Il potere dei sogni

di Beatriz Aguilar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** UNO ***
Capitolo 3: *** DUE ***
Capitolo 4: *** TRE ***
Capitolo 5: *** QUATTRO ***
Capitolo 6: *** FINALE ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


AVVISO: Chiedo umilmente scusa per eventuali errori, giuro di aver riletto la storia più volte prima di pubblicarla! è la prima volta che pubblico qualcosa ma spero apprezziate comunque :) Buona lettura!

IL POTERE DE SOGNI.
 

PREMESSA.
Allora ero solo una bambina, avevo undici anni quando incominciarono quei terribili incubi. Non ne dissi nulla a nessuno però, perché erano talmente reali, che parlarne sarebbe significato dare loro un’ importanza tale, da ammettere quanto mi spaventassero. 
Di norma i sogni, in un modo o nell’altro, sono confusi. Alcuni ce li ricordiamo di più, altri di meno, ma rimangono pur sempre qualcosa di vaneggiante, spesso discorsi, volti, ambienti, sono deformati anche se famigliari. Gli incubi anche, ma riescono a rimanerci più impressi, per il semplice fatto che ciò che ci fa paura spesso, non l’abbiamo mai visto nella realtà.  E spesso, le situazioni che ci spaventano sono più tendenti al surreale, che a qualcosa che sia nella norma.
I miei incubi comunque, mi perseguitarono per  soli 4 notti, in cui non dormì granché, in cui non volevo nemmeno addormentarmi. Quei sogni si presentavano quando ormai era semplicemente troppo tardi per risvegliarsi e mi lasciavano andare solo quando mi avevano stremato, allora mi alzavo di soprassalto, vedevo nell’oscurità della mia stanza per qualche secondo ancora le terribili immagini del sogno per poi correre nella stanza dei miei genitori quasi in lacrime e tremante dal panico. Poi questi incubi sparirono, mai più perseguitarono i miei sogni, ma non posso di certo dire, che me ne sono dimenticata, anche se vorrei con tutta me stessa. Anche se non avrei mai voluto sognare.
Di certo non potevo immaginare che quegli incubi così perfettamente intagliati, tanto che potrebbero tranquillamente sembrare una mini serie televisiva, potessero significare qualcosa di diverso da quello che erano: niente più e niente meno che sogni. Le fantasie di una bambina che erano scaturite per chissà quale motivo e destinate a scomparire con il passare del tempo.
Il loro scenario era sempre la scuola, la mia scuola, che perfettamente conoscevo. Solo era tetra, sembrava essere tutto nero e rosso sangue.  Io ero la protagonista di questo macabro copione, insieme alle mie tre migliori amiche dell’epoca...
 
C’è solo un’altra premessa da fare prima che inizi il racconto: la notte prima dell’inizio dei miei incubi ricevetti una visita, non so nemmeno io se fosse un sogno o se avessi parlato veramente. Tutto intorno a me sembrava non esistere più, non so come lo sapessi, ma sapevo che oltre la mia cameretta c’era il nulla. Sembrava che il tempo per qualche minuto mi avesse lasciata indietro.
Quando quell’uomo, quel ragazzo, cominciò a parlare, io non ricordavo quando fosse entrato e si fosse seduto ai piedi del mio letto.
-          So che tu vuoi morte delle persone.
Io ero spaventata, sì, ma a undici anni si è anche tanto curiosi.
-          Chi sei?
Chiesi con gli occhi sgranati, cercando di ripararmi il più possibile sotto le coperte.
-           Importa davvero? Forse un angelo di Dio. O forse sono un emissario di Satana... Ma sono qui per te, per liberarti.
Non sapevo cosa rispondere, non sapevo nemmenose rispondere.
-          C’è qualcuno che ti fa e ti ha fatto del male.
Non avevo ben capito se fosse una domanda, o un’affermazione, così optai per la seconda e mi ritrovati in difficoltà al momento di affermarla o confutarla.
-          No... Cioè sì... Ma ora non importa più, tanto me ne vado tra poco.
Difatti, era solo questione di tempo. Finite la scuola elementare me ne sarei andata alla scuola media, e avevo deciso all’ultimo di allontanarmi dalle mie amichette per la mia sanità mentale e cambiare totalmente rotta. Con me ci sarebbe stata una bambina della mia classe, con la quale non avevo mai legato molto, ma ciò bastava per rassicurarmi che non sarei rimasta sola in banco almeno il primo giorno. In fondo mi resi conto che lui poteva anche non riferirsi a quello cui pensavo io, ma era l’unica cosa che in quel momento mi fosse venuta in mente.
Intanto intorno a me era sempre tutto fermo e silenzioso. Il nulla mi aspettava dietro la finestra alle mie spalle, o dopo la porta di fronte a me. Non sembrava filtrasse nessuno spiraglio di luce, eppure riuscivo a vedere quell’uomo, quasi come l’avrei visto di giorno. Aveva una felpa con cappuccio grigio che gli nascondeva gli occhi, poca barba bionda, jeans larghi e scarpe da ginnastica.
Io quell’individuo non l’avevo mai visto, o magari l’avevo visto migliaia di volte, perché poteva veramente essere chiunque.
-          Quelle persone vanno fermate se ti hanno fatto del male.
Io continuavo a non capire, avevo l’impressione che non si sforzasse poi nemmeno così tanto per darmi un indizio, lui parlava per se stesso e non so perché mi facesse delle domande alle quali non sapevo rispondere nemmeno io.
-          Ma chi sei…? Che... Che cosa intendi con “vanno fermate?” Io non ti conosco, non capisco cosa stai dicendo.
-          Io sono qui per te. Per il tuo futuro. E finché quelle persone saranno in vita, te non sarai mai felice.
-          Siamo solo bambine...
-          Ma non per sempre. Un giorno cresceranno e con loro crescerà la perfidia.
-          Può essere.
Era tutto quello che ero riuscita ad elaborare con tanta fatica. Sentì quell’uomo sogghignare e poi si alzò.
-          TU puoi aiutarti e aiutare il futuro.
Detto questo aprì la porta ed uscì. La porta si richiuse ed io tornai in me. Non mi ero addormentata, semplicemente fino a poco fa non vedevo la realtà, perché ora sapevo invece che se avessi aperto la mia finestra avrei visto la città, che se avessi aperto la porta avrei visto casa mia.
Ci misi un po’ a prendere sonno, avevo paura che quel tipo si ripresentasse, poi però persi le forze e caddi in un sonno profondo.
 

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Capitolo 2
*** UNO ***


GIORNO 1
L’indomani mattina mi dissi che era stato solo un incubo, e che non dovevo preoccuparmi. Non raccontai nulla a nessuno, anche perché mi avrebbero semplicemente presa per pazza. A scuola come al solito rimasi da sola, era uno di quei periodi in cui il “gruppo” mi aveva esclusa e io avevo un misto di rabbia e risentimento tanto confusi da non avere nemmeno voglia di avvicinarmi agli altri bambini. Preferivo starmene seduta da sola a meditare, tanto di cose cui pensare ne avevo per così, compreso il bizzarro incontro della notte precedente. 
Ogni tanto qualcuno arrivava per chiedermi come stavo, ed io liquidavo tutti gentilmente con un sorriso e dicevo di avere “un po’ di mal di testa”. Quando di tanto intanto alzavo lo sguardo, vedevo il gruppetto delle mie tre “migliori amiche” ridere e divertirsi tra di loro, poi guardarmi e sussurrarsi qualcosa all’orecchio. Le avevo provate tutte in quegli anni, per far sì che quattro fossimo e quattro rimanessimo, ma più ci provavo più sembrava che mi allontanassero. Giorgia, Francesca e Chiara erano lo specchio della società. La cattiva, la scagnozza, la debole. Poi c’ero io, che per semplificare le cose potrei definirmi la buona, anche se di certo contavo i miei difetti. Di solito succedeva che Giorgia fosse contro di me, Francesca era dalla parte di Giorgia ma, ogni tanto, si faceva prendere dai sensi di colpa e veniva da me per qualche giorno, poi c’era Chiara che stava di solito sempre con me, ma quando le cose si facevano dure, batteva in ritirata tra i più forti. Infine c’ero io, molte volte rimanevo fuori dal gruppo, e mi sembrava di ritrovarmi circondata da stupidi e dementi che non capivano che avere tre amici fosse meglio che avere due amici e un nemico. Tolto ciò ripensai alla frase del mio nuovo “amico” incontrato in un altro universo, l’universo della Mia Cameretta. “So che tu vuoi morte delle persone”. In effetti, non era del tutto una cavolata. Se avessi potuto afferrare per il collo quella vipera di nome Giorgia e soffocarla, l’avrei fatto. Ma le altre due, a dire la verità mi facevano pena, e l’ultima delle tre che avrei voluto vedere sepolta era Chiara, tanto più che era l’unica delle tre con cui litigavo meno.  In una cosa però la disprezzavo: che fossi così debole da non riuscire mai a capire da che parte stare, anche quando era palese che l’unica che tenesse per davvero a lei fossi io, e che Stefania se la lecchinasse solo per aver il gruppetto più numeroso. Se avessi avuto qualche anno di più, avrei sputato per terra a quel pensiero, ma a 11 anni ero una bambina troppo depressa e autolesionista per provare così tanto disprezzo e spesso provavo sensi di colpa anche per qualcosa che non centrava nulla con me. Una cosa però non ero di certo. Non ero scema. E capire certe cose, mi faceva stare anche peggio. Per esempio sapere che ci fossero bambine così cariche di veleno come Stefania, quando all’età di undici anni, il veleno dovrebbe rimanere ancora distante dai nostri cuori. 
Quando tornai a casa, ero triste, sì, ma ancora con la testa tra le nuvole.  Quel colloquio notturno era riuscito a occupare buona parte dei miei pensieri, e mi aveva impedito di piangere durante il giorno. Versai solo due lacrime quando mi coricai, sputando tre parole cariche di astio prima di sprofondare nel sonno “io vi odio”. Mi sorpresi di quanto velenose fossero quelle tre parole uscite dalla mia bocca, e pregai Dio che il veleno delle vene di Stefania, non avesse contagiato anche il mio sangue. 


NOTTE UNO
Non so come mi trovai lì, non so come diavolo facessi a sapere che ero più grande, che avrò avuto 14, 15 anni ma lo sapevo e basta. Attorno a me tutto aveva colori spenti e marci. I rami degli alberi erano cadaveri imponenti, che tiravano verso il basso come spinti da una forza gravitazionale molto maggiore da quella normale. Gli aghi dei pini sembravano appesi come per miracolo, ma molti si erano arresi a terra nei paraggi del tronco marcio e umido. Il cancello d’ingresso della nostra scuola elementare, sempre stato colorato di un bel verde vivace, sembrava aver perso tutto il suo colore, era rivestito di ruggine e le uniche macchie di verde rimasto erano un vago ricordo di ciò che rappresentavano un tempo. Il lucchetto era chiuso, sì, ma solo da una parte del cancello, quindi questo era aperto, e il vento faceva cigolare in modo spettrale la parte destra.
Oltrepassai quel terribile varco, per rendermi conto di non essere sola, ma di avere dietro di me le mie tre amichette, più grandi anche loro. Nessuna di noi aveva il coraggio di parlare. Nessuna di noi pensava fosse utile farlo. Camminammo per la discesa, lunga circa 150 metri e arrivammo allo spiazzo davanti all’entrata. Era sempre stata una scuola piuttosto invidiata per gli spazzi che aveva: davanti all’entrata c’era una bella zona per giocare, in asfalto con i giochi disegnati per terra, dove bisognava saltare con una o due gambe. Verso destra c’era un’aiuola con alcuni alberi e dei fiori (ora tutti appassiti) dalla parte sinistra invece si trovava un corridoio piuttosto ampio tra un muro e la parete della scuola, spesso usato per le gare di corsa a ricreazione. Sia da destra sia da sinistra si arrivava, camminando intorno alla scuola, alla pineta. Il posto sicuramente più bello di tutti, dove sembrava ci fossero importanti luoghi segreti da esplorare durante la ricreazione oppure, dopo la scuola. La pineta limitava a sinistra con un muro e una rete metallica, che la separava da un prato con un campo da calcio antistante, usato però per veri allenamenti. Frontalmente c’era un campo da calcio in asfalto, e dei giardinetti ampi con uno scivolo e alcuni giochi per arrampicarsi, che le maestre ci proibivano di utilizzare, per paura che potessimo farci del male. 
Mentre mi guardavo intorno per ricordare come fosse la scuola un tempo, notai che ora ne era rimasta solo una carcassa nera e in putrefazione. Alcuni dei vetri erano rotti, la tettoia dell’entrata era semidistrutta, e il vetro della porta aveva una grossa venatura. 
Comunque non c’era anima viva. Non c’era nessuno. Solo noi quattro, con una malsana curiosità di entrare in quel luogo dismesso. Non mi accorsi di stare spingendo la prima porta per entrare e poco dopo di aver mosso anche l’altra e ora di trovarmi all’interno. Non vi era segno della scuola che frequentavo, con i cartelloni appesi e i colori vivaci, Tutto lì dentro trasudava morte, era tutto cadaverico e putrefatto. Mi guardai intorno. Davanti a me la vetrata che dava sulla pineta era coperta dalle tende, una volta bianche, ora giallastre, squarciate e cadenti qua e là, che lasciavano entrare squarci di luce fioca e spenta affilati come le lame dell’ascia della Morte. A destra, dove si trovava la porta per accedere alla stanzetta nella quale si trovavano uno o due bidelli e la fotocopiatrice, era chiusa, e dalla feritoia di vetro opaco della porta si vedeva solo una striscia rossa e viscosa, dalla quale distolsi immediatamente lo sguardo prima che il mio cervello associasse quell’immagine a qualcosa. Non so nemmeno io a cosa pensai, ma decisi di muovere i miei primi passi verso sinistra, la mia ala di scuola. All’ala destra, dove stavano le prime e i refettori non ci pensai nemmeno per un istante. La sala professori era aperta, con le sedie rovesciate e il tavolo pieno di polvere. Il banchetto dove sedeva la bidella di turno, era mezzo carbonizzato e della sedia non c’era traccia. Andai più avanti e arrivai alle scale, quando le salii, mi ritrovai al mio piano, ma il soffitto era stranamente basso e c’erano più colone di quante me ne ricordassi in realtà. Prima che potessi girarmi, mi ritrovai invece in pineta, come se mi fossi teletrasportata, o se come se l’avesse fatto qualcun altro per me. Gli alberi erano giganteschi e sembrava che potessero abbattersi su di me in un istante. Il cuore mi batteva all’impazzata, carico d’ansia e di paura e pensai che sarei svenuta da un momento all’altro. Mi misi a correre senza pensare, non ricordo se fossi sola o meno, corsi, corsi e basta. Mi ritrovai nel corridoio che veniva usato per le gare di corsa, mi girai verso le finestre che davano nell’aula di musica. C’erano anche lì delle tende giallastre, il che era strano dato che in quell’aula non vi erano mai state tende.  Mi avvicinai con circospezione, piano. Provai a guardare dentro a distanza ma non vidi nulla, all’interno era tutto buio. Individuai un punto in cui la tenda era sufficientemente strappata da permettermi di controllare, così attaccai le mani al vetro  per respingere i riflessi e poggiai la fronte alla finestra fredda e umida. Ci misi un po’ a mettere a fuoco, dovetti rimanere così per qualche secondo.  Vidi qualcosa penzolare davanti ai miei occhi, ma non capivo cosa. Piano piano la figura girò e capì cosa fosse: Era un corpo esanime, il corpo esanime di un bambino. Aveva gli occhi sbarrati che mi fissavano e la faccia era già mezza putrefatta. Mentre rimanevo a fissare quella visione, tremavo come una foglia fino a quando una mano insanguinata si stampò sulla finestra, esattamente davanti alla mia faccia e lasciò una strisciata di sangue. A quel punto indietreggiai, ma sapevo che ero intrappolata lì dentro, che non potevo uscire da quella casa degli orrori. Mi ero allontanata dalla finestra e mi veniva da vomitare da quanta paura provassi. Purtroppo sentivo l’ansia crescere continuamente, avevo paura che succedesse qualcosa, che qualcuno mi afferrasse le spalle. Invece le tende vennero tirate giù una dopo l’altra e le mani insanguinate si moltiplicarono tracciando linee di sangue sulla lunga vetrata. I tonfi che provocavano erano talmente violenti che per un momento pensai che avessero tirato giù il vetro. Poi piano scomparvero così come erano apparse e mi resi di conto della scritta: “SVEGLIATI”.
Mi ripresi di colpo, tremavo e mi veniva ancora da vomitare. Rimasi immobile per un po’ nel mio letto, poi corsi dai miei. 

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Capitolo 3
*** DUE ***


GIORNO DUE
La mattina quando arrivai a scuola avevo paura di quello che mi aspettava, ma la verità era che tutto era normale, ed era pieno di bambini urlanti ignari di quello che avevo visto io. 
Lo stesso giorno andammo in aula musica, non c’era assolutamente nulla di cui avere paura. Ma una cosa mi fece un po’ impressione, perché la maestra ci fece cantare una canzoncina creata dalla nostra maestra d’inglese intitolata “Wake Up”. Ricacciai indietro quel pensiero e lasciai che la giornata trascorresse. 
Quando arrivò il momento di dormire, mi resi conto di essere agitata.
 
 
NOTTE DUE. 
Mi ritrovai per la seconda volta di seguito davanti a quel cancello vecchio e cigolante e lo oltrepassai. 
Quando arrivai allo spiazzo, mi venne la tentazione di recarmi a vedere nell’aula di musica se fosse vuota o se avessi trovato ancora quella terribile visione della volta precedente. Il coraggio però mi abbandonò di colpo, e guidata dall’istinto, mi addentrai nella struttura. Ormai abituata ai cattivi odori della scuola, aspettai che anche le altre tre entrassero, e di nuovo mi diressi verso le scale. Alcuni scalini sembravano molto fragili, e pensai che avrebbero potuto non reggere sotto il mio peso, così a ogni passo prestavo molta cautela. Tutte e quattro ci dirigemmo a sinistra, in fondo a quell’ampio spazio, sulla destra si trovava la nostra aula con la porta chiusa.  A sinistra, si snodava un piccolo corridoio con i bagni, e alla loro sinistra un’altra classe, quella della terza. Non capivo se quell’aula fosse chiusa o meno, ma la mia attenzione era rivolta inspiegabilmente verso la mia. Quindi presi coraggio e mi incamminai lentamente in mezzo a quel posto dal soffitto stranamente basso. Arrivai davanti alla porta, e misi la mano sulla maniglia. Mi girai per vedere dove fossero le altre, ci eravamo divise: due erano andate nei bagni e la terza stava guardando alla porta della terza indecisa sul da farsi. A quel punto tornai a me, presi un respiro lungo e profondo e poi feci scattare la maniglia verso il basso, aprii con estrema lentezza, e mi sembrò tutto normale. Quando fui totalmente all’interno mi guardai intorno. Non sembrava esserci nessuno, solo la classe era distrutta, i libri erano umidi e marci e macchie enormi di muffa coprivano le pareti. Notai solo dopo che sotto la cattedra c’era un enorme lago di sangue. Mi mancò il respiro e rimasi paralizzata. Si trovava qualcuno lì dietro, ne ero sicura. Speravo con tutta me stessa che fosse morto.  Di scatto una mano uscì dal lato sinistro della cattedra, allora sentì il sangue ribollire nel mio cervello.  Apparve anche l’altra, io volevo urlare ma non ci riuscivo, la porta sbatté violentemente chiudendosi. Volevo cercare aiuto ma ero paralizzata. La persona, che ora capivo fosse una donna, cominciò a strascicarsi sul pavimento con le mani, lasciando lunghe scie di sangue dalle dita scorticate e ossute, tirò fuori completamente la testa, aveva i capelli neri incrostati di sangue e di scatto si girò verso di me. Per poco non ebbi un infarto: quel volto era senza occhi, rimanevano solo due incavi vuoti che però a me sembravano avere uno sguardo più penetrante di qualunque altro avessi mai incrociato. 
La figura cadaverica si riuscì ad alzare in piedi, e mi fissava con quello sguardo completamente nero, sembrava scrutasse nella mia anima. La riconobbi. Era la madre di Stefania. 
Riuscì a quel punto a muovermi e avevo le lacrime agli occhi, Incominciai a tirare colpi sulla porta, ad abbassare la maniglia ma questa non si apriva e nemmeno c’era una chiave. Il cadavere della madre della mia amica intanto era perfettamente in piedi e stava avanzando verso di meno, barcollante.
Incominciai a gridare e implorare aiuto, ma nessuno mi sentiva o voleva sentirmi. L’unica risposta che ricevetti fu quella della donna.
- Non vi prenderete la mia bambina!
Continuò a ripetere quella frase avanzando verso di me, e io calciavo sempre di più quella maledetta porta che sembrava essere di cemento. Ormai quel sacco di ossa e sangue era sempre più vicino, animata da una forza sconosciuta. Mi accorsi solo allora che aveva un enorme taglio sulla pancia, dal quale era uscito tutto il sangue di prima e dal quale vidi penzolare anche le budella. Pensai che sarei morta, che non avrei mai più rivisto la luce del sole. Però potevo ancora fare un tentativo, potevo combattere. E proprio nel momento in cui quell’essere era a pochissimi metri da me trovai la forza di afferrare una sedia e glie la scagliai addosso. Quel copro, come se avesse il peso di un uccellino, fu scaraventato sino alla parete dalla quale era arrivata e urtò violentemente il muro. Non fece in tempo a dire nient’altro che il colpo fece staccare il crocefisso della classe dal muro, che le cadde dritto nel cervello con un suono di budella spegnendola per sempre. A quel punto, la porta si aprì da sola ed io mi sentivo stanca e atterrita come non mai nella mia vita. 
Rimasi con le ginocchia piegate e le mani appoggiate su di esse, mentre ansimavo e sputavo saliva.
Pochi secondi dopo sentì dei rumori, e delle voci. Vidi Stefania uscire dalla classe frontale alla nostra, che indietreggiava in lacrime, aveva un profondo taglio in corrispondenza delle vene, dal quale sgorgava parecchio sangue. Vidi poi apparire un uomo, e non uno qualsiasi, ma colui con il quale parlai due notti addietro. Volevo intervenire, ma ero inchiodata a terra, una forza sconosciuta, come quella che aveva fatto muovere la madre dell’imminente vittima, mi impediva di reagire.  Vidi che il ragazzo teneva in mano un coltello, macchiato di rosso viscoso. Poi Stefania si mise a correre e lui non si scomodò più di tanto, limitandosi a seguirla a passo sostenuto. Stefania fece l’orrendo errore di non scendere le scale ma di proseguire oltre, dove poco più avanti l’aspettava solo la finestra. Lei supplicava di lasciarla stare, di lasciarla andare, con voce rotta e piena di disperazione e lacrime. Vidi le ultime attraverso gli occhi di Giorgia, come se la mia anima fosse entrata nel suo corpo. Vidi il ghigno dell’uomo, simile a quello che aveva riservato per me, e vidi che si girava a guardare lo strapiombo che l’attendeva oltre la finestra, poi la mia anima si trasferì in lui, e scorsi il terrore negli occhi della ragazzina, vidi la morte accanto a lei quando lui la infilzò col coltello e la spinse con violenza contro la finestra che si frantumò lasciandola cadere nel vuoto urlando, con la lama conficcata nel petto. Passarono sicuramenti pochi secondi, ma a me parvero interminabili ore, prima che quell’urlo venisse strozzato in maniera brutale e che si sentisse un tonfo sordo che indicava la fine del volo e il terribile schianto sull’asfalto dello spiazzo davanti l’entrata.  Quando tornai in me, il ragazzo era scomparso, ma la finestra era rotta per davvero. Corsi giù di sotto, per scappare davvero questa volta. Volevo andarmene e non ci sarebbe stata forza oscura che mi avesse trattenuta. L’unico problema si presentò quando dopo essere scesa dalle scale mi si parò un muro alla parte destra, un muro che non c’era mai stato e che mi separava dall’uscita. Potevo solo andare a sinistra, dove regnavano le tenebre.  Da lì si accedeva all’aula di musica, che io non avevo avuto il coraggio di controllare appena arrivata. Mi venne in mente una storia su un pianoforte, non mi ricordo circa quale artista, che fu ucciso su di esso e che sul suo pianoforte ci fosse ancora una macchia rossa di sangue, che ricompariva se uno la toglieva. Mi venne in mente perché la maestra ce la raccontò proprio in quell’aula. Avanzai verso la porta, con cautela poiché la scarsa luminosità non mi permetteva di avere il pieno controllo della situazione. Quando fui abbastanza vicina alla stanza, mi accorsi della tremenda puzza di putrefazione che proveniva da lì dentro, e sentì una musichetta famigliare suonata con il pianoforte. Appoggiai la mano sulla maniglia, e sentì dall’interno la canzone Wake Up  “Wake Up,  Wake Up Now…”  una voce si faceva sempre più intensa delle altre, la maniglia cominciò a muoversi senza che io la toccassi, indietreggiai di mezzo passo in preda all’ansia. Questa si spalancò improvvisamente, la mia maestra di musica era immobile sulla soglia, con i bambini che da dietro facevano il coro. Erano tutti cadaveri putrescenti, e fissavano qualcosa davanti a loro, ma non ero certa fossi io perché i loro occhi sembravano persi nel vuoto. Dalla stanza inoltre si prigionò un odore talmente forte da farmi venire i conati. La loro voce crebbe, crebbe sempre di più fino a quando la vista mi venne meno e caddi per terra.
Nel momento in cui nell’incubo battei la testa a terra, l’alzai dal cuscino, sudata e tremante. 

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Capitolo 4
*** TRE ***


GIORNO 3
Se i miei fossero stati sogni, si doveva presumere che durante il loro decorso dovevo perlomeno essere addormentata. A me però non sembrava affatto così, perché ogni volta che mi risvegliavo la mattina, mi sembrava di aver corso tutto la notte. La scuola sembrava infinita, cercavo di dormire a ricreazione e di non dormire invece durante lezione. La mia vita mi sembrava un inferno, come se non bastasse arrivai in ritardo e dovetti dirigermi verso l’aula di musica. Quando mi ritrovai lì davanti e stavo per entrare la maestra mi precedette, stava cantando anche lei con i miei compagni dietro, proprio come nel mio incubo.  Per poco non urlai, ma nulla mi impedì di sbiancare. L’unica cosa che mi rincuorava è che erano tutti vivi e non c’era odore di morto, nonostante quella terribile sensazione di déjà-vu.
Già erano proprio tutti vivi, anche Giorgia.


NOTTE 3
Io non volevo dormire. Per nessuna ragione. Restai per non so quanto tempo con gli occhi sbarrati nel buio.  Volevo aspettare le luci dell’alba. Sapevo benissimo che si poteva rimanere svegli per una notte intera, non era difficile ed io ci sarei riuscita, o almeno così mi ripetevo. Sono sicura che resistetti sino alle 3, ma poi il mio cervello mi costrinse a chiudere gli occhi, con tale foga, che sembrava mi stesse rammentando che avevo un appuntamento e che non potevo assolutamente mancarlo. Cercai di combattere con tutte le mie forze, ma erano già tre giorni che le mie volontà contavano meno di zero.
Mi ritrovai nuovamente a oltrepassare quel cancello, con il quale ormai avrei stretto amicizia se fosse stato in grado di parlare. Mi addentrai dentro la scuola, e solo allora mi accorsi che eravamo in tre. Giorgia non c’era più. Almeno qui, l’Uomo aveva mantenuto la sua promessa, l’aveva uccisa.
Il suo corpo però non era a terra, a quanto pare qualche becchino fantasma aveva trascinato via il suo cadavere. Come di consuetudine mi ritrovai al secondo piano... La finestra era ancora rotta. Martina decise di esplorare la quinta, la classe vicina proprio a quella finestra, io volevo andare in terza, e capire se l’Uomo fosse ancora lì dentro. Dopotutto la volta precedente era uscito proprio da lì. Quando fui dentro però lui non c’era, al suo posto vi era solo un gatto rosso e nero, il quale era cieco da un occhio. A guardare bene quel gatto mi resi conto di averlo già visto.  Mi accucciai a terra, lieta che almeno quella creatura non fosse putrefatta o cercasse di uccidermi. Provai a chiamarlo, per tutta risposto si avvicinò spaventato e corse via soffiandomi e rizzando il pelo. Si addentrò nei bagni e decisi di seguirlo. Essi erano più fatiscenti del normale, molte piastrelle si erano staccate dal muro, e i rubinetti gocciolavano a ritmi regolari. Sul pavimento ristagnava un’acqua stantia, che proveniva da uno dei gabinetti probabilmente intasato. Quando alzai lo sguardo al corridoio dove sulla sinistra si trovavano i servizi, trovai Francesca che si girò verso di me, dando le spalle al muro. Mi guardò un attimo e per la prima volta sentì chiaramente la sua voce dirmi “Qui non c’è niente” . Vedemmo entrambe il gatto correre sin dietro Silvia, balzare sopra una piastrella sporgente e uscire fuori dalla finestra in cima al muro, la quale sarà stata alta cinquanta centimetri. Entrambe lo seguimmo con lo sguardo, poi Francesca avanzò verso di me per andarsene. Nel giro di pochi secondi dei tentacoli o qualcosa di non troppo lontano da essi uscirono dalla finestra e afferrarono Francesca per la vita. Emise un urlo acuto e il terrore nei suoi occhi li iniettò di lacrime. Rimasi attonita dalla scena, quei tentacoli tirarono via la ragazzina con una forza tale da far passare il suo metro e quarantasette per quella feritoia. Sentì lo spezzarsi delle sue ossa come quando si spezzano gli spaghetti. Quel suono mi trapanò dritto nel cervello,  e pensai di rimanere sorda da quanto le orecchie mi fischiavano. Il suo urlo si strozzò lì, e di lei vidi scomparire il corpo esanime mollo come una bambola di pezza.
Indietreggiai con gli occhi sbarrati. Corsi a più non posso, voltandomi ogni tanto perché mi sembrava di essere seguita. Questa volta riuscì a evitare l’aula di musica, e arrivare sino in pineta passando dalla porta sul retro.  Ero sullo spiazzo e scesi le scalette. A quel punto oltrepassai l’asfalto e mi addentrai tra i pini. Sembrava non ci fosse nessuno, tutto pareva deserto. Mossi i miei passi, poi sentì un fruscio, un bambino sbucò da dietro un albero, più distante da me. Era girato di profilo, guardava il tronco marcio e canticchiava qualcosa. Io avevo accorciato la distanza da lui senza rendermene conto. Girò il viso verso di me: gli mancava l’altra parte di faccia, era completamente bruciata. Lui si mise a camminare verso di me, sempre canticchiando quella stupida canzoncina inglese. Quel bambino, che per l’altro mi sembrava di conoscere e che frequentava circa la prima o la seconda, mi terrorizzava nel profondo. Non riuscivo a togliere gli occhi da quella faccia bruciata, con la pelle scorticata che lasciava vedere i denti. Non aveva le palpebre, il cranio era deforme e senza capelli. Ormai era talmente tanto vicino, che se avessi allungato il braccio, avrei potuto toccarlo comodamente. Come al solito non potevo reagire, ma nemmeno sapevo cosa volesse fare. Poi mi afferrò il braccio destro con la sua mano buona, e con l’altra, completamente bruciata, tirò fuori un accendino, di quelli antivento. Cominciai a sudare freddo, il mio braccio si contrasse e i miei sensi cominciarono a scalpitare. Il bambino accese l’accendino e lo avvicinò alla mia pelle. Sentì dolore pervadermi e martellarmi la testa.  Vidi la mia pelle diventare come la sua poco a poco, mi accorsi che stava scrivendo il messaggio, ma io riuscivo a pensare solo al dolore. Non mi sentivo, ma di certo stavo urlando a squarciagola, avevo il viso lacerato da quel martirio e gli occhi non riuscivano nemmeno a far scendere le lacrime da quanto secco fosse il supplizio. Quando il bambino mi mollò il braccio caddi a terra respirando affannosamente. Il mio arto era martoriato e non avevo il coraggio di muoverlo. Il messaggio non poteva essere più impresso di così “SVEGLIATI”. E così feci.
Appena sveglia mi toccai d’istinto la parte interessata, non c’era nulla.
 In compenso mi venne in mente un pensiero lontano anni luce da quel dolore “il gatto, era quello di Francesca”. 

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Capitolo 5
*** QUATTRO ***


GIORNO QUATTRO
Mi rincuorava ogni giorno tornare a scuola e scoprire che era tutto normale, che era tutto colorato e vivace. Avevo il terrore che i miei incubi diventassero realtà, e invece non accadeva mai. Silvia era viva, Stefania anche, Martina c’era e c’erano anche tutti gli altri. Anche il bambino che mi aveva torturato la notte addietro, c’era. Aveva la sua faccina intera e non sembrava assolutamente in grado di bruciarmi viva. Quel giorno, guarda caso, cantammo la filastrocca in pineta. Incominciavo a odiarla poiché era diventata la colonna sonora delle mie notti maledette. In più le maestre ci permisero di accendere un fuocherello in pineta, dal quale io mi guardai bene da starne più lontano possibile. I miei compagni avevano intuito che ci fosse qualcosa che non andava in me, perché non parlavo proprio e me ne stavo con gli occhi fissi nel vuoto. Dovevo sembrare una di quei bambini disagiati dei film horror, ma io in realtà ero solo vittima del mio subconscio malefico.

 
NOTTE QUATTRO
Ero stremata e i miei nervi erano a pezzi. Sapevo che avrei avuto un appuntamento di lì a poco, e come se si trattasse dell’appuntamento più bello della mia vita, al quale non vedevo l’ora di partecipare, non riuscivo a chiudere occhio. Aspettavo solo il momento in cui, la mano caina di Morfeo, mi avesse chiuso le palpebre e mi avrebbe lasciata con un biglietto per il castello degli orrori. Infatti il momento arrivò e per la quarta volta, mi ritrovai al secondo piano. C’era solo Chiara questa volta.  Mi imposi di rimanere unita a lei, e camminammo fianco a fianco. Decidemmo di entrare nella nostra classe, girandomi notai con immenso piacere che non c’era nemmeno più la madre della vipera e quando ritornai con lo sguardo verso Chiara per dirle di non allontanarsi, non c’era più. E se non crollai a terra, quanto meno mi uscirono le lacrime. Ero sola. Sola in quel posto dimenticato da Dio, sola in quel putridume dove l’unica cosa viva ero io, e tutto lì dentro era affamato di vita. Se gli arredamenti avessero saputo muoversi, mi avrebbero intrappolata e torturata per mangiarsi la mia anima. Non volevo che morisse anche lei, così misi a urlare il suo nome.  Non so se poteva sentirmi, ma dovevo tentare, altrimenti di lì a poco l’avrei vista morire. Fu una sorpresa enorme quando sentì la sua voce rispondermi. Mi si dipinse un sorriso da ebete sul viso umido, allora provai a richiamare e lei di nuovo rispose. Tutto il mio entusiasmo svanì quando sentì che la sua voce proveniva a pochissima distanza da me, come se lei fosse stata lì. Capì allora che non potevo vederla e che lei non poteva vedere me. Decidemmo di uscire dalla stanza ma quando mi disse di aver oltrepassato la porta, io non la vidi ne aprirsi ne chiudersi. Quando uscì anche io e la richiamai, la sua voce era molto più lontana. Poi scomparve. Rimasi veramente sola allora, completamente abbandonata a me stessa, e avevo tutto il tempo per guardarmi intorno. Rimasi paralizzata in preda al panico. Si sentivano solo il gocciolare ritmico dei rubinetti e il fischio del vento attraverso porte e finestre. Ogni tanto mi sembrava di sentire anche dei sussurri sommessi, ma non esclusi che potesse essere la mia immaginazione. Era tutto morto lì dentro, e la morte impregnava talmente tanto quel posto da renderlo cadavericamente vivo. Vivo di morte.  Rimaneva il fatto che dovevo muovermi e trovare, come al solito, una via d’uscita da quel posto e rimanere impalata non mi sarebbe servito. Presi a camminare in direzione delle scale e scesi. Uscì dalla porta secondaria che dava in pineta, a mio malgrado notai che diluviava con tanto di tuoni ed i lampi e che peggio ancora era notte, ed era una delle notti più nere che avessi mai visto. Mi tenei sull’asfalto e mi avviai verso la discesina con scalette basse che portava a un cancelletto, il quale una volta oltrepassato mi sarei ritrovata sul campetto di asfalto. La pineta era diventata una piscina di fango e ora aveva tutto l’aspetto di un cimitero. Prima di tentare di aprire quel cancello diedi un ultimo sguardo a quella scuola infestata. Alzai lo sguardo e scrutai  la struttura in modo piuttosto generalizzato. Poi il mio sguardo si posò più attentamente su una finestra: ci misi un po’ a mettere a fuoco ma capì che c’era un bambino che mi fissava quando un lampo illuminò il suo profilo. Ed i suoi occhi erano rossi come dei rubini. Poco dopo mi accorsi di tutti gli altri. Tutti affacciati alla finestra, immobili come statue con i loro occhietti puntati su di me. Senza osare levare lo sguardo da lì, cercai di aprire il cancello con le mani dietro il busto, ma un robusto lucchetto lo teneva chiuso. L’unico modo era scavalcare. Quando posai di nuovo lo sguardo a terra, notai che dall’angolo del muro della scuola era sbucato uno di quei bambini e stava camminando verso di me, gli occhi infuocati, specchio del diavolo o del mostro che animava quel luogo. Dopo poco ne apparve un altro, e poi un altro ancora fino a che persi il conto. I loro visi erano spesso sfregiati, alcuni dal fuoco, alcuni erano stati feriti con armi da taglio, o le ossa spezzate uscivano fuori dalla pelle. Sembravano animati da una forza demoniaca e io dovevo al più presto uscire da lì. Mi guardai dietro e vidi che potevo provare a scavalcare il cancello. Così con il cuore a mille misi un piede sulla barra orizzontale all’altezza della serratura e mi issai, feci appello a tutte le forze che avevo e con le mani appese sull’ultima sbarra mi tirai su con le braccia. Poi qualcosa mi afferrò un piede e sentì la mia caviglia sotto una morsa d’acciaio. Girai subito lo sguardo e vidi che quei bambini erano ammassati tutti lì sotto, e quello che già mi aveva bruciato il braccio mi aveva afferrato la caviglia affondando le unghie nella carne e cercava di farmi cadere.  Mi strattonò violentemente ed io persi la presa da una mano. Mentre cercavo di tornare su un dolore lancinante mi attraversò la spina dorsale iniettandosi sino al cervello, mi girai di nuovo e vidi che un altro bambino mi aveva morso il polpaccio. Aveva denti affilati come quelli di uno squalo e rivoli del mio sangue gli scivolavano lungo gli angoli della bocca. Se non avessi reagito in fretta, sarebbe stata la fine. Così con il piede ancora libero, picchiai violentemente la testa di quel demonio assetato di sangue e di quello che mi teneva la gamba, dovetti picchiare veramente duro, ma alla fine entrambi persero la presa. Riuscì a scavalcare il cancello e con mio estremo sollievo mi sembrò che loro non potessero fare altrettanto, e che avessi oltrepassato il loro confine. Continuavano a infilare le mani tra le sbarre e a emettere quei sussurri e quei versi che in precedenza avevo assegnato alla mia immaginazione. Il polpaccio mi sanguinava copiosamente, e la caviglia mi faceva parecchio male. Decisi di aprire il cancello di sinistra poco distante: dopo aver camminato brevemente lungo un prato sarei arrivata al campo da calcio e dopo qualche metro d’asfalto sarei arrivata alla strada principale. Non ero sicura ci fosse qualcosa oltre quel posto, forse era un universo a se e mi sarei imbattuta in una barriera invisibile o sarei tornata al punto di partenza, o magari anche il resto del mondo era nelle stesse condizioni, ma era l’unica cosa da fare.  Quando misi i piedi sull’erba, sentii un ciaf ciaf, e lo trovai normale poiché il diluvio che veniva giù era il più forte che avessi mai visto. Poi dopo aver guardato con attenzione, capì che non era acqua, ma era sangue. Mi guardai intorno per capire da dove provenisse, ma non c’era nessuno, solo io e nessun cadavere vicino. Mi girai verso sud, dove vi era un canale di scolo di cemento e numerosi rovi che si ammucchiavano giù perla collina. Sebbene intontita dalla vista di tutto quel sangue sotto i miei piedi e dal fatto che anche io continuavo a sanguinare, decisi di incominciare a correre verso il campo da calcio, ma vidi qualcosa muoversi tra i rovi. Quando uno di quei rami di spine mi strinsero un braccio, capì che nulla si muoveva tra i rovi, erano i rovi che si muovevano. Quel ramo mi tirava verso di se e le spine mi si conficcarono per intero nella pelle del polso, che incominciò a sanguinare. Io cercavo di opporre resistenza, così la carne incominciò a lacerarsi. Poi un altro rovo mi prese il polso destro, infine anche le gambe. A quel punto, mezza svenuta per il dolore, non potei fare altro che farmi trascinare. Prima di perdere coscienza, vidi davanti a me due bare e una data unica 23/04 poi svenni.  Mi sentì le spine conficcate ovunque nella carne, ma non sentivo più dolore. Ero ricoperta di sangue, non vedevo più il cielo, ero immersa tra i rovi e le spine. Ebbi però la sensazione di essere spinta verso il basso, fino a quando non rimasi seduta su una specie di altalena vegetale e sotto di me, c’era la Terra.  La Terra, che sembrava la cosa più bella che avessi mai visto circondata da un pallore azzurro. Intorno a me solo il nero della galassia, sopra di me una foresta di spine. Notai che non sanguinavo più, e anche se stringevo le spine queste non mi facevano alcun male.  Saltai giù di sotto, e sentì le vertigini invadermi lo stomaco. Il salto durò forse più del sogno in se, e mentre mi lascivo dietro il terrore e il dolore, ritrovai la pace più profonda della mia vita.
Mi risvegliai quando colpì le nuvole, rividi per pochi secondi l’Uomo, ma poi mi riaddormentai quasi subito, come in preda ad una sensazione di estasi paradisiaca. 
Quando mi risvegliai la mattina, il 23/04 non era cambiato nulla e tutto rimase uguale per parecchio tempo. 

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Capitolo 6
*** FINALE ***


Ero già al secondo anno di medie e avevo nuove amiche e amici, molto più validi dei precedenti, e la mia vita trascorreva più normale che mai, fino a quando il 23/04 accadde qualcosa. Sentì di due ragazze che erano morte in circostanze tragiche.
Una certa Giorgia si era tagliata le vene con un coltello, si era poi pugnalata al petto e infine si era buttata giù dalla finestra della sua camera. Si dice che fosse sotto gli effetti di droghe e stupefacenti che avrebbero potuto causare allucinazioni.
Un’altra ragazza di nome Francesca, era morta in un tragico incidente, schiacciata da una macchina contro un muro, che le aveva spaccato la schiena e la colonna vertebrale spezzandola a metà.
Venni a sapere che lo stesso giorno, Chiara si era trasferita da Genova, e se ne era andata a vivere a Roma, con la famiglia di suo padre. Non la sentì più.
La stessa notte l’uomo che esattamente due anni prima avevo rivisto mi disse semplicemente “ora sei salva, ed anche il futuro lo è. ” e sparì. Non lo vidi mai più, e non ebbi mai più incubi del genere. Avrei voluto chiedergli tante cose, per esempio perché c’ero andata di mezzo io, e perché loro fossero così pericolose… Perché fossero morte dopo due anni... Ma tenni per me queste domane, in fondo date le circostanze erano ormai superflue.
Comunque, non mi spaventai molto per la scomparsa di quelle ragazze, non mi fece nessun effetto sapere che fossero morte, poiché dopotutto, le avevo uccise io, col potere dei miei sogni.
 
L.
Angolo della scrittrice: innanzitutto ringrazio chiunque sia arrivato a leggere tutta la storia, come ho già detto in precedenza è la prima volta che pubblico e spero di migliorarmi! Sarò anche grata a coloro che vorranno lasciare un commento o una recensione! :) Buon proseguimentooo! :)

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