Her Eyes

di Keyra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Quella che non sei ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ho scritto questo racconto ispirandomi un po' ad ogni persona che mi circonda, ma come si suol dire "Ogni riferimento a cosa o persona effettivamente esistente è PURAMENTE casuale", no?

Comunque, ci terrei che voi la leggeste. Conta 22 pagine su word, quindi è un po' lunghina, forse la più lunga che ho mai scritto. E ci tengo molto, davvero.

Thanks, buona lettura.

Keyra

*****************************







Ti ci potevi specchiare, dentro i suoi occhi. Erano belli.
Semplicemente,

belli.

Dolci, dolcissimi... Brillavano. Sorridevano da soli, i suoi occhi.

Erano.. morbidi,

e vivi.

Lei, non c’era emozione che potesse nascondere, tradita dai suoi stessi occhi.

Non so se riuscite a capirmi, se capirete davvero... Ma io non ho mai più ritrovato un colore come quello dei suoi occhi.

Solo una volta, forse, vidi qualcosa che gli si avvicinava.

Fu quando mio zio mi portò del cioccolato dalla Svizzera. Cioccolato svizzero. Cioccolato vero. Cento per cento fondente, centro per cento puro, cento per cento scuro.

Presi in mano una tavoletta e mi accorsi che mi ricordava qualcosa. Capii quasi immediatamente e rimasi a fissare quel rettangolo scuro per dieci minuti. Lo fissavo e non lo mangiavo. Lo fissavo solo, e tenendolo in mano fu come guardare gli occhi della ragazza che mi aveva fatto impazzire, fu come sentire la sua pelle morbida e abbronzata, il suo profumo, la sua risata, il naso arricciarsi ad ogni suo riso.

La sentivo viva dentro quella tavoletta di cioccolato, e può sembrare abbastanza stupida come cosa, ma fu l’unica volta che trovai un colore simile ai suoi occhi.

Mi sento abbastanza idiota a fare un paragone come questo, a dirvelo, più che altro. Una tavoletta di cioccolato paragonata all’unica ragazza di cui mi sia mai innamorato. Mi ricorda un po’ quando Ulisse loda Nausicaa dicendole di avere “bellezza eguale a quella di un tronco di palma”. Sì, me lo ricorda abbastanza.

Ma quel colore.. quel colore è impossibile da trovare negli occhi di qualcun altro. Un colore dolce, profondo, scuro, brillante. Un insieme di contrasti, ossimori l’uno dopo l’altro.

I suoi occhi sembravano un po’ quelle gallerie nelle autostrade, scure ma illuminate da luci gialle. In quei tunnel passano migliaia di macchine, alcune si incendiano, altre combattono, altre corrono, altre si ammazzano... tante si salvano. Ed era proprio così.

Davano un po’ quella sensazione lì, i suoi occhi: ci entravi, ma non sapevi se ne saresti uscito.

Dal momento in cui la conoscevi - conoscevi i suoi occhi, non capivi più niente e avresti voluto farla tua per sempre, avresti voluto che non fosse di nessun altro, che ascoltasse solo te, che abbracciasse solo te, che guardasse solo te.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La conobbi quando avevo tredici anni. Eravamo entrambi appena ragazzini, la notai in un bar del paese, nella sala giochi.

Era in un angolo vicino ai videogames, guardava i suoi cuginetti sparare a raffica contro il presunto nemico  e commentava con frasi del tipo  - Istruttivo. Magnifico. Eccellente -.

Guardava il gioco con aria superiore e leggermente schifata, ma sembrava divertita.

-         Fammi giocare, ti prego - disse alla fine.

 

 

 

 

La prima sera che parlai con lei fu anche l’ultima delle sue vacanze.
Non la sentii più per un anno, perché io, con la mia stupidità neo-adolescenziale e la voglia di crescere, di scoprire, di buttarmi in tante di quelle avventure, non avevo voglia di rincorrere una ragazza che abitava ottocento chilometri lontano da me, e così mi dimenticai in fretta di lei.
La mattina dopo il nostro primo incontro, lei era già diretta verso Torino, ora posso sentire il treno sfrecciare, fermarsi, frenare, fischiare...

 

 

 

 

 

Mi innamorai di lei quando di anni ne avevo quattordici.

Fu l’estate dopo il nostro primo incontro che mi resi conto di che persona era, lei.

Quell’estate non ci fu neanche un bacio sulle labbra, no, mi bastava abbracciarla, sentirla vicino a me. Mi bastava guardarla parlare, muovere veloce le labbra e le mani, gesticolare continuamente, ridere, sorridere, arricciare il naso, scostarsi i capelli dal viso, tirarli indietro, nasconderli dietro le orecchie.

Mi bastava vederla arrivare così, sorridente, con i suoi vestitini corti, la pelle scura e morbida, morbidissima, le mani piccole e rotondette, i fianchi magri, il collo lungo.

Mi bastava sentire il profumo dei suoi capelli, era stupendo, stupendo, davvero. Sapeva di vaniglia, di miele, di camomilla, era un odore meraviglioso, un po’ vaniglia un po’ miele camomilla e – forse – anche un po’ pesca. I suoi capelli erano stupendi, erano scuri, scurissimi, lunghi e sempre sciolti.

Li adoravo, quei capelli.

E mi bastava incontrare i suoi occhi. Quegli occhi lì, quelli in cui ti ci puoi specchiare dentro.

Mi bastava tutto questo per avere un’estate stupenda. Tutto questo, per sentirmi il ragazzo più fortunato della terra ad averla vicina, tutto questo mi bastò, solo questo, per innamorarmi.

 

Non avevo mai conosciuto una ragazza così.

Non avevo mai conosciuto una ragazza più piccola di me così intelligente. Che poi, lei, non sembrava affatto più piccola. Semmai, sarebbe potuta sembrare più grande, di me.

Fu l’unica che non odiai mai. Odiare è una parola troppo grossa, ma nella vita l’ho provata così tante volte, in questo mondo di spazzatura. Lei lo chiamava cosi, questo mondo. Un mondo di spazzatura. Una volta mi disse di non dire mai che la vita è una merda, perché non è vero. O almeno, non la nostra. Diceva sempre così. Gliel’aveva insegnato una persona. Preferiva dire che il mondo era una merda, un immondezzaio, una discarica di sogni infranti, di speranze deluse, illusioni stracciate. E di bambini che muoiono di fame ogni cinque secondi, di grandi città egoiste, di politici sfruttatori.

Già, per lei non provai mai odio. Forse perché ero innamorato e non riuscivo a vedere altro di lei se non i suoi aspetti dolci, buoni , onesti, perché era anche stronza, lo so che era stronza, lo era con tutti, o quasi. Ma per me tutto questo passava in secondo piano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’inverno dei nostri quattordici anni lo passammo non pensando molto l’uno all’altro, ma conservando sempre il ricordo, mantenendolo vivo. Ogni tanto le telefonavo, ci scrivevamo messaggi, ci sentivamo. Verso l’avvicinarsi dell’estate tutto questo aumentò.

Quando ci rivedemmo entrambi facemmo il resoconto di quell’anno passato. Io gli raccontai delle ragazze con cui ero stato. Niente di serio, non come lo era stata lei. Mi disse - Il solito farfallone -. Io risi.

Lei mi raccontò delle storie che aveva avuto, erano state due, soltanto due. La prima più seria ma più difficile, l’altra un po’ meno pesante, più normale.

 

Iniziò così l’estate della mia vita, raccontandoci delle persone che c’erano state al posto nostro, persone che in un modo o nell’altro avevano colmato il vuoto lasciato l’estate prima.

Fu quella l’estate in cui dissi per la prima volta in vita mia ti amo. Credendoci.

 

Fu quella, e ora ve la sto per raccontare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Arrivò a fine giugno, ero seduto su una panchina e aspettavo una ragazza.
Appena mi avevano chiesto di uscirci – non la conoscevo, ma dicevano fosse bellissima – io avevo rifiutato.

Di lì a pochi giorni sarebbe arrivata lei e non avevo neanche le forze, di uscire con un’altra.

Le forze, la voglia, la curiosità.

Mi dissero che mi ero trasformato in un ragazzo serio, - Ma dai Gabo che ti succede.. Non sei più quello di una volta! – , e in qualche modo mi convinsero e risvegliarono in me l’animo da farfallone che in quei giorni era andato in vacanza.

Arrivai all’appuntamento, ma di lei non c’era ancora traccia.
Ero leggermente curioso, quella ragazza del paese accanto a me.. si dicesse fosse così bella, ma non ne avevo mai sentito parlare prima.

Ero curioso, sì, ma dopotutto non me ne importava niente. Avevo accettato di uscire, ma con la consapevolezza che non volevo succedesse niente.

 

Io volevo solo lei, e basta. Nessun altra.

 

Aspettavo a braccia conserte seduto su una panchina, c’era un caldo afoso quel giorno, niente brezza marina, niente venticello fresco. Solo caldo, tanto caldo afoso.

 

Non mi resi conto né come né quando, ma improvvisamente qualcuno mi aveva legato una benda sugli occhi. Era lei, era arrivata.

Il cuore cominciò a battermi.

Mi piaceva, incominciava a incuriosirmi per davvero, quella ragazza... Sorrisi, confuso e disorientato.

 

-         Ciao –

 

Non mi rispose, la sentii costeggiare la panchina e sedersi accanto a me.

Il cuore mi batteva a mille e non sapevo cosa fare. Non volevo, sorridendo, adottare un’espressione stupida, ma neanche fare il serio.

Aspettai e cercai di capire cos’aveva in testa quella ragazza stramba.

Sentivo il suo respiro agitato ma sicuro di sé. Impossibile, mi stava facendo impazzire...

Feci per togliermi la benda dagli occhi, ma lei velocemente mi fermò.

Silenziosa, sempre, silenziosa.

In una frazione di secondo la sentii avvicinarsi, non ci capivo più niente.

Mi diede un innocente bacio sulla guancia, si allontanò, si alzò dalla panchina e si mise davanti a me.

Avevo sviluppato una specie di sesto senso, riuscivo a captare qualsiasi suo movimento.

Allungò le mani verso di me e mi tolse, piano, la benda.

 

 

-         ..Rebbi.. –

 

Mi sorrise, contenta. Era così bella. Bellissima. E i suoi occhi, non li avevo mai trovati occhi così... di quel colore.

 

-         Ciao.. –

 

In quel momento sentii che avrei fatto di tutto per lei. Avrei sfidato il mondo, quella discarica di sogni, pur di star con lei, di averla sempre con me.

 

Mi alzai e l’abbracciai forte.

Ci abbracciammo a lungo, non volevo più lasciarla, e lei non voleva lasciare me.

 

Quando ci sciogliemmo da quell’abbraccio – forse il migliore della mia vita – vidi piccole lacrime al margine dei suoi occhi, e sorrisi.

 

       No, Reb.. –

 

Anche lei sorrise.

 

Mi persi subito in quegli occhi scuri, quel tunnel sotterraneo.

 

 


Quegli occhi,

 ti ci potevi specchiare, in quegli occhi. I suoi occhi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ascoltai parlare dei ragazzi con cui era stata, di come se l’era presa nel culo da uno, di come l’aveva fatta star male, di quanto l’odiasse anche ora, di come, dopo di lui, aveva pensato che i ragazzi fossero tutti uguali e di quanto aveva odiato l’intera stirpe maschile. Usò proprio queste parole.

Raccontò anche di un’altra sua fiamma più recente, che si era accesa tra i corridoi della scuola ed era finita con la fine, della scuola.

 

-         Una storiella normale, niente di che... E’ finita per noia, credo –

 

-          Tu? - mi chiese sorridendomi, quel sorriso che solo lei era capace di fare. Quel sorriso così furbo, che usava quand’era curiosa ma anche quando ti voleva fregare.

 

-         Be’, lo sai, più o meno –

 

Le raccontai di Simona, più grande di me, e di Silvia, la cugina del mio migliore amico. Le dissi di Marina, una ragazza conosciuta così, per caso, e Giulia, una compagna di classe di suo cugino.

 

-         Il solito farfallone.. – disse ridendo.

 

L’abbracciai forte, eravamo soli seduti su quella panchina deserta.

 

-         Mi sei mancata –

 

Sorriso.

 

-         ...

-         ...

-         Anche tu.

 

 

Non me l’aveva mai detto, prima.

 

Grazie alle persone che mi hanno recensito e grazie a chi mi ha detto che gli piace come scrivo... Ne sono stata molto lusingata =)

Bacio, ditemi cosa vi è sembrato questo capitolo!

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Grazie a chi mi ha recensito pure questa volta! Un grazie immenso, davvero! A chi mi dice che è catturato dal mio modo di scrivere e che lo faccio davvero bene! Vi ringrazio un sacco, perché credo che per chi ama scrivere sia una delle cose più belle da sentirsi dire..!!
Ci ho messo tutto il mio cuore in questa storia, e spero quindi che vi piaccia davvero.

Un bacio, Keyra





******************************





Da quel momento in poi si instaurò, tra me e lei, un legame di complicità reciproca e di pura sincerità.

   Io ero lei e lei era me.

Ci promettemmo, quel pomeriggio, di dirci tutto quanto da quel momento in poi, di non avere nessun segreto tra di noi, qualsiasi cosa riguardasse.

In quei giorni mi raccontò tante cose della sua vita, mi descriveva le giornate che passava a Torino, i suoi amici, uno per uno.

Mi sembrava di conoscerli, quei ragazzi di città, di frequentare il liceo in cui studiava, di sapere il greco e il latino – io, che non sapevo neanche l’italiano.

 

-         Raccontami anche tu – mi diceva guardandomi negli occhi, catturandomi con il suo sguardo languido.

Ma io non volevo e rimanevo zitto, perché a volte mi accorgevo che la mia vita, in confronto alla sua, era monotona e senza via d’uscita.

Noi, adolescenti rinchiusi in un paese di quattro vie, avevamo come massimo divertimento gli sballi del sabato sera, sbornie birra spinelli e Marlboro. 

Quelle volte mi sentivo inferiore a lei, e quando succedeva mi rinchiudevo in un silenzio, a pensare.

E lei mi chiedeva

 

      - A cosa pensi?

      - A niente.

      - Non è vero. A cosa pensi? – ripeteva.

      - Ti ascolto, voglio ascoltarti.

      - ...

      - Davvero. Parla, voglio solo ascoltarti

 

E allora lei parlava.

Succedeva soprattutto durante le sere in cui dormivamo insieme.

Avevamo escogitato un piano per passare intere nottate stretti l’uno all’altro, da soli, senza amici intorno, senza nessuno che ronzasse ai nostri piedi, che parlasse, senza che nessuno sapesse niente di noi, di quello che stavamo dicendo, di quello che ci promettevamo.
In paese era così, la gente amava sparlare. E spesso ritrovavi all’origine di un pettegolezzo sparpagliato tra le vie uno dei tuoi migliori amici. Non ci potevi far niente. Era così.

A dire la verità, fu soprattutto lei a farsi venire in mente qualcosa di ingegnoso e abbastanza sicuro. Aveva pensato a tutto, ad ogni eventualità.

Lei era fatta così, se doveva fare una cosa, la voleva far bene, e pensava a tutto, sì.

Me ne resi conto con l’avanzare del tempo, di quanto era capace di organizzare tutto nei minimi dettagli, senza essere scoperta, nascondendosi all’ombra di sé stessa.

E così facemmo degli amici i nostri complici più fidati.

Quell’estate lei abitava da suo cugino, era sola, non c’erano i suoi genitori, e così fu facile, estremamente facile.

Ogni volta che organizzavamo di dormire insieme, lei e il cugino rubavano le chiavi della casa dei suoi genitori, che quell’estate era vuota.

Io portavo le coperte, per rimboccare i materassi, vecchi e consumati, e il mio migliore amico organizzava una festa a casa sua.

Era semplice.

Ufficialmente, lei ed io eravamo da lui, a divertirci in mezzo a pizze e champagne, come una buona parte dei ragazzi del paese, ma in realtà ci coccolavamo tra le lenzuola bianche e pulite, in mezzo a quella casa troppo vecchia e piena di topi.

 

-         Non è il massimo, ma si può fare - mi disse quando ci entrai per la prima volta.

 

E le nostri notti lì furono tra le migliori della mia vita. Furono tra le più romantiche e allo stesso tempo le più innocenti.

Stappavamo vodka o limoncello coricati tra le coperte fresche, ci raccontavamo i nostri sogni fissando la luce del lampadario opaco e la solita zanzarina ronzante, ascoltavamo il rumore dei grilli e il silenzio della notte abbracciandoci e coccolandoci e scambiandoci tanti baci gentili e dolci.

Era in quelle sere, che ogni tanto, mi sentivo inferiore a lei, in cui sentivo di quanto lei fosse migliore di me.

Forse era perché l’amavo, forse perché avrei dato tutto, per lei.

La vedevo un po’ come una dea, una dea che non può sbagliare, che non può soffrire, che non può non amare. Non amarsi.

 

-         Ti amo.. -

-         ...

-         ...

-         ...

-         ...

Bacio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le piaceva nuotare, tantissimo. Amava tuffarsi nell’acqua gelida e rinfrescare il corpo accaldato per via del sole cocente.
Si faceva lunghe nuotate fino a largo con suo cugino, finivamo per non vederli più dalla riva, poi tornavano entusiasti, e stanchi.

Nuotare la faceva sfogare, diceva. Era un metodo per dimenticarsi di tutta la sua vita, nuotando diventava un essere che non aveva anima, aveva solo corpo e nuotava.

Non pensava a nulla, mentre muoveva braccia e gambe per andare avanti e stare a galla. Era semplicemente così, non pensava a nulla.

Mi disse che ci aveva messo un bel po’, per imparare a non pensare, ed era una cosa abbastanza strana,

imparare

a non pensare.

Chiunque poteva fare il contrario, ma lei no. Lei imparò a disimparare a pensare.

 

-         Ci sono due momenti in cui non penso a niente – mi disse. – Quando nuoto, e quando ti ascolto suonare –

-          

Ogni giorno mi chiedeva di suonarle qualcosa e allora io prendevo in mano la chitarra e cominciavo a suonare, e a guardarla.

 

-         Guarda le corde, non me –

-         Perché?

-         Mi imbarazzo.

-         Eddai.

-         Davvero, guarda le corde. Sei anche più bello, se guardi le corde.

 

Me lo diceva con un sorriso sarcastico, voleva che facessi come diceva lei.

Veniva ad ogni ritrovo tra me e gli altri ragazzi con cui suonavo. Ci chiamavamo i Karmapolis e suonavamo grunge. Il nostro piccolo rifugio era il garage di uno di loro, ma si trovava a qualche chilometro dal paese, su in campagna.

Lei ci veniva lo stesso e durante le prove si sedeva su un divanetto di fronte a noi e ci guardava per tutto il tempo, sorridendo.

 

-         Canta – le dissi una volta.

-         No.

-         Perché?

-         Perché mi imbarazzo.

 

Lo ripeteva così tante volte, quel “mi imbarazzo”. Imparai ad apprezzarlo, sebbene fosse un lato che non mi piaceva molto di lei.

 

-         Sei stato bravissimo, oggi – mi ripeteva ogni volta tornando verso casa.

 

Mi prendeva la mano e ci appoggiava le labbra.

Impazzivo quando faceva così.

Allora io la prendevo in braccio e lei urlava di – Non farlo! Gabo! Non farlo! – , ruzzolavamo a terra e arrivavamo alla strada che portava al paese rotolando, correndo, ridendo come pazzi.

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Dopo quindici giorni come quelli, le sicurezze che mi ero costruito su di lei crollarono giorno dopo giorno, pian piano, passo dopo passo.

Improvvisamente, feci due più due e mi accorsi che Rebecca non teneva completamente fede alla promessa che ci eravamo fatti, quel pomeriggio sulla panchina.

Nascondeva qualcosa e sebbene avessi il dubbio di cosa fosse, cercavo di cacciar via dalla mente quel pensiero e inventarmi qualcos’altro.

Cercavo di dare una scusa ai suoi comportamenti strani e quando capii che non poteva essere diversamente mi sentii un mostro, un mostro che incolpava la ragazza che amava – l’unica che avesse mai amato – di non amarsi.

Avevo sempre pensato che lei non fosse normale, che fosse diversa, non come le altre ragazze. Ma con diversa non intendevo

                                                           malata.

Si nascondeva, lei. Nascondeva sé stessa dietro una maschera della felicità, dietro sorrisi allegri, dietro risate acute e frasi sagge.

Non capivo come non avessi potuto accorgermene prima, io che con lei passavo quasi tutte le mie giornate per intero.

Io che la vedevo sin dal mattino, con il pigiama addosso e i capelli spettinati, e che la sera le mandavo il bacio della buonanotte dalla strada, e lei dalla finestra mi sorrideva e mi diceva - Dormi bene -.

E non capivo come i suoi occhi non avessero potuto tradirla, quegli occhi che erano davvero lo specchio dell’anima, nel suo caso.

Forse aveva imparato a convivere così perfettamente con quel suo segreto che era diventato un membro di lei, un’emozione stabile, che c’era un po’ in tutto quello che lei facesse.

Anche se dentro stava male, questo non le vietava di sorridere e di sentirsi felice, qualche volta. Forse era così. Forse era così, quando stava con me.

Mi chiesi come poteva esserlo, felice, nascondendo una cosa del genere. Mi chiesi se tutte quelle volte che mi aveva detto di esserlo, con me, non fossero solo bugie.

Tutti mi crollava addosso, ma non potevo incolparla così. Avevo bisogno di una conferma, ma non avevo il coraggio di metterla davanti al suo problema più grande.

 

Fu così  che decisi di andare da suo cugino. Lui era l’unico che – forse - poteva sapere.

Lo chiamai chiedendogli di incontrarci perché dovevo parlargli. Un quarto d’ora dopo eravamo seduti al tavolino della pizza al taglio del paese.

 

Avevamo entrambi una birra davanti.

 

-         Devo parlarti di Rebecca –

-         L’hai sverginata? -

-         Giorgio, non fare il coglione. Non è il momento di scherzare, credimi.

-         Okay, parla.

-         ...

-         ...

-         Lei è.. Tua cugina, è anoressica?

-         ...

-         ...

-         Te l’ha detto lei?

-         Se me l’avesse detto lei te lo starei chiedendo?

-         ...

-         ...

-         Lasciala stare. Dimenticati di questa cosa.

-         Neanche per sogno.

-         Lasciala vivere.

-         E questo sarebbe un modo di vivere?

-         ...

-         ...

-         Parlane con lei. Io non c’entro un cazzo.

-         Non posso parlargliene.

-         Parlale. Fallo.

-         ...

-         ...

-         Okay.

 

 

 

 

 


La prima cosa che feci tornando a casa fu scaraventare a terra la lampada della mia scrivania e prendere a calci il letto. Poi mi ci buttai sopra e – in silenzio – scoppiai a piangere come un bambino.

Piangevo quelle lacrime silenziose, senza che nessuno si preoccupasse di me.

L’unica a guardarmi era la mia chitarra, appoggiata accanto alla porta, che mi fissava spaesata, stupita.

Non mi aveva mai visto piangere.

Piangere così.

Di colpo capii tutto, tutte le volte che sfuggiva a domande da parte mia ingenue e innocenti, ma per lei come un pugno nello stomaco.

E mi venne in mente che era dimagrita tantissimo dall’anno prima e che, forse, continuava a dimagrire sempre di più.

Mi vennero in mente tutte le volte che rifiutava un gelato e i pranzi che quotidianamente saltava.

E, ripiegandomi in una smorfia di dolore, mi resi conto che spesso, durante le feste e le rimpatriate tra di noi amici, dopo aver mangiato correva in bagno con la scusa di un mal di pancia improvviso.

 

-         Ma fatti vedere, per ‘sto mal di pancia – le dissi una volta. – Non è possibile che ti venga ogni volta che mangi –

 

-         Non è niente, magari solo un po’ di acidità – mi rispondeva.

 

 

Rebecca, Rebecca, pensavo.
Chi sei, Rebecca?

 

 

 

 

 [ Come sempre, grazie delle vostre recensioni! ]

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 Continuo a ringraziare chi mi dice che scrivo davvero molto bene. E' una lusinga altissima per me ^_^

Grazie a tutte voi che mi seguite con tanta partecipazione.. grazie!
Chissà, Rebecca potrà come non potrà morire...

Questo anche se potrà sembrarvelo, non è assolutamente l'ultimo chap. Quindi, assaporatevelo ancora un po'... !!

Un bacio, Keyra





**************************************





-         Perché suoni la chitarra ogni giorno, tu? Perché ogni giorno, costantemente, ti eserciti? –

 

Mi chiese, quando io le domandai perché non mangiava, e perché, se lo faceva, dopo si rinchiudeva da qualche parte a vomitare.

 

-         Perché mi piace suonare –

-         E ti piace la tua musica? Ti piace, come suoni?

-         ..sì. Abbastanza.

-         Vorresti migliorare.. almeno un po’, no?

-         Sì, ma che cazzo c’entra, Reb?

-         E’ lo stesso motivo per cui faccio quello che mi hai chiesto tu. A me piace la mia musica, ma ogni giorno cerco di migliorarla, capisci?
E ogni giorno mi fa sentire bene, accorgermi che sto perfezionando il mio modo di suonare, e ogni volta voglio fare meglio, sempre di più... sempre di più. Non voglio smettere perché vedo che potrei migliorare fino all’infinito..

                                                            ...e oltre – aggiunse sottovoce.

-         ...

-         ...

-         Reb?

-         Sì?

-         Ti rovini la vita con le tue stesse mani, facendo così.

-         Non mi rovino la vita.

-         E invece sì.

-         Rovino quella delle persone che mi stanno accanto, forse.

-         Anche.

-         ...

-         E a me non ci pensi?

-         Tu non c’entri niente con questa storia.

-         Ma sono una delle persone che ti sta accanto, no?

-         ...

-         ...

-         ...

-         ...

-         Lasciami continuare a suonare questa musica, per favore. E’ l’unica cosa che ti chiedo, l’unica.

-         Non puoi chiedermi una cosa del genere, Reb.

-         Non posso fare diversamente.

-         ...

-         ...

-         ...

-         ...

 

Reb era crollata sul letto, quando le avevo posto la fatidica domanda le ginocchia le erano cedute.

Aveva addosso solo una camicia da notte bianca e corta. In realtà era una mia camicia, una delle mie preferite, ma ormai la usava lei come pigiama.

Io ero accanto a lei, già sotto le lenzuola. L’avevo aspettata mentre si struccava e si faceva una doccia.

L’avevo aspettata con il cuore a palla, frenetico, impaziente.

Palpitava furiosamente, come se volesse uscire dal petto di questo ragazzo confuso e ingenuo, innamoratosi di un’anoressica.

Avevo sempre sentito parlare di quelle ragazze, ma mai avrei pensato di trovarmene una accanto. E invece, ora, era proprio la ragazza che amavo.

Non riuscivo ancora - forse ero troppo giovane, troppo poco informato e per niente “esperto”, per niente ancora provato da quella situazione – a capire perché lo facesse, come ne era capace, come poteva rovinarsi così la vita, da sola.

E anche dopo averglielo chiesto, i miei dubbi non cambiarono. Dubbi che erano comunque certezze: io non capivo come cazzo facesse, era una malata, era pazza.

 

-         Non soffri?

-         ...

-         ...

-         Un po’.

-         Non vorresti essere una ragazza come tutte le altre? Perché devi complicarti la vita?

-         Perché tante persone l’hanno complicata a me. Se arrivi al punto di fare una cosa, non la fai perché ti va di farla e basta. A me non va di farla, ma ormai ci ho fatto l’abitudine e quindi lo faccio.

-         ...

-         ...

-         ...

-         ...

 

Mi misi le mani nei capelli, disperato. Dove mi ero cacciato, dove?

 

-         Ti faccio schifo, vero?

-         Non mi fai schifo.

-         E allora cosa?

-         Non ti capisco.

-         E’ ovvio, è impossibile che tu mi capisca.

-         ...

-         ...

-         Ti ho sempre capita.

-         Sì, è vero, ma nessuno può capire un’anoressica, se non lo è stato, o lo è.

-         Cosa faremo ora?

-         ...

-         ...

-         In che senso?

-         Non so come .. come comportarmi.

-         Normale. Sono anoressica, non ho la lebbra.

-         Normale?

-         Normale.

 

Io non so come ci riuscì, ma in quel momento lei sorrise. Proprio così. – Normale – . E sorrise.

Sorrise, capite?
E poi mi chiedevo come facevo ad amarla così tanto. In quel momento – proprio quando sorrise – mi accorsi che l’amavo cento volte più di prima.

Ci coricammo a letto e l’abbracciai. Le presi la mano e prima di addormentarci, proprio un secondo prima, le sussurrai

-         Sei bellissima così, come sei tu –

-         ... grazie –

Non potevo vederla in faccia, perché mi dava le spalle e aveva il viso rivolto verso la finestra. Le piaceva addormentarsi così. Ma ugualmente la sentii sorridere. Sentii il suo sorriso.

Strinsi più forte la sua mano. Lei la strinse più forte a me.

-         Buonanotte – sussurrò piano, e poi mi diede un bacio sulle dita.

-         Buonanotte –

-         ...

-         ...

-         ...

-         ...

-         ...

-         Reb?

-         Sì?

-         Ti voglio bene.

-         ...

-         ...

-         Ah sì?

-         Sì.

-         Anch’io te ne voglio, e tanto.

-         Ah sì?

-         Sì.

-         Buonanotte, Reb.

-         Buonanotte.

 

 

 

 

 

 

 

Quello è l’ultimo ricordo che ho di Reb “triste”.

Tutti gli altri, risalenti ai giorni prima come a quelli seguenti, furono di una Reb allegra, solare, vivace, intelligente, interessante, curiosa, schizzata, imprevedibile, lunatica.. Mille aggettivi, ma tra questi non c’era mai triste.

 

Quegli ultimi venti giorni che ci restavano li vivemmo così, come aveva detto lei, normali.

Non sembrava fosse successo nulla.

Solo una cosa era cambiata: eravamo ancora più complici di prima. E ce n’era un’altra, che avrei voluto gridare al mondo intero, ma continuavo a sussurrare solo a lei, solamente a lei, ogni tanto, nelle notti in cui dormivamo insieme, in quelle notti pazze, quelle notti così ingenue e innocenti, quelle notti, le nostre notti: io l’amavo ancora più di prima, l’amavo pazzamente, alla follia. L’amavo fino all’infinito

                                                                                                          .. e oltre.

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 Inutile ringraziarvi sempre per i vostri commenti e complimenti.. Grazie, grazie mille!!=)


***************************************






Tornò a Torino a metà agosto.

Ripartì subito con una sua amica, l’avevano invitata al mare in Liguria, nella loro casa da ricconi cittadini snobboni del cazzo.

Ogni sera mi chiedevo cosa stesse facendo, come si divertiva quando usciva con la sua amica,  e avevo una paura lancinante che conoscesse qualcuno, che anche solo ci parlasse, con un ragazzo.

 

Mi mancava.

 

Mi mancava follemente, stavo impazzendo senza di lei. Avrei voluto scappare e raggiungerla e abbracciarla e baciarla e dirle – Ci sono io, ci sono io –

 

Mi telefonava ogni sera e mi raccontava di come si stava divertendo, lì.

 

-         Ma mi manchi –

-         Anche tu...

-         Mi manchi da impazzire.

-         Io sto impazzendo.

 

Al telefono, qualche volta, piangeva. Ed era strano perché poche volte l’avevo vista piangere.

E invece, divisi da ottocento chilometri, la sentivo piangere in tutta la sua fragilità, e non potevo fare niente, non potevo abbracciarla, né baciarla, e mi saltavano i nervi, perché non potevo fare davvero nulla, se non confortarla a parole, ma cos’ero io, con le parole? Non ero niente.
Io non ero come lei, non ci riuscivo, con le parole.

 

-         Lo stai guardando, il cielo?

-         ...No...

-         Ti ho detto che devi guardarlo, guardalo.

-         Aspetta che esco in balcone.

-         Ok.

-         ...

-         ...

-         ...

-         Ci sei?

-         Sì.

-         Lo stai guardando, ora?

-         Sì.

-         Anch’io.

-         ...

-         ...

-         E’ così immenso, il cielo.

-         Sì.

-         Ma lo stiamo guardando, tutt’e due. Non è una cosa... bella?

-         ...Sì...

-         Perché non parli?

-         Perché... perché ci penso. Penso che sei così lontana e... mi manchi, Reb, mi manchi dannatamente.

-         ...

-         Mi manchi e non riesco più a vivere senza di te. Mi hai abituato a questa vita, e ora non riesco più a vivere normalmente. Non ce la faccio, sai? E’ tutto così insensato, senza di te. Non esco neanche più di casa, Mario mi ci trascina fuori con la forza. Non capisco perché devo uscire, se so che non ti incontrerò. E quel che è peggio è che so che tu, comunque vada, ti divertirai, perché insomma, cazzo, vivi a Torino, ci sono un sacco di cose belle lì, è impossibile annoiarsi, no? Io invece rimarrò isolato in questo paese del cazzo, è tutta una merda, qui. Se non ci sei te, non vale proprio niente.

-         ...

-         Mi manchi.

-         ...

-         Che fai?

-         Piango.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


E va bene, ricapitoliamo: grazie a tutte! Sentirmi dire che è una delle storie più belle che avete mai letto.. dio mio,è qualcosa di infinitamente stupendo! Questo dovrebbe essere il secondultimo capitolo :P baci, Keyra

****************

 

 

Circa un mese dopo, Rebecca mi telefonò. Mi stupì sentire la sua voce, era da parecchio tempo che non ci chiamavamo.

Era debole e sottile, bassa, stanca. Sembrava come appena uscita da un incubo. E forse lo era, per davvero.

 

-         Gabo? –

 

Rispondeva sempre così al telefono, quando mi chiamava lei. Gabo?

 

-         Ciao! –

-         Ciao.. Gabo.. –

 

Percepii qualcosa come un sorriso, dall’altra parte.

 

-         Rebbi.. come stai? –

-         Potrebbe andare meglio –

-         ...

-         ...

-         Ti ho telefonato perché... be’, pensavo fosse giusto dirtelo, insomma. Ieri mattina mi hanno ricoverata. D’urgenza.

-         ...

-         ...

-         Perché?

-         Sono svenuta, a scuola. In mezzo al cortile. Durante l’intervallo. Tutti mi guardavano, sentivo come un vortice attorno a me... Un sacco di colori, di voci, di maglie, di facce mai viste...

-         ...

-         ...

-         ...

-         Sono scesa a quarantadue chili. Il mio corpo non ce la fa più.

 

Aveva continuato a suonare la sua musica, quella musica.

Ma ora era arrivato il momento di stonare. Aveva fatto fiasco, al suo concerto.

 

-         Reb...

-         ...

-         Reb, sei una sciocca.

 

La sentii piangere.

Era un pianto diverso, disperato, non come quando mi diceva che le mancavo. Quello era un pianto di nostalgia, mentre quelle di adesso erano lacrime di sfinimento.

Era come se tutti i nervi le fossero crollati addosso all’improvviso.

Come se pensieri custoditi dentro di sé per mesi fossero esplosi in getti fortissimi, violenti, colpendola all’impazzata.

 

-         Lo so - disse tra i singhiozzi che le invadevano tutto il corpo, la mente e l’anima.

-         Fermati, Reb. Il tuo concerto deve finire.

-         Lo so.

-         Vuoi finirla?

-         Sì.

-         Promettimelo, Reb. Ti prego. Promettimelo. E’ già difficile che sei lontana, ma pensare che lo sei infelicemente, che stai soffrendo. Dio, quanto odio questa situazione.

-         Anch’io..

-         Promettimi di finirla con queste stronzate.

-         Te lo prometto...

-         Lo vuoi davvero? Sii sincera.

-         Sì, lo voglio davvero. Ti giuro. Mi sento.. un’ameba, un vegetale. Mi faccio schifo, Gabo. Mi guardo allo specchio e... sono uno scheletro, dio santo, uno scheletro.

-         Fino a quando ti ricoverano?

-         Non lo so... Dipende tutto da me.

-         Stai mangiando, ora?

-         Abbastanza, ma è difficile. Non tanto perché non voglio, è il mio corpo che rifiuta tutto. Lo rigetta indietro, vomito.

-         Porca della miseria, in che cazzo di casini ti vai a cacciare?

-         Lo so.

-         Ti ricordi quando mi dissi che era bello, essere lontani ma sotto lo stesso cielo? Guardarlo contemporaneamente ed essere così, in qualche modo, vicini? Uniti?

-         Sì.

-         Io non ce la farei se tu non fossi più lì a guardarlo, questo cielo.

-         ...

-         Perciò vedi di guarire Reb. Io non voglio rimanere da solo in questo mondo di merda.

-         ...

-         Ti prego, Reb.

-         ...

-         Ti prego.

-         ... Sì.

-         ?

-         Guarirò, te lo giuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’estate dopo Rebecca arrivò come una ventata primaverile. Era fresca e nuova e bella.

Bella per davvero.

Continuammo così per tanto, tanto tempo. Ogni estate ci amavamo alla follia, ma lei, più diventavamo grandi, meno veniva in vacanza in quel paesino sperduto.

Poco a poco ci perdemmo, e di lei mi rimasero solo alcuni messaggi sul cellulare, qualche e-mail scritta al volo tra gli orari di scuola e il gruppo, e alcune telefonate lunghe come la notte.

Poi, niente di più.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Penultimo capitolo.. =)










*******************

 

 

Passai sette anni senza vederla.

L’ultima volta stava per finire l’università – aveva scelto di diventare fisioterapista – ed era ansiosa di cominciare quel lungo viaggio che, sin dalla nostra adolescenza, aveva programmato nei minimi dettagli: prima avrebbe raggiunto l’America (le coste della California e quelle della parte orientale, New York, e poi Boston, Chicago e il Canada, eccome.. il Canada, per poi scendere in Mexico, splendido Mexico, e proseguire sempre più giù, fino al Brasile), poi avrebbe varcato le soglie dell’Asia (Cina, India.. le spiagge dell’India..) e di lì in Australia – il suo sogno di sempre, l’Australia.

Non sapeva con chi l’avrebbe fatto, ma era sicura che prima o poi qualcuno sarebbe arrivato.

 

Un giorno, Rebecca mi telefonò e mi disse – Parto –


Quel qualcuno era arrivato.

 

Si chiamava Leòn, era un fotografo francese abbastanza famoso, l’aveva conosciuto tre mesi prima. Quel nome si portò via tutto di lei.
Mi raccontò poco su di lui, disse solo – Parto, con il mio nuovo compagno. Si chiama Leòn, l’ho conosciuto a una mostra di fotografia, grazie ad Angela. Sai, Angela. Te la ricordi? –

 

Da quel momento in poi rimasi come sordo per tutta la vita.

Avevo continuato ad amarla, sempre, anche quando accanto a me dormiva un’altra donna, anche quando sentivo di essermi innamorato di nuovo, anche quando dicevo

       Ti amo – a qualcun’altra... sempre, io continuavo ad amare lei, prima di tutte.

 

 

Tornò in Italia dopo cinque anni, e lo fece per sposarsi.  Mi invitò al suo matrimonio, ma non ebbi le forze per andarci.
Da suo cugino seppi che aspettava un bambino, era incinta di tre mesi. L’annunciò davanti a centinaia di persone – la sua non fu proprio una cerimonia modesta, ora si poteva permettere un sacco di cose, lei – e lo disse sorridendo.

Sorridendo, capite? Probabilmente era quel sorriso che conoscevo così bene, io. Quel sorriso furbo, che ti voleva un po’ ingannare, che ti voleva fregare, davvero. Voleva vedere quanto fossi curioso, quanto ci tenevi, a lei.

Tutti gli invitati applaudirono contenti, sembrava proprio uno di quei matrimoni da film..

La sposa con un lungo abito casto e puro, i capelli scuri raccolti e sobri orecchini di perle. Rideva contenta di quel giorno così armonioso, di quella cerimonia così sontuosa, di quella sua vita così perfetta, ora. Una vita che aveva cancellato il suo passato, quel passato in cui aveva pianto per sé stessa, perché non si piaceva. Chi mai l’avrebbe detto? Sembrava così soddisfatta di tutto, ora.
Lo sposo aveva scelto un completo grigio e non nero, - Non siamo mica a un funerale! -  e sorrideva sempre, sempre capite?, orgoglioso di quella donna che stringeva fra le braccia, quella donna dal viso caldo, sereno, quella donna che poteva dargli tutto. Averla accanto era come se tutto non importasse più, come se gli unici abitanti dell’universo fossero lui e lei, lei e lui, e basta. Io lo so, come si sentiva.

Gli invitati ballavano, cantavano, li abbracciavano e si abbracciavano, cianciavano, festeggiavano...


Era tutto così bello, perfetto. Come in un film.

 

 

 




Dopo il matrimonio andò a vivere in Francia.

Continuavo ad avere notizie di lei grazie al cugino. In realtà, non so se facessi bene o piuttosto mi infliggevo del male da solo, chiedendogli di dirmi come stava, Rebecca.
Comunque fosse, mi rispondeva che la sua vita filava liscia come l’olio, il figlio – Philippe – cresceva bene e sembrava proprio un bel bambino, Leòn diventava un fotografo sempre più apprezzato e lei aveva ricevuto un posto da fisioterapista all’ospedale di Lille, dove vivevano.

Giorno dopo giorno mi rendevo conto che eravamo così terribilmente distanti, che probabilmente lei si era completamente dimenticata di me, che ero solo un punto impercettibile del suo passato.

 

Ma nonostante tutto, ero felice, felicissimo per lei.


Avrei voluto rivederla, eccome se l’avrei voluto.

Il mio cuore era a pezzi, anche se accanto avevo un’altra donna da ormai un anno e mezzo.

Scattò qualcosa che mi obbligava a doverla rivedere. Era una voglia irrefrenabile, io dovevo. Dovevo, non so se vi è mai capitato. Ma dovevo, altrimenti sarei diventato pazzo.

E così, dopo sette anni che soffocavo quell’irresistibile tentazione, andai a comprare un biglietto per Lille.

Inventai che la casa discografica per cui lavoravo – ero solo agli inizi, ma ci sapevo fare – mi aveva chiesto di andare a stare una settimana in Francia e così la mia nuova compagna mi lasciò partire tranquilla.

 

Non dissi niente a Rebecca, andai e basta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-         Lorenzo... –

 

Mi chiamò con il mio vero nome.

 

-         Rebecca, buongiorno -

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Quella che non sei ***


Ed eccoci giunti alla fine. E' stata la storia più bella che io abbia mai scritto, secondo me. E' stata la storia più vera, più vicina a me, più verosimile alla mia vita.

Spero che vi siate un po' affezionati a questi due Lorenzo e Rebecca, questi due ribelli divertenti capricciosi ragazzini...

Spero che vi sia piaciuta, insomma. Vi lascio il testo di una canzone che ha a che fare un po', forse, con questa storia..

Un bacio, Keyra

Io ti ho vista già, eri in mezzo a tutte le parole che
non sei riuscita a dire mai
.
Eri in mezzo a una vita che poteva andare ma
non si sapeva dove...
Ti ho vista fare giochi con lo specchio
e aver fretta di esser grande
e poi voler tornare indietro quando non si può
.

Quella che non sei
quella che non sei non sei
ma io sono qua e se ti basterà
quella che non sei, non sarai
a me basterà
.


C'è un posto dentro te in cui fa freddo
è il posto in cui nessuno è entrato mai
quella che non sei.

Io ti ho vista già eri in mezzo a tutte le tue scuse
senza saper per cosa.
Eri in mezzo a chi ti dice "scegli": o troia o sposa.
Ti ho vista vergognarti di tua madre
fare a pezzi il tuo cognome
sempre senza disturbare che non si sa mai.

Quella che non sei
quella che non sei non sei
ma io sono qua e se ti basterà
quella che non sei, non sarai
a me basterà
.

C'è un posto dentro te che tieni spento
è il posto in cui nessuno arriva mai

quella che non sei.

Ti ho vista stare dietro a troppo rimmel
dietro un'altra acconciatura eri dietro una paura
che non lasci mai
.

Quella che non sei
quella che non sei non sei
ma io sono qua e se ti basterà
quella che non sei, non sarai
a me basterà
.

C'è un posto dentro te in cui fa freddo
è il posto in cui nessuno è entrato mai.
Quella che non...


*******************************


Era bella, bellissima, forse più bella ancora di quanto fosse in passato. O forse, semplicemente, ora era donna.
Aveva tagliato i capelli corti, più o meno le arrivavano sotto il lobo dell’orecchio, ma era lo stesso così terribilmente affascinante.

Gli occhi grandi – sì, quegli occhi - risaltavano ancora di più su quel viso magro e sorridente.

Quando sorrideva le si formavano piccole rughe sugli occhi e sulla fronte. Ma era sempre così irresistibilmente bella.





Mi fece vedere la sua casa, il suo giardino, alcune fotografie fatte da Leòn.

- E lui, dov’è? –

- Ora? Ora è a Parigi, per una mostra –

- Capisco –

Conobbi suo figlio, il famoso Philippe.

- Si parla molto di te in Italia, sai? – gli dissi accarezzandogli i capelli.

Lei sorrise.

Mi portò in giro per Lille.

- E così questo è il mondo in cui vivi, ora –

- Già, il mondo in cui vivo.

- E’ proprio così? Come una favola?

- Chi ha mai detto che vivo in una favola?

- ...

- ...

- Non lo so.





Il giorno prima di partire facemmo l’amore.

Facemmo l’amore per la nostra prima volta insieme, e fu la volta più bella della mia vita.

Ci mettemmo così tanto sentimento da rimaner stupiti, stupiti di tutto quell’amore represso per anni scatenato all’improvviso.

Mentre facevamo l’amore quegli occhi scuri continuavano a fissarmi sorridendo.

Quegli occhi, capite?

Quegli occhi in cui ti ci potevi specchiare, se volevi.

Quegli occhi morbidi,

e così dolci. Così dolci.






Fu l’unica.

L’unica donna che amai, nella mia vita.





- Cosa faremo ora? –

- Torneremo a vivere come sempre.. Tu in Italia e io qui, a Lille –

- Non posso vivere senza di te.. Non ci riesco.

- ...

- ...

- La sai una cosa?

- No..

- .. Ti amo.

- Anch’io.

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