suo sogno si realizzasse davvero.

 

***

 

Mercoledì 10 aprile 1912, il Titanic salpò, andando incontro al suo tragico destino.

 

Angolo Autrice: Direi che le mie turbe mentali sono notevolmente peggiorate, ma ehi, in quanto malata mentale, dovete assecondarmi XD. Questa cosa mi frullava in testa già da un po’, se fa schifo, ditelo che la cancello subito. Comunque ci saranno diverse coppie, per citarne alcune, Snowing, Red Cricket, Hunter Swan, e (soprattutto!!!) Rumbelle. Ah, ci tengo a precisare, questo non è un remake del film del 1997, anche se inserirò alcune citazioni e copierò spudoratamente per la scena dell’affondamento XD. Rassicuro chi segue la mia long che non ho nessuna intenzione di abbandonarla e che aggiornerò presto :).

Fatemi sapere che ne pensate, mi raccomando :).

Ciao!

Dora93

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Capitolo 2
*** 10 aprile 1912 - Primi incontri ***


- Sono contento che tu sia riuscita a farti assumere…- bisbigliò Henry, mentre Emma disfaceva la valigia del ragazzino, china sul suo letto nella cabina di prima classe.- Mia madre non immagina nemmeno che cosa ha fatto…- ridacchiò.

- Shht! Henry, non ora…- sussurrò Emma, gettando un’occhiata preoccupata alla porta della stanza adiacente. Regina Mills annunciò il suo arrivo con il rumore dei tacchi sul pavimento, elegantissima nel suo vestito nero leggermente scollato e gli orecchini di brillanti.

Emma pensò che il suo abbigliamento, tutta la sua persona, si confaceva all’ambiente. Il Titanic era davvero la nave più lussuosa che esistesse al mondo. La cabina dei Mills era quattro volte tutti gli squallidi appartamenti in cui Emma aveva vissuto nella sua vita da girovaga, contava cinque stanze e un terrazzino privato all’esterno. Ovunque ci si voltasse spuntavano dipinti a olio, fiori di vetro in vasi di porcellana, suppellettili dorate, e poi lenzuola di seta, divani foderati di velluto, per non parlare dei pavimenti lucidissimi e delle ampie finestre attraverso cui il mare si estendeva azzurro e sconfinato. La signora Mills e suo figlio sembravano nati apposta per vivere in quell’ambiente, mentre tutto, lì dentro, non faceva altro che ricordare a Emma quale fosse il suo posto: nei bassifondi.

- Signorina Swann, credo che sia il caso di mettere in chiaro le mie regole - esordì Regina, sistemandosi i guanti.- Mio figlio deve essere messo a letto alle otto e mezzo in punto. Quando lo porterà a fare la passeggiata pomeridiana sul ponte, dovrà fargli indossare la giacca. Non deve correre, sudare o praticare dei giochi in cui possa farsi male. Un solo colpo di tosse, un solo ginocchio sbucciato, e la riterrò responsabile. Sono stata chiara?- Emma annuì, guardandola appena.- Henry cenerà con lei qui in cabina ogni sera. Lo porterei con me nella sala da pranzo della nave, ma purtroppo sarebbe incompatibile con l’orario in cui deve andare a letto. Più tardi mi raggiungerete nel salone per il thé, alle cinque precise, non se lo dimentichi. Oh, e si cambi d’abito, signorina, non voglio sfigurare - aggiunse Regina, accennando al semplice vestito blu di Emma. Si voltò brevemente per specchiarsi e sistemarsi i capelli, quindi si avviò verso la porta.

- Ci vediamo all’ora del thé, Henry. Signorina Swann - Regina le fece un cenno del capo, quindi uscì.

Emma si volse a guardare suo figlio: Henry aveva l’aria più infelice che un essere umano potesse avere.

- Ma è sempre così?- domandò la donna.

Il bambino annuì, tristemente.

- Sai, in fondo non è cattiva, è solo che…beh…a volte ho l’impressione che tenga più all’opinione degli altri, che a me - Henry abbassò lo sguardo.- Comunque, te l’ho detto, non è cattiva.

- Sei ancora convinto di voler venire con me, Henry?- soffiò Emma.

Il bambino annuì con vigore.

- Certo! Sei tu la mia vera mamma. E poi, ormai sei qui!

Già…

- Come pensi di fare?- incalzò Henry.- Voglio dire, pensi di andare in tribunale con mia madre? O di rapirmi?- il ragazzino non parve molto sconvolto da questa eventualità. Anzi, sembrava quasi che la cosa lo eccitasse.

- Non lo so…- mormorò Emma.

Inspirò a fondo, afferrando la giacca di Henry e mettendogliela addosso.

- Andiamo, è ora della passeggiata…

- Ehi, l’hai presa sul serio, eh?- ridacchiò il bambino.

- Preferisco non inimicarmi la strega cattiva - Emma gli fece l’occhiolino.- E poi, ho bisogno d’aria…e di stare un po’ con il mio bambino.

Henry sorrise, prendendola per mano.

Uscirono in corridoio, facendosi strada fra maggiordomi e cameriere affaccendati a portare valigie e lenzuola. Emma accelerò il passo, stringendo con più vigore la mano di Henry.

- Ehi, che confusione!- commentò il bambino.

- Beh, credo dipenda dal fatto che abbiamo salpato da un’ora…Presto le acque si calmeranno…

- Perché, c’è il mare mosso?

Emma rise, ma d’un tratto si sentì urtare una spalla con tanta forza da farla barcollare. Perse l’equilibrio, incespicando. Si preparò all’impatto con il pavimento, ma questo non avvenne mai.

Qualcuno, si rese conto, l’aveva afferrata per un braccio.

- Tutto bene, signorina?- fece una voce maschile.

Emma alzò lo sguardo: a fermare la sua caduta era stato un giovane in uniforme, sui trent’anni, con i capelli mossi e una leggera barba un po’ incolta. L’uomo l’aiutò a rimettersi in piedi.

- Mi dispiace, non l’ho vista…

- Non si preoccupi…- sospirò Emma, sistemandosi le pieghe dell’abito.- Sono cose che capitano…

- Ti senti bene, Emma?- domandò Henry.

- Emma!- esclamò il giovane.- Sai, piccolo, la tua mamma ha veramente un bel nome…

- Non sono sua madre!- si affrettò a dire Emma. - Io sono…ehm…la sua tata.

- Oh, mi scusi! Oggi non ne faccio una giusta - disse l’uomo, con un sorriso imbarazzato.- Ricominciamo da capo - le tese una mano. - Io sono il capitano Grahm, molto piacere.

Emma strinse la sua mano con vigore.

- Emma Swann, molto lieta. E lui è Henry - indicò il ragazzino.

- Piacere di conoscerti, Henry. Quanti anni hai, giovanotto?

- Dieci.

- Caspita, così giovane e già viaggi oltreoceano!- esclamò Graham. Tornò a rivolgersi a Emma. - Prima volta su una nave?

- Sì. E lei? Ha detto di essere un capitano…

- Proprio così. Sono il capo della giustizia sul Titanic, quindi, se mai dovesse occorrervi qualcosa, sapete a chi chiedere…- ridacchiò.

Emma fece un sorrisetto.

- Grazie, ma spero vivamente che non ci rubino niente…Arrivederci, capitano!- tirò Henry con sé, allontanandosi lungo il corridoio.

- Lo spero tanto…!- sorrise Graham.

Emma non rispose, e continuò a camminare.

Sbruffone!

 

***

 

Ruby passò svelta di fronte a uno dei carrelli per il thé, arraffando qualche biscotto al cioccolato e infilandoseli svelta nella tasca del grembiule. Le parve quasi di sentire la voce di Granny che la rimproverava, ma fece spallucce e sorrise, avviandosi verso le cabine di prima classe.

Il biglietto comprendeva vitto e alloggio, no?

 

***

 

- Sei già al lavoro?- chiese Marco, scoccando un’occhiata al figlio.- Che stai scrivendo?

- E’ una sorpresa - sussurrò August, ghignando, senza smettere di battere i tasti della macchina da scrivere.

Marco sollevò un sopracciglio.

- Un indizio?

- Beh, parla di una nave…

- E…?

- E…non te lo dico!- rise August.

Marco sospirò, esasperato. La porta dell’angusta cabina si spalancò di colpo, lasciando entrare un trafelato Archie.

- Avete visto Pongo?- chiese, aggiustandosi gli occhiali sul naso.

- Credevamo fosse con te…- fece August.

- Lo credevo anch’io - borbottò il dottore.- Mi sono girato un attimo, e…era sparito! Dannazione, è già tanto che sia riuscito a farlo salire, se combina qualche disastro…

- Andiamo, Pongo è un cane educato! E in ogni caso, anche se morde il fondoschiena di qualcuno, ormai è qui - disse August.- Che vuoi che gli facciano? Che lo buttino in mare?

- Tutto è possibile!- gridò Archie, scomparendo di corsa lungo il corridoio.

Marco sospirò, passandosi una mano sulla fronte.

Il viaggio si preannunciava molto lungo.

 

***

 

Mary Margaret sfiorò piano la balaustra che delimitava il ponte della nave, guardando l’oceano. Lasciò che la leggera brezza marina le scompigliasse i corti capelli neri, passeggiando tranquillamente. Il nervosismo che aveva caratterizzato l’imbarco sembrava essere passato, e aveva lasciato il posto a una piacevole calma e speranza. Mary Margaret era fiduciosa: quel viaggio la stava conducendo verso una nuova vita. Non che non le fosse dispiaciuto lasciare l’Inghilterra, dove in fondo aveva sempre vissuto con piacere e lasciato molti amici, ma non era mai stata il tipo che si lasciava sfuggire un’occasione, e anche stavolta non aveva fatto eccezione. Dopo anni di precariato, quel posto da insegnante a New York era stata una manna dal cielo, soprattutto per una come lei che adorava i bambini.

Quasi che il suo pensiero fosse stato programmato, lo sguardo le cadde su una giovane coppia che passeggiava tenendosi per mano: dovevano avere all’incirca vent’anni, e i loro abiti suggerivano che non erano appartenenti a una classe elevata. Lui aveva il viso pulito e il classico sguardo da sognatore, mentre lei era molto graziosa, bionda con il viso a cuore. La ragazza esibiva in bella mostra un ventre tanto arrotondato da lasciare poco o niente al dubbio.

La bionda si appoggiò alla balaustra, sorridendo a Mary Margaret.

­- Quanto manca?- chiese la maestra con un sorriso.

- Oh, non molto!- la ragazza si accarezzò il pancione.- Credo che sia ormai imminente. Sai, Sean è molto preoccupato - sorrise.- La sola idea che io possa partorire a bordo lo terrorizza!

- Non c’è da preoccuparsi, se anche succedesse, il Titanic non manca certo di dottori…- cercò di rassicurarla Mary Margaret.

- E’ quello che continuo a ripetergli anch’io, ma lui è più cocciuto di un mulo!- la ragazza rise.- Credo che sia la sindrome del papà novello…

- E’ il vostro primo bambino?

- Sì. Spero tanto che sia una femmina, ma anche un maschietto mi andrebbe bene…Oh, che sciocca!- la bionda le tese una mano. - Io sono Ashley. Ashley Boyd.

- Mary Margaret Blanchard, molto lieta.

- Lui è il mio fidanzato, Sean - indicò il ragazzo.- Ci sposeremo non appena saremo arrivati a New York. So che molti potrebbero prendermi per una poco di buono…sai, incinta senza essere sposata e sciocchezze varie - Ashley alzò gli occhi al cielo.- Ma al padre di Sean non andava giù che suo figlio stesse con una delle sue cameriere…E così, eccoci qui! Poveri in canna, stipati in una squallida cabina di terza classe e con un figlio in arrivo - sorrise amaramente.

- Ma siete insieme - disse Mary Margaret.- Questo è un lato positivo, no?

- Certo…io dormirei anche per terra, con Sean…

- Credo che sarebbe lo stesso anche per me…se amassi il mio uomo…

A Mary Margaret tornò alla mente l’incontro con quella giovane coppia avvenuto appena prima dell’imbarco. Ricordò il volto dell’uomo e il modo in cui le aveva sorriso.

Represse il tuffo al cuore, dandosi della sciocca. Nemmeno lo conosceva, in fondo. E poi, era sposato.

Non doveva pensarci.

 

***

 

David Nolan lasciò per un attimo la mano di sua moglie, sporgendosi oltre la balaustra del ponte riservato alla prima classe. Sentì il cuore perdere un battito quando scorse la figura di Mary Margaret Blanchard passeggiare sul ponte di seconda classe, sotto di lui.

Un gemito di sua moglie lo riportò alla realtà: Kathryn teneva gli occhi chiusi, massaggiandosi le tempie.

- Tesoro, ti senti male?- fece David, avvicinandosi a lei.

- Non è nulla…solo un po’ di mal di testa…- Kathryn fece un sorriso forzato.- Cosa stavi guardando?

- Io? Nulla, nulla…- David sorrise, stringendola in un abbraccio poco convinto.

Il signor Gold, a pochi metri da loro, ghignò con scherno. Era sempre stato bravo a indovinare i punti deboli delle persone, i loro stati d’animo, e a carpire un pensiero da una semplice espressione del viso o da un gesto. Il giovane uomo accanto a lui aveva posato l’attenzione su qualcosa – o qualcuno – che non era la sua dolce consorte, e tale distrazione doveva essere piuttosto grave, dato che si era così maldestramente affrettato a distogliere lo sguardo e a negare tutto.

Il signor Gold spesso si ripeteva quanto era fortunato a non pensare mai ad altro se non al guadagno personale. Non aveva mai avuto amici, né ne aveva mai voluti. Ciò che gli era sempre interessato era il proprio tornaconto, nulla di più. Se voleva qualcosa, se la prendeva. Non era mai accaduto che qualcosa o qualcuno lo distraesse dai suoi intenti, né aveva mai messo nessuno di fronte a se stesso.

E così sarebbe stato per sempre.

 

***

 

Pongo sgattaiolò furtivamente dietro a uno dei carrelli ricolmi di vivande, evitando per un pelo che uno dei camerieri lo vedesse. Sollevò il muso al di sopra della tovaglia, sbirciando che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Svelto come un fulmine, prese in bocca una frittella e l’ingoiò quasi d’un colpo.

Masticò con gusto, senza fretta, prima di riprendere a girovagare tranquillamente nel salone della prima classe.

 

***

 

Belle sarebbe uscita sul ponte anche se il tempo fosse stato dei peggiori mai visti. Gli scompartimenti di terza classe erano scomodi, angusti e umidi, in cui si respirava solo odore di chiuso e di aria viziata. Belle si volse a guardare suo padre: Moe era nervoso, lo era sin da prima dell’imbarco. Ciò che era successo con il Game of Thorns non era ancora stato metabolizzato, e suo padre ora covava una strana rabbia, come se pensasse che tutto il mondo fosse responsabile di ciò che era successo.

Belle distolse lo sguardo. Sperava solo che il viaggio finisse presto e loro sbarcassero in America.

- Papà, che ne dici, torniamo in…- iniziò, ma subito intercettò lo sguardo di Moe. Suo padre digrignava i denti, fissando con insistenza il ponte di prima classe. La ragazza si scordò per un attimo di respirare: l’oggetto dell’attenzione di suo padre era il signor Gold.

- Bastardo!- ringhiò Moe.

- Papà, basta…- implorò Belle.- Sai che non…

- Si è preso i miei soldi!

- Ma non è colpa sua se…

Gold si accorse che qualcuno lo stava fissando. Si voltò, incontrando lo sguardo furioso di Moe French.

Il suo volto si aprì in un ghigno.

Belle credette quasi di morire, quando vide che aveva preso a scendere le scale.

- Signor French! Che piacere incontrarla anche qui…

- Non posso dire lo stesso, maledetto…!- abbaiò Moe.

- Papà, basta, non fare stupidaggini…!- supplicò Belle, cercando di tirarlo via per un braccio, ma Moe si divincolò. Andò incontro al signor Gold a passo di carica; l’uomo, dal canto suo, non parve impressionato, ma anzi rimase impassibile.

- Maledetto!- ripeté French.- Ti sei preso tutto, tutto!

- E’ ciò che in genere fanno le persone, quando qualcuno è caduto in disgrazia.

- Lei è una sanguisuga!- Moe lo afferrò per il bavero della giacca, minaccioso, ma Gold non si scompose.- Lei è un viscido rettile! Un parassita che si approfitta delle disgrazie degli altri!

- Papà, non…

- Che succede qui?

Belle vide avvicinarsi un uomo in uniforme, giovane, ma certamente graduato. Moe lasciò immediatamente andare Gold.

- Problemi?- domandò l’uomo.

Belle si morse il labbro inferiore, scoccando un’occhiata al signor Gold.

- No, signore. Solo una piccola discussione - disse l’uomo, calmo.

L’ufficiale si accarezzò la corta barba incolta, squadrando i due uomini. Si rivolse a Gold.

- Il ponte riservato alla prima classe non è questo, signore.

- Certo. Mi perdoni - fece un cenno con il capo in segno di saluto.- Arrivederci, signor French. Signorina.

Moe grugnì, voltandogli le spalle. Belle tentò di riportare suo padre in cabina, prendendolo sottobraccio. Si voltò un’ultima volta a guardare il signor Gold: l’uomo non aveva perso il suo ghigno.

 

Angolo Autrice: Bene, innanzitutto ringrazio chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite, e alex992, Valine, Deademia, nari92, aurora faleni, jarmione, historygirl93, nari96, takara_comodino, LadyDeeks, Avly, LauraSwanA, x_LucyLilSlytherin, Lety Shine 92 e Ginevra Gwen White per aver recensito. Davvero, ragazzi, grazie, non mi aspettavo tanto successo al primo capitolo :).

Passando a questo capitolo…mi rendo conto che non è all’altezza del primo, ma era una sorta di passaggio, diciamo. Ah, due parole sul prossimo: il terzo e il quarto saranno, se così si può dire, collegati, capirete perché. Anyway, il quarto sarà più o meno su questa linea, ovvero tratterà di più personaggi, mentre il terzo, cioè il prossimo, sarà più incentrato su due coppie: Rumbelle e Red Cricket (e, a proposito di quest’ultima, tenete a mente che Ruby la cameriera ha in tasca dei biscotti, Pongo scorrazza indisturbato per la prima classe e Archie lo sta cercando come un disperato…che succederà? XD), con anche un piccolo accenno di Hunter Swan. Scusate, ma essendoci così tanti personaggi devo cercare di dare il giusto spazio a tutti. Come sempre, critiche e consigli più che ben accetti, così come tutte le recensioni di ogni sorta :).

Ciao, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 3
*** 10 aprile 1912 - Ora del thé, parte 1 ***


Belle si sistemò le pieghe dell’abito, arrossendo vistosamente quando una signora dell’alta società le passò accanto scoccandole un’occhiata che comprendeva il suo semplice vestito azzurro e le vecchie scarpe bianche ripescate da uno scatolone in soffitta.

La ragazza si affrettò a proseguire lungo il corridoio di prima classe, ringraziando la buona sorte che fosse pressoché deserto. Quello non era il suo ambiente, non lo era mai stato neppure quando suo padre era ancora in possesso del negozio di fiori, e tutto lì dentro pareva volerglielo ricordare.

Si sentì sfiorare la gonna, e abbassò istintivamente lo sguardo. Un cane dalmata sollevò il muso su di lei. Belle sorrise, facendogli una carezza sul capo, quindi lo lasciò proseguire lungo il corridoio.

Rimase a guardarlo finché non svoltò l’angolo, quindi riprese a camminare in direzione della cabina da raggiungere. Ciò che era successo quel pomeriggio sul ponte l’aveva inquietata non poco, e benché non fosse una vigliacca e non avesse l’abitudine di mettere le mani avanti per qualunque cosa, sapeva stare al suo posto e contro chi non era il caso di schierarsi.

Aveva aspettato che suo padre si appisolasse per sgattaiolare fuori dal suo scompartimento di terza classe. Moe aveva esagerato, come sempre. Belle comprendeva che suo padre fosse arrabbiato, ma non sempre era disposta a giustificare i suoi scatti d’ira, tanto più che il signor Gold non aveva colpa del suo fallimento. Sì, si era preso buona parte dei guadagni che ne erano derivati, ma non era stata direttamente colpa sua. E poi, pensò Belle, da quel che aveva sentito in merito al signor Gold, aveva fama di essere un uomo vendicativo, e il fatto che anch’egli fosse diretto a New York non era un fatto positivo. Se non stavano attenti, rischiavano di inimicarselo anche in America, anche se era principalmente stata la sua educazione a spingerla a quel gesto.

Moe aveva esagerato. Il minimo che poteva fare era scusarsi per suo padre.

Belle sollevò di scatto il capo udendo dei passi di corsa nella sua direzione. Un giovane uomo con i capelli rossi e l’aria trafelata si stava dirigendo frettolosamente nella sua direzione. Belle gettò una rapida occhiata ai suoi abiti: non era uno straccione come lei, ma neanche un riccone di prima classe.

- Mi scusi, signorina…- ansimò l’uomo, cercando di riprendere fiato.- Lei ha…ha per caso visto un cane?

- Un cane?- fece eco Belle.

- Sì. Un dalmata, maschio, con un collare rosso…- spiegò il giovane.- Non lo trovo da nessuna parte, non vorrei si fosse cacciato proprio in prima classe…

- Non so se questa sarà una buona notizia per lei o no…- ridacchiò Belle.- Ma credo che sia appena andato da quella parte…- indicò la direzione in cui era appena scomparso il dalmata.

- Grazie infinite…- l’uomo si sistemò gli occhiali sul naso, fece un breve cenno con il capo e riprese a correre nella direzione indicata da Belle.

La ragazza sorrise, e riprese a camminare verso la sua meta.

 

***

 

Ruby si chinò sul letto, lisciando le pieghe delle lenzuola pulite. Gettò un’occhiata all’insieme della cabina: non c’era dubbio, non poteva fare alcun paragone con gli scompartimenti di seconda classe, e non osava nemmeno pensare a come potesse essere la terza. Prese un vaso dal tavolino e lo spostò con attenzione su una cassapanca dall’altra parte della stanza. Era a servizio sul Titanic da nemmeno un giorno, e già credeva di scoppiare. Non c’era oggetto o mobile che sfuggisse alla sua attenzione, e Ruby non poteva impedirsi di calcolare mentalmente quanto potesse essere costato questo o quel soprammobile. Le si strinse il cuore al pensiero di sua nonna stretta nella cabina di seconda classe. Granny era una donna forte che sopportava stoicamente qualunque condizione, ma aveva ormai più di settant’anni, e Ruby avrebbe voluto garantirle qualcosa di meglio.

Sperava solo che là, in America, il tanto sospirato meglio arrivasse.

Udì uno scricchiolio. Ruby spostò lo sguardo sulla porta socchiusa: due secondi dopo, il muso di un cane dalmata fece capolino nella stanza.

Ruby inarcò le sopracciglia, stupita. Non era il primo cane che vedeva, le signore di prima classe parevano essere dipendenti da chiuahua e barboncini, ma quel dalmata era evidentemente da solo. Che ci faceva in prima classe, non accompagnato?

Il cane annusò l’aria, quindi, vinto ogni timore, zampettò allegramente all’interno della cabina.

Ruby arretrò istintivamente di un passo.

- Ehi…non puoi stare qui…- fece la cameriera, rendendosi conto un secondo dopo della propria idiozia. Stava tentando di far ragionare un cane!

Il dalmata si piazzò al centro della stanza, guardandosi intorno con aria curiosa. Lo sguardo che posò sul servizio da thé in porcellana posato in bilico sul tavolino non piacque per niente a Ruby. Si sporse un po’ verso di lui.

- Ehi, qui non è il tuo posto…- beh, si disse, ora che aveva cominciato, tanto valeva proseguire. Gli fece un gesto con la mano. - Su, esci!

Il cane non diede segni di aver compreso. E come avrebbe potuto?

- Su, forza! Di là!- Ruby indicò l’uscita.

Niente. Il dalmata riprese ad annusare l’aria, quindi si avviò allegramente verso un vaso di cristallo.

- Ehi! No, no, no, no, no!­- Ruby si parò di fronte all’oggetto.- Senti, bello, se rompi qualcosa io finisco nei casini, e…

Il dalmata sollevò il muso su di lei. Ruby si zittì, ricambiando lo sguardo.

Il cane le annusò brevemente il vestito; quindi, puntò il muso contro la tasca del grembiule.

- Ehi…che fai…?

Il cane annusò insistentemente la tasca della cameriera. Ruby si spostò di lato, ma l’animale la seguì.

- Che stai facendo, ma che…

Il cane balzò in avanti, agguantandole il grembiule con i denti e iniziando a tirare. Ruby afferrò la stoffa, tentando di liberarsi, ma perse l’equilibrio e finì distesa sul letto appena rifatto. Il dalmata non mollò la presa.

Ruby scattò in ginocchio sul materasso, tirando la stoffa.

- Ehi, guarda che questo non me lo ripaga nessuno! Molla!- gridò, riuscendo alla fine a liberarsi.

Il cane balzò in avanti, appoggiandosi con le zampe anteriori sul materasso.

- No! No! Giù!- ordinò Ruby, tentando di apparire autoritaria.- Giù! A cuccia!

Il dalmata non parve comprendere, e iniziò a muovere allegramente la coda.

Ruby sospirò, aggrappata a una delle colonne del baldacchino.

- Mi farai licenziare…!- borbottò, infilandosi una mano nella tasca del grembiule. Ne estrasse un biscotto al cioccolato.- Tieni, vuoi?

Pongo prese a scodinzolare con più energia. Ruby gli lanciò il biscotto, che il dalmata afferrò al volo.

- Ecco, sei contento? Ora vai fuori, capito?

Pongo, per tutta risposta, si sporse ancora di più sul letto.

Ruby sospirò nuovamente, esasperata. Prese un altro biscotto, gettandolo il più vicino possibile all’uscita. Veloce come un fulmine, Pongo si precipitò a raccoglierlo, ritornando presto vicino al letto, masticando con gusto.

Ruby gemette.

- Ma che diamine devo fare per riuscire a scendere da qui?!

Pongo abbaiò.

 

***

 

L’abbaiare di un cane proruppe nel corridoio di prima classe.

Archie lo riconobbe, l’avrebbe riconosciuto fra mille. Non sapeva se sentirsi sollevato o disperato, non appena capì che proveniva da una cabina di prima classe.

Si precipitò letteralmente verso la camera, inciampando sulla porta e rischiando di cadere sulla soglia. Rimase imbambolato alla vista della scena che gli si era presentata davanti.

Pongo, che gli venissero le pulci!, se ne stava beato appoggiato con le zampe al bordo di un baldacchino, la coda che scodinzolava allegramente e lo sguardo puntato su una ragazza vestita da cameriera, molto graziosa, con i capelli castani che le ricadevano sulle spalle, che se ne stava in ginocchio sul letto aggrappata a una delle colonne.

- Scusi!- il grido della cameriera lo riportò alla realtà.- Per favore, mi potrebbe dare una mano?

Archie si riscosse, correndo in direzione del dalmata e afferrandolo per il collare in modo che scendesse dal letto. Ruby tirò un sospiro di sollievo, balzando giù dal baldacchino.

- Grazie…!

- E’ tutto il pomeriggio che ti cerco, sacco di pulci!- borbottò Archie, rivolto a Pongo. Il cane, per tutta risposta, voltò il muso dall’altra parte.

- Oh, è il suo cane?- fece Ruby.

- Sì. Sì, lui…Pongo è il mio cane…- mormorò Archie, al colmo dell’imbarazzo.- Mi spiace molto, signorina, in genere non si comporta così…

- Pongo, eh?- Ruby fece un mezzo sorriso, inclinando lievemente il capo e guardando il dalmata, che non aveva smesso di scodinzolare.

- Non so proprio cosa gli sia preso…- Archie sbuffò, trattenendo Pongo per il collare; il dalmata aveva ripreso ad annusare il grembiule della cameriera.

- Credo di saperlo io…- Ruby infilò la mano in tasca e gettò l’ennesimo biscotto a Pongo, il quale lo ingoiò con gusto.- Questo era l’ultimo, hai capito?- Ruby si finse severa.- E addio al mio spuntino pomeridiano…- sospirò.

- Sul serio, signorina, mi dispiace tantissimo…- Archie era diventato del colore dei suoi capelli.

- Non fa niente, l’importante è che non abbia rotto nulla…- Ruby si sistemò il vestito, quindi sorrise.- E’ la sua cabina, questa?

- Che? Oh, no, io…io viaggio in terza classe…- rispose Archie, imbarazzato. Si schiarì la voce, tendendole la mano. - Dottor Archibald Hopper, molto lieto.

La cameriera sorrise.

- Ruby Lucas, piacere mio. E’ un dottore, ha detto?

- Esatto. Uno psicanalista, per la precisione.

- Psicanalista…- Ruby si fece pensierosa.- Devo aver letto qualcosa su uno di loro…Un certo Fred, o Fraid…

- Freud?

- Sì, esatto! Uno che blaterava qualcosa su Edipo, e la madre, e il padre…- Ruby fu sul punto di mettersi a ridere, ma subito si accorse della figuraccia che aveva appena fatto. Arrossì.- Ehm…un dottore, allora…e come mai viaggia in terza, se non sono indiscreta?

- Sono in compagnia di un amico e di suo figlio. Anche lei in terza?

- No, seconda. Viaggio con mia nonna…e mi pago il biglietto rifacendo i letti…- Ruby sorrise amaramente.- Anche lei con il grande sogno, dico bene?

- Come?

- Ma sì, l’America, New York…- Ruby si gettò a sedere sul letto.- Mia nonna spera di poter riaprire il nostro Bed & Breakfast, una volta arrivate là. Quanto a me…dicono che i teatri di Broadway siano un posto perfetto dove iniziare la carriera d’attrice…

- E’ un’attrice, signorina?

Ruby rise.

- Sì, certo. Nella mia testa…- ridacchiò.- E per favore, niente signorina. Nessuno s’è mai sognato di darmi del lei in vita mia. Io sono Ruby.

- Va bene…Ruby…- ad Archie fece uno strano effetto pronunciare quel nome. - Sua…ehm…tua nonna aveva un Bed & Breakfast, hai detto?

- Sì, a Southampton. Ma abbiamo dovuto chiudere per colpa di un maledetto usuraio che ci ammazzava a colpi di affitto. Un certo Gold. Se lo trovo su questa nave, parola mia che gli riempio i vestiti di acqua salata!- Ruby rise; Archie si unì a lei, sentendosi improvvisamente più a suo agio.

- E tu non pensi di darle una mano, una volta sbarcate a New York?

- Io? Beh…non lo so, a dire il vero…Ho sempre lavorato con lei, ma non voglio fare questo per tutta la mia vita…Vedremo: se mi butteranno fuori da Broadway, saprò dove andare…- Ruby sorrise; gettò un’occhiata all’orologio. Si rialzò, sistemandosi il grembiule.

- Beh, sarà meglio che vada…- mormorò.- Fra poco è l’ora del thé, e se non mi presento nel salone, chi lo sente il capo…

- Certo…Io riporto in cabina questo fuggiasco…- Archie tirò Pongo per il collare, avviandosi verso la porta.- Ci vediamo, Ruby.

Ruby sorrise.

- A presto! Ciao, Pongo!

Pongo le gettò un’occhiata, quindi uscì dalla porta con tanta velocità da far incespicare Archie, che lo teneva stretto per il collare.

 

***

 

Il salone principale della prima classe era ampio e luminoso, e la luce pomeridiana che filtrava dalle finestre aperte sul mare faceva luccicare i cristalli dei lampadari e delle posate raffinate sulle tovaglie di lino bianco. Regina Mills, seduta comodamente su una poltroncina foderata di velluto verde, era elegantissima in un abito blu scuro leggermente scollato, con il cappellino sistemato sulla chioma accuratamente acconciata e i guanti color crema immacolati. Al collo portava un gioiello che aveva acquistato circa una decina d’anni prima durante una visita in una gioielleria di Londra: si trattava di un diamante blu a forma di cuore, grande quasi quanto una fragola, legato a una catenina d’argento. Si chiamava le coeur de la mer, il cuore dell’oceano, e aveva un valore inestimabile. Regina lo indossava solo di rado, se doveva partecipare a qualche cena importante o a un ballo a casa di amici influenti, ma quel giorno aveva deciso di estrarlo dal portagioie in onore dell’ospite che attendeva all’ora del thé.

Si voltò non appena sentì avvicinarsi dei passi affrettati. Sorrise.

- Buon pomeriggio, Henry - disse, salutando suo figlio non appena lo vide trotterellare in direzione del tavolo seguito dalla sua bambinaia. Emma fece una smorfia; forse non aveva il diritto di criticare Regina per come faceva la madre, e sicuramente la signora Mills ne sapeva più di lei su come crescere un bambino, ma era certa che non avrebbe mai salutato suo figlio con un freddo buon pomeriggio, neanche fossero stati due estranei.

- Buon pomeriggio, mamma - rispose Henry, serio, sedendosi accanto a Regina.

Emma prese posto al tavolo.

- Si è cambiata d’abito, vedo, signorina Swann…- Regina le rivolse un sorriso compiaciuto, squadrando Emma nel suo semplice vestito verde acqua.

- Come richiesto…- mormorò Emma.

- Com’è andata la passeggiata, signorina Swann?

- A meraviglia, signora Mills.

- Henry?- Regina cercò l’approvazione di suo figlio; il bambino annuì.

Emma si sistemò il tovagliolo in grembo.

- Attendo un ospite, signorina Swann. Un ospite di riguardo - precisò Regina.- Mi raccomando, si comporti da signora.

Emma si trattenne a stento dal chiederle che cosa si aspettasse, se si aspettava che si sarebbe messa a mangiare con le mani o cos’altro, ma si morse la lingua.

- Oh, eccolo!- esclamò Regina.

Emma ed Henry sollevarono lo sguardo all’unisono, sgranando gli occhi non appena videro avvicinarsi al loro tavolo il capitano Graham. Anche l’uomo parve alquanto sorpreso d’incontrarli, ma non si scompose, e baciò la mano prima di Regina quindi di Emma.

Regina sorrise, invitandolo a prendere posto.

- Grazie per avermi invitato, signora Mills - ringraziò Graham.- Oh, e mi permetta di complimentarmi con lei per quel magnifico gioiello. Le sta d’incanto - aggiunse, accennando al cuore dell’oceano.

Regina sorrise, lusingata.

- La ringrazio, capitano. Posso presentarle mio figlio Henry?- la donna indicò il ragazzino, ignorando completamente Emma, quasi non si trovasse lì con loro. Regina prese in mano la tazzina del thé e bevve un sorso.- Io e il capitano ci siamo incontrati oggi qui nel salone - disse.- Il capitano Graham è il capo della giustizia qui a bordo del Titanic, Henry…

- Credo che questo suo figlio già lo sappia, signora Mills - Graham fece l’occhiolino a Henry.- Ci siamo incontrati oggi nel corridoio di prima classe…

- Davvero?- fece Regina, sorpresa.

- Sì, anche se la parola giusta sarebbe scontrati - Graham sorrise, gettando un’occhiata a Emma, la quale non aveva il coraggio di spostare lo sguardo dalla propria tazza.- Sono stato così maldestro da urtare accidentalmente la signorina. Per poco non è caduta, a causa mia.

- Sul serio?- Regina guardò Emma. - Signorina Swann, perché non me l’ha detto?

- N-non…non ne ho avuta l’occasione, signora Mills…- balbettò Emma.

- Ma è stato un incidente dovuto a una mia distrazione - disse Graham.- Non so cosa mi prenda oggi, faccio una figuraccia dietro l’altra. Pensi che ero convinto che la signorina fosse la madre di suo figlio…

- Sua madre?- fece Regina.

Emma si sentì morire. Henry le lanciò un’occhiata di sottecchi, torcendosi nervosamente le mani. Regina scoppiò a ridere.

- Oh no, certo che no! La signorina Swann è solo la sua tata. Sono io la madre di Henry, a tutti gli effetti - Regina bevve un altro sorso di thé, quindi proseguì.- Vede, capitano, io ho adottato mio figlio quando aveva tre settimane. Le suore mi dissero che la madre non era sposata, e che l’aveva abbandonato appena dopo la nascita. Non so chi sia, né vorrei saperlo. Non credo che un essere così ignobile avrebbe diritto all’attenzione mia e di mio figlio…

Emma strinse la gonna dell’abito, tenendo lo sguardo basso.

- …dico io, una madre che abbandona il proprio bambino. Sicuramente doveva essere una sbandata, una vagabonda, o magari anche una prostituta. Credo che persone del genere dovrebbero essere escluse dalla società: quale madre che si definisse tale abbandonerebbe il proprio bambino?

Emma arrossì, sentendosi le lacrime in agguato fra le ciglia.

- …una cagna, ecco che cos’è. Non è degna di essere chiamata madre. Neppure un cane abbandonerebbe il proprio figlio. Una persona simile non merita né comprensione né affetto…

Emma sentì di non farcela più, e scattò in piedi.

Henry la guardò, sentendo una stretta al cuore. Regina sollevò lo sguardo su di lei, stupefatta.

- Si sente bene, signorina?- fece.

- I-io…- balbettò Emma. - Io…chiedo scusa, credo…credo che sia un po’ di mal di mare…

- Vuole che chiami un medico?- domandò Regina.

- N-no, non ce n’è bisogno, io…ho solo bisogno di un po’ d’aria…Con permesso…

Emma si voltò, uscendo a grandi passi dal salone. Solo quando fu sul ponte prese a correre più veloce che poteva, in lacrime, raggiungendo infine la prua della nave. Si aggrappò alla balaustra, cadendo in ginocchio e iniziando a singhiozzare, il viso nascosto contro l’avambraccio e il vento che le scompigliava i capelli.

 

***

 

Belle bussò titubante alla porta, arretrando di un passo quando si aprì, rivelando la figura di una cameriera dall’aria irritata e affaccendata. La donna non si curò di nascondere una smorfia di fastidio alla vista dei vecchi abiti della ragazza.

- Ehm…buon pomeriggio…- mormorò Belle.- Io…stavo cercando il signor Gold…

La ragazza udì un passo strascicato avvicinarsi alla porta, quindi la cameriera si fece da parte, e il suo posto venne preso proprio dal signor Gold. Come tutte le poche volte in cui l’aveva incontrato, Belle si stupì dell’effetto che le faceva quell’uomo: Gold non era più un uomo molto giovane, e a suo tempo non doveva essere stato nemmeno molto bello, ma l’eleganza negli abiti e nei modi lo rendevano piuttosto affascinante. Ma c’era qualcosa in lui, qualcosa che Belle non era in grado di spiegare, che lo rendeva cupo e sfuggente, e la inquietava.

- Signorina French!- esclamò Gold. Doveva essere sorpreso di vederla.- Cosa posso fare per lei?

Belle s’impose di mantenersi calma, e si schiarì la voce.

- Ero venuta per parlarle, signor Gold. Riguardo al comportamento di mio padre questo pomeriggio.

Il signor Gold la guardò, apparentemente soprappensiero. Belle si chiese se stesse valutando l’ipotesi di sbatterle la porta in faccia oppure semplicemente deriderla. Doveva sembrargli patetica, lei, con il suo abito di seconda mano e l’aria di chi stava chiedendo l’elemosina.

- Non sarebbe educato da parte mia lasciarla sulla porta. Che ne direbbe di entrare e sedersi?- Gold si fece da parte in modo che Belle potesse entrare.- Le andrebbe una tazza di thé?

Belle chinò il capo ed entrò, timorosa.

Quando la cameriera chiuse la porta alle sue spalle, la ragazza ebbe la sensazione di essere appena entrata nella tana del lupo, e di non avere via d’uscita.

 

Angolo Autrice: Ciao a tutti! Dunque, so che molti di voi si aspettavano qualcosa di più per la Rumbelle, ma non voglio fare capitoli eccessivamente lunghi, e poi siamo solo al primo giorno, non voglio bruciare le tappe tutte adesso.

Allora, in questi giorni ho fatto una cura intensiva di Titanic e, anche se come ho detto questo non è un remake del film del 1997, avevo anticipato qualche citazione. Una di queste è appunto le coeur de la mer (che letteralmente significa il cuore del mare, scusate, non è per fare la pignola, ma quando ho sentito la traduzione il cuore dell’oceano gli otto anni passati a studiare francese si sono ribellati in me XD). Nel prossimo capitolo avremo Marco e August, Jefferson e Grace, un piiiiccolo accenno di Sean/Ashley, Leroy e Astrid, e poi Hunter Swann e Rumbelle (e, anche se non prometto nulla, tutto dipende dalla lunghezza del capitolo, forse anche una piccola parte di Red Cricket). Spero che l’incontro Archie/Ruby non sia stato deludente…Il prossimo capitolo sarà anche l’ultimo del 10 aprile, dal quinto attaccheremo con 11 aprile, e con la Snowing (che a me, confesso, non è che esalti molto, ma ci sono anche loro, quindi…cercherò di dare anche a David e Mary Margaret il giusto spazio e di non deludere tutti gli Snowing fan). Lo so che il comportamento di Regina non è il massimo, in questi capitoli, ma migliorerà, specialmente nella parte del naufragio…

Dunque, ringrazio chi ha inserito la storia fra le seguite, le ricordate e le preferite, e chi semplicemente legge, e ringrazio Pitonia, Ginevra Gwen White, Lady Deeks, historygirl93, jarmione, Valine, nari92, Lety Shine 92, syriana94, Avly e TheHeartIsALonelyHunter per aver recensito.

Un grazie in particolare a syriana94 per avermi concesso di pubblicare questo fotomontaggio da lei realizzato e che a me è piaciuto moltissimo, ma di cui ho potuto copiare solo il link causa dimensioni troppo grandi della foto :).

http://tinypic.com/view.php?pic=29lmigx&s=6

Come ho già detto, l’ho trovato fantastico, da brava fan di Regina quale sono, anche se è “la cattiva” e io spesso nelle mie storie mi trovo a farla passare come tale…Ancora grazie a syriana94 e, a proposito di Regina versione malvagia, informo tutti coloro che la seguono che aggiornerò presto la mia altra long Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto :).

Ciao, un bacio,

Dora93

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Capitolo 4
*** 10 aprile 1912 - Ora del thé, parte 2 ***


Angolo Autrice: ATTENZIONE!!! Nella parte dedicata a Hunter Swan c’è uno spoiler bello grosso sulla season 2, quindi se a differenza della sottoscritta non vi siete ancora bevuti tutte le puntate della seconda stagione, appena vedete che le cose diventano preoccupanti, saltate una decina di righe!

Questo per avvertire chi non vuole brutte sorprese…a tutti gli altri, buona lettura :)!

 

Gli alloggi di terza classe erano quanto di più squallido August avesse mai visto. Ormai aveva smesso di contare le scorribande dei topi, a cui all’inizio lanciava una serie d’imprecazioni assai poco signorili, rendendosi poi però subito conto che fulminare verbalmente quei ratti non sarebbe servito a nulla. Lui, suo padre e il dottor Hopper dormivano in dei letti a castello, a cui Marco aveva dovuto sostituire le lenzuola sporche e lise, le pareti trasudavano umidità che si mischiava con il puzzo del carbone e delle caldaie al di sotto di loro, e il soffitto era talmente basso che lui e Archie – chissà che fine aveva fatto, a proposito…che l’avessero scaraventato in mare insieme a Pongo? – erano costretti a chinarsi per non picchiarci contro la testa. August di tanto in tanto borbottava qualche imprecazione; Marco, invece, si limitava tutt’al più a sospirare, senza commentare nulla, con un’espressione rassegnata che al giovane uomo faceva ogni volta avvertire una stretta al cuore.

Negli ultimi tempi, August si era reso conto sempre di più di quanto suo padre fosse invecchiato. La moglie di Marco era morta appena due mesi dopo averlo dato alla luce, e da allora suo padre era sempre stato solo, con l’unica compagnia di suo figlio e di Archie che, fortunatamente, era un amico vero, su cui si poteva contare. Ad August dispiaceva che il dottor Hopper, pur potendosi permettere senza problemi un alloggio di prima classe, fosse costretto a sopportare tutte quelle angustie solo per amore di loro due poveracci, ma ancora di più gli dispiaceva che suo padre dovesse sopportare tutto ciò.

Erano anni, ormai, che August viveva pieno di sensi di colpa nei confronti di Marco, e ora più che mai si domandava se le cose sarebbero potute andare diversamente, se non avesse compiuto un errore madornale a non portare avanti l’attività di famiglia. La razionalità gli suggeriva che, se anche lui avesse continuato a lavorare alla falegnameria, non avrebbe fatto differenza, gli affari andavano male da tempo e sarebbe fallita comunque, eppure non riusciva a darsi pace. Gli sembrava quasi di aver abbandonato suo padre al proprio destino, solo per essere stato troppo egoista, per aver pensato a se stesso e alla propria carriera.

Appena dopo il diploma, August aveva iniziato a lavorare in falegnameria insieme a suo padre. Marco gli aveva insegnato bene i ferri del mestiere, e lui era anche bravo, aveva talento nel creare e aggiustare oggetti, ma sentiva che quella non era la sua strada. August aveva sempre puntato in alto, aveva sempre detto di non voler rimanere uno sconosciuto qualsiasi, ed era convinto che la sua fantasia e la sua bravura nello scrivere racconti lo avrebbero aiutato.

Marco aveva accettato senza obiettare la sua decisione, ma August non aveva fatto i conti con il clientelismo che vigeva negli influenti ambienti inglesi. Era riuscito a pubblicare solo qualche racconto sulle pagine di alcuni giornali minori, ma non appena proponeva un lavoro serio, subito veniva scalzato dal raccomandato di turno. Per anni si era visto chiudere una porta in faccia dopo l’altra, tornando ogni volta a casa sconsolato e con la certezza di non meritarsi in alcun modo il piatto di minestra che Marco gli poneva di fronte a cena.

Suo padre l’aveva sempre supportato, sia moralmente sia economicamente, e ora August voleva fare altrettanto. Quel viaggio, giurò a se stesso, sarebbe stato l’ultimo che Marco avrebbe trascorso nell’indigenza. L’America era il paese delle grandi opportunità, no? Lì il suo talento sarebbe stato riconosciuto, sarebbe divenuto uno scrittore famoso e avrebbe regalato a suo padre una vecchiaia serena, senza più preoccupazioni.

Incitato da questo pensiero, August prese a scrivere più freneticamente, e il rumore dei tasti della macchina da scrivere erano rapidi e secchi così come le idee nella sua mente.

- A che pagina sei?- s’informò Marco.

- Più o meno a centocinquanta. La storia è già nel vivo, ma il peggio deve ancora venire…

- E sei già a centocinquanta pagine?! Buon cielo, cosa stai scrivendo, un papiro?

- La genialità non ha limiti, papà.

- E nemmeno la modestia…Si può sapere almeno di cosa parla, questo capolavoro?

- Te l’ho detto, parla di una nave.

- E’ un po’ poco, per avere un’idea.

- Una nave, su cui s’imbarcano un padre e un figlio.

- E…?

- Beh, lo sai come sono i miei lavori. Non manca niente - August guardò suo padre e sorrise.- Ci sono duelli, misteri, e naturalmente la storia d’amore…

- E ci sono anche animali fuggitivi?- chiese ironicamente Archie, spalancando la porta della cabina e arrancando nel tentativo di entrare con Pongo al guinzaglio che si divincolava.

- No, ma posso sempre aggiungerceli…- fece August.- Che ha combinato di tanto grave, la nostra mascotte?

Archie tirò Pongo dentro la cabina con un ultimo sforzo, quindi chiuse la porta e vi ci si appoggiò contro.

- Indovinate un po’ dov’era finito?- ansimò.- Nientemeno che in prima classe.

- Uh, si tratta bene, il nostro Pongo…- commentò Marco, piegando un maglione.

- Sì, come no…- sbuffò Archie.- Pensa che ha quasi aggredito una cameriera…

- Aggredito?

- Beh, no, non proprio aggredito…- spiegò Archie.- A farla breve, lei aveva dei biscotti in tasca e Pongo…

- Capito. Strano, a noi qui di biscotti non ne hanno distribuiti…- ironizzò August.- Dovremo informarci meglio, papà, magari da qualche parte in terza classe servono il thé…

- Non è di terza classe. Viaggia in seconda - precisò Archie.

- Ah, allora ci hai parlato!- esclamò August.- Come si chiama? E’ carina?

Archie arrossì.

- Si…si chiama Ruby Lucas…

- Com’è? Bionda, mora? Com’è messa in termini di davanzale?

- August!- lo rimbrottò Marco.

- Che c’è? Questo furbacchione fa il Casanova in prima classe e non sei curioso nemmeno un po’?

- Non ho fatto il Casanova…- borbottò Archie.- Abbiamo solo scambiato due parole, niente di più…

- Sì, certo…E quando la rivedi?

- Non so se la rivedrò, non…

- Non vi siete dati appuntamento?! Papà, qui bisogna fare qualcosa…

- E dai, August…- implorò Archie.

- August, lascialo in pace…

- Ma scusa: conosce una bella ragazza, non si prende due schiaffi quando prova a parlarle, e non le da nemmeno un appuntamento! Ammetterai che la situazione è preoccupante…

Archie e Marco sospirarono all’unisono; l’uno si sedette e aprì un libro, l’altro riprese a sistemare i vestiti.

- E va bene, ho capito. Comunque, abbi la decenza di farci un fischio, quando busserà alla porta della nostra cabina e ti salterà addosso…Non vorrei trovarmi in situazioni imbarazzanti…

- August!

 

***

 

- Papà, non ti piace il thé?- Grace sollevò lo sguardo su suo padre, che non aveva ancora toccato la propria tazzina del servizio di plastica che la bambina aveva portato con sé. Jefferson si riscosse, perso nei suoi pensieri, e sorrise a sua figlia, bevendo un sorso di thé invisibile.

- E’ buonissimo, Grace.

- Già, è quello che ho appena detto a Mr. Bunny - la bambina sorrise, indicando un coniglio di pezza seduto accanto a lei. Era stato l’ultimo regalo che Jefferson le aveva fatto, prima d’imbarcarsi: un vecchio pupazzo tenuto insieme da stracci cuciti alla bell’e meglio che aveva trovato in una bancarella di oggetti usati alla periferia di Southampton.

Una delle tante cose di seconda mano che sole poteva permettersi.

Così come quella cabina di terza classe.

Jefferson sospirò, gettando un’occhiata tutt’intorno che comprendeva i muri umidicci e gli indumenti strappati. Per acquistare i biglietti per lui e sua figlia aveva impiegato la liquidazione che gli avevano rilasciato al momento del licenziamento dalla fabbrica in cui lavorava, e in più si era venduto un cappotto e un vecchio cilindro.

Tutto per quello squallore…

- Papà, dove andremo a vivere, una volta arrivati a New York?- domandò Grace.

Jefferson si sentì sprofondare; non aveva idea di dove sarebbero andati. Per qualche tempo, forse, avrebbero potuto chiedere ospitalità in qualche convento, ma poi? Aveva sentito dire che l’America era il luogo ideale per quelli come lui, dove i posti di lavoro abbondavano, e con dei salari da sceicco.

Jefferson sperava tanto che le voci fossero vere: la sua Grace aveva vissuto nella miseria insieme a lui in tutti i suoi dieci anni di vita, e se le cose fossero state identiche anche a New York, se non fosse riuscito a dare a sua figlia la vita che meritava…Jefferson sentiva che sarebbe morto, se così fosse stato.

Grace meritava il meglio. Solo il meglio.

Le sorrise, cercando di apparire sicuro.

- Chi lo sa…A te dove piacerebbe abitare?- chiese.- In una casa con un giardino? In un castello?

Grace ci pensò un po’ su.

- Non m’importa di come sarà la casa…- mormorò.- A me basta che tu stia con me, papà.

Jefferson sorrise, chiedendosi ancora una volta cos’avesse fatto di tanto buono nella vita per meritarsi una simile meraviglia com’era sua figlia.

- Io non ti lascerò mai, Grace. Te lo prometto.

 

***

 

- Va bene, voi laggiù: pausa!

Leroy gettò la vanga di lato, asciugandosi la fronte imperlata di sudore e sporca di carbone. Aveva la schiena a pezzi. Si avviò lentamente verso la scala che portava al di fuori della zona delle caldaie, pronto a godersi fino in fondo quella mezz’ora di riposo.

Sì, pensò. Appena sbarcato in America, si sarebbe cercato un altro lavoro.

- Disturbo?- fece una voce femminile, dolce e gentile.

Leroy sollevò lo sguardo: di fronte a lui c’era la giovane donna che aveva soccorso appena prima di sbarcare. Era veramente graziosa, realizzò ancora una volta, ma subito un pensiero fulmineo lo riportò all’ordine.

Sta andando a New York per prendere i voti. E’ una suora. E’ proibita.

Astrid sorrideva, reggendo in mano un involucro coperto con un tovagliolo bianco.

- No! No, certo che no. Sono in pausa - Leroy si sforzò di tirare fuori il sorriso più gentile e affabile di cui era capace.

- Bene. Io…ecco, volevo ringraziarla per avermi aiutata, oggi…- Astrid gli porse l’involucro, sorridendo.- E’ torta di mele. Una ricetta di famiglia. Spero che le piaccia…

- Sicuro! Ehm…volevo dire…io adoro le mele…- Leroy prese l’involucro.- Grazie…

- Non c’è di che…E’ in pausa, ha detto?

- Sì…Magari potremmo…beh, potrebbe farmi compagnia…- propose, indicando la torta.

Astrid sembrò sul punto di accettare, ma subito ci ripensò.

- Oh, mi dispiace…- fece, sinceramente dispiaciuta.- Vorrei tanto, davvero, ma fra poco è ora della messa…

- Certo. Certo, capisco…

- Ma…- disse Astrid.- Lei…lei quando inizia a lavorare?

Leroy si passò una mano sulla fronte calva.

- Io lavoro da mezzogiorno fino alle sei, e poi dalle nove fino all’una di notte…

- Oh, allora domattina è libero?- Astrid sembrava entusiasta.- Le andrebbe di fare una passeggiata sul ponte?

Le labbra di Leroy si distesero in un sorriso involontario.

- Sarebbe un vero piacere…

- Perfetto, allora - Astrid si voltò, iniziando a salire le scale.- Ci vediamo domani mattina alle nove. Ponte di seconda classe…

- A domani…

Leroy passò un quarto d’ora a fissare le scale oltre le quali era scomparsa Astrid. Quando assaggiò una fetta di dolce, pensò che non aveva mai gustato delle mele tanto buone in vita sua.

 

***

 

Emma aveva smesso di piangere – non era abituata a farlo, e aveva versato fin troppe lacrime nella sua vita, per averne ancora molte –, ma il senso di sconforto non se n’era andato. Non era arrabbiata, non con la signora Mills, almeno: Regina aveva detto solo la pura e semplice verità.

Che genere di madre era, una che abbandonava il proprio bambino?

Emma provava disgusto verso se stessa, e pensava che Henry fosse stato fin troppo buono a riaccoglierla dopo che lei l’aveva lasciato. Per anni, aveva cercato di raccontare a se stessa delle bugie per giustificare ciò che aveva fatto, per soffrire un po’ meno per le conseguenze del suo gesto.

Quando aveva partorito Henry, Emma sapeva già che non avrebbe potuto tenerlo con sé. Non aveva di che sfamare se stessa, figurarsi quella creatura bisognosa di cure e attenzioni continue. Non aveva denaro, non aveva un tetto sopra la testa, e non aveva un marito.

Emma ripensò a Neal Cassidy, il padre di Henry.

Neal era un vagabondo senza famiglia come lei, uno scapestrato che viveva di espedienti. Forse era stato proprio questo a farli avvicinare. Forse l’idea che, insieme, se la sarebbero potuta cavare meglio che in solitaria. Forse il loro amore era stato costruito sulla simpatia che nasce fra due esseri simili. O forse quello era semplicemente un espediente per sentirsi meno soli.

All’epoca, Emma aveva creduto davvero di essere innamorata di Neal Cassidy; ora non ne era più tanto sicura.

Lei e Neal avevano vissuto insieme per quasi un anno, dormendo dove capitava, girando in lungo e in largo per Southampton e dintorni, senza mai mettere radici in un posto per più di un paio di settimane. Emma non aveva un lavoro, e nemmeno Neal. Vivevano di piccoli furtarelli, cibo e vestiti, per lo più, e se andava bene di tanto in tanto anche qualche soldo.

C’era stato un periodo, ricordò improvvisamente Emma, un breve lasso di tempo, in cui lei gli aveva proposto più volte di smetterla e di mettere la testa a posto. Aveva detto a Neal che almeno potevano provarci, a trovare una stabilità, intendeva. Non dovevano per forza sposarsi e giocare alla bella famigliola, ma quantomeno trovarsi un lavoro e una casa e poi, chissà, se fossero arrivati anche dei bambini…

Ma Neal non ne aveva voluto sapere. Aveva liquidato la faccenda con il suo solito sorriso scanzonato, e le aveva detto di non preoccuparsi, cosa le veniva in mente di cambiare vita quando se la cavavano tanto bene in quel modo?

Emma non aveva replicato, né aveva più insistito, forse perché, in fondo, anche a lei andava bene così.

Tutto era cambiato quando aveva scoperto di essere incinta. Tutto. Anche Neal.

Emma rise di se stessa, ricordandosi di quanto fosse stata stupida a credere che Neal avrebbe fatto i salti di gioia, alla notizia che sarebbe diventato padre. Uno come lui come poteva essere felice di avere un figlio da curare e mantenere?

Uno sbaglio. Ecco come aveva definito Henry, quando ancora stava crescendo nel suo ventre. Per Neal, Henry era solo uno sbaglio. Solo un problema in più a cui pensare, un peso indesiderato, una responsabilità che lui non voleva.

Se n’era andato il giorno seguente. Da allora, Emma aveva continuato la sua vita di sempre, fatta di piccoli furti e lavoretti occasionali, ma non era più semplice come una volta. Senza Neal, costretta ad agire da sola, con la paura costante di venire presa e il ventre che cresceva sempre di più man mano che il tempo passava, tutto si era fatto più difficile. Era più impacciata, più insicura, un bersaglio più facile per le forze di polizia. E alla fine l’avevano presa.

Emma era uscita di cella al nono mese di gravidanza, ed erano passati solo due giorni fino a quando era stata costretta a trascinarsi fino a un convento di suore, dove aveva partorito Henry. Passati tre giorni, le suore, che avevano scoperto che lei era una ladruncola e per giunta ragazza madre, le avevano imposto di andarsene. Ed Emma se n’era andata. Senza Henry.

Nei mesi di detenzione, aveva riflettuto a lungo su quella scelta, rendendosi conto di non avere veramente una scelta. Come avrebbe mantenuto suo figlio? Dove l’avrebbe cresciuto? In mezzo a una strada? Che gli avrebbe dato da mangiare? E lui, che colpa ne aveva di avere una madre snaturata?

Se non altro, pensò, Henry aveva avuto ciò che lei sperava avesse, dandolo in adozione. Una casa e una buona madre che, almeno economicamente – Emma non era sicura che valesse anche dal punto di vista affettivo, dato che il bambino l’aveva cercata perché lei lo riprendesse con sé – non gli faceva mancare nulla.

L’unica nota stonata nella sua vita era lei. Lei, la madre che si era rifatta viva dopo dieci anni e pretendeva di strapparlo alla donna che l’aveva cresciuto, chissà in che modo e per portarlo chissà dove, crescendolo in chissà quale maniera.

Ancora una volta, stava commettendo un grosso sbaglio…

- Permette?

Emma si sentì toccare lievemente una spalla, e subito sollevò di scatto lo sguardo, sperando che i residui di lacrime intorno agli occhi fossero spariti. Le sue pupille si dilatarono leggermente per lo stupore, allorché si ritrovò faccia a faccia con il capitano Graham.

Graham le sorrise, tenendole una mano per aiutarla a rialzarsi. Emma accettò, un poco in imbarazzo, sistemandosi le pieghe dell’abito.

- Grazie…- mormorò.

- E’ da più di mezz’ora che la cerco, lo sa?- il tono di Graham era scherzoso, quasi una risata, ma Emma non colse questa sfumatura.

- Mi scusi…

- Si sente meglio?

- Sì…- Emma tentò di sistemarsi i capelli biondi, ma questi venivano puntualmente scompigliati dal vento.- Mi dispiace, è che…sa, è la prima volta che viaggio per mare, e oggi mi pare che le onde siano parecchio alte…Comunque…credo che sia solo questione di farci l’abitudine, sa, è strano, io in genere non…

- Non deve giustificarsi.

Le parole di Graham arrivarono come una doccia fredda. Emma boccheggiò, sentendosi impallidire.

- Sa, so riconoscere la differenza fra una nausea e un attacco di pianto…- Graham pronunciò queste parole con cautela, cercando di metterci tutta la delicatezza di cui era capace, ma non distolse lo sguardo dagli occhi castani di Emma. - La signora Mills non avrebbe dovuto dire quelle parole su di lei…

Emma indietreggiò di un passo, sconvolta.

No! No, non era possibile! Non era neppure passato un giorno, e già si era fatta scoprire! Che avrebbe fatto adesso Regina? L’avrebbe allontanata da Henry, di sicuro! Forse il capitano era venuto da lei proprio per arrestarla…

- Ehi, ehi! Calma, calma, calma!- sussurrò Graham, prendendole i polsi.- La signora Mills non ne sa niente, stia tranquilla…

Emma si sentì un poco sollevata, ma il panico non era ancora sparito.

- Come…coma ha fatto a scoprirlo?- gracchiò.

Graham le sorrise, cercando di metterla a proprio agio.

- Intuito, chiamiamolo così. Sa, c’è un motivo, se oggi in corridoio l’ho scambiata per la madre di Henry…Beh, scambiata forse non è la parola adatta…- Graham ridacchiò.- Henry non assomiglia per niente alla signora Mills. Certo, è stato adottato, ma…Henry ha il suo profilo…- il capitano scostò una ciocca bionda dal viso di Emma. - E i suoi stessi occhi…a prima vista molti dettagli non si notano, ma con uno sguardo attento le somiglianze diventano evidenti…

- La prego…- gracchiò Emma. - La prego, non dica niente…

- Sono uno sbirro, il ruolo della spia lo lascio a qualcun altro…- Graham sorrise.- Ma in cambio…- sussurrò.- Lei deve promettermi che mi racconterà tutto, dalla prima all’ultima parola. Intesi?

Emma annuì grata, sforzandosi di sorridere. Guardò il volto del capitano: non lo conosceva nemmeno, eppure sentiva di potersi fidare di lui. Emma diceva sempre di avere una sorta di “super potere”, come lo chiamava lei: capiva al volo se chi le stava di fronte mentiva o no.

In quel momento, pensò, il capitano Graham era sincero. Non l’avrebbe tradita.

- Capitano Graham! Signorina Swann!

Entrambi si voltarono all’unisono, riconoscendo la voce di Regina Mills. La donna si stava avvicinando a loro con passo svelto, Henry che le trotterellava dietro con aria pensosa.

- Finalmente! E’ da mezz’ora che vi cerco!- sospirò Regina.- Grazie per il suo aiuto, capitano - si rivolse a Emma. - Si sente un po’ meglio adesso, signorina?

- Sì…- mormorò Emma, gettando una breve occhiata a Graham.- Sì, molto meglio, grazie.

- Succede, quando si viaggia per mare la prima volta…- fece Graham.- E’ solo questione di abitudine, domani tornerà in gran forma…

- E’ sicura che non vuole che chiami un medico, signorina?- domandò Regina.

- Oh, no! No, non ce n’è bisogno, grazie.

- Molto bene. Direi che possiamo tornare in cabina, allora…

- Permettetemi di accompagnarvi!- propose Graham, al che Regina sorrise, compiaciuta.

Henry gettò una rapida occhiata a Emma, ma lei gli sorrise con fare rassicurante. Non appena sarebbero stati soli, sarebbe iniziata la tempesta di domande a cui, Emma lo sapeva, avrebbe dovuto rispondere, ma si sentiva pronta, e forte.

Camminando lungo la via di ritorno verso la cabina, Emma sentì che Graham, senza guardarla, le sfiorava una mano.

 

***

 

Ashley gemette, distesa sul lettino di terza classe, premendosi una mano sulla bocca e la fronte contro la parete della cabina.

- Amore! Che cos’hai, stai male?- Sean corse a sedersi sul letto accanto ad Ashley.

La ragazza inspirò a fondo prima di rispondere.

- Eppure credevo che le nausee fossero passate…- mugolò.

- Magari è solo mal di mare…

- Non importa, non cambia nulla - Ashley gettò il capo all’indietro sul cuscino.- Sono enorme…- gemette.- Perché non mi butti in mare? Potrei aggregarmi a un branco di balene…sono sicura che arriverei a New York prima di te…

Sean rise, e le posò un bacio sulla fronte.

- Sei bellissima…- sussurrò.- Per me sarai sempre stupenda, anche se dovessi diventare la nuova Moby Dick…

- Grazie, molto rincuorante da parte tua…- ironizzò Ashley.

- Meglio essere preparati al peggio, no?

Ashley sbuffò, tirandogli un cuscino e colpendolo in piena faccia. Sean rise del broncio della fidanzata.

- Non fare così…- le scostò una ciocca di capelli.- Vedrai che dopo il parto tornerai l’affascinante e snella fanciulla di sempre…

Ashley fece un sorriso forzato; sapeva che Sean scherzava, ma aveva altri pensieri per la testa, ben più gravi di quello di rimanere grassa.

- Sean…che faremo una volta arrivati a New York?- lo guardò.- Scusami se sono così poco ottimista, ma non credo a tutte le storie secondo cui in America ti danno un lavoro e una casa senza che tu nemmeno li chieda…

Sean fece spallucce.

- Neanch’io, ma confido nella mia bella faccia - scherzò. Vide che Ashley non aveva smesso la sua aria preoccupata, e le diede un bacio.- Sta’ tranquilla…- sussurrò.- Troverò un lavoro e una casa in men che non si dica…Tu ora non devi preoccuparti di questo, devi pensare solo a te e al bambino…

Sean si chinò fino a poggiare la guancia contro il ventre di Ashley.

- Ehi, piccolino!- bisbigliò, ridacchiando brevemente.- Mi senti? Sono quello svitato del tuo papà, e non vedo l’ora di conoscerti!

Ashley rise, spingendo via Sean. Il ragazzo si guardò brevemente intorno.

- Scusa, ma credo di aver lasciato il maglione sul ponte. Torno subito, va bene?

Ashley annuì, guardandolo uscire dalla cabina. Sean aveva il potere di strapparle sempre una risata, ma i brutti pensieri non se n’erano andati. Quel maledetto del padre del suo fidanzato aveva licenziato lei e sbattuto fuori di casa lui non appena aveva saputo che suo figlio aveva messo incinta una cameriera, e non solo!, aveva anche intenzione di sposarla.

Sean gli aveva urlato contro che non aveva bisogno di lui, che avrebbe provveduto di persona a mantenere lei e il bambino, ma Ashley era stata fin da subito dubbiosa. Amava il padre di suo figlio, non era pentita della scelta che aveva fatto e aveva la più totale fiducia in lui, ma rimaneva comunque realista. Sean era nato e cresciuto in una famiglia ricca, sin da piccolo aveva sempre avuto tutto ciò che voleva e non aveva mai lavorato in vita sua. Era colto e intelligente, ma non aveva particolari capacità, né un fisico da lavoratore. Quanto a lei, era stata una cameriera per tutta la vita, prima metaforicamente, dovendo stare appresso ai capricci della seconda moglie di suo padre e alle sue due figlie, poi a tutti gli effetti, quando era stata assunta in casa di Sean. Ma non avrebbe potuto lavorare, non per ora, almeno. Non in quelle condizioni, né con un neonato a cui badare.

Se non avessero trovato una soluzione, allora non sapeva proprio come…

Un’improvvisa fitta al ventre la colse, così forte da farla scattare seduta sul letto e piegarsi in due. Ashley sbuffò, ansimando, finché il dolore non si fu placato.

La ragazza boccheggiò, accarezzandosi il ventre. Una doglia, realizzò con orrore. Certo, il medico aveva detto che era normale, al nono mese di gravidanza, l’importante era che non fossero troppo ravvicinate. Fortunatamente, era solo una. Ma non andava bene. Non andava per niente bene.

Una doglia, ripeté mentalmente.

Mancava poco…

 

***

 

Belle aveva la sgradevolissima sensazione di trovarsi completamente fuori posto, sensazione che, si rese conto, era molto più vicina a una certezza vera e propria. Sperò di non sembrare troppo ebete, mentre si guardava intorno.

La cabina di prima classe del signor Gold era forse la più lussuosa di tutto il Titanic; non che la cosa la stupisse più di tanto, in effetti. Da un uomo come lui, non ci si poteva aspettare di meno.

Il solo salotto era più grande dell’intero negozio di fiori, e tutto profumava di fresco e di pulito, mentre le finestre regalavano una vista che nell’angusta cabina di terza Belle non avrebbe mai potuto ammirare, data la completa mancanza di aperture che non fosse la porta.

No, si disse. Quello non era decisamente il posto per lei. Così come non lo era la compagnia.

Belle chinò il capo, seguendo in silenzio il signor Gold e rimanendo ancora più stupita quando comprese che la stava guidando fuori, su una specie di terrazza. La ragazza capì che si trattava di un ponte di passeggiata privato, e si sentì ancor più fuori posto.

Vide il signor Gold farle un cenno con la mano, un chiaro segno di invito. Stava indicando un tavolino su cui era stesa una tovaglia bianca, preparato con tutto l’occorrente per il thé. Belle si avvicinò, ancor più vergognosa quando lui le scostò la sedia perché potesse sedersi.

La ragazza prese a fissarsi insistentemente la gonna del vestito, alla ricerca di qualcosa di intelligente da dire. Sollevò lo sguardo su Gold: l’uomo attendeva che dicesse qualcosa, e intanto la guardava con uno strano sorriso, quasi un ghigno. Belle si sedette in una postura più dritta, guardandolo negli occhi e sfoderando il sorriso più gentile che avesse: il signor Gold non le piaceva, non le era mai piaciuto, ma il comportamento di suo padre era già stato abbastanza villano, e lei non aveva alcuna intenzione di fare la figura della poveraccia in cerca di compassione.

Attese che la cameriera versasse loro il thé nelle tazzine di porcellana, prima di parlare.

- Ero venuta a scusarmi con lei, signor Gold - disse.- Per il comportamento di mio padre quest’oggi sul ponte…mi rendo conto che ha…esagerato.

Gold annuì, sempre quel ghigno stampato sul volto.

- Molto gentile da parte sua, signorina French. E, mi dica, cosa spera di ottenere, con questo?

La domanda la prese in contropiede; Belle arrossì, ma s’impose di non lasciarsi intimidire. Era chiaro che Gold stava cercando di metterla in difficoltà, ma lei non aveva alcuna intenzione di permetterglielo. Era venuta lì per scusarsi, non per implorare carità. Gli rispose con un altro sorriso; gli avrebbe dimostrato che, se i suoi giochetti funzionavano con chiunque, con lei no.

- Nulla; solo che sono una persona educata e che mi rendo conto dei miei sbagli.

- I suoi sbagli? Credevo fosse venuta a scusarsi in nome di suo padre…

- E’ così, infatti. Era linguaggio figurato. Mai sentito parlarne?

- Preferisco i discorsi diretti, signorina French. E, se posso chiedere, è stata una sua iniziativa o suo padre ha pensato di usufruire della sua buona volontà?

- No, è stata una mia decisione. A dire il vero, mio padre non sa che sono qui. Non la considera un uomo degno della nostra attenzione.

- Curioso, da parte di un uomo che viaggia in terza classe.

Belle si rabbuiò, bevendo un sorso di thé per prendere tempo.

- Lei è veramente maleducato - borbottò.

- Davvero?- di nuovo quel ghigno.- Lei ha appena affermato che io non sono degno della sua attenzione.

- Riportavo semplicemente il pensiero di mio padre. E non credo che una distinzione di classe sia sufficiente a giudicare una persona - lo guardò negli occhi.- Anzi, in vita mia ho conosciuto molte persone che non possedevano niente, ma che erano moralmente e caratterialmente splendide - sostenne il suo sguardo, con una lieve punta di sfida nella voce. - E altre a cui, pur possedendo tutto ciò che potevano desiderare, non avrei concesso nemmeno una tazza di thé.

- Oh! E sarei io, il maleducato?

Il signor Gold non aveva smesso il suo ghigno. Belle sospirò, abbassando lo sguardo. Si era fatta prendere un po’ troppo la mano, e aveva esagerato. Complimenti, signorina Belle French, era venuta a chiedere scusa e ha praticamente insultato il destinatario di tali scuse, davvero notevole!

- Mi scusi. Forse siamo partiti con il piede sbagliat…Oh!

La tazzina di porcellana le sfuggì di mano, e il thé si versò sulla tovaglia e sulla gonna dell’abito della ragazza. La tazza cadde a terra con un tintinnio.

Il signor Gold si sporse appena per vedere.

- Oh, Dio! Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!- Belle si chinò in fretta, raccogliendo la tazzina da terra. Fece una smorfia sofferente, rimettendosi lentamente a sedere, la tazzina in mano. Guardò prima la propria gonna poi la tovaglia prima immacolata, e ora chiazzata di thé versato, tornando immediatamente a fissare la tazza che teneva fra le mani. Il suo volto appariva ancora sofferente.

- Mi dispiace tanto…- sussurrò, mostrando la tazzina. Gold la guardò: sul bordo spuntava una piccola scheggiatura.- Si…si è scheggiata…- mormorò Belle, rossa in volto.- Davvero, mi dispiace tantissimo, non l’ho fatto apposta…Non si vede neanche, a dire il vero, ma se vuole posso…

Il signor Gold aveva smesso il suo ghigno, ma in compenso la guardava come se avesse avuto di fronte una povera stupida.

- E’ solo una tazza. Non m’importa.

Belle si rilassò un poco, posando la tazzina sul tavolo, ma non smise di insultarsi mentalmente.

Era ufficiale: aveva combinato un disastro.

 

***

 

Il sole era ormai quasi completamente calato, e all’orizzonte una sfumatura arancio si stagliava contro il blu della notte e l’azzurro del mare. Ruby Lucas terminò il proprio turno alle sei precise del pomeriggio, liberandosi di quella ridicola crestina che era costretta a indossare e togliendosi il grembiule mentre correva lungo l’ingombro corridoio di seconda classe, diretta alla propria cabina.

- Ciao, nonna!- salutò allegramente, chiudendo la porta alle sue spalle.

- Ciao, Ruby…- salutò Granny, con un sorriso dubbioso che faceva il paio con il suo sguardo inquisitore.- Com’è andata oggi?

- A meraviglia, grazie!- sorrise Ruby.

Granny la guardò, sospettosa. Sua nipote non era mai andata matta per il suo lavoro nemmeno quando avevano ancora il Bed & Breakfast, e tutta quell’euforia non le piaceva. Ruby doveva aver combinato qualcosa, di sicuro.

- E tu? Che hai fatto oggi?

Per tutta risposta, Granny le mostrò il cappellino di lana rossa a cui stava lavorando.

- Tutto il giorno chiusa qui dentro a lavorare a maglia?- Ruby sbuffò.- Non credo che ti capirò mai…Hai bisogno di un po’ d’aria - dichiarò, afferrando il cappotto.- Vieni, facciamo una passeggiata sul ponte…

- Ruby, non so se…

- E dai!- implorò Ruby, troppo allegra, per i gusti di Granny. - E’ tutto il giorno che respiro polvere, un po’ d’aria fresca mi farebbe bene…

Granny acconsentì con un sospiro, gettandosi lo scialle di lana sulle spalle.

Ruby sorrise sorniona, lasciando scivolare cinque biscotti al cioccolato nella tasca del cappotto. Il gesto non sfuggì all’occhio di falco di Granny.

- Ruby…quelli dove li hai presi?

La ragazza fece spallucce.

- Oh, da nessuna parte…

- Stai cercando di darmi a bere che sono spuntati dalle onde?

- Più o meno. Ci speravo.

- Ruby!

- Scusa, scusa…li ho presi da un carrello di prima classe appena prima di venire qui…- spiegò frettolosamente Ruby, percorrendo il corridoio quasi senza curarsi del passo arrancante di sua nonna.

- Ruby Lucas, mi stai dicendo che li hai rubati?!

- Oh, andiamo, nonna! Vogliamo fare il conto di tutti i biscotti che ho rubato in vita mia?

- E’ questo che ti ho insegnat…Ehi, ma dove stiamo andando?- fece Granny, notando che la nipote aveva preso speditamente la via che conduceva al ponte riservato alla terza classe.- Il ponte di seconda è di là!

- Sì, ma da quello di terza si vede meglio il mare!

- E i cani di prima classe ci vanno a fare i bisogni…

- Oh, i cani! A te non piacciono i cani, nonna?

Granny si arrestò, furiosa, quindi prese a seguire Ruby con passo più deciso.

- Ruby Lucas, esigo di sapere immediatamente cosa sta succedendo, altrimenti…

- E va bene, va bene, calmati!- Ruby si arrestò a metà della scala che conduceva in basso, sul ponte di terza classe.- Ecco…diciamo che…oggi ho conosciuto una persona - concluse.

Granny sbuffò, esasperata.

- Avrei dovuto intuirlo…E chi sarebbe questo tipo?

- Come fai a sapere che è un tipo?

- Perché se fosse stata una donna me l’avresti detto subito, e non saresti così esaltata…

- Caspita, che intuito!

- Conosco i miei polli. E a una certa gallinella avevo anche raccomandato di stare lontana da nobili ricconi con le mani lunghe…

- Ecco che l’intuito fa cilecca! Se fosse un nobile riccone, per quale motivo credi ti starei trascinando sul ponte di terza?

- Perfetto. Un morto di fame.

- Possibile che non ti vada mai bene niente?!- Ruby sbuffò.- Per favore, nonna, cerca di mostrarti socievole per almeno cinque minuti, e non spaventarlo troppo…

Granny borbottò qualcosa di incomprensibile. Ruby prese a guardarsi intorno.

- Oh, eccolo!- esclamò, scorgendo un giovane uomo che passeggiava tenendo un cane dalmata al guinzaglio. Ruby balzò giù dalla scala con un salto, mentre Granny arrancava dietro di lei.- Ehi, Archie!

Il dottor Hopper sollevò lo sguardo, arrossendo repentinamente non appena vide la cameriera che aveva incontrato quel pomeriggio avvicinarsi verso di lui con un sorriso sulle labbra. Senza l’abito da cameriera e i capelli scompigliati dal vento era ancora più bella.

Ruby si avvicinò, e il suo sorriso si fece un poco più imbarazzato, ma non meno radioso.

- Scusami, non te l’ho chiesto…posso chiamarti Archie, vero?

Archie si aggiustò gli occhiali sul naso.

- Ehm, certo…Certo, naturalmente, signorina.

- E di nuovo con questa signorina! Ti ho già detto di chiamarmi Ruby…

- Avete fatto in fretta a entrare in confidenza, vedo…- borbottò Granny, raggiungendoli.

Archie la guardò; Ruby fece roteare gli occhi.

- Archie, lei è mia nonna. Mia nonna, lui è Archie.

- Archie, eh?- fece Granny, inarcando un sopracciglio.

Ruby annuì.

- Dottor Archibald Hopper…- precisò la ragazza; spostò lo sguardo sul dalmata.- Oh, Pongo!- esclamò, chinandosi ad accarezzare la testa del cane. - Ho qualcosa per te…- Ruby estrasse dalla tasca un biscotto e glielo porse; Pongo lo ingoiò, masticando soddisfatto, quindi prese a scodinzolare, facendole le feste. Ruby rise, ricompensandolo con un altro biscotto.

- Ora capisco il perché dei biscotti…- borbottò Granny.

Archie si sentì in dovere di dire qualcosa.

- Ehm…a Pongo piacciono molto…- lo sguardo dell’anziana donna a quell’uscita gli suggerì di aggiungere qualcos’altro.- Oggi sua nipote ne aveva alcuni in tasca e…beh…il mio cane le è quasi saltato addosso, poi…

- Suppongo che lei l’abbia fermato…

- Sì, certo! Certo, naturalmente!

Granny gettò un’ultima occhiata a sua nipote, quindi tese la mano ad Archie.

- Granny Lucas, molto lieta. Ha detto di essere un dottore?

Archie si affrettò a stringerle la mano.

- Sì, esatto. Uno psicanalista, per la precisione.

- Uno strizzacervelli, in pratica.

- Ehm…più o meno…

- Spero vivamente che non intenda fare il lavaggio del cervello a mia nipote…

Archie deglutì.

- Assolutamente no.

La stretta della donna era talmente potente che Archie temette stesse per stritolargli la mano.

 

Angolo Autrice: Va bene, vediamo di iniziare come al solito gli sproloqui…

Per la parte di Red Cricket (anche se in questo caso sarebbe più appropriato definirla una Archie/Granny XD), so che non è un granché, ma volevo aggiungerla 1 perché rimandarla ulteriormente mi avrebbe solo incasinato e avrebbe reso molto meno, 2 perché temevo ripercussioni fisiche da parte di Lady Deeks XD. Scherzo, dai :). Spero comunque che vi sia piaciuta…

Sempre mantenendoci sulla Red Cricket, il fatto che Ruby continui a fregare i biscotti per Pongo può sembrare banale e insignificante, ma occhio, perché in seguito avrà molto peso nel corso della vicenda…

Poco o nulla da dire sulla Hunter Swan, solo due paroline sul passato di Emma: per chi avesse visto gli episodi della season 2, si sarà accorto che ho cambiato un po’ di cose. Ciò è dovuto essenzialmente a due motivi: primo, esigenze di storia; secondo…andando contro a tutte le opinioni positive che ho letto su di lui e che (presumo) una Once Upon a Time fan dovrebbe avere, Neal Cassidy mi sta allegramente sull’anima e spero, spero con tutto il cuore, spero e spererò fino all’ultimo che tutte le voci siano false e lui non sia Baelfire! Scusate la mia poca apertura mentale, ma spero che Neal Cassidy venga investito da una macchina e che Rumpel ritrovi suo figlio ancora ragazzino…non so come, ma…Che poi, pensateci un attimo: Baelfire è sparito che aveva tipo 14 o 15 anni, no? Ecco, visto che è scampato al sortilegio, aggiungiamo i 28 anni e otteniamo 42 o 43…poi, scusate, che mi dite di tutto il tempo passato in FTL? Contiamo tutte le peripezie dei vari personaggi, se poi ci aggiungiamo anche il fatto che Rumpel era già il Signore Oscuro all’epoca della young Regina (e qui partono un’altra decina d’anni) e che tutta la faccenda della pozione data ad Archie che l’ha poi portato a diventare un grillo quando Geppetto era ancora bambino…all’epoca della maledizione, Geppetto quanti anni aveva? Una sessantina, volendo essere buoni?

Ora, il solo pensiero che Baelfire possa ricomparire e sembrare il padre di suo padre mi fa gelare il sangue, ma ciò toglie anche di mezzo l’eventualità Neal Cassidy…fatemi sapere se il mio ragionamento fila!

Scusate per questo mio divagare, è solo che era un dubbio atroce e sentivo il bisogno di condividerlo con qualcuno XD.

Anyway, tornando alla storia: la Rumbelle è iniziata male e sta proseguendo ancor peggio, lo so, ma migliorerà presto…Mentre con la Hunter Swan siamo messi meglio…

Dunque, come già anticipato, dal prossimo capitolo inizieremo con l’11 aprile, e avremo Snowing (domando ancora una volta perdono a tutti i suoi fan, ma credo che avrò bisogno di molta forza d’animo per svilupparla, sigh!), Leroy/Astrid, Hunter Swan e Red Cricket e un pochiiiino di Rumbelle (devo fargli far pace, sorry!).

Bene, ringrazio chi legge, chi ha aggiunto questa ff alle seguite, alle ricordate e alle preferite, e Lady Deeks, nari92, syriana94, jarmione, TheHeartIsALonelyHunter, Valine, Lety Shine 92, Avly, historygirl93 e LadyAndromeda per aver recensito.

Un grazie a parte va a syriana94 per questo fotomontaggio:

 

http://tinypic.com/r/33k9cb9/6

 

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 5
*** 11 aprile 1912 - Salvataggio! ***


Henry era di cattivo umore. Questo l’avevano capito sia Regina sia Emma, e perfino Graham se n’era accorto. Il ragazzino non aveva voluto mangiare pressoché nulla a colazione, aveva sbuffato per tutto il tempo mentre Emma tentava di fargli indossare i vestiti, e non aveva spiccicato parola con nessuno da che erano arrivati sul ponte principale. Regina gli scoccò un’occhiata innervosita: anche lei era di cattivo umore, e l’atteggiamento del bambino – che continuava a rimanersene imbronciato e a ostentare poca attenzione a ciò che il capitano Smith stava loro dicendo – non faceva altro che innervosirla ancora di più. Regina aveva dormito male, la notte precedente: aveva sempre avuto dei problemi a riposare in un letto che non era il proprio, e il mare leggermente mosso della nottata non aveva fatto altro che aumentare la sua emicrania che ancora adesso le faceva pulsare furiosamente le tempie.

Regina si ripromise di dare una bella strigliata a suo figlio non appena si fosse presentata l’occasione, e tornò a prestare attenzione a ciò che il capitano Smith stava dicendo loro a proposito delle potenzialità della nave. Quello era uno dei privilegi che veniva insieme all’alloggio in prima classe: avere l’onore di frequentare i pezzi grossi dell’imbarcazione.

Insieme a lei, suo figlio e la sua tata non c’erano solo il capitano della nave, ma anche il capitano Graham, il signor Andrews – l’architetto che aveva progettato e supervisionato la costruzione del Titanic – e un altro passeggero di prima classe, tale signor Gold. Regina non l’aveva mai incontrato prima, ma aveva compreso che tipo di uomo fosse dalle chiacchiere che giravano su di lui: che fosse ricco in modo sproporzionato, che avesse talento per gli affari, ma che fosse anche estremamente cinico, specie se in mezzo c’era un accordo da rispettare.

Regina aveva tentato di attaccare discorso con lui, ma aveva ben presto scoperto che il signor Gold era tanto ricco quanto arrogante. A ogni sua domanda o osservazione rispondeva sempre con poche parole asciutte, accompagnate da un ghigno di scherno che a Regina fece impiegare poco per giudicarlo un uomo maleducato e superbo.

Anche Emma pareva pensarla allo stesso modo, e trovò nel signor Gold un motivo in più per rimanersene in silenzio e in disparte. Scoccò un’occhiata a Henry: stranamente quel giorno non era stata sommersa dalle sue chiacchiere. Il ragazzino non la guardava neppure, imbronciato. Sin dalla mattina non aveva fatto altro che lamentarsi per qualunque cosa, ogni occasione era stata buona per fare i capricci. Non era da lui, Emma lo sapeva. Henry non era un bambino capriccioso, e la maggior parte delle volte era un bambino allegro e solare.

Aveva assunto quell’atteggiamento insofferente dal pomeriggio precedente, dopo quell’incidente all’ora del thé. Emma sospirò: probabilmente se lei non fosse stata lì le parole di Regina non avrebbero fatto granché effetto, ma certo era che la signora Mills aveva involontariamente turbato Henry.

Emma chiuse gli occhi, al pensiero di cos’aveva combinato: ora Henry era consapevole di trovarsi fra due fuochi. Sapeva che la donna che l’aveva adottato disprezzava la sua vera mamma, e l’alternativa a rimanere con lei era scappare con la madre che l’aveva abbandonato, la donna che Regina aveva definito una cagna e una persona indegna di affetto.

Ovvio che fosse arrabbiato.

- Voglio tornare in cabina!- piagnucolò Henry, tirandole una manica dell’abito.

- Aspetta ancora qualche minuto, tua madre sta parlando…- bisbigliò Emma. Il ragazzino sbuffò, tornando a fissarsi le scarpe mentre camminava. A dire il vero, Emma avrebbe volentieri voluto tornarsene in cabina. Il ruolo di bambinaia le stava sempre più stretto, e la signora Mills non faceva altro che ricordarle qual era il suo posto. Non poteva parlare con persone “superiori”, né dire la sua in una discussione, né camminare insieme agli altri. Infatti, mentre Regina e il resto della combriccola passeggiavano tutti insieme, lei se ne stava tre passi indietro, tenendo Henry per mano.

Emma vide Graham rallentare il passo fino a staccarsi dal gruppetto e affiancarla.

- Credo che la signora Mills abbia trovato pane per i suoi denti…- le sussurrò all’orecchio. Emma vide Regina rivolgere qualche parola al signor Gold, quindi la sua espressione perplessa e sconcertata nel venire liquidata da quest’ultimo con poche parole acide. Si portò una mano alla bocca, reprimendo una risata.

Il signor Gold trattenne una smorfia di fastidio. Quello era uno dei doveri sociali a cui avrebbe volentieri fatto a meno, senza contare che tutta quella vena neopositivista non faceva altro che innervosirlo. Sin da quando aveva messo piede sul Titanic non aveva fatto altro che sentire lodi iperboliche e assolutamente senza senso su quella nave: la più lussuosa del mondo, la più veloce del mondo, inaffondabile.

Inaffondabile!

Questa era la cosa che forse lo faceva sorridere di più. Il signor Gold era un uomo d’affari, in vita sua aveva finanziato numerose compagnie navali, e non aveva mai sentito dire che una nave fosse inaffondabile. E il Titanic era forse solo un poco più grande rispetto alla media degli altri comuni transatlantici, ma era fatta di ferro e bulloni come tutti gli altri.

- Signor Andrews - disse a un certo punto, rivolto all’architetto.- Spero vorrà perdonarmi la mia curiosità…Ho fatto un breve calcolo del numero delle scialuppe di salvataggio e misurato sommariamente la loro capienza. Stando ai miei conti, i posti su di esse sono sufficienti solo per la metà dei passeggeri.

- E’ così, infatti - confermò l’uomo. - A dire il vero, signor Gold, avevo proposto di posizionarne altre, ma la mia richiesta è stata respinta in quanto si riteneva che, così facendo, il ponte avrebbe avuto un aspetto un poco disordinato.

- Mi sembra logico: perché sacrificare ordine e bellezza in nome della sicurezza?- chiese Gold, senza curarsi di nascondere il suo tono ironico.

- Ma non vedo il bisogno di preoccuparsi, dico bene?- fece Regina, ammiccando in direzione di Graham.- Voglio dire, questa nave è inaffondabile.

Emma roteò gli occhi, mentre Graham le lanciava di sottecchi uno sguardo complice.

Il signor Gold fece una smorfia di fastidio. Prima quella penosa conversazione sarebbe finita, prima si sarebbe sentito più a suo agio. E sarebbe stato ancora meglio quando quel maledetto viaggio sarebbe finito. Non ne poteva più di noiosi e inutili convenevoli sociali, lui preferiva i fatti, non le parole.

L’unico evento degno di nota che gli era accaduto fino a quel momento era stata la visita di quella ridicola ragazzina di terza classe, la quale era venuta da lui con la speranza di ingraziarselo ma era solo riuscita a insultarlo e, dulcis in fundo, aveva rotto una tazza per completare l’opera.

Si chiese improvvisamente dove si trovasse la signorina French in quel momento. Probabilmente doveva essere al suo posto, in terza classe. S’impose dunque di smettere di pensarci e soprattutto di non cercarla mai più con lo sguardo.

 

***

 

David Nolan accostò un poco le imposte all’ennesimo gemito di sua moglie. Era da quando erano partiti che Kathryn stava male. Il giorno precedente si era limitata ad accusare un semplice mal di testa, ma le cose erano peggiorate. Kathryn aveva trascorso tutta la notte in bianco a vomitare, e i capogiri parevano essere aumentati. All’inizio, David aveva pensato a un semplice mal di mare, ma vedendo che le condizioni di sua moglie non miglioravano si era deciso a rivolgersi a un medico che si era imbarcato sul Titanic come passeggero. Dottor Victor Whale, si era presentato il giovane uomo con un sorriso affabile. Aveva l’aria capace e professionale, nonché un volto molto gentile. David si era scusato per averlo disturbato durante quel viaggio in cui non era in servizio, ma il dottor Whale si era dimostrato ben lieto di assistere sua moglie, e non aveva nemmeno voluto che Nolan lo pagasse.

- Sembra solo un po’ di nausea, nulla di cui preoccuparsi - disse il dottor Whale in quel momento, alzandosi dal capezzale di Kathryn Nolan, distesa a letto sotto un cumulo di coperte.- Le pillole che le ho dato dovrebbero fare effetto. Mi raccomando, signora Nolan, non faccia sforzi e cerchi di riposarsi. Se ci sono altri problemi, sapete dove trovarmi…

- Grazie, dottor Whale…- soffiò Kathryn.

- Grazie - David gli strinse calorosamente la mano, mentre lo accompagnava alla porta della cabina di prima classe.- Davvero, è stato molto gentile.

- Di nulla, ho fatto solo il mio lavoro - Whale sorrise.- Arrivederci, signor Nolan.

- Arrivederci.

Non appena Whale se ne fu andato, David tornò a volgersi verso sua moglie. Kathryn sorrideva debolmente, ma era pallida e aveva l’aria sofferente. David le sorrise, sedendosi sul letto accanto a lei.

- Come ti senti?- sussurrò, prendendole la mano.

- Un po’ meglio…- Kathryn si sforzò di sorridere.- Perché non vai a fare colazione?

- Oh, no! No, non voglio lasciarti sola…- disse David, rendendosi conto che in realtà non vedeva l’ora di uscire da lì. Si sentiva profondamente in imbarazzo; non sapeva come comportarsi con Kathryn malata. Non riusciva a ricordare nemmeno l’ultima volta che sua moglie era stata male, cosa faceva lui quando lei aveva il raffreddore o la febbre. I vuoti di memoria non erano ancora scomparsi.

A dire il vero, a David pareva quasi di essersi risvegliato in un’altra vita, una vita in cui era sposato con una donna dolce e gentile, certo, ma che lui non conosceva. David aveva solo pochi ricordi sfuocati di sua moglie, e tutti erano solo brevi flash. Non riusciva a ricordare il giorno del loro matrimonio, o come le avesse chiesto di sposarlo, il loro primo appuntamento, o se avessero mai desiderato dei bambini, benché Kathryn gli descrivesse sempre quegli avvenimenti con dovizia di particolari e grande entusiasmo.

E adesso, al suo capezzale, David si rendeva conto che, in fondo, stava fingendo di interessarsi alle sue condizioni di salute solo per mantenere la facciata, ma non era veramente preoccupato per lei.

- No, sta’ tranquillo!- insistette Kathryn.- E’ una bella giornata, non è giusto che tu non ti goda il viaggio per causa mia…- la donna gli sorrise nuovamente.- Davvero, vai!

- Va bene…- David le posò un bacio sulla fronte.- Ci vediamo più tardi, d’accordo?

- A più tardi.

David le rivolse un ultimo sorriso prima di uscire dalla cabina, e non appena si ritrovò in corridoio non poté trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo. La situazione stava diventando insostenibile. Kathryn era così dolce, e innamorata…e lui…

David scosse il capo. Sperava tanto che sua moglie avesse ragione, e New York lo aiutasse a cambiare aria. Se c’era ancora una speranza di salvare il suo matrimonio, allora era quella.

 

***

 

L’unica parola che Leroy riuscisse a pensare in quel momento era meravigliosa. Astrid era meravigliosa, sotto ogni aspetto. Certo, pensò, quello scialle blu scuro e quei capelli anonimamente raccolti in una crocchia non le rendevano nessuna giustizia, ma era comunque bellissima.

Era un vero peccato che fosse determinata a prendere i voti.

- La tua torta di mele era deliziosa…- disse, tanto per rompere il ghiaccio.

- Sul serio?- Astrid parve sorpresa.

- Puoi giurarci, sorella. Una delle più buone che avessi mai mangiato.

- Oh, non chiamarmi “sorella”!- sorrise Astrid.- Non sono ancora una suora.

- Non fa niente, io chiamo “sorella” qualunque donna - rispose Leroy, maledicendosi un secondo dopo per aver dato quella risposta. Doveva esserle sembrato un rozzo manovale. Ma Astrid rise, e quel sorriso lo rincuorò un poco.

- Carino. Che ne dici di sederci un po’?- Astrid indicò una panchina sul ponte di seconda classe dove si trovavano. Leroy acconsentì, aspettando che fosse lei a sedersi per prima, parecchio rincuorato che lei avesse scelto il ponte di seconda, e non di terza. Lui aveva una piccola cabina in ultima classe, e sapeva quali erano le condizioni in cui versava quel posto. Non voleva fare la figura del poveraccio di fronte a lei, anche se sapeva di esserlo.

- Allora: mi dicevi che lavori giù alla caldaia sei…- esordì Astrid con un sorriso.

Leroy annuì, sentendosi molto più a suo agio, da seduto. Astrid era di almeno una spanna più alta di lui.

- Un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo…

- Come hai trovato lavoro sulla nave?

- Ho lavorato alla costruzione di questo bestione quando era ancora nel cantiere - Leroy estrasse dalla tasca dei pantaloni una fiaschetta di birra, e fece per berne un sorso, ma notò lo sguardo sconcertato di Astrid. Abbozzò un sorriso imbarazzato, e ripose la fiaschetta.- E…quando la nave stava per salpare, ho scoperto che cercavano personale per lavorare alle caldaie…E così, eccomi qui.

- Non ti è dispiaciuto lasciare Southampton - chiese Astrid.- La tua casa, la tua famiglia…

- Non ho famiglia - borbottò Leroy.- E Southampton è veramente un posto schifoso. Ho fatto diversi lavori, lì: il manovale, il muratore, il minatore…Forse anche in America troverò un posto in miniera…

- Dev’essere dura…- mormorò Astrid.

- Ho la pellaccia dura…- assicurò Leroy.- Ora, mi spiace, ma devo andare…E’ ora del mio turno…

- Certo. Leroy!- fece Astrid d’un tratto.- Domattina c’è la messa…che ne diresti di venirci con me?

L’idea di andare in chiesa non lo allettava per niente, ma quel sorriso sarebbe stato in grado anche di fargli pulire tutto il ponte della nave armato solo di spazzolino da denti.

- Certo, con molto piacere.

 

***

 

Mary Margaret si sedette su una panchina del ponte di seconda classe, aprendo uno dei romanzi che aveva portato con sé. Delitto e castigo, recitava il titolo. Forse, pensò, avrebbe dovuto iniziare con qualcosa di più leggero di un mattone russo pieno di sangue e pensieri da psicopatici, tanto più che non le pareva una lettura adatta per iniziare il suo incarico da insegnante…

- Mi scusi!- Mary Margaret sobbalzò non appena sentì qualcuno toccarle una spalla. Si voltò, incrociando lo sguardo di un giovane uomo sulla trentina, biondo, decisamente affascinante. Mary Margaret lo riconobbe: era il marito di quella donna con cui s’era scontrata al momento dell’imbarco. Il suo cuore perse un battito.

- Mi dispiace…- l’uomo abbozzò un sorriso.- Non intendevo spaventarla…

Mary Margaret scosse il capo, cercando di riacquistare un minimo di contegno.

- Non…non si preoccupi, è tutto a posto…- balbettò, sforzandosi di sorridere. Si chiese come mai quell’uomo la mettesse così in imbarazzo.

- Mi scusi, è che l’ho vista dal ponte di prima classe e ho pensato di farle un saluto…- sorrise David; non era andato a colazione come gli aveva detto sua moglie. Aveva preferito fare una passeggiata sul ponte, e aveva scorto Mary Margaret seduta da sola mentre leggeva. David non sapeva perché, ma aveva sentito il bisogno di scendere e andare da lei.

- Grazie, è stato molto gentile…- Mary Margaret faticava a sostenere quello sguardo.

- Non ci siamo già presentati, vero?- David le tese una mano. - Il suo nome è Mary Margaret, se non sbaglio…

- No, non sbaglia…

- E’ sola?

Mary Margaret annuì. David si schiarì la voce.

- Mi chiedevo…se non ha altri impegni…Mi domandavo se volesse unirsi a me per il pranzo…- soffiò. Si rese conto solo un attimo dopo di averle praticamente proposto un appuntamento. Si maledisse mentalmente. Era sposato, idiota!

Ma la consapevolezza di avere una moglie che lo attendeva in cabina non era più forte del desiderio di spendere del tempo con Mary Margaret.

- In…in prima classe?- Mary Margaret gettò una breve occhiata al suo semplice abito marroncino e al suo vecchio scialle di lana. - Mi spiace, ma non credo che potrei, vestita in questo modo…

- Non dica sciocchezze, è perfetta - David sorrise, porgendole il braccio.- Insisto. Oggi lei è mia ospite…

Mary Margaret acconsentì annuendo, prendendo il braccio di David. Era una prospettiva certamente migliore di quella di trascorrere la mattinata a leggere di un efferato omicidio a colpi di ascia. E poi, il signor Nolan le sembrava una persona perbene e anche cordiale.

Doveva solo imporre al suo cuore di riprendere un ritmo regolare e cercare di non arrossire…

 

***

 

- Che cos’hai fatto?!

Belle indietreggiò, impaurita, scansandosi appena in tempo un attimo prima che l’oggetto scagliato da suo padre la colpisse. La ragazza si aggrappò alla maniglia della porta, fissando il volto di Moe, livido di rabbia.

- Papà, calmati!- implorò.

- Puoi scordarti che mi calmo!- ululò Moe. - Si può sapere che cosa ti è saltato in mente, brutta stupida che non sei altro?! Perché diavolo sei andata a chiedere scusa a quel bastardo, me lo spieghi?

- Era la cosa giusta da fare!- ribatté Belle, cercando di ritrovare un po’ di coraggio.- L’hai aggredito senza motivo, papà. E poi, molto probabilmente avremo a che fare con lui in America, è meglio non farlo arrabbiare…

- Sei un’idiota!- tuonò Moe. - L’ho insultato, e allora? Mi ha rovinato, si è preso tutti i miei soldi…

- Sai che non è stata colpa sua, papà!

Belle si scansò nuovamente per evitare un altro oggetto volante, che andò a schiantarsi contro la parete della cabina. La ragazza si voltò, aprendo velocemente la porta e scappando in corridoio.

- Quando torni, parola mia che ti ammazzo di botte!- Belle sentì la minaccia di suo padre riecheggiare nel corridoio di terza classe mentre si allontanava velocemente. La ragazza sentì lo sguardo di tutti i presenti posarsi su di lei, e arrossì di vergogna, accelerando il passo.

Doveva uscire. Aveva bisogno d’aria.

 

***

 

- Adesso io e te facciamo i conti, signorino!- ringhiò Regina, non appena la conversazione con il capitano e l’architetto Andrews fu terminata. Henry non parve troppo intimidito, ma anzi continuò a guardarla con espressione torva.- Ti rendi conto di quanto tu mi abbia messa in imbarazzo? Ma che ti prende, oggi, si può sapere?

Henry non rispose, e voltò il capo.

- E guardami in faccia quando ti parlo!- ordinò Regina.

- Signora Mills, non si arrabbi con suo figlio. In fondo, Henry ha solo dieci anni…- Graham tentò di intervenire per mettere pace.

- E’ vero, capitano, ed è proprio per questo che deve imparare come ci si comporta - replicò Regina, inflessibile. Tornò a rivolgersi a Henry.- Tanto per cominciare, stasera puoi anche scordarti la cena…

- Signora Mills, per favore…- mormorò Emma. - Forse Henry non si sente bene, non è il caso di…

- Lei non s’immischi!- Regina la guardò trucemente.- Signorina Swann, devo forse ricordarle qual è il suo posto? Lei è solo una bambinaia, il suo compito è assicurarsi che mio figlio non combini disastri. Per il resto, lei non ha nessun diritto. Sono io la madre di Henry, e decido io che cosa…

- Ti odio!- urlò improvvisamente Henry, rivolto a Regina.- Ti odio, non voglio vederti mai più!- il ragazzino si divincolò dalla presa di Emma, superando di corsa i tre.

- Henry!- chiamò Emma, ma il bambino era già lontano diversi metri. Henry scese velocemente le scale, abbandonando il ponte di prima classe.

Regina digrignò i denti, innervosita.

- Capitano Graham, la prego di perdonarmi per il comportamento di mio figlio. In genere, Henry non così maleducato…

- Non si preoccupi, signora Mills, sono cose che succedono - Graham lanciò una breve occhiata a Emma. - Permettetemi di aiutarmi a ritrovare Henry. Sono sicuro che si sarà già calmato…

Regina gli rivolse un sorriso grato.

- Grazie, capitano. Lei è veramente molto gentile.

Graham ringraziò con un sorriso, e lanciò un’altra occhiata di sottecchi alla bambinaia.

Emma si stava torcendo nervosamente le mani, e aveva le lacrime agli occhi.

 

***

 

Mary Margaret si sentiva in imbarazzo come mai in vita sua. Sedeva rigida sulla sedia foderata di velluto, temendo di rompere qualcosa anche solo muovendosi. La tovaglia era di pizzo bianco, immacolata, le posate d’argento, i bicchieri di cristallo e i piatti di porcellana. Mary Margaret non era più abituata a tutto quel lusso.

La sua storia era molto simile a quelle lacrimevoli dei romanzi che parlavano di orfanelle, esattamente come se lei fosse Sara Crew de La piccola principessa, o una versione moderna di Cenerentola. Senza, almeno per il momento, un lieto fine.

Mary Margaret era la figlia di un ricco imprenditore inglese. Sua madre era morta di meningite quando lei aveva appena due anni, e aveva trascorso l’infanzia a Edimburgo, nella casa di campagna di suo padre, ma si era trasferita a Southampton non appena questi si era risposato. Suo padre, Leopold Blanchard, aveva sposato in seconde nozze una donna molto più giovane di lui, e subito i rapporti fra lei e la sua matrigna erano stati molto tesi. A dire il vero, Mary Margaret ricordava che per un po’ di anni le cose non erano andate poi così male. Lei e la seconda moglie di suo padre semplicemente s’ignoravano, convivevano sotto lo stesso tetto scambiandosi un saluto mattutino, conversando di tanto in tanto all’ora dei pasti e provando l’una per l’altra una cordiale antipatia, ma tutto sommato quella routine non era spiacevole. Bastava che lei non invadesse lo spazio vitale della sua matrigna, e viceversa, e il loro rapporto si limitava alla tolleranza reciproca.

Le cose erano definitivamente naufragate a seguito della morte di suo padre, avvenuta quando Mary Margaret aveva appena diciotto anni. Appena due giorni dopo il funerale di Leopold Blanchard, la sua matrigna le aveva fatto trovare le valige pronte di fronte alla porta; poteva farlo, dato che Mary Margaret non era ancora maggiorenne e non poteva disporre di alcun aiuto legale per rivendicare i suoi diritti sul patrimonio di famiglia, di cui la seconda moglie di suo padre era divenuta proprietaria e amministratrice a tutti gli effetti.

Da allora, Mary Margaret si era dovuta rimboccare le maniche e darsi da fare per sopravvivere. Aveva tirato avanti per un po’ di anni con qualche lavoretto saltuario, servendo ai tavoli nelle taverne del porto o facendo le pulizie nelle case benestanti, riuscendo nel contempo a conseguire il diploma di insegnante e a ottenere il tanto ambito posto di lavoro a New York.

Non vedeva più tanto lusso da quando la sua matrigna l’aveva cacciata di casa, e ora si sentiva oltremodo in imbarazzo. Imbarazzo che aumentava vertiginosamente non appena posava lo sguardo sull’uomo seduto di fronte a lei.

David Nolan aveva degli occhi meravigliosi, realizzò. Dolci e penetranti al tempo stesso; se uniti al suo sorriso, poi, erano in grado di farla capitolare. Mary Margaret si guardò nervosamente intorno, fingendo di ammirare il salone da pranzo per prendere tempo. Quasi fu sul punto di cadere dalla sedia quando David si sporse verso di lei.

- Cosa la porta in America?- le chiese, mentre un cameriere poneva loro di fronte il pranzo.

- Oh! Ehm…lavoro - Mary Margaret sorrise nervosamente, sistemandosi il tovagliolo in grembo.- Ho ricevuto un incarico come insegnante elementare a New York. Quando ho ricevuto la lettera non stavo più nella pelle, erano anni che sognavo quel posto, così non ci ho pensato due volte e ho immediatamente fatto le valige, e…- Mary Margaret s’interruppe di colpo.- Oh, mi scusi! Sto parlando troppo, credo…

- No, no! Non si preoccupi. Insegnante, diceva?- David sorrise.- Le piacciono i bambini, deduco…

- Molto. Adoro i bambini. Ho sempre sognato di averne…cioè, voglio dire, non ora, ovviamente…- Mary Margaret distolse lo sguardo, imbarazzata.- Chiaramente non ora, non è proprio il momento…Non sono neanche sposata, a dire il vero…Ma un giorno, forse…

Mary Margaret s’interruppe non appena udì qualcuno avvicinarsi al loro tavolo. David Nolan alzò lo sguardo, incrociando quello degli occhi grigi del dottor Whale.

- Signor Nolan!- salutò il medico con aria gioviale.- Chi non muore si rivede, eh?

- A quanto pare…- David fece un sorriso forzato, gettando un’occhiata a Mary Margaret. Si sentì improvvisamente in imbarazzo.

- E la signorina?- senza attendere risposta, Whale prese una mano di Mary Margaret e ne baciò il dorso.- Dottor Victor Whale, piacere di conoscerla…

- Mary Margaret Blanchard - mormorò la donna. Provò un’istintiva antipatia per quell’uomo; le dava l’idea di un individuo maleducato e fin troppo invadente.

- Un nome splendido. Come sta sua moglie, signor Nolan?

David, se possibile, s’imbarazzò ancora di più.

- Ehm…lei…lei…credo che stia meglio…- ammise. Era da quella mattina che non rimetteva piede in cabina, e per quel che ne sapeva Kathryn avrebbe anche potuto essere in punto di morte.

- Ottimo. Mi raccomando, per qualsiasi cosa mi chiami, intesi?- il dottor Whale fece un breve cenno di saluto.- Arrivederci, signor Nolan. Signorina Blanchard.

Mary Margaret non rispose, né sollevò lo sguardo fino a che smise di udire i passi di Whale allontanarsi. Guardò David: pareva irrimediabilmente imbarazzato.

Moglie. Mary Margaret stampò nella sua mente questa parola a chiari caratteri. David Nolan era sposato. Aveva una moglie che lo aspettava in una cabina di prima classe. E lei non sarebbe nemmeno dovuta essere lì con lui.

Mary Margaret si sforzò di sorridere e di portare avanti la conversazione, ma non appena il pranzo fu servito e lei ebbe iniziato a mangiare, si rese conto di quanto quel cibo fosse amaro nella sua bocca.

 

***

 

- Vediamo se ho capito…- Ruby tentò di fare mente locale.- Il complesso di Edipo è quando il bambino ama la madre ed è geloso del padre, giusto?

- Più o meno. Diciamo che ci sei andata vicina - Archie sorrise pazientemente, sistemandosi gli occhiali sul naso. - Il complesso di Edipo è l’impulso naturale del bambino di dormire con la propria madre e di uccidere il padre, e sparisce quando raggiunge l’età della ragione…

- A me sembra un po’ da psicopatici - disse Ruby. - Insomma, non so quanto questo sia normale, soprattutto in un bambino…

- Beh, come tutte le questioni riguardanti la psiche, va presa con le pinze. Prende il suo nome da un mito greco di un re che aveva ucciso inconsapevolmente il padre e aveva sposato sua madre…

- E come va a finire?

- Che tutta la faccenda viene allo scoperto, lei si uccide e lui si acceca.

- E vissero per sempre felici e contenti…- ironizzò Ruby, ridacchiando. Si fermò, appoggiandosi alla balaustra del ponte di seconda classe.- Comunque, mi piace questa psicanalisi - dichiarò sorridendo.- Ha un suo fascino…specie su un’ignorante come me.

- Non sei ignorante, Ruby - disse Archie.- Sei una ragazza molto intelligente.

Ruby ghignò.

- Credi che se fossi così intelligente starei qui a rifare i letti, con solo mezz’ora di pausa al giorno? Mia nonna mi dice sempre che in un gregge di capre mi troverei a mio agio…- Ruby lo guardò.- Tu sei intelligente. In tutto il tempo passato con te, ho imparato più di quanto avrei potuto fare in un’università…

- Hai mai pensato di provarci?- chiese Archie.

- Con cosa?

- Con l’università. Ho sentito dire che a New York ce ne sono di molto qualificate…

- Magari…quando mi ammetteranno senza che io debba pagare un soldo!- ironizzò Ruby. Tornò seria:- A dire il vero, da ragazza speravo di andarci. Ho sempre pensato che l’avrei fatto, ma…- Ruby si passò una mano fra i capelli.- Beh, c’è poco da dire. Mia madre è morta quando avevo tredici anni, e mia nonna non aveva soldi da buttare per istruire me…

- Mi spiace…- mormorò Archie.- E tuo padre?

Ruby rise.

- Non so neanche chi sia, quel bastardo. Ha mollato mia madre quando ha saputo del guaio che aveva combinato - Ruby s’indicò con un cenno della mano. - In pratica, sono una cameriera povera, stupida, ignorante e per di più figlia illegittima. Ottime referenze per presentarsi a Broadway, non trovi? A proposito…- Ruby si batté una mano sulla fronte.- Scusami…per tutto questo tempo ti ho fatto una testa così su di me, sulla mia vita e sulle mie scarse facoltà intellettive, ma non so nulla di te…

- Non è che ci sia molto da sapere…- Archie sorrise, appoggiandosi alla balaustra accanto a lei.- Sono uno psicanalista e spero che a New York ci sia un posto per me e il mio compagno di avventura…

- A proposito, dov’è Pongo? Gli avevo portato dei biscotti, mi è parso di capire che gli piacciono…

- Già, anche troppo. E’ in cabina, confido che i miei amici lo tengano a bada.

- Ah, già! Mi avevi detto che non viaggiavi solo…E chi sarebbero, questi tuoi amici?

- Padre e figlio. Più che amici, li definirei la mia famiglia.

- Come mai viaggiate in terza classe? Scusa per la poca discrezione, ma visto che sei un dottore non credo che un biglietto in prima dovrebbe rappresentare un problema, per te…

- No, ma…Ecco, il mio amico ha avuto problemi economici, e suo figlio è uno scrittore in cerca di successo. Non volevo lasciarli soli.

Ruby sorrise, pensando che non era da tutti un gesto simile. Archie avrebbe preferito sacrificare comodità e lusso pur di stare con i suoi amici. Era chiaro che aveva un gran cuore…

- Ruby Lucas!- fece d’un tratto una voce che la ragazza non tardò a riconoscere. Si voltò, vedendo sua nonna avanzare a passo di carica verso di lei. Ruby sospirò.

- Ciao, nonna. Che bello vederti anche qui

Granny ignorò la nota ironica e le rifilò in mano uno scialle di lana rossa.

- Hai dimenticato questo!- borbottò.- Mettitelo, fa freddo…

- Ma se siamo ad aprile!- sbuffò Ruby. - E poi, ora devo tornare al lavoro…- si voltò a guardare Archie, sorridendogli.- Beh, grazie per la chiacchierata, Archie…Ci vediamo stasera, va bene? Ciao, nonna!- Ruby si allontanò sorridendo, lasciando Granny e Archie da soli.

Al dottor Hopper non piacque per niente l’espressione dell’anziana donna, specie quando lei coronò il tutto piantandosi le mani sui fianchi.

- Mia nipote ha sempre avuto il dono di stringere amicizia molto facilmente…- disse Granny, monocorde.

- Ruby è…è una ragazza molto simpatica…- Archie non avrebbe saputo dire perché, ma in qualche modo si sentiva minacciato.

- Già, non è il primo uomo a pensarlo - borbottò Granny.- Sa, in Inghilterra molti nullafacenti buoni solo a bighellonare e a correre appresso alle brave ragazze le facevano la corte…La mia Ruby è una ragazza perbene, spero che lei si sia reso conto di questo…

- Signora Lucas…- Archie si tolse gli occhiali, cercando di non mostrarsi a disagio.- Le posso assicurare che non ho mai neanche lontanamente pensato…

- Bravo, non lo pensi.

- Va bene…

Granny lo guardò in faccia, aggrottando le sopracciglia.

- Sa, dottor Hopper, lei non ha affatto la faccia del criminale. E’ già un lato positivo…

- Io…grazie, signora Lucas…

- Non mi ringrazi, non servirà a farle guadagnare punti a suo favore. Le ripeto: Ruby è una brava ragazza, un po’ esuberante, a volte, ma con dei sani principi. Quindi, se vuole fare lo psicanalista, impieghi la sua arte su qualcun altro, intesi?

Archie non poté fare altro che annuire, sentendosi improvvisamente meglio quando Granny lo salutò in modo asciutto e sbrigativo e se ne andò. Quella donna ce l’aveva con lui, non c’erano dubbi. Ma aveva ragione.

Ruby era una brava ragazza. La brava ragazza più splendida che avesse mai incontrato.

 

***

 

Henry corse giù dalla scalinata che conduceva dal ponte di prima classe a quello di seconda, iniziando quindi a scendere i gradini verso la terza. Piangeva; sapeva che presto o tardi sua madre l’avrebbe trovato e allora sarebbero stati dolori, ma non gli importava. Era arrabbiato con la mamma; con tutte e due le sue madri.

Era arrabbiato con Regina per aver parlato così male della sua madre naturale, e con Emma per averlo abbandonato. Perché l’aveva lasciato? Forse non lo voleva? Se era così, perché adesso intendeva riprenderlo con sé?

Henry attraversò il ponte di terza classe, giungendo fino alla prua della nave. Si aggrappò alla balaustra, issandosi sulla prima sbarra della cancellata. Il sole del primo pomeriggio gli bruciava gli occhi e il vento gli scompigliava fastidiosamente i capelli, ma non gli importava. Si sedette a cavalcioni sulla balaustra, una gamba penzoloni dalla parte del ponte e l’altra sull’oceano.

Iniziò a dondolarsi con aria noncurante.

- Fermo!- strillò una voce.

Henry sobbalzò, spostando lo sguardo in direzione della voce. A parlare era stata una bambina che doveva avere all’incirca la sua età, con lunghi capelli biondi e gli occhi scuri. Aveva addosso un vestito color sabbia sicuramente non di sartoria, e reggeva in mano un coniglio bianco di pezza.

- Fermo! Non lo sai che puoi cadere?!- gridò Grace, correndogli incontro.

Henry la guardò con aria truce.

- E allora?- la rimbrottò, dondolandosi ancora di più.

- Dai, non fare lo stupido!- Grace arrivò vicinissima alla balaustra.- Non fare lo scemo, lo sai che puoi annegare?!

Henry scosse il capo con decisione.

- No, io so nuotare benissimo!

- Non importa!- insistette Grace.- E’ l’oceano, questo! E l’acqua è ghiacciata, moriresti di freddo!

- Non m’interessa!- Henry spostò anche l’altra gamba oltre la balaustra, reggendosi con le mani alle sbarre.- Non m’interessa, se anche cado non me ne importa niente!

- Dai, scendi!- implorò Grace.

Henry ridacchiò di sottecchi; far paura a quella bambina gli faceva dimenticare un po’ il suo malumore. Puntò i talloni su una delle sbarre, staccandosi dalla balaustra senza lasciare la presa. Grace trattenne il fiato. Henry, in piedi sulla sbarra inferiore della cancellata e con le mani salde intorno alla superiore, si girò in modo da trovarsi faccia a faccia con la bambina.

- Guarda cosa so fare!- rise, iniziando a dondolarsi su e giù con le mani.

Grace lanciò un gridolino.

- Tu sei pazzo!

- E tu sei una fifona!

- Per favore, smettila!

- Altrimenti?

- Altrimenti vengo lì e ti spingo giù!- ringhiò Grace; detestava che un esibizionista come quel ragazzino riuscisse a impaurirla così tanto. Si pentì amaramente di aver chiesto a suo padre di poter fare una passeggiata da sola; se papà fosse stato lì, pensò, sicuramente avrebbe afferrato quello sciocco per la giacca e l’avrebbe tirato su di peso.

- Adesso basta! Torna subito qui!- ordinò, cercando di sembrare autoritaria. Henry scoppiò a ridere.

- Ma dai! Ti pare che lascio la presa?- ridacchiò.- Sta’ tranquilla, so quello che faccio.

- Starei più tranquilla se sapessi cosa stai facendo da questa parte della nave!- sbuffò Grace.

Henry rise, senza smettere di dondolarsi.

- Fifona!

 

***

 

Belle percorreva in fretta il ponte di terza classe senza guardare in faccia gli altri passeggeri. Si asciugò velocemente le lacrime che le erano sfuggite dagli occhi. Da quando era stato costretto a vendere il Game of Thorns, suo padre era notevolmente peggiorato. Moe aveva sempre avuto un modo di fare brusco e irruento, e un carattere difficile, costellato da scatti d’ira improvvisi e malumori inspiegabili che si protraevano anche per giorni, ma lei era sempre riuscita a tenerlo a bada. Raramente attaccava briga con le altre persone, a meno che non fossero loro a provocarlo, e il fatto che si sfogasse su di lei non era insolito, questo no, ma ultimamente le aveva messo le mani addosso più spesso e per motivi ben più futili che in passato. Belle per diverse settimane si era imposta di ingoiare il rospo e attendere pazientemente che quella fase passasse, così come tutte le altre volte, ma le cose peggioravano ogni giorno che passava. Prima aveva aggredito Gold senza alcuna ragione, e ora Belle era sicura che le minacce che le aveva rivolto non sarebbero rimaste tali. Moe non l’avrebbe ammazzata, certo, ma un bell’occhio nero non gliel’avrebbe tolto nessuno, quando fosse ritornata in cabina.

Belle quasi non si rese conto di essere arrivata quasi in prossimità della prua della nave, lasciandosi tutti gli altri passeggeri alle spalle.

- Scendi!- sentì gridare a un certo punto; la ragazza drizzò il capo.

- Fifona!- rise una voce.

- Ho detto scendi!

- Fifona! Fifona! Fifona!

Belle aggrottò le sopracciglia, accelerando il passo e uscendo dall’ombra del ponte coperto. Di fronte a lei, in lontananza, c’erano due persone; due bambini, realizzò. Una ragazzina stava urlando contro un altro. Il bambino era aggrappato alla balaustra della nave, e si stava dondolando nel vuoto, sopra all’acqua.

Belle sgranò gli occhi, sentendo il cuore perdere un battito.

- Ehi!- gridò, prendendo a correre nella loro direzione. Nell’udire il suono della sua voce, Grace si voltò di scatto, mentre Henry smise immediatamente di dondolarsi.

- Ma che stai facendo?!- ansimò, rivolta al ragazzino.- Scendi subito di lì!- ordinò, raggiungendoli.

- La prego, signorina, lo faccia smettere!- implorò Grace.

Henry le rivolse un’occhiata truce, piena di sfida. Belle gli si avvicinò, tendendogli la mano.

- Su, forza, scendi da lì…

Il ragazzino si scansò.

- No!

- Non fare i capricci! Basta giocare, rischi di cadere…- insistette Belle, facendosi più vicina.

- No, ho detto!- gridò Henry.- No, io non scendo!

- Andiamo! Tua madre si starà chiedendo dove sei…- fece Belle.

- Io odio mia madre!- ribatté il bambino, con le lacrime agli occhi.- La odio! Non voglio vederla mai più!

Belle sospirò; sotto lo sguardo esterrefatto di Henry e terrorizzato di Grace, si aggrappò con una mano alla balaustra, sollevando appena un lembo della gonna. La ragazza si issò sulla cancellata, sedendosi a cavalcioni accanto a Henry.

- Non pensi che tua madre potrebbe soffrire per quello che hai detto?- gli chiese, in tutta tranquillità.

- Anche lei dice delle brutte cose, ma non le interessa se io soffro o meno!- ribatté Henry, ingoiando le proprie lacrime.

- Che stupidaggine!- Belle gli sorrise.- Lo sai che per la tua mamma tu sei la cosa più importante di tutte?

Henry la guardò, asciugandosi le lacrime con una manica della giacca.

- La tua mamma ti vuole bene, e sono sicura che non farebbe mai nulla per farti soffrire. Sai, a volte si litiga, può succedere, ma questo non significa che lei non ti vuole bene. Le incomprensioni sono normali, l’importante però è fare la pace. E non otterrai nulla dondolandoti a precipizio sull’oceano, a parte terrorizzare a morte la tua amica…- Belle ridacchiò, accennando all’espressione sconvolta di Grace.- Dai, adesso scendi. Vedrai che risolveremo tutto, te lo prometto…

Henry sospirò, aggrottando le sopracciglia e pensandoci un po’ su. Infine annuì.

- Va bene…- mormorò.

- D’accordo. Dammi la mano, ti aiuto a risalire…

Belle afferrò la mano destra di Henry, mentre il bambino si issava con un ginocchio sulla sbarra superiore della balaustra. Grace sospirò di sollievo. Il ragazzino tentò di gettare una gamba dall’altro lato delle sbarre, ma la stoffa dei pantaloni scivolò contro il ferro liscio. Henry urlò, perdendo l’equilibrio.

Si aggrappò alla manica del vestito di Belle, trascinandola con sé.

La ragazza gridò, aggrappandosi con una mano alla balaustra e reggendo Henry per il collo della giacca. Il bambino afferrò le sbarre con entrambe le mani.

Erano in sospeso sopra l’acqua scura.

Grace urlò, precipitandosi verso di loro. Belle ansimò, lottando contro l’irrazionale istinto di mollare la presa, senza peraltro avere il coraggio di lasciare andare la giacca del ragazzino per potersi sostenere meglio. Henry gettò un’occhiata all’acqua: le onde s’infrangevano contro la nave; sotto di loro non c’era niente.

- Aiuto!- gridò Grace.- Aiuto!

 

***

 

Il signor Gold si affacciò al ponte di prima classe, ben felice che quella tediosa conversazione fosse giunta a termine. C’era un bel sole, ma lui era troppo preso dai suoi pensieri per poter prestare attenzione al clima. Non vedeva l’ora che quel maledetto viaggio finisse e potesse sbarcare a New York; lì, si disse, avrebbe potuto continuare i suoi affari e accrescere la sua fortuna.

E, forse, lasciarsi alle spalle un luogo pieno di ricordi troppo dolorosi. Il signor Gold sospirò, dicendosi che, per quanto lontano avesse potuto andare, il dolore non se ne sarebbe mai andato. E, in fondo, lui non voleva davvero dimenticare. Non avrebbe mai né voluto né potuto dimenticare suo figlio.

Baelfire. Gold sorrise, al ricordo di quando suo figlio si lamentava con lui per avergli dato quel nome assurdo. Non avrebbe potuto chiamarlo John, o Peter, o Michael, come tutti i suoi compagni di classe?

Era la stessa obiezione che gli aveva mosso sua moglie, al momento della sua nascita, ma alla fine si era arresa e aveva acconsentito. Il signor Gold fece una smorfia. Milah era sempre stata una donna debole, incapace in tutto.

Incapace di lavorare, incapace di mandare avanti una casa e una famiglia, incapace di essere una brava moglie e, soprattutto, una brava madre.

Non aveva nemmeno pianto, né mostrato un minimo di sofferenza alla notizia della morte di suo figlio.

Il signor Gold sentì il cuore stringersi in una morsa a quel pensiero. Bae non c’era più. Non c’era più ormai da cinque anni, ma il dolore era ancora vivo nel suo animo. Baelfire era stato la sua vita, sin dal primo momento che gliel’avevano posto fra le braccia. Aveva cercato di dargli tutto, tutto ciò che un bambino potesse desiderare, anche se non era riuscito a dargli una madre.

Sua moglie Milah, pensò, in fondo non era poi così fragile, non abbastanza da impedirsi di abbandonare suo figlio alla ricerca di chissà quale avventura. Gold ripensò a sua moglie. Le cose fra loro due avevano iniziato ad andare male sin da prima della nascita di Baelfire, ma lui aveva sperato che, con l’arrivo di un bambino, Milah sarebbe cambiata.

Si sbagliava. Sua moglie non aveva mai mostrato un briciolo di tenerezza nei confronti di Baelfire e, quella che Gold aveva inizialmente voluto scambiare per timidezza o impaccio, aveva presto compreso essere nulla più che indifferenza. Milah era insofferente alle feste che suo figlio le faceva ogniqualvolta tornava a casa, lo allontanava con fastidio quando cercava di abbracciarla, e gli parlava solo quando doveva dirgli cosa fare, sempre con tono stizzito. Nel frattempo, anche i rapporti fra loro due erano andati deteriorandosi, ma Gold aveva comunque cercato di tenere in piedi quel matrimonio per amore di suo figlio, perché crescesse con una vera famiglia.

Finché un giorno, senza alcun preavviso, Milah se n’era andata. Gold se n’era accorto solo la mattina, quando aveva trovato il posto vuoto accanto a sé nel letto e un biglietto posato sul ripiano del tavolo. Vado via, c’era scritto, semplicemente.

Il signor Gold aveva scoperto solo diversi anni dopo che Milah era fuggita in compagnia di un uomo più giovane di lei, un certo Killian Jones, che faceva il marinaio su una nave da carico. L’aveva rivista solo in occasione del funerale di Baelfire, e non avevano scambiato una parola.

Gold aveva cresciuto suo figlio da solo, dandogli tutto ciò che era in suo potere. Baelfire era un bel bambino, allegro, solare e intelligente. Il signor Gold aveva dato la vita, per lui; fino al giorno in cui gli era stata portata via, insieme a quella di suo figlio.

Era successo tutto all’improvviso, e così in fretta che Gold non aveva neppure fatto in tempo a rendersi conto di ciò che stava succedendo. Bae aveva solo quattordici anni. Era a scuola, quand’era accaduto; gli insegnanti raccontarono che era stato pallido e taciturno tutta la mattina, fino a che non era svenuto all’improvviso, finendo riverso a terra. Vedendo che non si riprendeva, lo avevano trasportato immediatamente all’ospedale. I medici gli diagnosticarono una meningite fulminante.

Gold era stato accanto a suo figlio per tre giorni, finché Baelfire non si era spento, lasciandolo solo per sempre.

Un urlo lo distolse bruscamente dai suoi ricordi. Il signor Gold si voltò in direzione della voce.

- Aiuto!- ripeté, una voce infantile, apparentemente femminile.

Il signor Gold aggrottò le sopracciglia, dirigendosi verso il lato del ponte da cui aveva sentito provenire la voce.

- Aiuto!

Gold si affacciò alla balaustra. Sotto di lui, sul ponte di terza classe, una bambina stava gridando cercando di attirare l’attenzione. Gold sgranò gli occhi, vedendo che, aggrappati alla balaustra in sospeso sull’acqua c’erano due persone: riconobbe il bambino della signora Mills, mentre l’altra era chiaramente una donna. Il signor Gold riconobbe immediatamente in lei la figlia di French.

- Aiuto!- gridò ancora la bambina.

Il signor Gold si voltò, iniziando a scendere le scale che conducevano al ponte di terza il più in fretta possibile.

 

***

 

- Aiuto!

Jefferson distolse immediatamente lo sguardo dal mare che stava osservando, nell’udire quel grido. No, non poteva sbagliare. Avrebbe riconosciuto quella voce fra mille.

Grace!

 

***

 

Grace si gettò su Henry, afferrando un polso del bambino con disperazione. Belle ansimò, sentendo che la mano le stava scivolando.

- Cerca di tirarti su!- gridò a Henry.

Provò a fare forza sul braccio e nel contempo a spingere il ragazzino sulla balaustra, ma capì subito che non ce l’avrebbe fatta a sollevarsi facendo leva su una mano sola, e non aveva il coraggio di lasciare la giacca del bambino.

- Non ce la faccio!- urlò Henry.

- Devi farcela!

Belle spinse il bambino un po’ più su. Henry si aggrappò ancora più saldamente alla balaustra, piegando le braccia. Grace lo afferrò per una manica della giacca, cercando di riportarlo sul ponte.

- Aiuto!- gridò di nuovo.- Per favore, aiutateci! Aiuto!

 

***

 

- Avete sentito?- fece Graham; Emma e Regina si voltarono all’unisono, avendo anche loro udito quella richiesta di aiuto. Senza attendere risposa, il capitano fece cenno a due marinai, iniziando a correre nella direzione della voce. Emma si precipitò dietro di loro, sentendo il cuore saltarle via dal petto. Udì i passi di corsa di Regina alle sue spalle.

 

***

 

- Forza, ci siamo quasi!- Belle incitò Henry, spingendolo ancora più su. Ormai la ragazza sentiva che non ce l’avrebbe fatta ancora per molto a restare aggrappata. Henry si issò con un ginocchio sulla balaustra, mentre Grace lo teneva saldamente per il polso.

D’un tratto, tutti e tre sentirono dei passi avvicinarsi velocemente, quindi Henry avvertì un braccio circondarlo intorno alla vita e issarlo di peso sul ponte. Il bambino si ritrovò disteso sulle assi di legno.

- Brutto scemo!- lo insultò Grace, con le lacrime agli occhi, sferrandogli una sonora sberla su un orecchio tale da rintronarlo.

Belle si aggrappò alla balausta con anche l’altra mano, tentando di issarsi a sua volta, ma per quanto tentasse di fare forza sulle braccia il suo peso era eccessivo. Una mano iniziò a scivolare, e la presa cedette. Improvvisamente, Belle si sentì afferrare entrambi gli avambracci; sollevò lo sguardo su una figura vestita di nero: era il signor Gold.

- Si tiri su!- la incitò l’uomo, con il volto contratto.- Avanti! Cerchi di risalire!

Belle serrò le labbra, piegando gli avambracci; riuscì a sollevare un poco il busto. Il signor Gold spostò una mano sulla sua spalla. Belle ansimò, al limite delle forze.

- Forza!- disse Gold.- Ci siamo quasi!

La ragazza strinse i denti, facendo nuovamente forza sulle braccia. Puntellò un ginocchio sulla sbarra della balaustra. Il signor Gold spostò la mano dalla sua spalla alla sua schiena, tentando di aiutarla. Belle udì dei passi avvicinarsi di corsa, quindi delle voci.

- Sono qui!

- Henry!

- Grace!

Con un ultimo sforzo, Belle si issò sulla balaustra. Urtò il bastone del signor Gold, appoggiato contro le sbarre. La ragazza perse l’equilibrio, cadendo in avanti e finendo contro Gold. Entrambi caddero riversi sul ponte. Il signor Gold sentì allo stesso tempo il rumore secco del suo bastone che cadeva e il peso della ragazza che gli crollava addosso. L’uomo serrò gli occhi, il viso contratto in una smorfia di dolore mentre il suo ginocchio malandato iniziava a urlargli insulti e maledizioni irripetibili.

Emma si gettò in ginocchio accanto a Henry.

- Stai bene?- ansimò, con il fiato corto; prima che il bambino potesse rispondere, Regina la spinse di lato, prendendo il suo posto di fronte a lui.

- Henry! Come stai? Cos’è successo?

- Grace!- la bambina fece appena in tempo a udire la voce di suo padre che Jefferson l’aveva già presa in braccio, abbracciandola.- Cos’è successo? Stai bene?- sussurrò l’uomo.

- Sì…sì, papà, sto bene…

Jefferson tirò un sospiro di sollievo, vedendo che sua figlia non si era fatta nulla. Fece per dire qualcos’altro a Grace, ma lo sguardo gli cadde su una delle donne – senza dubbio di prima classe – che in quel momento stava abbracciando l’altro bambino. Al collo portava una vistosa collana blu a forma di cuore. Jefferson la guardò meglio; no, non si sbagliava.

Quello era un diamante.

 

***

 

Il capitano Graham le era parso abbastanza convinto della versione dei fatti. Henry non avrebbe mai confessato della sua marachella che per poco non li aveva quasi uccisi, così Belle aveva raccontato che il bambino si era sporto per vedere dei delfini, aveva perso l’equilibrio e lei con lui, guadagnandosi uno sguardo grato da parte del ragazzino e ironico dalla sua amica.

Ora tutti se n’erano andati, e lei finalmente poteva tirare un sospiro di sollievo. Belle udì un gemito soffocato; si voltò: il signor Gold era ancora lì.

L’uomo si reggeva in piedi a fatica senza il suo bastone, ancora abbandonato a terra. Il suo volto era contratto in una smorfia, mentre si passava una mano sul ginocchio destro. Belle gli si avvicinò, timorosa.

- E’ ferito?- mormorò, allungando una mano verso di lui.

- No!- si affrettò a dire Gold, bloccando il suo gesto.- No. Non mi tocchi.

Il ginocchio gli faceva un male d’inferno. Quella ragazza avrebbe tranquillamente potuto essere considerata l’undicesima piaga d’Egitto. Prima aveva litigato con suo padre, poi lei aveva scheggiato una tazza di porcellana, spargendo thé su una tovaglia che valeva quasi più di lei, infine aveva rischiato di finire in mare e non contenta aveva tentato di assassinarlo crollandogli addosso con il suo peso che, alla prova dei fatti, si era rivelato decisamente superiore rispetto a una stima che Gold aveva potuto fare a una prima occhiata.

E ora se ne stava lì a guardarlo con una faccia da cane bastonato.

- Cosa fa ancora qui?- le chiese, tirando fuori la sua migliore espressione da dovrestiaverepauradime.- Oggi ha salvato la vita a un bambino, ha rischiato di morire e dulcis in fundo ha concluso la sua avventura finendomi addosso. Non è stanca, dopo tutte queste emozioni?

- Mi dispiace…- sussurrò Belle, rossa in volto.

- Mi creda, dispiace più a me…- Gold fece una smorfia, il ginocchio non gli dava pace.

- Posso…posso fare qualcosa per lei?- chiese Belle.

- Sì. D’ora in avanti le sarei molto grato se non si avvicinasse a me per più di tre metri, grazie.

Belle si zittì. Non l’aveva fatto apposta, a fargli male, e in un’altra occasione avrebbe risposto per le rime, ma in quel momento non era veramente il caso. Anche se era stato un incidente, era pur sempre colpa sua, se si era fatto male.

- E’ ancora qui?- Gold le fece un gesto con la mano.- E’ una splendida giornata, perché non fa una passeggiata?

- Non la lascio solo, non finché non si sente meglio!- dichiarò Belle, fermamente.

- Per sua informazione, signorina French, non sto morendo. Questo ginocchio mi da problemi da anni, e lei oggi gli ha semplicemente dato manforte…

- E’ proprio per questo che voglio restare - disse Belle.- E’ colpa mia, se lei si è fatto male…

- Senta, il ruolo della crocerossina lo lasci a chi di dovere. Se ne vada, non mi serve il suo aiuto…

- A me invece sembra che ne abbia bisogno…

- L’apparenza inganna.

- Non me ne vado finché il dolore non è cessato!- insistette Belle.

- Quante volte le devo ripetere che…

- Mi permetta almeno di accompagnarla fino alla sua cabina!

- Lei non…

- Io non mi muovo da qui!- ringhiò Belle, al limite dell’esasperazione.

Gold sospirò, scuotendo il capo con rassegnazione. Belle si torse nervosamente le mani, mordendosi il labbro inferiore.

- Le…le prendo il bastone…- mormorò.

Il signor Gold stette a guardarla di sottecchi mentre raccoglieva il bastone da terra e glielo porgeva. Non la ringraziò, né la guardò mentre lei prendeva a camminargli a fianco, adeguandosi al suo passo claudicante.

Quella ragazza era veramente strana, pensò.

 

Angolo Autrice: In questo capitolo Henry è il trionfo dell’OOC, lo so. Probabilmente sarà risultato un po’ antipatico, ma in tutte le ff che ho letto lui è sempre il bambino perfetto, ma come tutti i ragazzini della sua età, a mio parere, qualche capriccio deve pur farlo, soprattutto nella sua situazione, e così…

Ho cambiato un po’ di cose da quanto avevo promesso. C’è ben poca (quasi niente, a dire il vero) Hunter Swan e più Rumbelle di quanto avessi previsto, ma prometto che nel prossimo ci sarà più equilibrio. Per quanto riguarda la Snowing, nulla da dire anche perché scriverla è stata una sofferenza…quei due mi daranno parecchio da fare, lo sento…Per la cronaca, la season 2 mi sta inaspettatamente facendo rivalutare Mary Margaret…David Nolan, invece, temo che nella mia mente resterà sempre un cretino. Il nome di battesimo di Whale è preso dalla sua vera identità, Victor Frankenstein, mentre per la Red Cricket, beh…nonna Granny scatenata al massimo…tranquilli, non romperà più molto in futuro, anche se i due piccioncini avranno a che fare con altri imprevisti…

Sempre a proposito di Red Cricket…The Cricket Game è stato un trauma da cui mai mi riprenderò. Cioè, voglio dire…ma…ma…ARCHIE!!!! NOOOO!!! BUUUUUHAAAAAAAAHUUUUHAAAA!!! *piange disperata*. No, giuro, quando ho visto quella scena non ci volevo credere, ero lì che dicevo no, non è possibile, non può essere vero! Cora deve morire, punto. Quanto vorrei che qualcuno la prendesse e la impalasse a un palo della luce, mannaggia ‘li mortacci sui le venisse un attacco di dissenteria…Che poi in quella scena, dove trovano Archie riverso a terra (sono forte…sono calma…non devo piangere! *cede miseramente*) c’era anche Ruby, quindi lascio immaginare quanto una mente malata come la mia stesse macchinando in quel momento, mi hanno praticamente stroncato anche l’ultima speranza do vedere questi due insieme…Dovrò scrivere qualcosa per rimediare (è una minaccia, non una promessa XD).

Nel prossimo capitolo, Snowing, Hunter Swan, Red Cricket e Rumbelle ;).

Veniamo ai ringraziamenti: grazie a chi ha aggiunto la storia fra le seguite, le ricordate e le preferite, e a Just D, charlotte lewis, Lety Shine 92, TheHeartIsALonelyHunter, jarmione, historygirl93 (a cui avevo promesso l’accenno a Bae, spero tu non sia rimasta delusa), nari92, LadyAndromeda e Lady Deeks per aver recensito.

Ciao!

Dora93

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Capitolo 6
*** 11 aprile 1912 - Tempo al tempo ***


Ruby entrò nella sua cabina come una furia, chiudendo con forza la porta alle sue spalle e piantandosi le mani sui fianchi, guardando sua nonna con aria truce. Granny ricambiò l’occhiata, sbattendo le palpebre, perplessa.
- Hai già finito il tuo turno?
Ruby non rispose, ma afferrò una sedia e ci si sedette a cavalcioni, senza smettere di guardarla.
- Toglimi una curiosità: la tua è sindrome da cozza attaccata allo scoglio, oppure è semplicemente il fatto che non riesci a fare a meno di recitare la parte del mastino?
Granny la guardò, ancora più perplessa.
- Ruby, sei ubriaca o stai farneticando?
- Oh, e non fare finta di niente!- sbottò la ragazza, corrucciata.- Si può sapere che ti prende? Perché hai detto quelle cose ad Archie?- quando sua nonna era arrivata, Ruby aveva finto di andarsene e si era nascosta poco lontano, origliando tutta la conversazione.- Perché cerchi sempre di spaventarlo?! Quando ti deciderai a farla finita con le tue minacce e a lasciarmi finalmente in pace?!
- Per tua informazione, signorina, io non ho minacciato nessuno - replicò tranquillamente Granny, continuando a lavorare a maglia.- Ho solo chiarito come stanno le cose, tutto qui.
- E come stanno le cose? Sentiamo!- Ruby si rialzò, furiosa. Granny le rispose con un’occhiata truce.
- Ho semplicemente messo in chiaro alcuni punti con il dottor Hopper. Gli ho detto che tu sei una brava ragazza e che non deve approfittarsi di questo, nulla di più.
- E questo tu non me lo chiami minacciare? Se gli avessi puntato un fucile addosso avresti raggiunto lo stesso risultato!- Ruby digrignò i denti.- Quando ti deciderai a non impicciarti più nella mia vita?! Archie è un bravo ragazzo…
A quell’ultima frase, nonna Granny scoppiò in una risata sonora e priva di allegria.
- Un bravo ragazzo? Certo, come no! Sono tutti bravi ragazzi, all’inizio…lo era anche tuo padre - concluse, con una smorfia. Ruby si zittì, prendendo un profondo respiro. Sapeva a cosa stava alludendo sua nonna.
- Non sono tutti come lui, nonna - replicò, a denti stretti.- Quello che ha fatto mio padre non significa che…
- Lo so, Ruby! Lo so. Ma vale anche il contrario - Granny si fece improvvisamente seria, quindi si alzò e le andò incontro, prendendole le spalle.- Ruby, io non dimenticherò mai che cosa ha patito tua madre, come si è ridotta e la fine che ha fatto, tutto per colpa di quel mascalzone di tuo padre. E’ per questo che mi preoccupo. Non voglio che la storia si ripeta. Non voglio che tu faccia la fine di tua madre…
Ruby scosse il capo.
- Sai com’era lei. Sai che era mentalmente instabile, sai che soffriva di depressione e aveva tendenze autolesioniste…Io non sono come lei.
- Anita non sarà stata una donna forte, questo è vero, ma se quel maledetto non l’avesse abbandonata dopo averla messa incinta, forse avrebbe avuto ancora qualche speranza…- Granny sospirò.- So che non sei come tua madre, Ruby, ma non voglio comunque che ti accada qualcosa di male, non voglio che anche tu soffra e ti rovini la vita per colpa di un uomo…Se il dottor Hopper è veramente quello che dice di essere, allora il tempo ne darà la prova. Dai tempo al tempo, Ruby.
La cameriera guardò sua nonna ancora per un istante. Benché a malincuore, doveva ammettere che aveva ragione; e neppure lei voleva fare la fine di sua madre. Eppure, Archie sembrava una così brava persona…
Ruby sospirò, annuendo.
Avrebbe dato tempo al tempo.
 

***

 
Lo spavento aveva avuto il sopravvento sulla rabbia, tanto che la signora Mills aveva praticamente dimenticato di rimproverare Henry per la sua sgarbatezza di quella mattina, e glielo aveva affidato tornandosene ai suoi doveri sociali. Emma avrebbe potuto sospirare di sollievo in eterno: l’ultima cosa che ci voleva in quel momento era l’ennesima sgridata, e con Regina lontana da sé le pareva quasi di respirare aria più pura. Ricambiò il sorriso di Henry.
- Posso andare a giocare laggiù?- chiese il bambino, indicando un punto molto vicino alla balaustra.
- Va bene, ma cerca di non finire di sotto un’altra volta - fece Emma, con una smorfia preoccupata.
Henry annuì, lasciando la sua mano e precipitandosi nella direzione indicata.
- Ehi! Henry, non correre!- gridò Emma, ma il bambino ormai era troppo lontano per poterla sentire. La donna sospirò, chiudendo gli occhi.
- Si consoli, signorina Swann: crescendo andrà sempre peggio - fece una voce allegra alle sue spalle. Emma si voltò, ricambiando con un sorriso ironico quello scherzoso del capitano Graham.
- Lei ha figli, capitano?- domandò.
- No, mai avuti. Anche se ammetto che non mi dispiacerebbe…- Graham fece un piccolo sorriso.- Soprattutto se dovessi avere la fortuna di averne uno come Henry…
- Già. Sembra che io sia l’unica a non averla pensata così…- mormorò Emma, distogliendo vergognosamente lo sguardo. Graham si fece serio, avvicinandosi un poco a lei; avrebbe voluto abbracciarla, o se non altro stringerle la mano, ma aveva paura di essere troppo invadente. Si sentì improvvisamente un verme per averle estorto la promessa di raccontargli la sua storia. Era stata una richiesta dettata dalla voglia di strapparle un sorriso il giorno prima, quando l’aveva sorpresa a piangere aggrappata alla balaustra della prua della nave, ma solo ora si rendeva conto di essersi impicciato troppo. Forse, pensò, Emma non aveva voglia di raccontare le sue vicende personali a un perfetto sconosciuto. Aveva idea che quella donna non fosse mai stata sposata in vita sua e che non avesse nemmeno un amico o un parente su cui contare; aveva abbandonato suo figlio dieci anni prima e ora si fingeva una tata per poterlo riavere con sé.
Era ovvio che la sua non fosse una di quelle storielle che le signore bene condividono con le amiche di fronte a del thé con pasticcini.
- So che cosa sta pensando di me, capitano - esordì Emma, torcendosi nervosamente le mani. Sembrava quasi che fosse un gesto abituale.- So che lei mi crede una sgualdrinella da quattro soldi che dopo aver abbandonato suo figlio ha anche il coraggio di rivolerlo con sé, ma…
- A dire il vero, stavo rispolverando il mio repertorio di complimenti alla ricerca di qualcosa di galante e intelligente da dire, ma se lei ritiene che la conversazione debba avere questo incipit…- Graham sorrise, alzando le mani in segno di resa. Emma ridacchiò brevemente, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Mi scusi. Il punto è che mi rendo conto di quanto la mia situazione porti a pensare male…- soffiò la donna.- So di non essere giustificabile, su nessun fronte. Non sono una brava madre, lo so. A dire il vero, come persona faccio abbastanza schifo.
- Prima che prosegua con questa spudorata lode di se stessa, signorina Swann, è bene che lei sappia che so trarre da solo i miei giudizi - Graham sorrise, offrendole il braccio. Emma lo accettò, un po’ titubante; non era abituata a tutta questa gentilezza e galanteria, specie da parte di un uomo, per di più del rango del capitano.- Dunque, mi dia la possibilità di giudicare meglio. Ha promesso di raccontarmi la sua storia, ricorda? La sua, e quella di suo figlio…
Emma annuì; non aveva mai raccontato a nessuno il suo passato ma, si disse, Graham avrebbe potuto rivelarsi un buon alleato. O un buon amico.
- Beh, non è che ci sia molto da dire…- mormorò, camminando lentamente al suo fianco, tenendo il capo chino.- Ho avuto Henry a diciotto anni, e non ero in grado di crescerlo. Non avevo un lavoro, non avevo una casa, e il mio fidanzato…beh, ha dato forfait non appena ha saputo che ero incinta.
- Un vero gentiluomo - commentò Graham, facendo una smorfia.- E i suoi genitori? Non l’hanno aiutata, quando hanno saputo che aspettava un bambino?
- Mai avuti dei genitori. O meglio, mai avuti dei genitori degni di essere chiamati tali - Emma fece un sorriso amaro.- Sono cresciuta in un istituto di suore. A quanto pare, mi hanno trovata abbandonata sul ciglio di una strada quando avevo solo pochi giorni di vita. Ho trascorso un po’ di anni in orfanotrofio, poi una coppia mi ha preso con sé, ma non appena hanno avuto un figlio loro mi hanno rispedita al mittente. Gran bel modo di iniziare la vita, eh? Sa, in genere basta questa storia, per far scappare le persone - concluse Emma, con un altro sorriso amaro.
Graham fece un sorrisetto sghembo, stringendole una mano nella sua.
- Cosa fa?- fece Emma, sorpresa.
- Tengo a freno l’impulso che mi spinge alla fuga.
Emma fece uno sbuffo, quindi si portò una mano alla bocca per non ridere. Il capitano fece una breve risata; a quanto pareva, era un poco riuscito a smorzare la tensione.
- Continui. L’ascolto, non me ne vado.
Emma sorrise; era la prima volta che qualcuno non la giudicava a causa del suo passato.
 

***

 
Il pranzo era stata una vera tortura. Mary Margaret aveva tentato di intavolare una conversazione, ma a quanto pareva l’incontro con il tale dottor Victor Whale non aveva turbato solo lei. La tensione non si era smorzata neppure quando se n’era andato, anzi; David Nolan le era sembrato ancora più teso e imbarazzato di prima. Avevano parlato a malapena durante tutta la durata del pranzo, faticando a trovare argomenti di conversazione e a portare avanti la stessa con disinvoltura.
Avevano concluso il tutto consumando il dessert fissandosi negli occhi, in silenzio.
- Beh, la ringrazio per l’invito, signor Nolan - sorrise Mary Margaret quando la cameriera ebbe portato via i piatti vuoti, mai stata più felice che un appuntamento si fosse concluso come in quel momento. Raccolse il suo scialle, alzandosi da tavola.- Ora sarà meglio che me ne torni in cabina…Spero di rivederla presto, e porti i miei saluti anche a sua moglie.
- Aspetti!- David si alzò quasi contemporaneamente.- Aspetti, l’accompagno…
- Non ce n’è bisogno, grazie.
- Insisto - senza attendere risposta, David fu al suo fianco, offrendole il braccio. Mary Margaret non poté fare altro che accettare, trattenendo un sospiro rassegnato. Quello che stava facendo era sbagliato, e lo sapeva.
Non parlarono per buona parte del tragitto, e David trovò il coraggio di aprire bocca solo quando furono sul ponte di seconda classe.
- Mi dispiace di averla messa in imbarazzo…- mormorò.- Mi creda, non era mia intenzione…So che non è stato esattamente il massimo, come appuntamento…
- Non si preoccupi - troncò Mary Margaret.- Non gliene faccio una colpa. Anzi, forse la colpa è stata mia. Non credo di essere una persona particolarmente interessante…
- Oh, no! No, al contrario, lei è…
- E poi, non si può andare d’accordo con tutti - disse Mary Margaret, senza guardarlo.- Lei è stato molto gentile, dico davvero, ma quando due persone non hanno nulla da dirsi, non ci si può fare nulla.
Mary Margaret si arrestò.
- Da qui si arriva agli alloggi di seconda classe - sorrise.- Grazie per avermi accompagnata.
- Un momento!- David la fermò prendendola per un braccio.- Senta…non è detto che noi non abbiamo nulla da dirci, no?
- No, certo che no, ma…- Mary Margaret provò a obiettare, ma subito le parole le morirono sulle labbra. David Nolan aveva avvicinato il proprio viso al suo, tanto che, se si fosse sporta un poco di più, lei avrebbe anche potuto baciarlo.
- Possiamo riprovare, che ne dice? Mi farebbe molto piacere trascorrere ancora un po’ di tempo in sua compagnia…
Le sorrise; Mary Margaret si sentì sciogliere. Non era la prima volta che quel sorriso faceva fare al suo cuore una capriola all’indietro. David Nolan aveva un bel sorriso, dolce e caldo; se il Principe Azzurro fosse esistito, di sicuro avrebbe avuto un sorriso come quello.
Non andava bene. Non andava per niente bene.
Mary Margaret indietreggiò di un passo.
- Certo. Molto volentieri. Magari, se sua moglie si sente meglio, potrà farci compagnia.
Pronunciare la parola moglie fu come gettare una secchiata di acqua gelida sulla testa di David Nolan. Il sorriso gli morì lentamente sulle labbra, senza scomparire, ma divenendo più forzato e meno radioso.
- Naturalmente. Allora…arrivederci, Mary Margaret.
- Arrivederci…David.
Mary Margaret gli strinse la mano, quindi stette a guardarlo allontanarsi. Si erano chiamati per nome, realizzò. Niente più signorina Blanchard e signor Nolan, ma Mary Margaret e David, così di punto in bianco.
Togliti quel sorriso dalla testa, ragazza! E’ sposato, è al di fuori della tua portata! Torna in te!
Mary Margaret sentì quella voce rimbombarle nella mente, e scosse il capo, riscuotendosi. Aveva ragione; si sarebbe messa nei guai, se non stava attenta.
Fece per scendere negli alloggi di seconda classe, quando avvertì uno strano brivido correrle lungo la schiena. Mary Margaret si voltò; sin da piccola aveva sempre avuto una sorta di sesto senso, se così si poteva definire. Avvertiva sempre quello strano brivido, quando qualcuno la stava fissando.
Sollevò lo sguardo. Appoggiato alla balaustra del ponte di seconda classe c’era un uomo, di circa trent’anni, che la stava fissando senza curarsi di nasconderlo, con un sorriso sornione dipinto sulle labbra.
- Buongiorno - salutò Mary Margaret, ostentando noncuranza.- Dottor Whale, se non sbaglio?
- No, non sbaglia. Ma per lei, sono Victor.
Mary Margaret si corrucciò, senza degnarsi di rispondere. Aveva sentito tutto, realizzò con rabbia.
Si affrettò a entrare nel corridoio di seconda classe, senza dire nulla.
Il dottor Whale guardò il cielo, sorridendo. Era proprio vero che, quando il gatto non c’era, i topi ballavano.
 

***

 
Henry si voltò in direzione di sua madre: Emma e Graham erano a diversi metri da lui; stavano chiacchierando, e sembravano molto a loro agio l’uno con l’altra. Il bambino sospirò, appoggiandosi con le braccia alla balaustra di prima classe. Sbirciò di sotto: rimaneva sempre stupito da quanto fossero diverse le persone, l’una dall’altra. I passeggeri sul ponte di prima classe erano tutti eleganti e beneducati, mentre bastava gettare uno sguardo alla seconda e alla terza per vedere solo tanti abiti stracciati e udire una marea d’improperi.
Henry si sporse un poco dalla balaustra, sgranando gli occhi quando scorse, seduta in un angolino sul ponte di terza, una figurina bionda che giocava con un coniglio di pezza. Il bambino sorrise sornione, gettando un’altra breve occhiata a Graham ed Emma per assicurarsi che non lo vedessero, quindi prese a scendere di corsa la scalinata che conduceva alla seconda classe, imboccando repentinamente quella di terza.
Trotterellò allegramente fino alla figura che aveva scorto.
- Ciao!- salutò, un po’ timidamente.
Nell’udire la voce del bambino, Grace smise immediatamente di giocare con il suo pupazzo e sollevò gli occhi su di lui. Immediatamente, lo sguardo le divenne truce, e la bambina aggrottò le sopracciglia.
- Che cosa vuoi, tu?- borbottò.- Sei quasi caduto, oggi, e hai rischiato anche di uccidere quella signorina. Che vuoi fare adesso, metterti al timone?
- No…- Henry si passò una mano fra i capelli, imbarazzato.- No, niente del genere. Volevo chiederti scusa, a proposito - aggiunse.- Mi spiace di averti fatto spaventare.
Grace abbassò lo sguardo, annuendo. Henry le tese la mano.
- Scuse accettate?
- Scuse accettate - concesse Grace, stringendogliela.
Fra i due calò il silenzio. Henry si dondolò brevemente da un piede all’altro, quindi si sedette accanto a lei.
- Viaggi in terza classe?
- Sì; e tu?
- In prima.
- Si vede - Grace ridacchiò, accennando ai vestiti eleganti di Henry; il ragazzino s’imbronciò, sentendosi infinitamente sciocco nella sua camicia inamidata e nella sua giacca di sartoria.
- Senti chi parla!- sbuffò.- Con quel vestito sembri uscita da un baule impazzito…
- I bauli impazziti non esistono. I damerini invece sì!- indicò Henry.
- Ehi!
Grace si voltò appena, dandogli le spalle e riprendendo a giocare con il suo pupazzo. Henry sbuffò, ma la sua arrabbiatura passò presto. Si sporse verso Grace.
- Con chi viaggi?
- Se te lo dico prometti di non insultarmi più?
- Solo se tu fai altrettanto.
- Va bene. Viaggio con il mio papà.
- E tua madre?
- Non c’è. E’ morta quand’ero piccola.
Henry arrossì, imbarazzato per la figuraccia che aveva appena fatto; Grace, comunque, non parve essersi rattristata.
- E tu?
- Con…beh…- Henry si passò una mano fra i capelli.- E’ complicato…
Grace inarcò le sopracciglia, sorpresa.
- Cosa c’è di complicato?
Il ragazzino si avvicinò di più a lei, assumendo un’espressione complice.
- Sai tenere un segreto?- sussurrò; Grace annuì.
Henry avvicinò la sua bocca all’orecchio della bambina, bisbigliando.
- Io ho due mamme.
- Non è possibile!- sbottò Grace.
- Sì, invece!- Henry annuì con vigore.- Ma una delle due non deve sapere che l’altra è qui…Per questo devi tenere il segreto, capisci?
Grace si morse il labbro inferiore, pensierosa, quindi annuì. Henry sorrise, guardando il suo pupazzo.
- Carino. Come si chiama?
- Mr. Bunny. E’ un regalo del mio papà.
- Posso tenerlo un attimo?
Grace annuì, porgendogli il coniglio di pezza. Henry lo prese, guardandolo con attenzione. Non aveva  l’aria di un vero e proprio giocattolo, perlomeno non di uno di quei giocattoli che compri nei negozi. Era un coniglio bianco, ma la pelliccia era rattoppata qua e là da toppe blu e verdi, mentre la camicia rossa era fatta di più pezzi di stracci cuciti insieme; era stranamente leggero, e Henry intuì che doveva aver perso un bel po’ della sua imbottitura.
- Tu hai giocattoli?- chiese Grace.
- Sì. Se vuoi, uno di questi giorni puoi venire nella mia cabina. Potremmo giocare insieme.
- Certo. Molto volentieri.
Henry sorrise; forse aveva trovato una nuova amica.
 

***

 
- Ehi, rubacuori!
Archie si riscosse non appena sentì August chiamarlo con voce ridacchiante. Si sollevò a sedere sul letto su cui era disteso.
- Che c’è, August?
- Hai sentito una sola parola di quello che stavamo dicendo?
Archie sospirò, togliendosi gli occhiali e passandosi una mano sul volto.
- Scusatemi, ero…ero soprappensiero…
- Visto?- August si voltò verso suo padre, rivolgendogli un sorriso sornione.- Te l’avevo detto? Se questa non è cottura a fuoco lento, allora cos’è?
- August, ma tu non avresti da pensare a qualche romanzo?- Archie sbuffò, alzandosi in piedi.- Ero solo soprappensiero, niente di più…
- Certo…C’entra per caso qualcosa quella cameriera…come si chiama…Ruth Lambert?
- Ruby Lucas - precisò il dottor Hopper, prima di potersi trattenere.
- Lo sapevo!- August rise, incrociando le braccia dietro la nuca. - Sei cotto a puntino!
- Mi dispiace, Archie - sospirò Marco.- Io provo a farlo stare buono, ma ha la lingua più lunga di quella di un lama!- l’uomo afferrò l’ombrello di Archie, tentando di colpire suo figlio, il quale si scansò con una risata.
- Lingua più lunga di un lama, papà? Sai che sembra uno scioglilingua?
- Io porto Pongo a fare una passeggiata - dichiarò Archie, nel disperato tentativo di uscire indenne da quella conversazione. Afferrò il guinzaglio e lo annodò intorno al collare del dalmata.
- Certo, certo, come no…- fece August.- Senti, ma se ti piace tanto, perché non le dai un appuntamento come si deve? Perché, ammettilo, delle semplici conversazioni sul ponte di terza classe non sono il massimo del romanticismo. E te lo dice uno che, modestia a parte, se ne intende…
Marco fece uno sbuffo divertito; August gli lanciò un’occhiataccia.
- Io ho una vita amorosa, papà, che tu non immagini neanche…
- Oh, davvero? E chi sarebbe la disperata?- ghignò Marco.
- A parte che non ho idea di dove potrei invitarla nel bel mezzo dell’oceano…August, lei è fuori dalla mia portata!- disse Archie.- Insomma, io ho trentacinque anni, lei non più di venti…Io viaggio in terza classe, e lei…
- E lei si paga il biglietto rifacendo i letti, stando a quanto mi hai raccontato - concluse August.- Quante idiozie inutili…- si passò una mano sulla fronte.- Ma beh, gli amori travagliati sono sempre i migliori…
Archie scosse il capo, rassegnato, e uscì. August sorrise a suo padre.
- Scherzi a parte, se continuiamo di questo passo, arriveremo a New York senza che concludano niente…Bisogna fare qualcosa, papà…
- August, non cose che riguardano solo Archie - fece Marco.- Non t’immischiare.
- Io non ho nessuna intenzione di immischiarmi! Voglio solo dare una mano…E poi, sono curioso di vederla, questa Ruby Lucas…
- August…- Marco sospirò, esasperato.- August, sto parlando seriamente. Dai tempo al tempo. Il destino saprà cosa fare…
Il giovane uomo non rispose, e finse di tornare a concentrarsi sulle pagine del suo libro.
Sta di fatto che, di tanto in tanto, il destino ha bisogno di un piccolo aiuto…
 

***

 
Belle aprì la porta della cabina di prima classe senza avere il coraggio di guardare negli occhi il signor Gold. Lei e l’uomo non avevano scambiato parola per tutto il tragitto; non che si aspettasse diversamente, dato quello che lei aveva combinato. Il signor Gold non si lamentava di nulla, ma era chiaro che il ginocchio gli faceva ancora male. Belle si chiese come si fosse ferito a quella gamba, ma tutto ciò che poteva fare era rimanere in silenzio e camminargli a fianco rossa in volto per la vergogna.
Solo quando furono nella sua cabina Belle trovò il coraggio di parlare.
- Si sieda…- mormorò.- Vedrà che con un po’ di riposo non le farà più male…
Il signor Gold non rispose, ma ubbidì, e si lasciò cadere sul sofà foderato di velluto rosso poco distante, massaggiandosi il ginocchio. Aveva ancora l’aria scocciata. Belle si guardò nervosamente intorno, torturandosi una manica del vestito per tenere le mani impegnate.
- Dove sono i domestici?- pigolò, vedendo la cabina deserta.
- A sbrigare qualche faccenda da qualche altra parte, suppongo. Non sono il tipo che viaggia portandosi dietro la servitù - il signor Gold le rivolse un’occhiata in tralice.- Ora che è riuscita a trascinarmi fino a qui e ha appurato che non mi trovo in punto di morte, signorina French, può ritenersi sciolta dal suo impegno, se lo desidera…
- No, non finché il suo ginocchio non smette di darle dolore…- disse Belle, risoluta.- Non la lascio qui da solo, non in queste condizioni…
- E’ solo un ginocchio dolorante, non un attacco di colera…
- Io comunque non la lascio da solo.
- E’ testarda, eh?- ghignò il signor Gold; Belle fece un piccolo sorriso.
- E’ uno dei miei peggiori difetti - gettò un’altra occhiata al ginocchio.- Sa dirmi dove posso trovare del ghiaccio?
- Se aspetta un altro paio di giorni ne avrà a volontà, con tutti gli iceberg che troveremo sul tragitto…- ghignò il signor Gold.- Ho parlato con il comandante, stamattina. Gli è stato recapitato un avvertimento di pericolo iceberg, a quanto pare…
Belle incrociò le braccia al petto, innervosita.
- Ha intenzione di dirmi dove posso trovare del maledetto ghiaccio oppure devo mettere a soqquadro tutta la cabina?
- Non la facevo così scurrile, signorina French…- il signor Gold guardò Belle negli occhi, quindi fece una smorfia di dolore; il ginocchio non gli dava pace. Forse un po’ di ghiaccio lo avrebbe aiutato.
- Nell’altra stanza, alla sua destra…- sospirò.- C’è una ghiacciaia. Una cameriera l’ha riempita stamane, se siamo fortunati dovrebbe esserne rimasto ancora un po’…
Belle annuì, e corse nella camera indicata. C’era una piccola scatola alla destra del caminetto; la ragazza l’aprì: la maggior parte del ghiaccio s’era già sciolto, ma ne restava ancora qualche pezzo. Belle si guardò intorno alla ricerca di qualcosa per poterlo prendere in mano. Lo sguardo le cadde poco distante, su quelle che dovevano essere le valige del signor Gold. Non erano ancora state completamente disfatte, ma erano aperte. La ragazza si avvicinò, alla ricerca di qualcosa che facesse al caso suo. Prese un fazzoletto di stoffa bianca piegato in quattro e lo spiegò. Sì, quello sarebbe potuto andare bene.
Fece per tornare alla ghiacciaia, ma lo sguardo le cadde su un altro oggetto. Si avvicinò nuovamente per vedere meglio. Nella valigia, sopra a tutti gli abiti e gli altri oggetti, c’era una fotografia in una cornice d’argento. Belle la prese fra le mani per vedere meglio. La foto ritraeva il signor Gold, leggermente più giovane di qualche anno, elegante come sempre nel suo solito completo nero. Era in piedi, e dava le spalle a una casa con giardino che Belle non aveva mai visto. Sorrideva; non era un sorriso radioso o eccessivo, piuttosto una smorfia sghemba, ma si vedeva che era sincero, e allegro. Belle rimase un attimo perplessa; per quanto fosse assurdo, non era mai riuscita a figurarsi il signor Gold che sorrideva. Ma ciò che la lasciò più sconcertata fu che, in quella fotografia, l’uomo non era solo. Il signor Gold teneva una mano avvolta intorno alle spalle di un’altra persona, quasi un timido abbraccio. L’altra persona in questione era un ragazzo, di circa tredici o quattordici anni, più basso del signor Gold ma comunque abbastanza alto, snello, e con un volto ovale e gentile, gli occhi grandi e scuri e una folta massa di capelli castani. Indossava una divisa con maglione e cravatta, probabilmente doveva essere uno studente.
Chi era quel ragazzino?
- Signorina French, si è sciolta anche lei insieme al ghiaccio?
La voce del signor Gold giunse dal salotto così all’improvviso da farla sobbalzare. Belle rimise la fotografia al suo posto, vergognosa di essersi impicciata in affari che non la riguardavano; tornò velocemente alla ghiacciaia e ne estrasse il pezzo di ghiaccio più grande, avvolgendolo con attenzione nel fazzoletto, quindi corse nuovamente in salotto.
- La davo per dispersa…- ghignò il signor Gold. Fece per prenderle il fazzoletto di mano. - Lasci, faccio da me…
- Assolutamente no! Sono io che l’ho ridotta in questo stato, spetta a me rimediare…- Belle s’inginocchiò ai piedi del sofà. - Ora stia fermo…
Cautamente, premette il ghiaccio contro il ginocchio dolorante di Gold. Un sibilo di dolore uscì dalle labbra dell’uomo quando il freddo entrò a contatto con la stoffa dei pantaloni. Belle tolse immediatamente il fazzoletto.
- Mi scusi…- soffiò. Lentamente, pose di nuovo il ghiaccio sul ginocchio, premendolo con più delicatezza.
- Come si sente?- chiese dopo qualche minuto.
- Ammetto di aver avuto momenti migliori, ma il dolore si sta attenuando…- rispose Gold. Belle arrossì violentemente; chinò il capo, senza smettere di premere il fazzoletto sul ginocchio.
- Mi dispiace…- mormorò.- Davvero, sono mortificata. Non intendevo…beh…caderle addosso.
Il signor Gold fece il suo solito ghigno.
- Succede anche sui migliori transatlantici…
- E…a proposito, grazie - Belle lo guardò negli occhi.- Per avermi salvato la vita. A me e a quel bambino - precisò. Il signor Gold distolse brevemente lo sguardo.
- Non c’è di che. Se posso chiedere, chi era quel ragazzino, e cosa stava facendo di preciso? Non mi vorrà dare a bere la storia che ha raccontato alla madre e al capo della giustizia…
- Beh, credo che stesse solo giocando, in fondo. Non so chi sia, a dire il vero. Non l’avevo mai incontrato, prima di oggi…
- Però, quando ha capito che era in difficoltà, è corsa subito in suo aiuto - osservò Gold.
- Era nei guai. E poi, si potrebbe dire lo stesso di lei - Belle ridacchiò.- In ogni caso, grazie.
Il signor Gold non rispose, e tornò a guardare altrove. Belle continuò a tenere il ghiaccio premuto sul suo ginocchio pensierosa. D’un tratto, chiese:
- Signor Gold, lei è sposato?
Il signor Gold la guardò, evidentemente sorpreso. Belle si sentì avvampare. Cosa le era saltato in mente, stupida che non era altro?!
- No, signorina French. Non sono sposato - rispose l’uomo dopo qualche istante, con voce piatta.
Belle non disse più nulla. Cosa diamine le era preso? Era stata quella fotografia, non c’erano dubbi...Non sapeva neppure lei bene il perché, ma si era messa in testa che quel ragazzino fosse il figlio del signor Gold. Era assurdo, non si somigliavano neppure, a dire il vero…Beh, pensò, se il signor Gold non era sposato, ciò toglieva anche di mezzo la possibilità che quel ragazzino nella fotografia fosse suo figlio. Chi poteva saperlo, magari si trattava semplicemente di un nipote, o di un figlioccio. Senza contare che il signor Gold non le era mai parso un tipo che amava molto i bambini.
Eppure, c’era dell’altro. Quando lui le aveva detto di non essere sposato, si era improvvisamente sentita il cuore più leggero…
 
Angolo Autrice: Che dire, a parte le solite scuse per il ritardo? Scusate, è che questo è un periodo denso di esami che oltre a fiaccare il mio equilibrio psicofisico incidono molto negativamente anche sulla mia ispirazione…Un doppio scusa va a Ginevra Gwen White dal momento che le avevo promesso il capitolo un giorno prima, ma purtroppo non ce l’ho fatta…
Allora, partiamo come al solito con il commento del capitolo (chi ancora si prende la briga di leggere le cretinate che scrivo nell’Angolo Autrice mi conosce e sa a cosa va incontro, gli altri, beh, leggano a proprio rischio e pericolo XD). La Hunter Swan sta procedendo a piccoli passettini ma sta procedendo, e poi, ehi, come dice il proverbio chi va piano va sano e va lontano…anche se applicato al Titanic non so quanto lo si possa prendere sul serio, in ogni caso il concetto è keep calm and make love XD! Passando al duo Henry/Grace…allora, chi segue la mia long Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast non sarà troppo stupito di rivedersi proposto il duo delle meraviglie…spero che questa cosa non annoi, ma ehi, capitemi! Sono solo una povera fanwriter a cui non resta altro che sognare, e proprio non ce la faccio, NON CE LA FACCIO, a non shippare questi due, pure se sono dei bambini…Non sono una pervertita, ci tengo a chiarirlo. Molti shippano Henry e Ava, ma io personalmente (pure se non si sono mai parlati per più di due secondi) trovo che Henry e Grace/Paige siano carini, insieme, anche solo come amici…Insomma, nel mondo infantile, io shippo Henry e Grace tanto quanto Baelfire e Morraine (sono malata, lo so :(!). E, a proposito di ship…Vi sarete accorti che con la Red Cricket in questo capitolo non c’è granché degno di nota. Questo è dovuto essenzialmente a esigenze di copione (dal prossimo capitolo tornerò alla carica, don’t worry), ma colgo l’occasione per dire che In the Name of the Brother ha messo a dura prova il mio amore per Archie e Ruby…
Insomma, la Frankenwolf…Ruby e Whale insieme sono troooppo belli insieme, dai! Qualcun altro la pensa come me? Spero di sì, in ogni caso so che posso contare sull’appoggio di Lady Deeks XD. Insomma, questi due mi hanno conquistata, ma purtroppo non posso fare un cambio di rotta proprio adesso (senza contare che il mio amore per la Red Cricket non si è ancora del tutto estinto, lotta con le unghie e con i denti, ma resiste XD), e in questa storia accoppierò Ruby e Whale con chi speravo si accoppiassero quando ancora non stavano insieme (la definizione non è del tutto appropriata, lo so, ma spero comunque che diventino canon!).
Quanto alla Snowing, sapete che meno dico e meglio sto…A tratti potrebbe risultare un po’ melensa, ma visto che questi due lo sono già per i fatti loro…Sto comunque cercando di non aggravare la situazione e di mantenere un briciolo di originalità nella cosa. Se vedete che peggioro inesorabilmente, siete autorizzati a farmelo notare anche a suon di legnate!
E ora veniamo al punto critico…la Rumbelle. Allora…chi è una Rumbeller e ha visto The Outsider e In the Name of the Brother mi capirà sicuramente. Non penso che mi dilungherò molto a descrivere i miei sentimenti dopo quei due episodi per il semplice fatto che non ci sono parole adatte per descrivere come mi sono sentita! Posso solo dire che ho sofferto, ho sofferto tantissimo, e ora non riesco più a leggere nulla che abbia a che fare con la chipped cup senza ripercussioni psico-emotive, e chi vuole intendere, intenda! Per di più, mi sento anche uno schifo perché in tutte le mie storie loro due non se la stanno passando bene…Intendiamoci, dipendesse da me questi due (sfigati) amorucci sarebbero già sposati con tanto di prole al seguito, ma a quanto pare nessuno che abbia a che fare seriamente con OUAT la pensa allo stesso modo, sicché anche farli stare male nelle fic mi sembra come una raffica di mitra sulla Croce Rossa…che ci volete fare, sono un tipo sensibile, io XD!
Un giorno ce la farò a scrivere qualcosa di allegro su loro due…
Okay, passata la sfilza di sproloqui senza un nesso logico, dico un’ultima cosa, sempre a proposito delle ship. Dopo aver visto uno sneak peek della puntata Tiny credo che alla mia classifica se ne aggiungerà un’altra…Gigante/Jack! Okay, va bene, sono malata…Il punto è che il Gigante già mi sta simpatico (e non c’entra il cazzotto in faccia che ha dato a David Nolan…sul serio, non c’entra…no, davvero…OKAY, VA BENE, C’ENTRA XD!), e lo sguardo che ha lanciato a Jack (una donna! O.o) mi ha fatto pensare…boh, se qualcuno l’ha visto, mi dica che ne pensa :).
Ah, a proposito di spoiler e OUAT…vi lascio il link della pagina wikia italiana dedicata a questo telefilm, gestita da Lety Shine 92.
 
http://it.ceraunavolta.wikia.com/wiki/Tiny
 
Nel prossimo capitolo avremo un po’ di incontri fra i vari personaggi, più Snowing, Red Cricket e Hunter Swan (e, anche se non prometto nulla, forse anche un pochino di Rumbelle…ma lo ripeto, non garantisco niente). Il prossimo capitolo sarà anche l’ultimo dell’11 aprile, dal settimo si attaccherà con 12 aprile…e la fase critica si avvicina…:(.
Ringrazio chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite e _BriciolaElisa_, LadyAndromeda, TheHeartIsALonelyHunter, Avly, Valine, Lety Shine 92, kagura, JustD, Pitonia, jarmione, ClarinetteM, nari92 e Lady Deeks per aver recensito.
Ciao, al prossimo capitolo!
Dora93

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Capitolo 7
*** 11 aprile 1912 - Dell'errore e della paura ***


Era tutto molto imbarazzante. E dire che non avrebbe mai pensato di sentirsi in imbarazzo con Archie.
Ruby si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre il vento scompigliava gli altri ciuffi. Era quasi il tramonto, e il sole all’orizzonte scompariva oltre la linea dell’oceano. Quell’11 aprile era quasi terminato; meno tre, pensò Ruby. Mancavano poco più di tre giorni all’arrivo a New York. Presto sarebbe sbarcata in America. L’idea le trasmetteva un poco di ansia.
Fino a che si trovava sul Titanic, era come se stesse camminando in una zona priva di tempo e di spazio. Nulla sarebbe potuto succedere; nulla che avrebbe potuto sconvolgere o cambiare radicalmente la sua vita sarebbe potuto accadere, fintantoché il viaggio proseguiva. Ma quando sarebbe arrivata in America, beh, lì sarebbe stata tutta un’altra musica: lei e sua nonna sarebbero dovute ripartire da zero, completamente. Non avevano denaro, loro non erano come le passeggere di prima classe che potevano contare su una rendita a vita o su di un marito facoltoso che le manteneva.
La paura stava proprio in questo: nell’ignoto. Quel viaggio era stato un azzardo non da poco, ma cos’altro avrebbero potuto fare, dopo la vendita del Bed & Breakfast? Si trattava di scegliere. Due possibilità: restare a Southampton e morire in mezzo a una strada, oppure imbarcarsi alla cieca per New York, nella speranza di trovare delle migliori prospettive.
L’incertezza, però, le gravava sul capo come un macigno.
Ruby in quel momento aveva paura di tutto. E dire che non ne aveva mai avuta di niente!
Tranne, beh, diventare come sua madre, ovvio…
Guardò Archie: il dottor Hopper si chinò un poco, accarezzando la testa di Pongo. Il dalmata scosse il capo; Ruby sorrise, accarezzandogli a sua volta il pelo.
- Sembra nervoso…- osservò.
- E’ per il vento - spiegò Archie.- Il signorino è delicato, anche un po’ d’aria lo infastidisce!- ridacchiò.
Ruby sorrise, continuando a camminare. Ormai, i suoi incontri con Archie erano diventati regolari senza che fra i due ci fosse stato alcun tipo di accordo. Lui conosceva a memoria i suoi orari, e lei lo andava a trovare sul ponte di terza classe durante le pause fra un turno e un altro.
Si sentiva bene, con lui; a proprio agio. Tranne quel giorno.
- Senti, mi dispiace per mia nonna…- si decise infine a dire, tagliando la testa al toro. - E’ che…lei è molto protettiva nei miei confronti…
- Già, l’ho notato…- ridacchiò Archie, massaggiandosi il collo con una mano. Ruby fece un sorrisetto incerto, distogliendo lo sguardo. Si chiese se avrebbe avuto modo di rivedere il dottor Hopper, una volta sbarcati.
- Mi dispiace che ti abbia…beh, minacciato - soffiò.- Ma sai, dopo quello che è successo a mia madre, è diventata ancora più ansiosa…
- Non preoccuparti - fece Archie, togliendosi per un attimo gli occhiali dal naso per poi rimetterseli un secondo dopo.- La capisco…dev’essere dura, aver perso una figlia…
- Non è solo per quello.
Archie la guardò: Ruby sembrava in difficoltà, come se stesse per ammettere qualcosa di spiacevole.
- Vedi…mia madre non era molto…beh, diciamo che non aveva tutte le rotelle a posto - Ruby rise forzatamente.
- Era malata?
- Più o meno. In un certo senso. Aveva una cosa del tipo il complesso di Edipo, per intenderci…era malata nella testa - Ruby indicò brevemente il proprio capo.- Soffriva di depressione, almeno così ci hanno detto. Quand’ero piccola non me ne rendevo bene conto, ma poi crescendo…
Ruby si bloccò, imbarazzata e profondamente a disagio. Si sentiva come se stesse confessando un peccato. I panni sporchi si lavano in casa!, le ripeteva sempre sua nonna, e aveva ragione. Eppure, con Archie tutto pareva essere diverso. Più semplice. Non c’erano lenzuola sporche da nascondere.
Il dottor Hopper le sorrise, prendendole dolcemente una mano per rassicurarla. Ruby ricambiò il sorriso, inspirando a fondo.
- A quanto pare ha sempre avuto di questi…disturbi. Ma dopo che mio padre ha combinato il guaio - s’indicò, - e l’ha mollata, beh…è peggiorata di molto. La nonna mi ha raccontato che stava delle giornate intere senza uscire dalla sua stanza, mangiava come un uccellino, piangeva sempre…Aveva anche delle tendenze autolesioniste…E poi, quando avevo tredici anni…
Ruby deglutì, incapace di continuare. Non le andava di raccontare ad Archie i particolari della morte di sua madre, di come lei e sua nonna erano entrate nella sua stanza una mattina e l’avevano trovata riversa sul letto, i polsi tagliati, le lenzuola imbrattate di sangue…Non voleva raccontare di quante volte aveva pianto, di come si era spesso chiesta se anche lei non fosse pazza come sua madre…
Tu non sei lei. Lei era malata, non tu. Lei era Anita, tu sei Ruby. Sei Ruby. Non sei Anita. Ruby!
- E’ per questo che mia nonna ha queste tendenze da mastino nei miei confronti - concluse, sperando in questo modo di mettere una toppa sull’intera faccenda.
Il dottor Hopper comprese al volo, e le sorrise, stringendole la mano.
- Immagino che sia una peculiarità di tutte le nonne. Credo che se anch’io avessi una nipote, minaccerei chiunque le si avvicinasse.
Ruby rise, una risata liberatoria, sentendosi il cuore più leggero. Di nuovo guardò Archie: non le sembrava nemmeno concepibile la possibilità che, giunti a New York, le loro strade si sarebbero divise.
 

***

 
- Maledizione!
Belle si riscosse improvvisamente quando udì l’imprecazione lanciata a gran voce a poca distanza da lei, e sollevò il capo, cancellando le ultime tracce di pianto con un rapido gesto della mano. A pochi metri da dove era seduta c’era una ragazza all’incirca della sua stessa età, non molto alta, bionda e con un grazioso viso a cuore. Era ancora molto giovane, ma l’abito color lavanda che le stringeva sul ventre lasciava intendere fin troppo bene che fosse incinta, e anche parecchio avanti con la gravidanza. La bionda digrignò i denti, raccogliendo da un cesto del bucato delle lenzuola che si erano aggrovigliate su se stesse, tentando di districare i nodi. Belle la osservò armeggiare rabbiosamente per qualche minuto, chiedendosi se fosse il caso di andare in suo aiuto oppure no. Era incinta, non avrebbe dovuto agitarsi in quel modo, per delle lenzuola, poi!; ma era anche vero che lei si era rifugiata proprio nell’angolo più remoto del ponte di terza classe affinché nessuno la scoprisse mentre stava piangendo, e aveva un livido all’altezza dello zigomo che avrebbe di gran lunga evitato di mostrare al pubblico.
A farla decidere di intervenire fu un gemito di dolore della ragazza; Belle la vide lasciar cadere a terra le lenzuola per poi piegarsi in due, stringendosi il ventre con le mani.
Non ci pensò più e corse verso di lei, afferrandole un braccio.
- Siediti!- soffiò, tentando di farla accomodare su uno sgabello poco distante.
- No…- ansimò la bionda.- Non è niente…sto bene…
- No che non stai bene!- protestò Belle.
La bionda scosse il capo; le due ragazze udirono dei passi avvicinarsi di corsa. Prima che Belle potesse sollevare il capo per vedere chi fosse, una ragazza di circa vent’anni, con un incarnato pallido e dei capelli neri tagliati molto corti, stretta in un modesto abito marroncino e uno scialle sulle spalle si precipitò verso di loro, prendendo l’altro braccio della bionda e passandole una mano dietro la schiena, aiutando Belle a metterla seduta.
La bionda sbuffò, quindi fece dei profondi respiri, ansimando finché il suo fiato non tornò regolare.
- Grazie…- soffiò, regalando uno sguardo grato prima all’una poi all’altra.
- Ti senti male?- fece la mora, preoccupata.- Vuoi che chiamiamo un medico?
- No, non ce n’è bisogno…- ribatté la bionda, cupa, tentando di rimettersi in piedi.- Grazie per l’aiuto…ora lasciatemi finire di stendere il bucato…
- Assolutamente no!- disse Belle, categorica, trattenendola.- Sei incinta, non dovresti nemmeno essere qui a spaccarti la schiena…
- Non può farlo Sean?- s’informò l’altra ragazza. La bionda scosse il capo. - Dov’è ora?
- In cabina. Era stanco, ho preferito lasciarlo dormire…
- Non è un buon motivo per fare questi sforzi nelle tue condizioni!- fece Belle.
- Ha ragione, Ashley…- soffiò la mora.
Belle la guardò.
- Sei sua sorella?- domandò.
- Oh, no!- fece l’altra.- No, io…ci siamo conosciute sul ponte il giorno della partenza…- le tese una mano. - Io sono Mary Margaret Blanchard. Lei è Ashley. Ashley Herman.
- Ashley Boyd, a dire il vero - la corresse la bionda.- Futura signora Herman, si spera.
A Belle bastò quella semplice frase, più una rapida occhiata agli abiti della ragazza e al suo pancione per capire al volo la situazione.
- E tu?
- Belle French, molto piacere di conoscervi - sorrise la ragazza.
- Belle…- ripeté Ashley.- Che nome carino…- commentò, accarezzandosi il pancione.
Belle e Mary Margaret la guardarono.
- Era una doglia, quella?- fece la bruna, chinandosi un poco.
Ashley annuì; gli occhi le si riempirono di lacrime.
- E’ la seconda…- soffiò, con la voce rotta.- Due giorni fa ne ho sentita un’altra…
- E’ normale, al nono mese di gravidanza…- tentò di rassicurarla Mary Margaret, accarezzandole una mano. - L’importante è che non siano troppo ravvicinate…
- Lo so - singhiozzò Ashley.- Ma vuol dire che manca poco…
Belle s’inginocchiò accanto a lei, posandole una mano sulla spalla.
- Sta’ tranquilla - sussurrò.- Non c’è nulla di cui preoccuparsi…c’è il medico di bordo, nel caso il bimbo decidesse di nascere durante il viaggio. Ci penseremo noi due ad avvertirlo…- aggiunse, scoccando un’occhiata d’intesa a Mary Margaret, la quale annuì con decisione.
- Grazie…- Ashley si asciugò le lacrime, ma la sua voce rimase incrinata.- Scusatemi, voi siete state così gentili, e io…scusate…è che…Dio, è tutto così complicato!- singhiozzò.
Mary Margaret le cinse le spalle con un braccio.
- Ho una paura del diavolo, dannazione!- esclamò Ashley.- Non voglio che il bambino nasca a bordo…Non è giusto. Non può nascere qui, non voglio che la prima cosa che veda sia una schifosa cabina di terza classe dove ci sono i topi e…
- Vedrai che andrà tutto bene…- provò a dire Belle, mordendosi il labbro inferiore.
- Non si merita tutto questo! Che colpa ne ha lui se sua madre è una puttana?!- sbottò Ashley. Mary Margaret la guardò, scandalizzata.
- Ashley, ma che dici?!- la rimproverò.- Tu non sei una puttana!
- E invece sì! Come la chiamereste voi una cameriera che si fa mettere incinta dal figlio del padrone di casa senza essere sposata?- singhiozzò la bionda.- E’ colpa mia se siamo in questo stato! Il padre si Sean ci ha sbattuti fuori, la sua famiglia l’ha allontanato, io sono incinta, ci siamo venduti anche i capelli per questo schifo e non sappiamo nemmeno se a New York riusciremo a…- Ashley s’interruppe, riprendendo a singhiozzare, incapace di continuare.
Le altre due ragazze si guardarono negli occhi, incerte su cosa fare.
- Tutto si sistemerà per il meglio, vedrai!- dichiarò infine Belle.- Sono sicura che a New York tu e il tuo fidanzato riuscirete a trovare una casa e un lavoro. Il piccolo starà bene, sta’ tranquilla…- Belle le sorrise, un po’ rincuorata quando vide che Ashley aveva smesso di piangere.- D’altronde, se dicono che l’America è il luogo delle grandi occasioni, ci sarà un perché, no?- quest’ultima frase, oltre che per Ashley, la pronunciò anche un poco per se stessa.
La bionda annuì, abbozzando un sorriso. Mary Margaret guardò le due ragazze: i loro abiti e il loro atteggiamento rivelavano molto di loro. Così come Ashley, anche quella Belle French doveva viaggiare in terza classe. Indossava un semplice abito azzurro un po’ sgualcito, ma comunque dignitoso. E, se si trovava su quella nave, certamente e a maggior ragione se viaggiava in terza, non doveva essersi lasciata alle spalle una realtà molto felice, e stava andando incontro a un futuro incerto. Mary Margaret si sentì improvvisamente in colpa: dopo che la sua matrigna l’aveva cacciata di casa, anche lei si era dovuta rimboccare le maniche e darsi da fare, ma ora se non altro sapeva di stare andando incontro a una vita migliore.
Per Belle e Ashley, invece, il futuro era un’incognita spaventosa. Non sapevano cosa le avrebbe aspettate a New York: l’una aveva sulle spalle anche la responsabilità di un bambino, e l’altra…beh, a giudicare da quel vistoso livido all’altezza dello zigomo, neppure ora doveva avere vita facile.
Mary Margaret fece un cenno a Belle, ed entrambe aiutarono Ashley a rialzarsi.
- Ora ti riaccompagniamo alla tua cabina…- disse Belle.
Ashley aprì la bocca per protestare.
- Poche storie!- la liquidò Mary Margaret prima che potesse dire alcunché. La bionda richiuse la bocca, rassegnata; Belle si lasciò sfuggire una risatina divertita.
La mora la guardò.
- Se non sono indiscreta…posso chiederti cosa hai fatto all’occhio?- chiese.
Belle arrossì vistosamente, distogliendo lo sguardo.
- Nulla…- soffiò.- Ho…ho sbattuto contro la porta della mia cabina…- balbettò, raccontando la prima scusa che le venne in mente. Sperò vivamente che la mora ci credesse e non le facesse più domande. Non poteva certo dire che la promessa di suo padre di gonfiarla di botte era stata mantenuta.
Aveva lasciato il signor Gold quando si era assicurata che stesse meglio, e se ne era tornata in seconda classe, ben decisa a non avere più alcun contatto con quell’uomo. Le aveva procurato solo guai, da quando l’aveva incontrato.
Tuttavia, non aveva fatto in tempo ad aprire la porta della cabina che Moe le era volato addosso, per nulla dimentico delle minacce di quella mattina. Fortunatamente non aveva scoperto con chi era stata tutto quel tempo, ma il fatto che lei fosse andata a chiedere scusa a Gold per il loro litigio gli bruciava ancora. L’aveva riempita di schiaffi e pugni, prima di uscire dalla cabina e abbandonarla distesa sul pavimento. A quel punto, Belle era scappata sul ponte per poter piangere in pace.
Moe ormai non era più gestibile, su nessun fronte. Belle si chiese se non fosse meglio per lei lasciarlo al suo destino e andarsene non appena fossero giunti a New York, ma subito si rimproverò per quel pensiero, vergognandosi di se stessa. Era pur sempre suo padre, in fondo! Gli voleva bene, e non poteva abbandonarlo. E poi, se anche l’avesse fatto, Moe l’avrebbe subito trovata e allora sì che sarebbero stati dolori.
Una volta, quando aveva sedici anni e sua madre era ancora viva, Belle aveva provato a scappare di casa. Suo padre aveva alzato le mani su sua madre e su di lei, ma Mary French, invece di difendere entrambe, si era limitata a subire passivamente, prendendo addirittura le difese di Moe quando Belle aveva tentato di ribellarsi a lui. A quel punto, non ce l’aveva fatta più ed era scappata.
Era stata una fuga abbastanza stupida, la sua. Si era limitata a divincolarsi dalla presa di suo padre e a uscire dalla porta d’ingresso più veloce del vento. Senza aver programmato nulla, senza aver preso con sé un po’ di denaro, o di cibo o vestiti. Sapeva che non sarebbe andata troppo lontano, con quella fuga improvvisata. Eppure, era riuscita a giungere fino a quasi il confine di Southampton, ai bordi della periferia dove viveva. Qui, però, un amico di suo padre l’aveva riconosciuta, riacciuffata e riportata a casa.
Casa da cui Belle era riuscita a uscire reggendosi sulle sue gambe solo una settimana dopo, con le braccia e i polpacci illividiti dalle cinghiate.
Non c’era speranza, per lei, di lasciare Moe. Tutto quello che doveva fare, in quel momento, era cercare di non farlo infuriare. E soprattutto, stare lontana dal signor Gold.
 

***

 
Regina Mills non era per niente felice che suo figlio intrecciasse delle amicizie con la feccia della terza classe, ma aveva deciso di lasciar correre dal momento che si trattava di una situazione temporanea. Con ogni probabilità, una volta giunti a New York, Henry non avrebbe mai più rivisto quella bambina.
- Signorina Swann, io ho un appuntamento con il signor Andrews e il capitano Smith fra dieci minuti. Confido che lei sarà in grado di badare a mio figlio e alla sua…amica per un paio d’ore - fece, scoccando un’occhiata a Grace, un’occhiata che comprendeva anche il suo abitino di seconda mano e le scarpette lise.
Emma annuì.
- Certamente, signora Mills.
- Bene, allora. Capitano, Graham, vogliamo andare?- propose Regina, ammiccando in direzione del capitano. Graham fece un sorriso forzato, offrendole il braccio.- Ci vediamo fra un paio d’ore. Divertiti, Henry!- augurò, prima di allontanarsi.
Graham voltò il capo, scoccando un’occhiata rassegnata e disperata a Emma, la quale trattenne un risolino.
Henry scoccò un’occhiata di sottecchi a Grace: la bambina si guardava intorno con gli occhi sgranati, sussultando di meraviglia ogni volta che il suo sguardo incrociava il lungo tappeto rosso o le lampade di cristallo nel corridoio di prima classe. Quando Emma aprì la porta della cabina perché potessero entrare, il suo stupore raggiunse vette inesplorate, tanto che Henry temette fosse sul punto di svenire.
Quando il suo nuovo amico l’aveva invitata nella sua cabina per giocare, Grace aveva cercato di figurarsi come fosse la prima classe. Se l’era immaginata grande, almeno due o tre volte di più della stanzetta che condivideva insieme a suo padre a bordo del Titanic, ma la sua fantasia si era fermata lì.
E invece…
- Questo è un castello, non una cabina di una nave!- commentò, seguendo Henry come un cagnolino mentre lui la guidava in quella che era la sua camera. Emma sorrise.
- Fate i bravi, d’accordo?- fece, ricevendo un affermativo e sbrigativo cenno del capo da parte di suo figlio.
Henry e Grace sgattaiolarono nell’altra stanza, lasciandola sola.
 

***

 
Il sole stava tramontando.
Mary Margaret si appoggiò alla balaustra della nave, chiudendo gli occhi e lasciando che il vento della sera le scompigliasse i corti capelli neri. Aveva aiutato Belle a riaccompagnare Ashley nella sua cabina, ma la ragazza non aveva voluto dire nulla al suo fidanzato, e le aveva implorate con lo sguardo di tacere. Mary Margaret non riusciva a comprendere il perché di tutti questi sotterfugi; era sempre stata dell’idea che non si dovesse nascondere nulla alla persona che si amava, specialmente se di mezzo c’era anche un bambino. Si chiese se anche lei un giorno avrebbe mai avuto un figlio.
- Mary Margaret!
La ragazza si voltò al sentirsi chiamare, ma ancor prima di vedere chi fosse aveva già riconosciuto la voce. Si costrinse ad aprirsi in un sorriso che voleva essere nulla più che educato, quando vide David Nolan correrle incontro.
- Buona sera, signor Nolan - salutò cortesemente.- Come sta sua moglie?
Il sorriso di David si gelò all’istante. Ignorò la domanda.
- Credevo che avessimo stabilito di darci del tu…
- Non ricordo questo particolare.
- Beh, in tal caso, cominciamo da ora!- David sorrise, imbarazzato.
Mary Margaret annuì, guardandosi intorno alla disperata ricerca di un argomento di conversazione.
- Uno splendido tramonto, non trovi?- buttò lì dopo qualche istante.
- Già…davvero molto bello…
David Nolan aveva tutta l’aria di una tigre in gabbia. Ci vollero diversi istanti di silenzio, imbarazzato da una parte e sostenuto dall’altra, prima che si decidesse a parlare.
- Spero di non aver fatto nulla che ti abbia offesa…- mormorò.- Se è così, allora permettimi di dirti che non è stato affatto…
- Dipende cosa intendi per offesa - lo freddò Mary Margaret.- Se con questo vuoi dire l’avermi invitata a pranzo ed essere stato gentile con me, allora no. Se invece ti riferisci al fatto che mi stai corteggiando pur avendo una moglie che ti attende da qualche parte, in questo caso…
- Mi dispiace!- si affrettò a dire David.- E’ che…vedi…- balbettò, imbarazzato.- Fra me e mia moglie le cose non vanno molto bene…
- E corteggiare un’altra donna ti sembra il modo migliore per far funzionare il vostro rapporto?
- No! Voglio dire…non è così semplice come sembra…- spiegò.- Vedi, qualche tempo fa io…sono stato malato.
Mary Margaret sgranò impercettibilmente gli occhi.
- E…beh, la mia memoria ne ha risentito - proseguì David.- Non riesco a…non riesco a ricordarmi di Kathryn. Non riesco a ricordare come ci siamo conosciuti, il giorno del nostro matrimonio…non ricordo nemmeno perché le ho chiesto di sposarmi…cosa mi ha fatto innamorare di lei…
Mary Margaret non rispose, chinando il capo. Quello era tutto un altro paio di maniche; la situazione cambiava. Ma ciò non voleva dire che lei dovesse ridursi alla stregua di una concubina. David Nolan…beh, doveva ammettere che la faceva sentire strana. Come non si era mai sentita accanto a un uomo. Ma lui era sposato, e lei rimaneva pur sempre una donna onesta.
- Forse, se provassi a stare un po’ di più con lei…
- Perché credi che abbiamo deciso di intraprendere questo viaggio?- fece David, tristemente.- E’ l’ultima possibilità per salvare il nostro matrimonio.
- E allora non dovresti sprecarla insieme a me!- sbottò Mary Margaret, voltandosi e iniziando ad allontanarsi. Udì i passi di corsa di David Nolan raggiungerla alle spalle, e si sentì salire le lacrime agli occhi.
- Mary Margaret, aspetta!- chiamò l’uomo; la raggiunse, facendola voltare affinché lo guardasse negli occhi.- Non è come pensi…- soffiò.- Io…io non sto con te per fare un dispetto a mia moglie, o…
- Ah! Allora ammetti quello che stai cercando di fare!- sbottò Mary Margaret, divincolandosi.- Tu devi starmi lontano, David!- fece, con la voce incrinata.- Non possiamo fare questo! E’ sbagliato! Lo capisci, questo?
David scosse il capo, avvicinandosi a lei.
- E’ sbagliato amare qualcuno?
Senza che Mary Margaret si opponesse, le prese il volto fra le mani e la baciò; lei ricambiò il bacio, teneramente, imponendosi di non pensare alle conseguenze di ciò che stava facendo, mentre il sole tramontava sull’oceano.
 

***

 
- Mi sento come una principessa!- rise Grace, provandosi uno dei cappellini di Regina. Henry rise, liberandosi da uno dei corsetti della madre che aveva indossato fingendo che fosse un’armatura.
Era quasi sera, e Grace gli aveva detto che suo padre la rivoleva in cabina prima dell’ora di cena. Avevano trascorso un bel pomeriggio, insieme, a ridere e giocare. Henry non aveva mai visto una bambina più meravigliata di Grace di fronte a tutte quelle cose.
La sua nuova amica aveva trascorso più di mezz’ora solo a guardarsi intorno con aria stupita e spaesata, e quando avevano iniziato a giocare prendeva in mano i suoi balocchi come se temesse di romperli.
Era chiaro che in tutta la sua vita non avesse mai nemmeno visto cose del genere. E ora, di fronte agli abiti eleganti di sua madre, si sentiva come una principessa.
Henry ebbe un’improvvisa idea. Si alzò dal pavimento, volgendo lo sguardo poco più distante, sulla cassaforte della cabina. Sua madre teneva là dentro tutti i gioielli e gli oggetti di valore; in genere la chiudeva a chiave, ma quel giorno aveva affidato questo compito a Emma. E a Henry non pareva di averla vista armeggiare con il lucchetto.
Fece cenno a Grace di seguirlo; la bambina ubbidì, sconcertata, con ancora il cappellino sul capo. Henry afferrò una sedia e vi salì, gioendo quando trovò la cassaforte aperta. Aprì lo sportello.
- Che stai facendo?- s’informò Grace, bisbigliando; non sapeva perché, ma aveva la sensazione che stessero facendo qualcosa di proibito.
- Ti faccio sembrare una vera principessa!- ridacchiò Henry.
Grace lo guardò senza capire; il bambino saltò giù dalla sedia: in mano reggeva una splendida collana con un medaglione in cui era incastonata una pietra preziosa blu scuro. Gli occhi di Grace brillarono.
- Wow!- sospirò.- E’ un diamante, quello?
- La mia mamma dice di sì…- fece Henry.- Dice che si chiama il cuore dell’oceano. Dai, voltati, vediamo come ti sta…
Grace ridacchiò, ubbidendo. Henry armeggiò un po’ con il gancetto, prima di riuscire ad allacciarle il gioiello al collo. La bambina saltellò di felicità.
- Stai attenta, mia madre ci tiene molto…- sussurrò Henry.
- Che bello!- esultò Grace.- Ora mi sento davvero una principessa…
Henry sorrise, imbarazzato.
- Chissà cosa dirà il mio papà quando glielo racconterò…
 

***

 
Mary Margaret chiuse la porta alle sue spalle, scendendo le scale che conducevano alla seconda classe.
- Che piacere rivederla, signorina Blanchard!- esclamò una voce alle sue spalle.
Mary Margaret si voltò, incrociando gli occhi grigi e il sorrisetto beffardo del dottor Whale. La sua espressione un secondo prima sognante si tramutò in vero e proprio fastidio.
- Dottor Whale - salutò, con un cenno del capo.- Ero convinta che lei viaggiasse in prima…
- E’ così, infatti. Ma a quanto pare parecchia gente qua sopra soffre il mal di mare. Temo che il mio viaggio di piacere si sia trasformato in una trasferta di lavoro…
- Sono desolata - fece Mary Margaret in tono puramente cortese, prima di riprendere a scendere le scale.
- Non si può dire lo stesso di lei…
Mary Margaret si gelò; si voltò lentamente, squadrandolo come se volesse ucciderlo.
- Prego?
- Il signor Nolan sta allietando il suo viaggio, mi pare di aver capito…- ghignò il dottor Whale. Mary Margaret arrossì vistosamente, guardandolo con rabbia mentre risaliva velocemente le scale andandole incontro.
- Mi ha spiata?!
- Assolutamente no, signorina Blanchard. Udire casualmente una conversazione non significa spiare.
- Beh, la prossima volta le sarei infinitamente grata se rivolgesse la sua attenzione uditiva da qualche altra parte!- ringhiò Mary Margaret; quell’individuo non le era piaciuto sin dal primo momento che si era presentato, e ora il fatto che fosse a conoscenza dei suoi affari la irritava. Si trattava di questioni private, dopotutto…
…oppure era solo coscienza sporca?
Il dottor Whale smise immediatamente il suo sorriso, assumendo un’aria tanto dispiaciuta da apparire quasi sincera.
- Chiedo scusa, signorina - disse, con un lieve cenno del capo. - Non intendevo impicciarmi od offenderla.
Mary Margaret non rispose, indecisa se andarsene o no.
- Ma…- aggiunse un attimo dopo il dottor Whale.- Mi permetta di darle un consiglio…- si schiarì la voce.- Conosco gli uomini come il signor Nolan…e ammetto che anche io stesso faccio parte della categoria. E ho visto cosa succede alle giovani che si imbarcano in storie come questa. Stia attenta, signorina Blanchard…
Mary Margaret arrossì nuovamente, stavolta di rabbia.
- Ma come si permette, lei, di dirmi cosa devo o non devo fare?!
- E infatti non le sto dando un ordine. Il mio è solo un consiglio - il dottor Whale la guardò.- Lei sa che questa storia non ha futuro, signorina Blanchard. Lasci perdere, finché è in tempo. Lo dico per il suo bene.
- Può tenersi i suoi consigli per sé, grazie!- ringhiò Mary Margaret. Si voltò, riprendendo a scendere le scale, stizzita, lasciandosi il dottor Whale alle spalle.
 

***

 
Regina Mills si sentì parecchio sollevata quando, rientrando nella sua cabina al braccio del capitano Graham, non trovò più l’amica di Henry. Annotò mentalmente di tenere un discorsetto a suo figlio sui criteri con cui scegliersi le amicizie.
Vi trovò invece il bambino e la sua tata, più una cameriera con lunghi capelli castani che aveva appena terminato di sistemare su un tavolino l’occorrente per un leggero thé prima della cena.
Regina sorrise, liberandosi dei guanti di pizzo bianco.
- Cielo, è stato più tedioso di quanto immaginassi!- commentò.- Non è vero, capitano Graham?
- In effetti, non ho avuto il piacere di ascoltare nulla di diverso rispetto a quanto detto durante la chiacchierata di stamattina…- convenne l’uomo.
- Quanto ha ragione! Dico io: sappiamo tutti che il Titanic è inaffondabile, che bisogno c’è di ricordarcelo a ogni frase?- rise Regina.- Lei che ne pensa, signorina Swann?
Emma fece un piccolo sorriso, annuendo lievemente in segno di assenso. Graham le scoccò un’occhiata complice.
- Ah, signorina Swann, dimenticavo di dirglielo!- fece d’un tratto Regina.- Domattina io e mio figlio ci recheremo a messa, dopodiché Henry pranzerà con me. Può ritenersi libera fino alle tre del pomeriggio.
- Grazie, signora Mills.
- Lei parteciperà alla funzione, capitano?
- Desolato, signora Mills, ma il dovere mi chiama altrove, domani - rispose Graham.
- Oh, che peccato!- esclamò Regina.- Posso contare allora di averla con noi per il thé?
- Naturalmente. Sarà un vero piacere. Ora, scusatemi, ma devo proprio scappare. Buona notte, signora Mills. Signorina Swann, Henry - Graham fece un cenno con il capo a tutti e tre in segno di saluto.
- Aspetti, capitano! L’accompagno alla porta - si offrì Emma, guadagnandosi uno sguardo compiaciuto da parte di Regina. Chissà, pensò, forse ambiva a trasformarla in una cameriera…
Emma accompagnò Graham fino all’uscita. Il capitano avvicinò il proprio volto al suo, prima che Emma chiudesse la porta.
- A dire il vero, non c’è alcuno dovere che mi chiama, domani - sussurrò.- Semplicemente non amo molto le litanie e le prediche apocalittiche. Sono libero fino a…diciamo, le tre del pomeriggio - ridacchiò.- Mi piacerebbe godere della sua compagnia, prima che io debba recarmi a un tedioso thé.
Emma annuì, sorridendo, prima di chiudere la porta.
 

***

 
Regina congedò la cameriera con un gesto della mano. La ragazza fece una breve riverenza in segno di saluto, sistemando brevemente il vassoio dei biscotti prima di uscire.
Regina la guardò avviarsi verso l’uscita. Sgranò gli occhi, quando la vide lasciar scivolare nella tasca del grembiule un paio di biscotti al cioccolato.
Anche le cameriere ladre!, pensò, scandalizzata.
 
Angolo Autrice: Innanzitutto, mi scuso per il ritardo, ma ho in corso anche un’altra long in questo fandom, oltre ad altre quattro da altre parti, e sto cercando di aggiornare in ordine cronologico per evitare attese troppo lunghe. Chiedo scusa anche ai recensori per il fatto di metterci sempre dei secoli a rispondere alle recensioni, ma purtroppo è un periodo pieno e ho poco tempo per tutto.
Passiamo ora al capitolo: dunque, niente Rumbelle, ma il prossimo capitolo sarà Rumbellissimo, prometto. La cameriera alla fine del capitolo era Ruby…non si capiva? *piange*. Per quanto riguarda la parte su Henry e Grace, forse li ho resi un po’ troppo adulti…ho cercato di mantenerli più bambini possibile, scusate se non ci sono riuscita…
Dunque, nel prossimo capitolo avremo, come anticipato, 12 aprile, Astrid e Leroy e principalmente Hunter Swan e Rumbelle, con anche un pochino di Red Cricket…e in più avremo un gruppetto di persone che si troveranno a interagire tutte insieme: Moe, Belle, il signor Gold, Archie, August, Ruby e Graham…che succederà? Si accettano scommesse XD.
Detto questo, incrociamo le dita per Lacey e, per chi shippa Rumbelle, affinché Belle recuperi la memoria entro la season 2…perché non so voi, ma io personalmente non credo di farcela a restare in questo stato fino alla season 3 (l’hanno confermata, whaaaaaaaaa!!!!!!!! XD).
Ringrazio chi ha aggiunto la storia alle seguite, alle ricordate e alle preferite e jarmione, TheHeartIsALonelyHunter, The_Rabbit_Hole, Ginevra Gwen White, nari92, historygirl93, Lety Shine 92, LadyAndromeda e Lady Deeks per aver recensito.
Ciao, al prossimo capitolo!
Dora93

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Capitolo 8
*** 12 aprile 1912 - Una vita sottile ***


Se c’era una cosa che Regina Mills non tollerava, era l’interazione fra persone appartenenti a classi sociali diverse – se tutto il pandemonio che ne risultava potesse veramente essere definito come interazione, nel senso socialmente civile e rispettoso che questo termine possedeva.
Stava iniziando a pentirsi di aver voluto partecipare alla messa, quella mattina. Il capitano Smith le aveva confermato che il privilegio di poter assistere a una funzione religiosa era riservato solo ai passeggeri di prima classe – e non avrebbe potuto essere altrimenti, Regina riteneva, dal momento che non riusciva neppure a figurarsi la gentaglia di seconda e terza tutta agghindata in atteggiamento serio e compunto mentre ascoltava in perfetto silenzio una predica domenicale. Una situazione simile sarebbe certamente degenerata in una scena da circo, come minimo.
In ogni caso, la signora Mills quella mattina aveva condotto suo figlio per mano sino alla cappella di prima classe, sicura che avrebbe trovato intorno a sé esclusivamente persone danarose e di gran classe; aveva avuto ragione solo in parte.
Proprio di fronte a lei, infatti, erano seduti un uomo e una donna, chiaramente provenienti da uno dei bassifondi della nave; bisbigliando con una signora a suo fianco, era venuta a sapere che la donna – che doveva avere al massimo venticinque anni, non più, molto graziosa, Regina doveva ammettere, con un viso fresco e pulito incorniciato da lunghi capelli castani raccolti in una crocchia – viaggiava in seconda classe, ma le era stato accordato il permesso di partecipare alla messa mattutina dal pastore in persona, in quanto era destinata a una vita monacale in un prestigioso convento di New York.
Regina fece una smorfia: suora o no, si vedeva lontano un miglio che quella giovane donna apparteneva alla feccia della società – no, non proprio, la vera feccia stava in terza classe, ma restava comunque il fatto che non sarebbe stata degna di lucidarle le scarpe. Indossava un semplice abito grigio chiaro, lungo fino alle caviglie, scarpe di mediocre fattura, probabilmente recuperate in qualche baule destinato ai poveri e una mantella blu scuro sulle spalle, dello stesso colore dei suoi guanti sgualciti.
Aveva proprio l’aspetto di una monaca, Regina osservò: viso pulito, sguardo sognante, e sorriso da santarellina.
Quanto all’uomo accanto a lei, la signora Mills non era riuscita a raccogliere informazioni a riguardo, ma sospettava fosse un ospite della suorina – un ospite assai poco illustre e che per giunta pareva annoiarsi a morte, là dentro.
Regina diede una gomitata a Henry, redarguendolo con uno sguardo severo non appena si accorse che suo figlio, invece che prestare attenzione alla predica o quantomeno fingere di ascoltarla, stava irrispettosamente soffocando una risata alla vista della testa dell’uomo che pendeva ciondoloni per il sonno; proprio quando Regina ed Henry temettero che stesse per crollare irreversibilmente in avanti, questi parve riscuotersi e subito spalancò gli occhi scuotendo il capo, fingendo di non aver perso una sola sillaba di quanto il pastore stava dicendo. La suora non parve essersi accorta di nulla.
Regina lanciò a Henry un’occhiata che troncò sul nascere l’ennesima risatina, prima di alzare gli occhi al cielo: a quali scene le toccava assistere!
Se fosse stata lei a capo di quella nave, pensò, non avrebbe permesso simili situazioni, come due persone che, pur avendo acquistato dei biglietti che non erano di prima classe, usufruissero ugualmente dei servizi riservati a quest’ultima; anzi, a dire il vero, lei non avrebbe neppure tollerato la presenza a bordo di passeggeri che non fossero di prima classe.
Ma in tal caso a quest’ora anche tu saresti ancora a Southampton, sussurrò una vocina maligna nella sua testa, che Regina si affrettò subito a scacciare.
Lei era diversa. Lei aveva tutto il diritto di trovarsi dove si trovava in quel momento. Poco importava se era una nuova ricca, come l’avrebbero definita le signore bigotte e perbeniste dell’alta società, se avessero scoperto la verità; poco importava se non fosse nobile di nascita o il suo patrimonio non appartenesse alla sua famiglia da generazioni.
Nessuno sapeva la verità; tutti la trattavano con il rispetto e la deferenza che le erano dovuti, e questo era ciò che contava. Lei non era come i poveracci di terza classe.
Non più.
Per l’ennesima volta nella sua vita, Regina si trovò a pensare quanto sua madre avesse avuto ragione su tutto; sin da quand’era piccola, non faceva altro che ripeterle che un giorno sarebbe divenuta ricca e facoltosa, e così era stato.
Sua madre ce l’aveva messa davvero tutta, affinché ciò si avverasse.
Regina ripensò a sua madre, Cora Mills, scomparsa quindici anni prima a seguito di un attacco di cuore. Era successo tutto all’improvviso: nessuno di loro, né lei né suo padre, era a conoscenza del fatto che Cora soffrisse di cuore. Forse nemmeno lei lo sapeva. Era avvenuto molto in fretta: sua madre si era alzata una mattina accusando un malessere e una fiacchezza che non aveva saputo spiegare; aveva continuato così per tutto il giorno, rifiutandosi di chiamare un medico e ringhiando che stava bene, fino a che, nel tardo pomeriggio, si era portata una mano all’altezza del cuore con un gemito soffocato, ed era crollata a terra. Avevano cercato di soccorrerla, ma era stato tutto inutile: Cora era morta in capo a pochi minuti.
Era stata una fine rapida, tutto sommato, e lei non aveva sofferto; ma Regina non era riuscita a capacitarsi del fatto che una donna forte ed energica come sua madre potesse essere morta a causa di un male riservato generalmente alle persone deboli.
Cora era sempre stata la mente, la forza, e il braccio di tutta la casa. Regina ricordava sempre che, ai tempi della scuola, se le sue compagne di collegio raccontavano che il loro padre aveva messo a tacere la madre con un ceffone, lei si figurava sempre nella mente l’immagine di Cora che schiaffeggiava Henry. Oh sì, sua madre ne sarebbe stata più che capace e suo padre non si sarebbe neppure opposto…anche se, pensandoci bene, se non erano mai arrivati a quel punto un motivo ci doveva essere.
E il motivo andava ricercato nell’eccessiva debolezza caratteriale di suo padre, nonché nella forza irradiante di sua madre.
Henry Mills senior non aveva mai nemmeno tentato di opporsi ai voleri e ai capricci della moglie, per quanto Regina riuscisse a ricordare. Suo padre di tanto in tanto avanzava qualche timida protesta, ma subito questa si estingueva in un soffio non appena Cora si rivoltava verso di lui come una vipera, ringhiandogli di lasciarla fare, sapeva esattamente cosa stava facendo, era in grado di risolvere la situazione da sola. Quand’era piccola non se ne rendeva ancora perfettamente conto, ma divenuta prima adolescente e poi adulta, Regina aveva iniziato a pensare che Henry e Cora, più che marito e moglie, erano più simili a un cagnolino e alla sua padrona.
Era stata una constatazione che le aveva dato i brividi…ma mai quanto l’aver scoperto, origliando per sbaglio una conversazione, della storia del loro matrimonio.
Henry e Cora non si erano sposati per amore…o perlomeno, se in quel rapporto era mai esistito dell’amore, questo era tutto dalla parte di suo padre. Regina sospettava che, in gioventù, Henry fosse stato veramente innamorato di Cora…innamoramento che era andato progressivamente scemando negli anni.
Ma certo era che Cora non aveva mai amato suo marito.
Regina li aveva sentiti discutere proprio di questo, una sera. Stando a quanto aveva compreso, sua madre, all’epoca figlia di un panettiere alcolizzato, aveva trovato lavoro nella filanda fondata e gestita da suo nonno, Xavier Mills…un uomo da cui suo figlio aveva preso solo il cognome e qualche tratto del viso. Secondo tutte le dicerie, Xavier Mills era un imprenditore di pochi scrupoli, specialmente se di mezzo c’era del denaro. Non era per niente magnanimo né con i sottoposti né tantomeno con i dipendenti, parecchio restio quando si trattava di pagare loro lo stipendio e despota in ogni senso.
Cosa avesse notato in Cora, solo il cielo lo sapeva.
Regina non aveva colto molti particolari riguardo a questo fatto, durante quei mozziconi di conversazione, ma sospettava che per qualche tempo sua madre fosse stata l’amante di Xavier. Cosa fosse accaduto, in seguito, cosa l’avesse spinta a voltare le spalle al vecchio imprenditore per rivolgere le sue attenzioni all’insipido figlio, restava un mistero.
L’unica cosa certa era che Cora aveva avuto tutto da guadagnarci, da quella faccenda.
Intrattenendo prima una relazione con Xavier, e sposandone poi il figlio, aveva iniziato la sua scalata sociale. Da operaia figlia di un ubriacone era divenuta prima amministratrice della filanda, fino a prenderne le redini alla morte di Xavier, prima affiancando ma ben presto sostituendo completamente Henry, che non aveva mai avuto troppo interesse né bravura in quel campo.
Cora le ripeteva sempre che nella vita ciò che contava era il denaro. Se hai denaro, le diceva, allora hai prestigio, e se hai prestigio hai potere, e con il potere hai il mondo ai tuoi piedi.
Regina aveva trascorso il periodo fra i sei e i tredici anni in un collegio di suore francesi lontana da casa, ritornandovi solo per brevi periodi in occasione del Natale o delle vacanze estive; quando era cresciuta ed era ritornata definitivamente a Southampton, sua madre aveva preteso che fosse educata in casa, da istitutori privati. Di università, però, non ne aveva neppure voluto parlare.
A che serve l’università, se non a trovare un buon marito?, aveva detto un pomeriggio di fronte a una tazza di thé, con il solito tono di chi ha tutta l’intenzione di liquidare la faccenda alla svelta. A quello penserò io.
Sua madre era alla ricerca di un partito facoltoso per sua figlia, magari un imprenditore che potesse prendere in mano le redini della catena di filande a cui aveva dato vita. Quello, forse, era l’unico obiettivo nella vita che non era riuscita a raggiungere.
Regina Mills non si era mai sposata. Aveva rinunciato al matrimonio dopo che il suo fidanzato, Daniel, era morto.
Daniel Stable, pensò, sentendo come sempre una stretta al cuore. Anche dopo tanto tempo, il dolore non era ancora cessato.
Daniel faceva parte di quella che sua madre, come lei stessa adesso, avrebbe chiamato feccia della società. Il punto era che Daniel non era feccia. Anzi, Regina aveva sempre pensato che lui fosse mille volte meglio di tutti i nobili e gli imprenditori che affollavano il salotto di casa Mills.
Poco importava che Daniel lavorasse come stalliere nelle scuderie della sua casa di campagna; poco importava se era figlio di operai; poco importava se scegliendo lui sarebbe andata contro il volere di sua madre e avrebbe gettato per sempre ogni possibilità di vivere da regina.
Ciò che importava veramente era Daniel. Daniel e lei. Nulla più.
Sua madre si era opposta con le unghie e con i denti, licenziando lui e minacciando di diseredare sua figlia, ma a nulla era servito. Daniel si era presto trovato un altro lavoro in un’acciaieria di Southampton, e stavano progettando di fuggire insieme, magari verso Londra o il continente…fino a quella maledetta sera.
La polizia non era mai riuscita a stabilire con esattezza come fossero andate le cose, né chi fosse il vero colpevole. Tre o quattro persone finirono in carcere, ma ne uscirono tutto sommato presto. Stando a quanto avevano raccontato alcuni testimoni – più o meno attendibili dato lo stato di ebbrezza in cui si trovavano –, era scoppiato un litigio poco distante da una taverna nei pressi del porto. Regina non aveva idea del perché Daniel si trovasse lì, probabilmente stava tornando dal lavoro, oppure era uscito con alcuni amici…fatto stava che, quando il litigio era degenerato in una vera e propria rissa, lui si era messo in mezzo per cercare di dividere chi era coinvolto. Poi, all’improvviso, uno dei rissosi aveva sfoderato un coltello, e l’aveva colpito dritto al cuore.
Il giorno del suo funerale – a cui aveva partecipato clandestinamente, grazie all’aiuto di una delle sue cameriere che le aveva coperto le spalle con sua madre – aveva giurato che gli sarebbe rimasta sempre fedele. E così era stato.
Regina aveva preso da sé le redini della catena di filande fondata dal nonno ed espansa dalla madre, rifiutandosi di sposarsi con chicchessia. Cora all’inizio aveva storto un po’ il naso, ed Henry aveva espresso tutte le sue paure sul fatto che sua figlia avrebbe avuto un futuro solitario, ma alla fine entrambi si erano arresi al fatto compiuto, tanto più che sua madre aveva ottenuto ciò che voleva: sua figlia faceva parte dell’élite.
Gli anni erano trascorsi senza che accadesse nulla di diverso dalla solita routine. Cora era morta quando lei aveva ventuno anni, ed Henry l’aveva seguita quattro anni dopo, vittima di un cancro.
A quel punto, Regina aveva davvero iniziato ad avvertire i morsi della solitudine.
Senza più i suoi genitori, senza più Daniel, la sua vita le appariva vuota e senza senso. Era stato per colmare quel vuoto, che aveva deciso di adottare Henry.
Le suore dell’orfanatrofio da cui l’aveva portato via le riferirono che la madre era una vagabonda poco più che diciottenne, che era arrivata lì, aveva partorito e se n’era andata pochi giorni dopo. Le avevano proposto di comunicarle il nome e il cognome, ma Regina non ne aveva voluto sapere; non le interessava della donna che aveva abbandonato quel bambino: ciò che le importava, in quel momento, era quel bimbo che sarebbe stato suo figlio, che avrebbe visto crescere e sposarsi, che l’avrebbe resa nonna.
Henry era la sua vita. E non avrebbe permesso a nessuno di portargliela via.
 

***

 
- Molto interessante il salmo sul cervo che si abbevera alla fonte, non trovi?- domandò Astrid, una volta che la funzione fu terminata, uscendo dalla cappella e dirigendosi tranquillamente verso la scala che conduceva alla seconda classe.
Leroy annuì, soffocando uno sbadiglio con un sorriso.
- Interessantissimo. Certo. Come no, il…il cervo…sì…l’ho trovato estremamente…ehm…simbolico - disse, non trovando aggettivo migliore.
- Oh, non ne dubito. Devo dedurre che il tuo russare fosse un segno di apprezzamento?
Leroy si gelò. Beccato!
Astrid lo guardò per un lungo istante, quindi scoppiò in una risata fragorosa.
- Perdonami…- borbottò Leroy, arrossendo vistosamente, desiderando di sotterrarsi all’istante.- Sono stato un incivile, lo so…
- No, niente affatto. Anzi, sono io a doverti chiedere scusa…- mormorò Astrid, non appena la risata si fu estinta.- Ti ho condannato a una vera tortura, lo confesso…Do sempre per scontato che a chiunque faccia piacere assistere alla messa domenicale, e invece…
- E’ solo che…- bofonchiò Leroy.- Non fraintendermi, io credo in Dio e tutto, ma…insomma, un conto è crederci e dire le preghiere una volta alla settimana, ma come si fa a volere solo questo per tutta la vita?
Astrid si strinse nelle spalle, lievemente imbarazzata. Leroy iniziò a insultarsi mentalmente per aver tirato fuori quell’argomento in modo così rozzo e indelicato.
- Non so spiegarlo…E’ qualcosa che senti…qui - Astrid s’indicò il petto, nel punto esatto dove si trovava il cuore.- E’ come…l’amore.
Leroy si sentì avvampare di nuovo.
- Cioè…è come se…tu sei mai stata innamorata?- buttò lì alla fine, vincendo l’impaccio.- Voglio dire, tu sei molto giovane…alla tua età dovrai pur aver avuto qualche cotta…
Astrid fece una piccola e imbarazzata risata.
- Ad essere sincera, sì. Ma mai nulla di serio. In fondo al cuore, ho sempre saputo di essere destinata ad amare solo Dio. E poi, non credo che avrei molte altre alternative…- aggiunse a mezza voce, il sorriso un poco smorzato. Leroy la guardò, sgranando gli occhi.
- Che intendi dire?
- Beh, è complicato - mormorò Astrid.- Sai, il convento dove intendo prendere i voti è sotto la direzione di mia zia. Lei è la Madre Superiora.
- Davvero?- fece l’uomo, nascondendo una smorfia. Forse stava iniziando a intuire quale fosse la verità, in tutta quella storia…
Astrid annuì, seria.
- Vedi, i miei genitori vivono in un quartiere di periferia di Southampton, e anch’io per i primi anni di vita sono stata con loro, ma…a farla breve, mio padre un giorno ha perso il lavoro e da allora il pane in tavola ha iniziato a scarseggiare, così mia zia si è offerta di prendermi con sé. All’epoca lei viveva ancora in Inghilterra ed era una novizia.
- Ti ha cresciuta lei, dunque?
- Oh, sì. E l’ha fatto nel migliore dei modi. Si è presa cura di me come una madre, mi ha dato affetto e un’educazione. Poi, quando avevo sedici anni, è dovuta partire per l’America, e io sono ritornata a vivere con i miei genitori fino a quando non fosse giunto il momento di raggiungerla.
- Raggiungerla?- fece eco Leroy.
Astrid annuì nuovamente.
- E’ stata lei a trasmettermi l’amore per Dio e la vita monastica. Mi diceva sempre che il più grande dovere e onore di un essere umano è servire Nostro Signore, e ha detto che avrebbe pensato lei a fornirmi il denaro necessario per prendere i voti, quando fosse giunto il momento.
- Quindi, hai espresso tu il desiderio di farti suora?
La domanda parve imbarazzarla più che mai. Astrid giocherellò nervosamente con i propri guanti.
- Io…più o meno. E’ una specie di promessa che le ho fatto. E poi, se anche volessi sposarmi, i miei genitori non avrebbero denaro per la mia dote.
- Ma tua zia sì!- esclamò Leroy.- Il denaro che verrà devoluto per il tuo noviziato potrebbe essere impiegato per una dote, dico bene?
Astrid ridacchiò.
- Non secondo mia zia…
- Perché?- fece Leroy, perplesso.- Non me ne intendo molto di queste cose, ma credo che la somma sia all’incirca…
- Non è la somma, il problema.
- E allora qual è?
- Beh, sai, lei è una donna molto rigida. Severa, con idee ben precise. E’ sempre stata convinta che fossi destinata a servire Dio, e poi…lei ritiene che il convento sia il luogo più adatto per me. Più sicuro - Astrid chinò il capo, sforzandosi di apparire serena.- Dice che il mondo, per una donna come me, è un posto pieno di rischi. E poi, non ho il fisico adatto per partorire bambini, e una volta che abbiamo sfiorato l’argomento “matrimonio”…
- ….lei ha detto chiaro e tondo che ti avrebbe lasciata al tuo destino se tu non avessi scelto la vita monastica - concluse Leroy, stavolta senza curarsi di apparire rude.
Astrid lo guardò come se le avesse appena dato uno schiaffo.
- Non prenderla nel modo sbagliato!- si affrettò a dire la donna.- Temo di essermi spiegata male…mia zia non è affatto una persona cattiva come può apparire, è solo…molto legata ai suoi principi. E poi, glielo devo. Mi ha cresciuta, il minimo che posso fare è ricompensarla prendendo a mia volta i voti e aiutandola a dirigere il convento.
- A me pare più un ricatto, che una ricompensa - borbottò Leroy.
Astrid si strinse nella mantella.
- No, non lo è. Io…Dio è la mia strada - dichiarò fermamente, rialzando infine il capo. - Mia zia vuole solo il meglio per me, e io voglio servire Nostro Signore.
L’uomo si sentì avvampare; Astrid si era innervosita, probabilmente quello doveva essere un tasto parecchio dolente. Leroy aveva poche certezze nella vita, ma una di queste in quel momento era che quella donna – una ragazza, aveva venticinque o ventisei anni al massimo – stava andando a rinchiudersi in un convento per tutta la vita, e tutto non perché aveva una vera vocazione, ma perché questa le era stata inculcata a suon di carezze e minacce velate da una zia il cui reale affetto era completamente da mettere in discussione.
Leroy fece una smorfia amareggiata, accorgendosi che era calato il silenzio. Gli dispiaceva che Astrid dovesse essere condannata a questa vita…ma forse lui poteva fare qualcosa.
Quel viaggio sarebbe durato ancora due giorni, quasi tre. Era una quantità di tempo sufficiente, per rendere i suoi ultimi giorni di libertà sereni. E forse, per farle capire che aveva un’infinità di altre opzioni, che non il convento…
- Ti…ti piacerebbe se ci vedessimo questa sera?- propose, balbettando un poco.- Ora devo tornare al lavoro, ma verso le sei del pomeriggio sono libero.
Sul volto di Astrid, con sommo sollievo dell’uomo, ricomparve un sorriso entusiasta.
- Ma certo! Che cosa facciamo?
Leroy fece spallucce.
- Decidi tu. Perché non c’incontriamo sul ponte, tanto per cominciare, e poi…beh, lasciamoci trascinare!
Astrid rise.
- Mi sembra un’idea meravigliosa!
 

***

 
Il signor Gold zoppicò fuori dalla cappella di prima classe, senza curarsi di nascondere il sollievo che la fine della funzione religiosa gli aveva trasmesso. Ancora non capiva perché si ostinasse ad andare a messa; non lo faceva poi così spesso, solo durante le occasioni più importanti, come ad esempio la cerimonia di mezzanotte la sera di Natale. E tutte le poche volte che ci andava, pregava in solitudine, senza unirsi agli altri o prestare attenzione alla predica. Pregava per il suo Baelfire.
Non che ce ne fosse bisogno: che dio era uno che non accoglieva al proprio fianco un ragazzino di quattordici anni?
Il signor Gold fece una smorfia amara. Valeva anche il contrario: che dio era uno che aveva il coraggio di chiamare a sé un ragazzino che si era appena affacciato alla vita?
Superò silenziosamente quella petulante signora Mills e suo figlio, sorridendo di soddisfazione e sollievo quando si accorse di non essere stato notato e quindi di aver scampato ogni rischio di venire trascinato in una conversazione tediosa e inutile.
Il ginocchio non gli faceva più male, osservò distrattamente. Quella ragazzina sarà anche stata una piaga della natura, ma aveva delle mani di fata: in genere, ci volevano giorni prima che il suo ginocchio smettesse di dargli noia. Invece, era bastato un po’ di ghiaccio e le cure di Belle perché…
Scosse il capo, riprendendosi. Come diamine aveva fatto a passare dalla signorina French a Belle così in fretta? E soprattutto, quando mai lei gli aveva detto come si chiamava? Doveva averlo sentito dire da qualcuno quando era sceso a patti con suo padre, sicuramente; in ogni caso, perché perdeva tanto tempo a pensare a lei?
Sospirò, dandosi mentalmente del vecchio idiota e salendo le scale che conducevano al ponte di prima classe: prima quel viaggio sarebbe finito, meglio sarebbe stato per lui e per tutti quanti.
 

***

 
- Strano.
- Che cosa?
- Che in prima classe venga detta messa e in seconda e terza classe no.
- Non l’hai ancora capito che noi restiamo i figli della serva anche per quello, Archie?- ridacchiò Ruby, raccogliendosi i capelli castani in una coda. Il dottor Hopper si aggiustò gli occhiali sul naso.
- Non mi sembra giusto. Insomma, di fronte a Dio siamo tutti uguali, no?
- A dire il vero, Gesù diceva beati gli ultimi, perché saranno i primi.
- Appunto.
Ruby rise, prendendolo sottobraccio.
- Quanti giorni mancano allo sbarco?- s’informò.
- Dovremmo arrivare a New York il quindici aprile…- mormorò Archie.- Ma stamattina ho sentito un tizio dire che il capitano ha ordinato l’attivazione di altre due caldaie…
- E…questo cosa vorrebbe dire?- fece Ruby, perplessa.
- Vuol dire che aumenteremo di velocità - spiegò Archie, pazientemente.
- Non avevo idea fossimo in ritardo.
- Non lo siamo, da quanto ho capito. Anzi, siamo in perfetto orario. Ma credo che questa sia una mossa per alzare l’opinione pubblica riguardo alle potenzialità della nave.
- E come?- Ruby non riusciva a comprendere fino in fondo quei discorsi; se erano in orario, perché andare più veloci? E poi, stavano per inoltrarsi in una zona dell’oceano in cui gli iceberg spuntavano da ogni dove come i fiori in primavera; non era piuttosto il caso di rallentare e di stare attenti?
- Beh, il Titanic gode di una fama che definire alta sarebbe un immeritato eufemismo - spiegò il dottor Hopper.- Si è sentito parlare di questa nave ancora da quando era in cantiere. Non è solo grande e lussuosa, dicevano, ma è anche molto veloce e potente, e addirittura inaffondabile. Arrivare a New York la sera del quattordici aprile, anziché la mattina del quindici, con un giorno di anticipo, sarebbe l’ennesima conferma di tutte queste dicerie.
- Inaffondabile?- fece eco Ruby. - Tu credi davvero che sia inaffondabile?
- No lo so. So solo che è fatta di viti e bulloni come tutte le altre navi - Archie gettò un’occhiata all’oceano.- Quello che m’interessa è che non affondi durante questo tragitto.
- C’è modo che accada?- chiese la ragazza, tentando di apparire disinvolta. Non riusciva neppure a figurarsi una scena simile, di un transatlantico che colava a picco.
- Spero vivamente di no - rispose Archie, cupo.- Hai mai dato un’occhiata alle scialuppe di salvataggio?
- Ehm…no - ammise Ruby.
- Ehi! Chi si vede?!
Ruby sobbalzò per lo spavento, mentre il dottor Hopper si sentì gelare il sangue nelle vene. Prima che potesse metabolizzare ciò che stava accadendo, si ritrovò con un braccio di August avvolto intorno alle spalle e la testa dell’amico fra la sua e quella di Ruby.
- Come te la passi, Archie?- ghignò l’uomo. Il dottor Hopper si aprì in una smorfia che voleva essere un sorriso.
- Ciao, August…- mormorò.- Dov’è…ehm…dov’è Marco?
- In cabina con Pongo, come al solito. Non lo capirò mai quell’uomo…
- Già…- Archie avrebbe voluto mettersi a piangere; conosceva August fin troppo bene per non capire cosa avesse in mente. I particolari non li aveva ancora chiari, ma le linee generali erano semplici da intuire: August stava deliberatamente ignorando Ruby. E non era mai successo con una ragazza.
- Ehm…- Archie si schiarì la voce. - Posso presentarti Ruby Lucas?
August si voltò verso la ragazza, fingendo di averla vista solo in quel momento. Fece un mezzo inchino, baciandole la mano con fare galante.
- Piacere di conoscerla, signorina Lucas.
Ruby scoccò ad Archie uno sguardo fra il complice e il malizioso.
- Lei è un amico di Archie?- chiese.
- Sì, viaggio insieme a lui e a mio padre. Oh, e a Pongo, naturalmente!
Ruby ridacchio; Archie scoccò un’occhiata a August, desiderando solo di prenderlo a calci.
- August Booth. Ruby è un nome delizioso.
- Grazie…
- Permettete che vi accompagni?- chiese August, guardando entrambi.- Se a te, Archie, e alla signorina fa piacere, naturalmente…
- Oh, sì! Certo - sorrise Ruby. - Archie?
Il dottor Hopper fece un sorriso forzato, annuendo.
August si voltò verso di lui, facendogli l’occhiolino; Archie desiderò di sprofondare nel terreno fino alla sala macchine.
 

***

 
Belle risalì sul ponte di terza classe solo un’ora dopo aver lasciato Ashley al sicuro e al caldo nella sua cabina in compagnia del suo fidanzato; Mary Margaret si era offerta di rimanere con lei ancora per qualche minuto, ma la signorina French si era resa conto di aver trascorso troppo tempo lontana da suo padre. Doveva tornare subito da lui, se non voleva farlo infuriare di nuovo.
Belle salì in fretta le scale, con l’intenzione di prendere un’ultima boccata d’aria e poi tornarsene in cabina, senza riuscire a levarsi dalla testa il ricordo di Ashley Boyd. Era incredibile la situazione che si era creata intorno a quella ragazza: un attimo prima aveva un lavoro, un posto dove vivere, del pane in tavola…e poi, solo per essersi innamorata del figlio del suo capo, si era ritrovata senza più nulla, e per di più incinta e disonorata agli occhi della gente.
Per fortuna, quel Sean Hermann le era parso un ragazzo non solo innamorato, ma anche serio e responsabile, che aveva tutta l’intenzione di provvedere ad Ashley e al loro bambino. Si era forse fatto un poco prendere dal panico quando lei e Mary Margaret gli avevano raccontato di aver soccorso la sua fidanzata quando questa era stata colta da una doglia. Ashley aveva sbuffato bonariamente e roteato scherzosamente gli occhi quando lui aveva preso a saltellarle intorno, insistendo perché si mettesse a letto e per gettarle una coperta sulle gambe, nonostante il caldo che faceva.
Sarebbero sicuramente stati una famiglia felice, insieme, pensò Belle, appoggiandosi alla balaustra e lasciando che il vento le scompigliasse i capelli. Augurava loro ogni bene, e sperava che in America riuscissero a trovare il lieto fine che meritavano.
In ogni caso, Ashley era stata davvero fortunata, nonostante tutto ciò che le era accaduto. Aveva un fidanzato che l’amava e un bambino in arrivo. Chissà se anche lei un giorno avrebbe incontrato…
- Dove accidenti eri finita?!
Belle fece appena in tempo a riconoscere la voce di Moe, prima che questi l’afferrasse per un braccio, strattonandola così forte da farle male. Le assestò uno schiaffo su una guancia.
- E’ da due ore che ti cerco!- ringhiò suo padre.- Dove diavolo sei stata per tutto questo tempo?!
- Io…- balbettò Belle.- Io ero…è successa una cosa…io stavo…
Le arrivò un altro schiaffo, in grado di zittirla completamente.
- Ora io e te facciamo i conti!- urlò Moe. - Torna con me in cabina!
La strattonò ancora per un braccio. Belle tentò di opporsi debolmente, ma suo padre era più forte.
Lo sguardo le cadde sulla cintura di Moe.
Ora io e te facciamo i conti…
Le ritornò alla mente quella volta in cui era scappata di casa. Le cinghiate. Sua madre che piangeva ma non faceva nulla. Lei che urlava. La fibbia della cintura di Moe che si abbatteva sulle sue braccia e sulle gambe, lasciandole lividi e graffi sanguinanti.
Belle tentò di ritrarsi disperatamente.
- Papà, no…- implorò.
- Ho detto di tornare in cabina!- ululò Moe.- Subito!
Belle sentì le lacrime salirle agli occhi; tentò di divincolarsi, ma suo padre la strattonò con più forza. Con un ringhio, Moe le sferrò uno spintone; la ragazza cadde a terra.
- Vuoi che ti punisca qui sul ponte, di fronte a tutti?!
Belle iniziò a singhiozzare.
 

***

 
- Come ci si sente a stare lontani da Regina Mills?- sorrise Graham. Emma rise, il vento che le scompigliava i capelli biondi.
- Libera!- esclamò. Graham rise a sua volta.
Emma prese a camminargli a fianco, sentendosi un poco imbarazzata. Solo ora si rendeva conto di aver indossato il vestito più bello che possedeva, quella mattina: un abito color lavanda con i bordi di pizzo intorno alle maniche e all’orlo della gonna, con uno scialle appena più scuro intorno ai gomiti e un lieve ricamo all’altezza del busto, a cui aveva aggiunto dei guanti bianchi, dopo anni che non ne indossava più un paio. Tentò di dirsi che si era agghindata in quel modo solo perché era domenica, ma la realtà dei fatti, lo sapeva, era ben diversa.
Era la prima volta, dopo Neal Cassidy, che provava a fidarsi di un uomo. La delusione cocente che le aveva lasciato il padre di suo figlio l’aveva spinta a evitare qualunque altra relazione amorosa per ben dieci anni, e anche qualunque innocente approccio con un uomo. Era sempre stata un tipo diffidente per natura, ma il capitano Graham era molto gentile e, soprattutto, a Emma non era parso che la giudicasse in alcun modo per quello che era il suo passato. Anzi, stava cercando di aiutarla.
- Se posso chiedere - Graham si schiarì la voce. - Cosa intende fare ora con suo figl…
Il capitano troncò la frase a metà, quando una scena sul ponte di terza classe attirò la sua attenzione. Emma si sporse per vedere, incuriosita: sotto di loro, si vedeva chiaramente un uomo alto e possente che strattonava una giovane ragazza, per poi spingerla violentemente a terra.
Emma comprese al volo ciò che stava succedendo; Graham corse velocemente giù dalle scale, e lei si affrettò a seguirlo.
 

***

 
- Ehi, ma che sta succedendo laggiù?- Ruby si sporse per vedere meglio, subito imitata da Archie e August. La ragazza aggrottò le sopracciglia, vedendo un uomo sui quarantacinque anni strattonare una ragazza di circa venti, per poi spingerla a terra.
Ruby non ci pensò due volte, e corse verso di loro, seguita dai due uomini.
 

***

 
L’attenzione del signor Gold venne attirata bruscamente da un grido proveniente dal ponte di terza classe; l’uomo si sporse per vedere meglio, sgranando gli occhi quando riconobbe le persone al di sotto di lui e cosa stava accadendo.
Vide Moe afferrare sua figlia per la radice dei capelli, strattonandola fino a farla mettere in ginocchio. Belle soffocò un grido di dolore.
- Vediamo se riuscirai ancora a gridare, dopo che ti avrò spaccato il labbro!- gridò Moe, assestandole un altro schiaffo.
- Papà, per favore, basta!- implorò Belle.
- Ehi, tu! Brutto figlio di…
Moe lasciò andare Belle, voltandosi appena in tempo per ricevere all’altezza del petto i pugni di una ragazza vestita da cameriera, alta e magra e con lunghi capelli castani. L’uomo ringhiò, sorpreso.
- Lasciala stare, stronzo!- sputò fuori Ruby.
Moe l’allontanò con uno spintone; la ragazza barcollò, gemendo.
- Ehi, come ti permetti?!- ringhiò August, pronto a volargli addosso, ma Archie lo precedette. Il dottor Hopper cercò di colpire Moe con un pugno al viso, ma l’uomo lo precedette, assestandogli un gancio tale da buttarlo a terra. Archie sentì in contemporanea l’urlo di Ruby e il rumore dei vetri dei suoi occhiali che si rompevano, prima di finire riverso sul ponte di terza classe. Sentì in bocca il sapore acido del suo sangue.
Moe sembrò volersi rivolgere ad August, ma presto venne raggiunto da un pugno che gli fece voltare il capo di lato; barcollò, finendo irreversibilmente a terra quando una bastonata lo colpì all’altezza di una scapola.
Belle boccheggiò, vedendo il signor Gold in piedi di fronte a lei mentre guardava suo padre come se volesse ucciderlo.
- Maledetto…- iniziò Moe, ma subito un rumore di passi di corsa lo interruppe.
- Ehi, che succede qui?!
Tutti si voltarono, vedendo un giovane uomo in uniforme correre verso di loro, seguito da una donna con lunghi capelli biondi.
Graham ansimò, raggiungendo il gruppetto.
- Che cosa sta succedendo? Chi è stato a cominciare?
- Lui!- Ruby indicò Moe, prima di inginocchiarsi accanto ad Archie e aiutarlo a rimettersi seduto.
- Le stava mettendo le mani addosso!- August indicò Belle, ancora inginocchiata sul ponte.- E credo che non sia la prima volta…- aggiunse a mezza voce, notando il livido all’altezza dello zigomo della ragazza, che stava iniziando a sparire ma era ancora evidente.
Moe ringhiò, tentando di rialzarsi e colpire Gold, ma Graham gli piombò addosso, immobilizzandogli i polsi; estrasse da una tasca un paio di manette, imprigionandogli le mani. Lo tirò in piedi con la forza.
- Mi ricordo di lei…- soffiò il capitano, scoccando anche una breve occhiata a Gold.- Direi che un paio di giorni al fresco non le faranno male…- aggiunse, tornando a guardare Moe. Graham rivolse a Emma uno sguardo di scuse, prima di trascinare via l’uomo.
August s’inginocchiò accanto a Ruby per aiutare Archie; il signor Gold rimase immobile: guardava la scena come se stesse assistendo a una rappresentazione a teatro, apparentemente impassibile. Emma corse a fianco di Belle, aiutandola a rialzarsi.
- Si sente bene?- chiese la donna.
Belle annuì, senza guardarla, concentrata solo sulle assi del ponte.
- Vuole che chiami un medico?- incalzò Emma. - La riaccompagno alla sua cabina?
Belle ansimò, scuotendo il capo con forza; Emma fece per dire qualcos’altro, ma la voce del signor Gold l’interruppe.
- Signorina French - chiamò l’uomo. Belle sollevò lentamente lo sguardo su di lui.
Gold sospirò impercettibilmente, muovendo un passo in direzione della ragazza.
- Signorina French, venga con me.
Belle lo guardò senza capire; Gold le prese gentilmente un polso.
- Venga con me…- ripeté, senza che la sua voce lasciasse trasparire alcuna emozione.
Belle non riusciva a riflettere; si sentiva come se si fosse appena risvegliata da un incubo e non sapesse cos’era vero e cosa invece era falso. Non disse nulla, e seguì il signor Gold, in silenzio.
 
 
 
Angolo Autrice: Come con Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast, ringrazio tutti coloro che hanno recensito e mi scuso per non essere riuscita a rispondere a tutte le recensioni, prometto che in futuro m’impegnerò affinché non accada più.
Dunque, in questo capitolo c’è ben poca Hunter Swan ma ci rifaremo alla grande nel prossimo. La prima parte forse è risultata un po’ annoiante, ma ormai ho raccontato la storia di quasi tutti e volevo farlo anche con Regina. Ho cercato di mantenermi sulla scia di The Miller’s Daughter e di The Stable Boy (ah, a proposito…se a qualcuno interessa, io sono una nostalgica e ancora shippo Stable Queen! XD. Okay, non frega niente a nessuno ma ci tenevo a dirlo ù_ù), apportando le modifiche che mi sembravano opportune. Per Leroy e Astrid…allora, per chi non l’avesse capito, la Mother Superior mi sta sull’anima. Già. Tanto. Ma veramente tanto. Come Fata Turchina non vale un accidenti, manco in grado di trovare una soluzione ai problemi…sta sempre lì messa come un vaso di fiori, il senso della sua presenza ancora non me lo spiego, e poi mi sta antipatica appunto da Dreamy…spero che a nessuno sia dispiaciuto il mio averla dipinta qui come evil bitch.
August è intervenuto in veste di Mister Posta del Cuore, ma la sua azione pratica la vedremo dal prossimo capitolo in poi…Quanto a Belle…
Allora, lasciatemi per un attimo fare la ola perché Lacey si è cavata dalle balle e la nostra Belle is back XD! ….
….
….
….e lei e Rumpel sono di nuovo separati! Naaaaaaaaaaaaaaa………….!!!!!!!!!!!
Comunque, Emilie è stata riconfermata, quindi mi aspetto tanti Rumbelle feels per la season 3…qualcuno sa darmi notizie di Ruby? E’ scomparsa senza lasciare traccia, avete notato?
Dicevo: quanto a Belle, vi prometto che presto smetterà di fare la figura della vittima sempre lì a farsi salvare da Gold nella sua splendente armatura e con il suo bastone assassino (per la serie Once Upon a Cane…da quando ha colpito Moe e lo Sceriffo di Nottingham sto vivendo una storia d’amore con quel bastone XD!). So che per ora si è fatta solo menare da suo padre, ma vi prometto che diventerà anche lei un’eroina, specialmente durante il naufragio…a proposito, domanda filo-conduttore di tutta la storia: chi sopravvivrà? Nessuno è al sicuro *risata mefistofelica*.
Ehm…dunque, nel prossimo capitolo avremo (ahimé) Snowing con anche un pizzico di Whale che non guasta mai (a proposito, nelle recensioni ho letto parecchie opinioni negative che lo vedevano come un impiccione…beh…ehm…è vero. Ma lo fa in buona fede. Tenete a mente che Kathryn sta ancora male e lui la cura, quindi sa cose che altri non sanno…e qui lascio a voi l’immaginazione ù_ù), Hunter Swan, RedCricket, Jefferson e Grace e un bel po’ di Rumbelle…che intende fare Gold con Belle? Dove la sta portando?
Aggiornerò presto la mia Frankenwolf Beauty and the Moonlight, seguita subito da Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast, per chi le segue.
Ciao, al prossimo capitolo!
Dora93

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Capitolo 9
*** 12 aprile 1912 - Inviti ***


- C’erano gioielli, vestiti, e un cappello grande così!- Grace allargò le braccia all’inverosimile in modo da dare a suo padre l’idea di quanto fosse grande il cappello in questione.
Jefferson esibì l’ennesimo sorriso forzato, ascoltando le parole della bambina. Ogni frase equivaleva a una pugnalata. Grace gli stava raccontando della sua visita in una cabina di prima classe, dove alloggiava quel bambino che aveva conosciuto sul ponte. La bambina parlava con entusiasmo di tutte le belle cose che aveva visto e dei giochi che aveva fatto, ignara del fatto che suo padre si sentisse morire a ogni parola.
Jefferson non aveva mai visto neppure da lontano come fosse una cabina di prima classe…e sapeva che non l’avrebbe mai vista. E, per colpa sua, nemmeno sua figlia.
Più Grace gli descriveva tutte quelle meraviglie, più lui si sentiva in colpa. Non aveva neppure idea se, una volta sbarcati a New York, lui e sua figlia avessero trovato un posto dove stare, ma se anche fosse riuscito a trovarsi un impiego, neanche lavorando cent’anni sarebbe riuscito a garantire alla bambina il lusso in cui si viveva in terza classe.
- E poi Henry mi ha fatto provare una delle collane della sua mamma!- concluse Grace, con un gran sorriso.
- Davvero?- chiese forzatamente Jefferson.
- Sì. Pensa che era una collana d’argento con un diamante blu a forma di cuore, grande più di una fragola…
Jefferson si sentì gelare.
Diamante blu a forma di cuore…
In un improvviso e inaspettato flash rivide la scena sul ponte di terza classe, in cui una donna vestita elegantemente si chinava ad abbracciare suo figlio, lasciando penzolare dal proprio collo una collana.
Quella collana.
Jefferson si sentì improvvisamente strano. Le mani iniziarono a prudergli in maniera fastidiosa, come se improvvisamente sentisse il bisogno di…afferrare qualcosa.
- Grace…- quasi si stupì di come le parole gli stessero uscendo dalle labbra, ma non si oppose troppo per fermarle.- Ti…ti ricordi per caso il numero di quella cabina?
 

***

 
Moe French grugnì, inviperito, mentre Graham gli allacciava delle manette ai polsi e le assicurava a uno dei tubi in una stanzetta riservata al personale di bordo.
- Resterà qui fino al pomeriggio del quattordici aprile, signor French - dichiarò Graham.- Un agente si occuperà dei suoi bisogni e delle sue esigenze, e dopo la sua liberazione rimarrà in osservazione fino al momento dello sbarco.
- Siete solo un branco di burocrati!- sputò fuori Moe.- Si può sapere perché mi avete arrestato, eh? Da quando un uomo onesto non ha più il diritto di punire sua figlia?
- In vita mia ho inferto e ricevuto diverse punizioni, signor French, ma non mi risulta che picchiare una povera ragazza senza un valido motivo faccia parte della categoria - replicò il capitano, serio.- In ogni caso, quando sbarcheremo sarà libero di agire come meglio crede nei confronti di sua figlia. Ma per ora sarà costretto a starsene buono. Non vogliamo disordini a bordo, intesi?
Moe grugnì di nuovo, voltando il capo di lato e rifiutandosi di guardarlo. Graham lo scrutò ancora per qualche istante, quindi uscì dalla cabina.
Si schiarì la voce ed esibì la sua migliore espressione di scuse mentre si avvicinava a Emma.
La donna se ne stava con le spalle appoggiate contro una parete, giocherellando distrattamente con un lembo della sua gonna. Teneva il capo chino, aspettando pazientemente.
- Ehm…chiedo scusa. Non avrei voluto costringerla ad assistere a queste scene, ma purtroppo capitano anche a bordo dei transatlantici…- Graham fece una smorfia, a cui Emma rispose con un piccolo sorriso.
- Non fa niente - rispose, accettando il braccio che l’uomo le offriva.- E comunque, il mio nome è Emma - aggiunse.- Direi che è potremmo iniziare a darci del tu, no?
- Ottima idea. Dunque, Emma…- esordì Graham.- Se posso chiedere…come sei finita a fare la tata di tuo figlio?
- Beh, Henry mi ha…trovata. Letteralmente. E’ successo un paio di mesi fa. Non ho idea di come abbia fatto, ma un bel giorno me lo sono ritrovato sulla porta di casa, lui e quella sua faccetta insolente…
Graham ridacchiò.
- Si vede che è intelligente. Non è facile ritrovare una persona dopo ben dieci anni, deve averti cercata a lungo. Come è venuta l’idea di imbarcarsi con lui sul Titanic?
- E’ sempre un piano di Henry. Mi ha detto che lui e la signora Mills stavano per trasferirsi in America. Se non volevo perderlo di nuovo, dovevo andare con lui. Henry mi ha praticamente implorata…
- Vuole che lo riprendi con te?
Emma annuì.
- A quanto pare le cose con la sua madre adottiva non vanno molto bene. All’inizio pensavo che si trattasse di semplici capricci, ma poi…- la donna non concluse la frase, stringendosi nelle spalle.- Beh, l’hai vista, no?
- Sì. Ha più dell’istitutrice o della direttrice di collegio, che della madre. Lo tiene al guinzaglio.
- Non lo lascia giocare, correre, mangiare dolci, lo veste come un damerino e lo tratta come una bambola di porcellana - borbottò Emma. - Gli impone degli orari per tutto, e guai se non vengono rispettati. Sembra quasi che abbia paura della spontaneità.
- Da quel che ho potuto vedere, si tratta di una donna molto autoritaria. Non credo che al posto di Henry avrei resistito molto…- Graham fece una smorfia.
- No, infatti. Non era esattamente questo che speravo, quando l’ho dato in adozione - mormorò Emma, chinando il capo.
- E’ per questo che vuoi riprenderlo con te?- l’uomo la guardò.- Vuoi che abbia una vita migliore della tua? Di quella che gli sta dando Regina?
Emma si tormentò una ciocca di capelli dorati, mordendosi il labbro inferiore.
- So che non dovrei nemmeno pensare una cosa simile - soffiò.- So che non avrei alcun diritto di volermi riprendere un bambino che ho abbandonato, ma…ma ora posso farcela. Quando l’ho partorito avevo diciotto anni, ero sola, senza un uomo, senza un lavoro, senza una casa…va bene, adesso non sarò ricca come la signora Mills, ma Henry è il mio bambino. Quando l’ho lasciato avevo paura, ma adesso sento che potrei prendermi cura di lui…So di non avere scusanti per quello che ho fatto, ma…
Graham le strinse la mano.
- Un passo alla volta, intesi?- ammiccò.- Tanto per cominciare, è meglio che non ti fai scoprire da Regina prima dello sbarco, o saranno dolori…
- Lo so. Come vado, finora?
- Bene, a parte l’incidente del ponte, ma era giustificabile. Comunque, non potrai fingerti una semplice bambinaia per sempre. Quando questa storia verrà a galla, ti consiglio di non fare sciocchezze.
- Che intendi dire con “sciocchezze”?
- Qualcosa del tipo prendere Henry con te e fuggire insieme chissà dove. Regina ti sguinzaglierebbe dietro anche l’esercito, e allora sì che saresti veramente nei guai.
- E come altro potrei fare?- protestò Emma. - Io non ho più alcun diritto su mio figlio!
- E’ vero, ma forse questo è un problema risolvibile - Graham si massaggiò il mento, pensoso.- Non sono un avvocato, ma so per certo che in America le leggi sono molto più elastiche che in Inghilterra. Dammi tempo, dovrei riuscire a trovare…
- Aspetta un attimo…- lo bloccò Emma. - Ti stai forse proponendo per…aiutarmi?
Aveva pronunciato l’ultima parola come se gli stesse parlando di un elefante rosa che ballava il tango nella stiva. Graham provò una fitta di pena mista a tenerezza: Emma aveva l’aria di chi era sempre stato abituato a fare tutto da solo, a cavarsela senza l’aiuto di nessuno e, se questo arrivava, era spesso presentato come qualcosa compiuto per carità o con grande fatica, per il quale doveva essere grata.
Non voleva che fosse la stessa cosa anche con lui.
Emma era una brava persona…quello che le occorreva era un amico.
Graham sfoderò il suo miglior sorriso.
- Certo. Ora, perdonami, ma abbiamo in programma un thé con la strega cattiva. Andiamo, prima che ci fulmini…
 

***

 
- Mio Dio…mi dispiace tanto…- mormorò Ruby, mordicchiandosi le unghie di una mano, mentre Marco si chinava verso Archie per applicargli l’ennesimo cerotto.
Dopo l’incidente sul ponte, lei e August avevano letteralmente trascinato il dolorante dottor Hopper fino alla cabina di terza classe, dove Marco li aveva accolti con tanto d’occhi. In vita sua, non aveva mai udito di Archie che menava le mani in una rissa; beh, c’è una prima volta per tutto, si era risposto, ancora un po’ perplesso. Aveva compreso a cosa fosse dovuta quella prima volta un secondo dopo, quando aveva posato lo sguardo su Ruby.
- Non è colpa tua…- soffiò Archie, emettendo subito dopo un gemito di dolore a un tocco un po’ rude di Marco.
- Davvero, non sai quanto mi dispiace…- disse Ruby.- Se non mi fossi messa in mezzo…
- Hai fatto quello che avrebbe fatto chiunque - la rassicurò August.- E poi…non lo sapevi? Archie farebbe questo e altro, di fronte a una ragazza in difficoltà.
Ruby ridacchiò, arrossendo vistosamente. Marco lanciò un’occhiata sospettosa a suo figlio.
- Ma davvero è andata così?- s’informò, mentre Archie si rimetteva sul naso gli occhiali nuovi.- Cioè…sul serio quello stava picchiando una ragazza di fronte a tutti?
- Sì, credo si trattasse di sua figlia…- disse il dottor Hopper.- Per fortuna, poi, è arrivato un responsabile della sicurezza…
- Ma prima ancora, quel bruto ha cercato di alzare le mani sulla nostra Ruby, e Archie è intervenuto in suo soccorso!- ridacchiò August, avvolgendo un braccio intorno alle spalle della cameriera.- Ti pare possibile, papà? E dire che tu non hai mai alzato un dito su di me…
- Anche se forse un paio di volte avrei dovuto…- borbottò Marco.- Lo perdoni, signorina Lucas…August, ti pare il modo di rivolgerti alle persone?
- Oh, ma noi ci siamo già conosciuti, vero Ruby?- August, ammiccò.- Sul ponte. Ruby viaggia con sua nonna, io non avevo ancora avuto il piacere di fare la sua conoscenza, ma Archie sì…- ridacchiò.
- Come ti senti?- Ruby si chinò verso il dottor Hopper.
- Meglio…- borbottò Archie, aggiustandosi gli occhiali.- Credo di averti rubato fin troppo tempo…ti riaccompagno alla tua cabina…
- Archie!- sbottò August.- Ma che, la liquidi così? Dov’è finita la tua galanteria? Non la inviti alla festa?
- Che festa?- chiesero in coro Ruby, Archie e Marco.
- Ma dove vivete?!- sbuffò August.- Intendo la festa che si terrà qui domani sera…Ho sentito che alcune persone ne parlavano, in corridoio…
- August, sappi che se è una festa nel concetto in cui la intendi tu, allora…
- No, no! Una festa come di quelle che fanno i ricconi del piano di sopra…- ridacchiò August.- Solo, ci si diverte molto di più…Allora, Ruby?
- Beh…- la ragazza esitò.- Se mia nonna…e anche tu, Archie…non avete niente da obiettare…
- Assolutamente no!- si affrettò a rispondere il dottor Hopper.- Sarei felice se venissi, Ruby…
- Andata, allora!- esclamò August.- Qui, domani sera. Che dite, vi accompagno in seconda classe?
- A dire il vero, August, io avrei bisogno di te!- lo bloccò Marco.- Credo che Archie se la possa cavare benissimo da solo…A domani sera, signorina Lucas, è stato un piacere conoscerla…
- Anche per me, signor Booth. Arrivederci.
Non appena Archie e Ruby ebbero varcato la soglia della cabina e richiuso la porta, Marco lanciò a suo figlio un’occhiata di fuoco.
- August…posso farti una domanda, da padre a figlio?
- Sì, certamente.
- Bene…che diamine stai facendo?!
August sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
- Cerco di fare in modo che quei due combinino qualcosa prima che arriviamo a New York! C’è bisogno che te lo spieghi?
- A me pare che tu ti stia impicciando con l’unico effetto di mettere in difficoltà il povero Archie!
- Se Archie è in difficoltà, è solo perché è troppo timido! Papà, ma l’hai vista, quella? Chiunque le sarebbe saltato addosso dopo due minuti, e invece lui sembra una mummia egizia!
- E’ semplicemente un gentiluomo, cosa che tu non sarai mai!
- Di questi tempi, i gentiluomini concludono poco.
- Comunque sia…che hai in mente di fare?
- Beh, intanto di dare una spintarella a questo rapporto. Poi, si vedrà. Sai come si dice, no? Se son rose fioriranno!
- Spera solo che Archie non decida di buttarti in una fossa di spine…Sappi che non farei niente per fermarlo…
- E dici di volermi bene…! Comunque, ho una buona notizia!- August sorrise soddisfatto.
- E sarebbe?
- Ricordi della storia d’amore nel mio romanzo? Beh, credo di aver appena trovato materiale d’ispirazione…
 

***

 
Mary Margaret si sfiorò per forse la millesima volta le labbra con la punta delle dita, prima di scuotere il capo con vigore rimproverandosi di non fare la stupida. Si appoggiò alla balaustra del ponte di seconda classe, chiudendo gli occhi e cercando di concentrarsi sul fruscio delle onde che s’infrangevano contro lo scafo, ma tutto ciò non fece altro che aumentare ancora di più i suoi pensieri.
Il bacio di David Nolan le bruciava sulle labbra come se fosse stato ancora in corso, invece di essere terminato ben il giorno prima, con il sole che tramontava all’orizzonte. Sembrava quasi la scena di un romanzo, come se lei fosse stata la protagonista di Paul et Virginie e David fosse il suo Principe Azzurro; a Mary Margaret questo sarebbe piaciuto crederlo, ma in fondo al cuore sapeva che non era vero.
Era stato solo un bacio. Un bacio poteva significare tutto o niente, tanto più che lui non l’aveva più cercata dalla sera prima. Da una parte, Mary Margaret sperava che David l’avesse solo ingannata…così, sarebbe stato più facile dimenticarlo e chiudere quella storia che – lo sapeva, oh se lo sapeva, quante volte aveva visto ragazze come lei finire rovinate a causa di una faccenda simile? – le avrebbe procurato solo guai.
David Nolan non era il suo Principe Azzurro. David Nolan era sposato. Kathryn era sua moglie, non lei. Lei sarebbe stata sempre l’altra donna, quella in ombra, e se non si fosse data un addrizzo a lungo andare sarebbe divenuta un’amante tenuta nascosta in una stanza d’albergo da quattro soldi, da cui lui sarebbe corso un paio di volte al mese, quando ne avrebbe avuto voglia, e con la quale avrebbe riempito il tempo solo sfogandosi – in che modo, beh, c’era da immaginarselo… – di tutte le frustrazioni accumulate nel matrimonio.
Doveva troncare quella storia, punto e basta. Doveva sperare che lui non la cercasse più.
Ma era comunque difficile. Oh sì. Lei non si era mai innamorata, prima, e allora come poteva sapere se questo era vero amore o no? Eppure, ancora non riusciva a non pensare a David, a togliersi dalle mente il ricordo delle labbra dell’uomo che sfioravano le sue…
- Signorina Blanchard!
Mary Margaret sobbalzò per lo spavento, voltandosi e incrociando un paio di occhi grigi che avrebbe anche fatto a meno di incrociare. Si ricompose il più in fretta che poté, facendo assumere al suo volto un’espressione fredda e distaccata.
- Dottor Whale - salutò, secca, fingendo sorpresa.- Qual buon vento?
Whale si avvicinò a lei, schiarendosi la voce.
- Ero venuto a scusarmi per ciò che le ho detto ieri, signorina Blanchard…- disse il dottore, appoggiandosi alla balaustra accanto a lei.- Vede, credo che sia una specie di vizio. Quando penso qualcosa, devo dirla ad ogni costo.
- Non c’è problema - rispose Mary Margaret, monocorde, sperando che se ne andasse.
- Sa, come le ho detto, ho fatto anche io parte della categoria di uomini che si divertono a ingannare le brave ragazze - Whale ridacchiò, ignorando l’occhiata omicida della donna.- Ma…beh, diciamo che ho imparato a mettermi nei panni di chi sta dall’altra parte. Chi ha il cuore spezzato si dispera…oppure cerca di farti la pelle…- rise.
Mary Margaret non rispose, continuando a guardalo, impassibile.
- Cambiamo argomento, che ne dice?- propose Whale.- Come mai è diretta in America?
- Lavoro. E lei?
- Beh…anche io, in un certo senso…- rispose il dottore.- Ho trovato un buon posto in un ospedale di New York. Non che quello in cui lavoravo prima fosse male, ma…beh, diciamo che volevo cambiare aria…- fece un mezzo sorriso, privo di allegria.
- E cosa l’ha spinta a cambiare aria?- Mary Margaret ghignò, pregustando la sua vendetta.- Un’amante intenzionata a farle la pelle?
- Non proprio. Avevo in mente di andarmene già da tempo. A farmi decidere è stata la morte di mio fratello.
Mary Margaret ammutolì, arrossendo fino alla radice dei capelli.
- Mi…mi scusi, io…- balbettò, desiderando che la nave affondasse in quel preciso istante e la trascinasse con sé.- Io…mi dispiace, non avevo nessuna intenzione di…
- Non fa niente, non poteva saperlo - il dottor Whale fece un mezzo sorriso.- Diciamo che ora siamo pari, che ne pensa?
Mary Margaret inspirò a fondo, cercando di far svanire il rossore sulle guance.
- Se…se posso chiedere…- mormorò.- Come…come è…
- Com’è morto? Un incidente. Lui faceva parte dell’esercito, era un colonnello, e durante un’esercitazione un idiota che non sapeva come tenere in mano un’arma ha fatto partire un colpo di fucile…- Whale si strinse nelle spalle.- I rapporti fra me e mio padre non sono mai stati dei migliori, e quando Gerhardt è morto si sono incrinati del tutto. Credo che in fondo andarmene sia stata la cosa più giusta per tutti…
- Mi dispiace…- mormorò Mary Margaret.- Davvero, mi dispiace tanto…
- Oh, tesoro, guarda chi c’è!- cinguettò una voce poco distante.
Whale e Mary Margaret sollevarono il capo all’unisono, voltandosi in direzione della voce. La donna si sentì gelare quando si vide venire incontro David Nolan a braccetto con sua moglie, che sventolava una mano per salutarli.
- Signorina Blanchard, che piacere rivederla! Dottor Whale, anche lei qui?- sorrise Kathryn, stringendo la mano a entrambi. Whale fece un sorrisetto sghembo e tirato.
- Come si sente oggi, signora Nolan?
- Ancora un po’ debole, ma decisamente meglio. Sto provando a respirare un po’ di aria marina, come mi ha consigliato…
Mary Margaret spostò lo sguardo su David: l’uomo esibiva il suo miglior sorriso di circostanza, ma era evidente che fosse a disagio. Kathryn e il dottor Whale continuavano a discorrere della salute della donna, ma il marito non diceva una parola.
Mary Margaret lo vide stringere nervosamente una mano a pugno per poi stirare le dita. Aveva l’aria di chi desiderava solo scappare e correre a nascondersi nella buca più vicina.
- Voi due vi conoscete?- chiese Kathryn, riacquistando la sua attenzione.
Mary Margaret si riscosse, sbattendo le palpebre.
- C-come?- balbettò.
- E’ curioso trovarvi insieme. Lei viaggia in prima, vero dottor Whale?
- Sì, infatti. Io e la signorina Blanchard stavamo…- Whale esitò.- Facendo conversazione…- concluse infine.
- E di cosa parlavate, se posso chiedere?- s’intromise David, un po’ bruscamente. A Mary Margaret parve quasi che la sua voce vibrasse di rabbia, ma finse di non averlo notato.
- Niente d’importante…- mormorò.- Anzi, a dire il vero io stavo per tornarmene in cabina…
- Così presto?- fece Kathryn.
- Sì…sono un po’ stanca…- Mary Margaret si costrinse a sfoderare un cortese sorriso di scuse.
- Oh, peccato. Avrei voluto chiacchierare un po’ con lei…facciamo così!- esclamò la signora Nolan.- Venga domani sera a cena insieme a noi, in prima classe…così avremo modo di conoscerci meglio…
- Ehm…io veramente non so se…
- La prego, insistiamo!- fece David.- Ci farebbe un grande piacere, signorina.
- Vero! Hai proprio ragione, amore…Naturalmente è invitato anche lei, dottor Whale...
- Ci saremo - assicurò l’uomo, prima che la coppia li salutasse cordialmente e se ne andasse.
Mary Margaret rimase a guardare David allontanarsi, sentendo una stretta al cuore.
Solo dopo che l’uomo fu scomparso dietro l’angolo si rese conto che Whale aveva accettato anche per lei.
 

***

 
Il suo cervello era rimasto come in stato catatonico per tutta la durata del tragitto, che era stato tutto sommato breve, ma che a Belle era sembrato durare cent’anni. Ora, la sua mente aveva ripreso, seppur lentamente e con molta fatica, a funzionare, ma i corridoi di prima classe le parevano sul punto di richiudersi su se stessi e imprigionarla.
Le cose andarono peggio quando si accorse di aver percorso tutto lo spazio che la separava dal ponte di terza agli alloggi di prima tenendo la mano del signor Gold. Precipitarono irreversibilmente quando si rese conto che quest’ultimo l’aveva trascinata fino alla porta della sua cabina.
Solo quando vide l’uomo afferrare il pomello della porta trovò abbastanza lucidità e forza di volontà da divincolarsi dalla sua presa, ritraendo la mano e indietreggiando di un passo.
Gold reagì al gesto scoccandole un’occhiata a metà fra il sospettoso e l’infastidito.
- Entri - disse, piatto, aprendo la porta della cabina.- Venga, si dia una ripulita…
Belle scosse il capo con forza, indietreggiando ancora e stringendosi nelle spalle. Si accorse di stare tremando come una foglia. Ora che lo shock era passato e lei aveva ripreso a ragionare, il ricordo degli schiaffi e delle botte di suo padre era tornato a farsi sentire forte come questi ultimi. Moe l’aveva picchiata, sì, ma l’aveva fatto tante altre volte e in modo ben più violento; ma stavolta le aveva messo le mani addosso sul ponte di terza classe, di fronte a tutti, di fronte al signor Gold, e mentre lei se ne stava lì a lasciarsi colpire si era radunata intorno una folla di gente, chi per difenderla chi semplicemente per curiosare e assistere a quel massacro psicologico che era stato per lei. E infine era intervenuto Gold, colpendo suo padre e mettendolo al tappeto prima con un pugno e poi con una bastonata, trascinandola con sé come una povera invalida mentre tutti la compativano.
Avrebbe voluto morire all’istante.
Prese a tremare più forte.
- Che cosa le prende, adesso?- ringhiò Gold, afferrandola per un polso e spingendola dentro la stanza.- Forza, che sta aspettando, la carrozza?
Belle si ritrovò per la seconda volta in quella camera che era forse la più lussuosa ed elegante del Titanic, ma in quel momento non c’era più spazio né per l’imbarazzo né per il senso di inadeguatezza.
C’era posto solo per l’umiliazione cocente. E per la rabbia.
- Mi faccia uscire…- mormorò, e la voce le uscì come un pigolio.
Gold richiuse la porta alle sue spalle, sospirando.
- Prima si calmi e si sciacqui la faccia. Dopo si vedrà.
- Mi faccia uscire!- gridò Belle, sull’orlo delle lacrime.- Le ho detto di farmi uscire, ha capito?! Non ha nessun diritto di tenermi qui! Mi faccia uscire subito, o giuro che mi metto a strillare!
- Io non la faccio uscire di qui in questo stato, signorina French. E se vuole strillare…- Gold stese un braccio come a elargirle un invito.- Prego, faccia pure…
Belle chinò il capo, stringendo i pugni e mordendosi il labbro inferiore nel disperato tentativo di trattenere le lacrime, ma alla fine scoppiò a piangere, singhiozzando quasi istericamente.
- Lei…lei mi deve stare alla larga, ha capito?!- gridò.- E’ colpa sua! E’ tutta colpa sua!
- Colpa mia, di cosa?- fece Gold, senza scomporsi.- Del fatto che lei ha un livido all’altezza dello zigomo? Del fatto che suo padre l’ha umiliata? Del fatto che il signor French è un animale?
- Tutto questo è colpa sua!- continuò Belle, imperterrita.- Lei non si deve più avvicinare a me! Tutte le volte che c’è lei di mezzo succede qualcosa di brutto! Prima il negozio, ora questo…perché si è messo in mezzo quella mattina sul ponte?! Ogni volta che lei fa o dice qualcosa io la pago sempre! Se mio padre scopre che sono stata qui di nuovo mi ammazza!
- Suo padre non saprà mai che lei è stata qui, signorina French…- ribatté Gold.- Glielo posso assicurare. Ora, ha altre accuse da rivolgermi o possiamo dichiarare terminata questa sceneggiata?
Belle si morse nuovamente il labbro, tentando di frenare le lacrime. Gold sospirò, avvicinandosi a lei e prendendola per un braccio.
- Di qua…- soffiò, guidandola più o meno a forza verso una porta alla loro destra. L’aprì e ce la spinse dentro; Belle si ritrovò in quella che aveva tutta l’aria di essere una seconda camera da letto, all’apparenza inutilizzata. Era molto luminosa, con un letto a baldacchino al centro, una portafinestra che si apriva su un terrazzo che dava sul mare a destra e una toeletta con catino e specchio a sinistra.
Belle mosse cautamente qualche passo, scrutando ogni angolo della camera. Era certa di non aver mai visto tanto lusso in vita sua.
- Dal momento che mi accusa di tutte le sue disgrazie…- proseguì Gold, con una punta di sarcasmo.- Il minimo che posso fare è risarcirla…
- Risarcirmi?- Belle si asciugò rabbiosamente una lacrima, voltandosi verso di lui.- E come?
- Le offro la mia ospitalità fino al termine del viaggio. Conosco le regole qui a bordo, e suo padre dovrà rimanere in isolamento per un po’, quindi non corre il rischio di venire scoperta, se è questo che teme. Ci pensi.
- Cosa crede di ottenere da me?- ringhiò Belle.- Vuole…vuole forse…
- No, niente di ciò che sta pensando. Le ripeto: è finita nei guai a causa mia, e il minimo che posso fare ora è cercare di scusarmi in qualche modo che non siano solo parole inutili e senza senso. Comunque, può chiudere a chiave la porta, se la fa sentire più tranquilla - concesse. Allora? Accetta la mia proposta?
Belle inspirò a fondo, cercando di ragionare. Guardò un’ultima volta la stanza.
- Solo per stanotte. Poi tornerò nella mia cabina - dichiarò infine.
- Molto bene. La lascio sola…si lavi la faccia, le farà bene…- raccomandò un’ultima volta, prima di uscire e di chiudere la porta.
Belle tornò a scrutare la stanza ancora per qualche istante, quindi si diresse a grandi passi verso la porta. Afferrò la chiave e la girò nella serratura fino a che non udì lo schiocco secco della molla.
 
 
 
Angolo Autrice: Questo capitolo è il preludio di ciò che avverrà nei prossimi…ah, dal 10 si passerà a 13 aprile e tutta la giornata sarà spesa in vista della sera del giorno stesso…vi avverto, parecchi destini si incroceranno.
Beh, nel prossimo capitolo ci sarà parecchia Rumbelle – voi che dite: Belle si fermerà davvero per una sola notte? –, mentre nella Hunter Swan si inizierà a discutere di qualcos’altro che non sia Henry…;).
Ringrazio chi legge e chi recensisce.
Ciao, al prossimo capitolo!
Beauty

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Capitolo 10
*** AVVISO! ***


AVVISO!
 
Mi è già accaduto di dover pubblicare un avviso a una storia che non aggiornavo da tempo, e chiedo scusa a tutti coloro che hanno visto le loro speranze di trovare un aggiornamento infrangersi. Scusate. Questo avviso è per comunicare che non ho deciso di abbandonare questa ff e che, dopo tanto tempo, il nuovo capitolo sarà pubblicato con l’anno nuovo. Se tutto va bene, la prima domenica di gennaio.
Intanto, mi piacerebbe sapere se siete ancora interessati alla storia e quali sono le vostre vicende preferite finora trattate. Altra cosa: ringrazio molto Amento per questo video/trailer amatoriale di questa storia e del quale vi lascio il link qui sotto.
 
http://www.youtube.com/watch?v=6Fqrh_7fXdo
 
Questo avviso sarà cancellato non appena pubblicherò il nuovo capitolo, ma riporterò nuovamente il link. Ciao a tutti!
Beauty

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