Ces étranges choses beyond the sea

di Soe Mame
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1756 ***
Capitolo 2: *** 1756 ***
Capitolo 3: *** 1757 ***
Capitolo 4: *** 1757 ***
Capitolo 5: *** 1763 ***
Capitolo 6: *** 1810 ***



Capitolo 1
*** 1756 ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

1756

- Come ti chiami? -
Mh. Una domanda difficile.
Distolse lo sguardo, mordendosi un labbro. Non le piaceva non saper rispondere ad una domanda.
- Io... - esordì, dopo qualche secondo di silenzio, per poi esitare nuovamente. Trasse un profondo respiro, cercando di capire qualcosa lei stessa: - Gli altri mi hanno sempre chiamata Almirante. Perché il mio nome è Ilhas do Almirante. Però... - tornò a guardare l'uomo seduto d'innanzi a lei, quasi sperando che potesse darle una spiegazione: - ... poco tempo fa, un uomo che non ho mai visto mi ha detto che mi chiamo Iles de la Bourdonnais. Io gliel'ho detto che si sbagliava, che mi chiamo Almirante, ma lui ha continuato a dire che mi chiamo Bourdonnais. -.
Se la ricordava, l'insistenza di quell'uomo. Di certo, dopo aver trascorso un intero pomeriggio ad imparare la corretta pronuncia di quel falso nome, difficilmente si sarebbe dimenticata non tanto il volto quanto il suono della lingua parlata da quell'uomo: le era parsa una lingua "scivolosa", ma piacevole da ascoltare.
- Ah, sì! - esclamò, d'un tratto: - Parlava una lingua come la tua! C'erano tante "sc-sc" e una "r" strana! -.
A quelle parole, l'uomo sorrise. Vide le sue labbra muoversi, un leggero sussurro che continuava a ripetere il suo nome sbagliato. Sembrava... divertito? - Però... - quando riprese a parlare, l'uomo tacque, il suo sorriso svanì: - ... anche gli altri hanno iniziato a chiamarmi Bourdonnais. Ma c'era anche chi continuava a chiamarmi Almirante. Pensavo che era un soprannome, ma mi hanno detto di no, che è il mio vero nome. Però non è il mio vero nome. E, se è il mio vero nome, perché gli altri mi hanno sempre chiamata Almirante? -.
Si portò una mano alla testa, iniziando a sentire un doloroso fastidio. Non capiva, nessuno le aveva spiegato niente: da un giorno all'altro, si era sentita chiamare Bourdonnais, quasi l'avessero scambiata per un'altra persona. Qualcuno le aveva detto che quello era il suo "nuovo nome" e che doveva abbandonare il "vecchio". Ma nessuno le aveva detto perché, era così e basta.
- Ti chiedo scusa da parte sua. - la voce dell'uomo la distolse dai suoi pensieri, portandola a dare nuovamente attenzione al suo interlocutore: - A volte capita che anche gli uomini più raffinati siano sgarbati con una signorina. Imperdonabile, certo. Ma posso provare comunque a chiederti scusa per il suo comportamento. -.
La bambina inclinò la testa di lato, confusa. L'uomo del nome sbagliato era strano, non cattivo. Non aveva fatto niente di sbagliato per cui essere perdonato, no? In ogni caso, la bambina decise di annuire.
- Grazie. -.
Il sorriso tornò sul volto di quell'uomo: - Forse c'è un modo per risolvere questo problema. -.
Non appena lo disse, la bambina quasi trattenne il respiro: - Davvero? -
- Davvero. - annuì lui: - Basterà semplicemente trovarti un altro nome. -.
Questo non se l'era aspettato.
- ... un altro? - fece, esitante.
- Tu sei sia Almirante che Bourdonnais. - le disse l'uomo, pacato: - Prima mi hai detto che nessuno si è mai curato di te: Almirante è la ragazza sola. Poi sono arrivati degli uomini che ti hanno dato un nuovo nome: Bourdonnais è la ragazza confusa. Con un nuovo nome, potrai iniziare una nuova vita. -.
La bambina sbattè più volte le palpebre: era un discorso strano ma riuscì a trovarne una certa logica.
- E... - mormorò, improvvisamente curiosa: - ... che nome posso avere? -.
L'uomo parve pensarci per un attimo, per poi tornare a sorriderle: - Forse... Séchelles? -.
Trasalì. Aveva un bel suono.
- Che carino! - esclamò, gli occhi che le si illuminavano: - Allora adesso sono Séchelles? - domandò, sperando in una risposta affermativa.
- Certo. - risposta che giunse, facendole battere il cuore più forte: secondo quell'uomo, da quel momento in poi avrebbe avuto una nuova vita. Era così facile?
- Séchelles... - la chiamò l'uomo, riportandola al presente. Rispondere a quella parola le fece piacere, portandola a sorridere d'istinto.
- Per caso, hai un altro nome? -.
Adesso era di nuovo confusa - quindi era Bourdonnais.
- ... Almirante. - rispose, improvvisamente a disagio, temendo di aver capito male le parole del suo interlocutore: - ... e Bourdonnais... -
- No, no. - le fece lui, gentile: - Un nome tuo, personale. -.
La bambina non capì e ciò doveva essere ben chiaro soltanto guardandola, dato che l'uomo le si avvicinò, per poi spiegarle: - Ad esempio, io mi chiamo France, ma anche Francis. Uno è il mio nome come nazione, l'altro è il mio nome come individuo. -.
Séchelles avrebbe voluto dirgli di no, che non aveva altri nomi oltre i fin troppi che già aveva, ma i due nomi di quell'uomo l'avevano fatta sorridere: - Hai un nome come individuo quasi uguale al tuo nome come nazione! -.
Fu dicendolo che l'idea nacque nella sua testa: - Posso avere anch'io un nome come individuo quasi uguale al mio nome come nazione? - chiese, fremente.
- Puoi avere tutto quello che vuoi, Séchelles. -.
- Allora, se, come nazione, mi chiamo Séchelles... come individuo, voglio chiamarmi Sesel! - esclamò, giungendo le mani.
- E' un bel nome. - giudicò l'uomo, riempiendole il cuore di felicità.
Intrecciò le dita, felice: - Adesso avrò una nuova vita? - chiese, speranzosa.
Il suo interlocutore annuì: - Anche se, per farlo... - Sesel sgranò gli occhi, non aspettandosi una condizione necessaria: - ... dovrai lasciare la tua casa per qualche tempo. -.
Prima che la bambina potesse spaventarsi, l'uomo la anticipò: - Potrai tornare, ovviamente. - la rassicurò: - Ma ci sono tante cose, oltre il mare. Se rimarrai qui, non potrai vederle. -.
Séchelles, semplicemente, lo guardò. Non era spaventata: era stupita. Stupita di non aver paura, stupita di essere curiosa, stupita di desiderare davvero vedere cosa ci fosse al di là del mare.
- ... e quindi? - riuscì solo a chiedere, quasi trattenendo il respiro.
L'uomo le porse una mano guantata, gentile: - Vuoi venire con me, Sesel? -.
E Sesel, l'emozione che le bloccava le parole all'altezza della gola, riuscì a far uscire dalle labbra una sola sillaba: - Sì. -.


Starnutì. Di nuovo.
Affondò il naso nel fazzoletto, gli occhi che le pizzicavano. Faceva freddo, faceva tanto freddo. Riusciva a sentirlo persino sotto gli innumerevoli mantelli in cui Francis l'aveva avvolta, mentre non sentiva più le dita sotto i guanti; non sentiva più neppure i piedi, sapeva solo che erano abbandonati e sospesi a più di un metro d'altezza.
Tecnicamente, non era una brutta giornata: c'era il sole, le nuvole erano piccole e si contavano sulle dita di una mano; eppure, faceva troppo freddo.
- Siamo arrivati. - annunciò d'un tratto Francis, fermandosi: - Dentro potrai scaldarti. -.
Sesel annuì con la testa, le labbra serrate e incapaci di articolare una frase di senso compiuto.
Non si aspettava che "le cose al di là del mare" fossero così fredde. Certo, durante il viaggio aveva scorto edifici grandiosi, opere altrettanto maestose, persone con indumenti particolari, animali che non aveva mai visto... ma un violento starnuto, puntualmente, l'aveva costretta a riportare la sua attenzione al fatto che stesse letteralmente congelando.
Finalmente, dopo non seppe neanche lei quanto tempo, i mantelli che indossava divennero di troppo: non era il caldo della sua casa, ma era senz'altro una temperatura più accettabile di quella che aveva sentito fino a quel momento.
Tirò su con il naso e cercò di slacciarsi almeno uno dei mantelli, per poi vedere una mano di Francis giungere in suo soccorso nell'operazione.
- Bentornato. -.
Una voce femminile, bassa e pacata, le fece alzare lo sguardo, portando gli occhi sulla figura apparsa al centro dell'ingresso - l'ingresso della casa di Francis, che lei non aveva degnato neppure di uno sguardo: più bassa dell'uomo che la stava portando in braccio, con indosso un vestito rosso che le fece venire un forte istinto di toccarlo, una massa di soffici capelli castano chiaro raccolti, una donna guardava nella loro direzione, senza una particolare espressione sul viso.
- Grazie. - rispose Francis, avvicinandolesi; da quella distanza più ravvicinata, Sesel potè notare come i suoi grandi occhi fossero azzurri, anche se più chiari di quelli dell'uomo.
- Chi è la fanciulla in tua compagnia? - domandò dunque la donna, incontrando il suo sguardo.
Sesel trasalì, senza neppure sapere bene il perché; si rannicchiò contro Francis, quasi a nascondersi dalla donna. Strano: prima faceva freddo, ora sentiva le guance andarle in fiamme.
Francis non disse nulla. Quando Sesel lo guardò, semplicemente, ricambiò con uno sguardo d'incoraggiamento. E la bambina comprese che avrebbe dovuto fare da sola: - I-io... - farfugliò, forse emozionata dal parlare con una "nobildonna": - ... m-mi chiamo Séchelles. -.
Presentarsi con il nome da nazione, le aveva spiegato Francis. Poi, nel caso, dire il nome da persona. Era buona educazione, aveva aggiunto. Sesel aveva annuito e aveva memorizzato.
- Piacere di fare la tua conoscenza, mademoiselle Séchelles. - rispose la donna, senza cambiare espressione: - Io sono Monaco. -.
Sesel non seppe cosa fare: doveva rispondere? Era la prima volta che parlava con - vedeva - una "nobildonna" e-
- Sei una nazione anche tu? - chiese, d'istinto. E gli insegnamenti di Francis le rotolarono nella mente come una frana: c'era modo e modo di rivolgersi alle persone, sbagliarlo significava sembrare maleducati. Avvampò e cercò di rimediare alla figuraccia: - C-cioè... anche voi? - si corresse, balbettando.
Monaco, che inizialmente aveva sgranato gli occhi, si ricompose e annuì, come se non fosse successo niente.
Quella fu la conferma: con Francis prima e con Monaco dopo, aveva provato una sensazione particolare, mai provata prima; quando ne aveva parlato con Francia, quest'ultimo aveva avanzato l'ipotesi che "quella sensazione" la provasse perché in presenza di una "nazione", come loro due. Le aveva anche consigliato di verificare qualora avessero incontrato un'altra nazione e Sesel l'aveva preso fin troppo in parola.
In quel momento, lo stesso Francis - chissà che faccia aveva fatto, alla sua meravigliosa figura? - la mise giù, facendola tornare con i piedi per terra e togliendole un mantello: - Su! - disse, inginocchiandosi per scioglierle il secondo mantello: - Penso che la nostra mademoiselle voglia riscaldarsi un po', giusto? -.
Sesel annuì con forza, sebbene la temperatura non le desse più così eccessivamente fastidio.
- Gli altri sono davanti al caminetto. - informò Monaco, con quella sua voce tranquilla.
Ci volle qualche minuto per liberare la bambina di quasi tutte le imbottiture in cui Francis l'aveva avvolta, lasciandole quel che bastava per essere abbastanza a suo agio; poi fu presa per mano e portata in una stanza grande, luminosa e, soprattutto, più calda dell'ingresso.
Subito i suoi occhi si spostarono sul fuoco crepitante, ignorando tutto il resto; non poté, tuttavia, non far caso agli altri, riuniti davanti alle fiamme: altri che le davano "quella" sensazione, altri che, non appena avevano sentito la porta aprirsi, avevano portato lo sguardo sulle tre persone appena entrate.
Tutti quegli sguardi si soffermarono su di lei per circa una frazione di secondo, per poi spostarsi sul suo accompagnatore.
Quando vide tutte quelle persone - almeno un paio di decine - alzarsi dal pavimento e correre verso di loro, chiamando Francis a gran voce, Sesel non trovò altra soluzione che tuffarsi dietro l'ampia gonna di Monaco, sperando di non essere né notata né investita; fortuna volle che, raggiunto il loro obiettivo, quelli si placassero, limitandosi ad urlare qualcosa in quella lingua scivolosa e aggrappandosi alle braccia di Francis, inginocchiato per essere alla loro altezza.
- Qui est-elle? -. D'un tratto, la voce di un bambino riportò l'attenzione su di lei, ancora seminascosta dietro Monaco. Quando vide tutti quegli sguardi nuovamente su di lei, si nascose del tutto: non aveva idea di come comportarsi con altre nazioni, ci teneva a fare una bella impressione ma si era resa conto fin troppo presto di non riuscire a frenare le parole.
- Parlatele nella lingua delle nazioni. - la voce di Francis la spronò a fare capolino da dietro le pieghe della grande gonna: - Ancora non conosce il francese. -.
Poi la mano di Francia rivolta verso di lei, il braccio teso, un silenzioso invito a raggiungerlo.
Senza neppure pensarci, Sesel emerse da dietro Monaco, correndo da Francis e afferrando quella mano, quasi avesse raggiunto un punto sicuro all'interno di quella casa così grande. L'uomo la spinse leggermente verso gli altri, per lo più bambini come lei: - Da oggi, lei entrerà a far parte della nostra famiglia. - annunciò, suscitando qualche esclamazione sorpresa: - Viene da molto lontano e ha affrontato un lungo viaggio. Sono sicuro che saprete accoglierla nel migliore dei modi. -. Qualcuno ridacchiò, qualcuno rispose affermativamente, in un piccolo coretto.
Si avvicinarono, ma Sesel non si ritrasse: nazioni piccole come lei. Erano davvero come lei? Ancor più di Francia e Monaco?
Era un pensiero nato in quel momento, quando aveva avuto modo di guardare meglio quegli "altri": il timore era stato presto sostituito dalla curiosità, da cui si era generata la consapevolezza che quegli "altri" le somigliassero più di quanto pensasse. E dunque, non doveva averne paura, no?
- Come ti chiami? - chiese una bambina più bassa di lei, con voce squillante.
- Séchelles. - rispose, per poi domandare subito: - Tu? -
- Io mi chiamo Dominique! - fece la bambina, con un risata.
- Io sono Guadeloupe! - si presentò un bambino alto come lei, subito strattonato da un'altra bambina: - Io mi chiamo Saint-Domingue! -
- Io sono Ile Bourbon! -
- Io sono Ile de France! -
Tanti nomi che si accavallavano l'uno sull'altro, tanti volti nuovi, tante voci diverse; Séchelles riuscì ad associare qualche volto ai tanti nomi che le vorticavano nella mente, ma farlo per tutti, al momento, era impossibile. Contrariamente a quanto avrebbe potuto pensare, però, quel caos le piaceva: non sapeva perché ma, quando aveva visto tutti quei bambini precipitarsi a dire - urlare - il loro nome, guardandola negli occhi con sguardi luminosi, aveva sentito il cuore battere più forte, più caldo, più leggero. Un sorriso spontaneo era nato sulle sue labbra, trasformandosi in una risata quando, nella fretta di presentarsi, un bambino ne travolse un altro, rovinando a terra.
- Da dove vieni, Séchelles? - chiese una bambina più grande, di cui non riusciva a ricordare il nome appena sentito.
- Dal mare! - rispose lei, la mente che volava alla sua casa ormai lontana: - La mia casa è una grande isola dove fa caldo tutto l'anno! - esclamò, fiera.
- Come me! - trillò la bambina presentatasi come Ile Bourbon.
- La casa di Séchelles è vicino alla tua. - intervenne Francis, con un sorriso: - E anche a quella di Ile de France. -.
Il volto di Ile Bourbon s'illuminò, mentre Ile de France, un bambino più alto di lei di tutta la testa, rise: - Allora, forse, sei una mia sorellina! -.
Séchelles piegò la testa, incuriosita: in effetti, lei non sapeva praticamente nulla di se stessa, cosa impediva che avesse fratelli o sorelle di cui non conosceva l'esistenza?
L'idea la elettrizzò.
Prese una mano di Ile de France e sorrise: - Allora posso considerarti mio fratello? - domandò. Dopo un attimo di sorpresa, il bambino annuì, sorridente.
- Anch'io voglio essere la sorella di Séchelles! - s'intromise Ile Bourbon, subito seguita da altre tre bambine, tra cui Dominica.
- Noi andiamo, allora! - annunciò Francis, alzandosi e facendo un cenno di saluto: - Siate puntuali per la cena! -.
- Sì, Francis! -.

- Quindi non sei mai stata in nessun'altra casa? - domandò Ile de France, a quanto sembrava ufficioso portavoce della maggior parte dei suoi nuovi fratelli e sorelle.
Sesel scosse la testa: - Sono sempre stata nella mia isola. - rispose, avvicinandosi ancora di più al caminetto.
Dopo la confusione iniziale, era quasi strano stare tutti seduti sul pavimento, davanti al camino, a riscaldarsi e a parlare. C'era la calma: ma non una calma piatta, come quella che seguiva la partenza di tutti quegli uomini di passaggio sulla sua isola, una calma, in un certo senso, confortevole.
- Ti piacerà stare qui! - sorrise Ile de France: - Ci sono tante cose belle e sono tutti gentili! -.
- Però fa freddo... - mugugnò Séchelles, al ricordo del viaggio.
- Ti ci abituerai. - la rassicurò il bambino, dandole una pacca su una spalla: - Anch'io avevo freddissimo, sai? Però poi mi sono abituato e ora posso anche andare in giro con pochi vestiti! - esclamò.
- Ma, se lo fai, poi Monaco si arrabbia... - pigolò una bambina minuscola, con la pelle scura come la sua e quella del bambino con cui stava parlando.
- Ma Francis no. - rispose Ile de France, con una scrollata di spalle.
Sesel ridacchiò; in fondo, non le sarebbe dispiaciuto tornare ad indossare i vestiti leggeri che portava nella sua isola - già le mancavano.
In quel momento, la sua attenzione fu catturata da una bizzarra palla di pelo bianca oltre le spalle dei suoi nuovi fratelli e sorelle, poco distante da loro.
Sbattè più volte le palpebre e rimase con la bocca aperta quando si rese conto che si trattava di un animale: aveva un musetto adorabile, gli occhi scuri e sembrava terribilmente morbido. Senza pensarci, Sesel si alzò e, seguita dagli sguardi stupiti di tutti coloro che, fino ad un attimo prima, stavano parlando con lei, andò dalla palla di pelo, accorgendosi che era in possesso di quelli che sembravano degli arti; a vederlo da vicino, se si fosse messo in piedi, forse avrebbe raggiunto i suoi fianchi.
- Che carino! - esclamò, non riuscendo a trattenersi dall'abbracciarlo: era morbido come le era parso, forse anche di più. Quel che non si era aspettata era il suo profumo, curiosamente dolce.
- Kumajiro è carinissimo! - concordarono alcune bambine, raggiungendola.
- Kumajiro? - ripeté Sesel, incuriosita da quel nome così bizzarro.
- Sì! - esclamò la bambina presentatasi come Saint-Domingue: - E' un orso polare! -.
- Orso polare... - disse nuovamente Séchelles, lasciando la creaturina agli abbracci delle sue nuove sorelle: - Non ne avevo mai visti... - confessò, rapita da quel pelo così morbido.
Kumajiro, ancora tra le braccia di due bambine, alzò il musetto, guardando un punto indefinito. Poi fece una cosa che Sesel non si sarebbe mai aspettata: parlò.
- Chi sei? -.
"Parla! Ha parlato!" si avvicinò, sbalordita: quella creaturina, quell'orso polare, era in grado di parlare? "Le cose al di là del mare sono così strane...".
- Con chi stai parlando, Kumaji- Ah! - Ile Bourbon quasi saltò, quando si accorse di un'altra persona davanti a lei.
Séchelles era semplicemente ammutolita: era sicurissima che, fino ad un attimo prima, non ci fosse nessuno accanto a loro, tanto meno un bambino mai visto prima.
Deglutì, cercando di riprendersi: doveva far parte delle "cose al di là del mare", non doveva sorprendersi. Erano cose a cui non era abituata, ma non erano cattive. In fondo, nessuno si era stupito del fatto che Kumajiro parlasse, anche se, poi...
- Ciao! - salutò, avvicinandosi al bambino apparso dal nulla: - Chi sei? - domandò, sinceramente curiosa.
Con sua grande sorpresa, il bambino abbassò la testa e trasse un profondo respiro, per poi dire: - ... -
- ... eh? -.
Sesel si avvicinò ancora di più, tendendo le orecchie al massimo: - Scusami, puoi ripetere? Non ho sentito. -.
Il bambino fece un altro respiro profondo e ripeté: - Sono Canada! -.
Risposta che arrivò alle orecchie di Sesel per puro miracolo: era il più flebile dei sussurri che avesse mai sentito.
- Io sono Séchelles! - si presentò, con un ampio sorriso: - Sono arrivata poco fa! - esclamò, indicando la porta da cui era entrata.
Il bambino, Canada, mosse appena la testa, come per annuire.
- Kumajiro è suo, sai? - intervenne Ile de France, avvicinatosi.
- Davvero? - fece Sesel, cercando di guardare Canada negli occhi; operazione difficile, visto che continuava a tenere la testa bassa e lo sguardo coperto dalla frangetta di capelli color sabbia.
"Sembra triste..." notò la bambina: "O forse è solo timido?".
- Sei appena arrivato anche tu? - domandò, cercando di farlo parlare: lei già si sentiva a suo agio, tra quelle altre nazioni, e avevano soltanto parlato per poco tempo; forse, se anche Canada avesse parlato, sarebbe stato più a suo agio anche lui?
Il bambino scosse la testa e sussurrò un semplice - sconsolato? -: - No. -.
- In realtà... - parlò di nuovo Ile de France, esitante: - ... Dacana è qui da molto più tempo di noi. -
- Canada. -
Séchelles si portò un pugno al petto, sentendo una strana stretta al cuore: "E allora perché sta qui da solo?" si chiese, non capendo. Escluse a priori l'ipotesi che fossero gli altri ad isolarlo: loro l'avevano subito accolta e messa a proprio agio, non avrebbero mai potuto comportarsi male con uno dei loro fratelli. Se poi quel bambino era lì da più tempo, era lui ad aver accolto loro, no?
Tornò a rivolgersi a Canada.
O meglio, l'avrebbe fatto, se Canada fosse stato lì.
E invece era sparito. Nel nulla.
La bambina rimase con gli occhi sbarrati: "... se n'è andato...?". E lei non se ne era neppure accorta.
- Non ti preoccupare. - la rassicurò Ile de France, scuotendo la testa con fare dispiaciuto: - Lui fa così: appare e scompare senza dire niente a nessuno. Ti ci abituerai. -.
Sesel annuì meccanicamente: - Come con il freddo? -
- Come con il freddo. -.
Mentre ritornava davanti al camino, insieme ai suoi fratelli, alle sue sorelle e a Kumajiro, però, Séchelles si chiese perché quel bambino si comportasse in quel modo. Forse era lui a non volersi avvicinare agli altri? Ma perché?
"Sono tutti così gentili..." pensò, confusa: - Perché li eviti? - domandò, in un mormorio, pur sapendo che il bambino non avrebbe potuto sentirla.
In quell'istante, quasi le parve di sentire un sospiro triste alle sue spalle.
Istintivamente, si voltò, trovando soltanto il muro bianco della stanza.



Note:
* In Europa, le prime notizie sull'esistenza delle Seychelles furono riportate, nel 1502, dall'ammiraglio portoghese Vasco da Gama; in suo onore, le isole furono chiamate Ilhas do Almirante, "Isole dell'Ammiraglio".
Tuttavia, dopo l'entusiasmo iniziale (?), dell'arcipelago in sé non importò realmente a nessuno: per circa due secoli, difatti, le isole furono un semplice luogo di transito per pirati e mercanti. Unica eccezione sta nel fatto che, nel 1609, una nave della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, che passava di lì per caso per raggiungere l'India, finì in mezzo ad una tempesta e si fermò sul primo appezzamento di terra disponibile - alias le Ilhas do Almirante. Tornati in madrepatria, i marinai raccontarono delle isole in cui erano giunti, ma il governo inglese aveva di meglio da fare e non intraprese alcuna azione di conquista.
Nel 1715, i francesi presero possesso dell'Ile de France, isola di grande importanza strategica in quanto avrebbe concesso loro di aprire una via più rapida per l'India. Al fine di proteggere la rotta, nell'Ile de France fu inviato il marinaio Bertrand-François Mahé de La Bourdonnais. Allorché, una volta arrivato, La Bourdonnais disse: - E apriamolo, questo passaggio più rapido per l'India! -; tuttavia, non potendo andare alla cieca e in possesso di una mappa fatta molto alla trallallero, decise, nel 1742, di inviare una spedizione nelle isole del circondario, per avere le informazioni necessarie per tracciare una mappa decente e utile al suo progetto. A capo della spedizione c'era il signor Lazare Picault che, purtroppo, non fece una mappatura poi così accurata; per questo motivo, nel 1744, fu rispedito nelle isole a nord. Stavolta la mappatura fu finalmente più precisa e, in onore di La Bourdonnais, Picault chiamò le ex-Ilhas do Almirante Iles de la Bourdonnais, rinominando Mahé la più grande delle isole dell'arcipelago. Sfortunatamente, quando La Bourdonnais fu sostituito nel suo ruolo di amministratore dell'Ile de France, le Iles de la Bourdonnais finirono - ancora una volta - nel dimenticatoio.
Quando, nel 1754, scoppiò la Guerra dei Sette Anni, i francesi si ricordarono di avere dei possedimenti nell'Oceano Indiano; la conquista ufficiale vera e propria, tuttavia, avvenne soltanto l'1 Novembre 1756, con la simbolica posa di una lapide incisa da parte del capitano francese Nicolas Morphy. Le Iles de la Bourdonnais furono dunque rinominate Ile de Séchelles, in onore del ministro delle finanze francese dell'epoca, Jean Moreau de Séchelles.
* Il Canada apparteneva alla Francia già dal 1534.
* Ile Bourbon è l'odierna Riunione (La Réunion).
* Ile de France è l'odierno Mauritius.
* Saint-Domingue (da non confondere con la-in-francese-omonima capitale della Repubblica Dominicana) è l'odierna Haiti.
[Fonti: Wikipedia italiana, Wikipedia inglese, Wikipedia francese, Wikipedia portoghese]

Salve! ^^
E' un po' di tempo che lurko silenziosamente questa sezione, ma non vi ho mai scritto niente. *E nessuno sentiva il bisogno che tu lo facessi*
Ho infine deciso di delurkarmi con questa storia, nata quasi per caso quando mi sono resa conto che, a condividere il "doppio dominio" francese/inglese, dei personaggi finora apparsi, non è solo Canada (o solo Seychelles) ma anche Seychelles (o anche Canada); mi sono quindi chiesta quale rapporto si sarebbe potuto instaurare tra loro due, così diversi, ai due lati opposti del mondo ma con una storia di dominazioni quasi in comune. °^°
Sì, dovrebbe essere una CanadaxSeychelles. Dovrebbe. °A°
E dovrebbe essere anche pseudostorica, ma potrei benissimo essermi cannata qualcosa di estremamente stupido e/o estremamente importante.
A proposito di cannare, i periodi ipotetici deliranti nel parlato di Sesel sono voluti - mio tentativo di rendere una parlata infantile. Qualora ci fossero periodi ipotetici deliranti nella narrazione, dovrò porre le mie ginocchia sul pavimento ricoperto di ceci.

Un paio di domande che (forse) possono essere sorte:
Se era in corso la Guerra dei Sette Anni (1756-1763), perché Francis se ne sta tutto tranquillo alle Seychelles?
Da quel che ho visto, gli scontri "importanti" che hanno visto coinvolta la Francia (contro l'Inghilterra, ovviamente) sono principalmente tre. Il primo è la Battaglia di Fort Necessity, che vide vincitori i francesi e combattuta nel 1754, dunque due anni prima l'inizio della storia. Il secondo è la Battaglia di Minorca, battaglia navale combattuta il 20 Maggio 1756: non ebbe vincitori veri e propri (l'Inghilterra battuta sul mare? Suvvia...), ma fu considerata una vittoria strategica dei francesi, in quanto gli inglesi persero l'isola di Minorca. Il terzo è la Battaglia di Québec, che vide la vittoria inglese, ma fu combattuta il 12 Settembre 1759, tre anni dopo l'inizio della storia. Le Battaglie della campagna delle Indie Orientali iniziarono nel 1757, un anno dopo l'inizio della storia.
Per questo motivo, tecnicamente, Francia, nel 1756, è uscito vincitore da due battaglie contro Inghilterra, quindi presumo possa dirsi soddisfatto.
Se Sesel non conosce il francese, come ha fatto il TiziodelnomesbagliatochepresumibilmenteeraPicault a parlare con lei?
Uhm, ho pensato che ci fosse un interprete che parlasse sia francese che la lingua più familiare a Sesel - che, confesso, non ho idea di quale fosse, visto che l'attuale creolo delle Seychelles deriva dal francese e, all'epoca, l'isola era un via vai di gente di varie nazionalità. Perdonatemi questa licenza. ^^"

Il titolo dovrebbe significare "Quelle strane cose al di là del mare"; tuttavia, l'inglese fingo di saperlo, il francese l'ho studiato eoni fa e di Google, dopo averlo visto darmi come risultato "british" alla chiave di ricerca "french", non mi fido più di tanto quindi, se fosse sbagliato, tornerò in ginocchio sui ceci.

Ehm, cos'altro dire?
Che forse mi sono persa un po' tante descrizioni per strada. Ma sono giustificata, è Sesel che non si è curata troppo di Casa Bonnefoy!
*tossisce imbarazzata*
Mi auguro che questo primo capitolo sia stato almeno un po' di vostro gradimento. ^^ Se avete consigli o critiche da farmi, dite pure. ^^

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Capitolo 2
*** 1756 ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

1756

- Bien, Séchelles. - Monaco voltò la pagina del libro, tornando alla precedente: - Ora enuncia être e avoir alternandoli, poi ripeti con le forme invertite. Puoi scegliere tu con quale dei due verbi iniziare. -.
Sesel sgranò gli occhi, inorridita: aveva dato fondo a tutte le sue capacità mnemoniche per riuscire a dire correttamente quei due verbi e non era esattamente sicura del fatto che sarebbe stata in grado di farlo una seconda volta; chiederle una cosa simile, poi, era pura crudeltà. E Jacquie glielo stava dicendo con il suo solito tono monocorde, come se non comprendesse appieno la drammaticità della sua richiesta.
- Ad esempio... - fece la donna, equivocando l'espressione della bambina: - ... je suis, tu as, il, elle est... Puoi anche cominciare con avoir, se ti è più congeniale. -.
Le sue parole ebbero il curioso effetto di rendere affascinante lo spiraglio della porta socchiusa. Davvero, Sesel non aveva mai visto niente di più affascinante di quella porta di quella stanza in quel momento. Il fatto che fosse socchiusa e non chiusa, poi, le dava un tocco di fascino in più.

Erano trascorsi tre giorni dall'arrivo di Séchelles nella sua nuova casa; si era rivelata talmente grande che la bambina ci aveva messo un bel po' a vederla tutta, accompagnata dai suoi nuovi fratelli e sorelle. Questi ultimi, in particolare, erano sembrati fin troppo entusiasti di improvvisarsi guide, vista la loro premura nel farle conoscere ogni singolo centimetro di quel colossale edificio.
Da parte sua, Sesel era rimasta per tutto il tempo con la bocca aperta: se non avesse saputo di essere all'interno di una costruzione, probabilmente avrebbe pensato che, in Francia, il cielo fosse bianco o dorato, a volte attraversato da figure colorate, solenni ma immobili; avrebbe pensato che le stelle fossero quasi a portata di mano, raccolte in quelle che sembravano delle grandi brocche d'acqua solida e argento. Invece si trattava di un soffitto alto, ancor più per lei che era così piccola, e di tanti lampadari di cristallo adorni di candele. Il bianco, l'oro e, talvolta, il rosso sembravano essere i colori di quella casa: l'oro non mancava mai, fosse anche un piccolo candelabro sopra il camino o la decorazione di un mobile lucido, così come il bianco, onnipresente, soprattutto sul soffitto e sul pavimento. Aveva notato anche molti specchi, sia nelle stanze che nei corridoi, rigorosamente incorniciati dall'oro. E c'erano scale. Non aveva mai visto delle scale all'interno di un edificio, bianche, lucide e neanche poche: solo per raggiungere la sua stanza, doveva salirne ben tre rampe - precisamente cinquantasei gradini totali, si era premurata di contarli in prima persona.
Perché, sì, aveva una sua stanza. Anche se non era proprio solo sua: la condivideva con Ile Bourbon, che si era mostrata particolarmente felice di averla in camera con sé.
- Quello è il tuo letto! - aveva trillato, indicando un maestoso baldacchino sui toni dell'azzurro, gemello al proprio dall'altro lato della stanza.
Sesel non era stata in grado neppure di annuire: quel letto era talmente grande che avrebbe potuto viverci comodamente, con anche la possibilità di ospitarvi qualcuno. Tra l'altro, quelle tende celesti, una volta chiuse, somigliavano un po' a delle pareti di stoffa.
Però non aveva intenzione di chiuderle: la cosa che più amava di quella casa era la luce. C'era luce ovunque: le finestre erano gigantesche al pari dell'edificio in cui si trovavano, una accanto all'altra, portando il sole all'interno delle stanze e dei corridoi come se non ci fosse alcun muro.
Non sentiva il calore dei raggi e il sole non era brillante come a casa sua, ma la cosa non le importò più di tanto: quella casa, ai suoi occhi, era la miglior abitazione che potesse esistere, spaziosa all'inverosimile e luminosa.
Come tocco finale, profumava. Sentiva un profumo floreale in ogni stanza e, di tanto in tanto, occhieggiava un vaso con fiori a lei sconosciuti sempre freschi, come se fossero cambiati ogni giorno.
In quel maestoso, luminoso e profumato paradiso, però, Sesel aveva avuto modo di trovarvi un non indifferente lato negativo: quella che lei parlava con i suoi fratelli e sorelle, con Francis o con Jacqueline era la "lingua delle nazioni" e i suoi fratelli, le sue sorelle, Francis e Jacqueline desideravano tanto che lei imparasse la loro lingua, il francese.
Fortunatamente, Sesel sapeva più o meno leggere e scrivere - quando ancora abitava nelle sue isole, tempo addietro alcuni uomini avevano deciso di darle dei rudimenti; conosceva le lettere, sapeva riprodurne a voce i suoni ma il fatto di non aver avuto poi così tante cose da leggere in circa due secoli aveva fatto sì che la bambina riuscisse a leggere con estrema fatica.
Monaco aveva arbitrariamente deciso di farle da insegnante di francese: - Così potrai parlare con i tuoi fratelli e le tue sorelle nella loro lingua madre. E' senz'altro più piacevole che comunicare in una lingua così poco personale come quella delle nazioni. - le aveva detto, per poi posarle davanti agli occhi, con assoluta nonchalance, almeno diciassette volumi di almeno cinque chili l'uno.
Tanto bastò a Séchelles per avere un trauma e reagire a quel gesto con un'espressione di puro terrore.
In realtà, in fondo al cuore, aveva sperato che, se era proprio così necessario che lei imparasse il francese, fosse Francis ad insegnarglielo. Quando si era azzardata a proporlo a Jacquie, lei aveva risposto, tranquillissima: - Non vedo l'utilità di imparare poche frasi in trecento anni piuttosto che una lingua in un paio di mesi massimo. -.
Bourbon le aveva poi spiegato che, secondo Monaco, Francia era fin troppo buono e permissivo, quando si trattava delle sue colonie, e sarebbe dunque stato un pessimo insegnante.
"Colonie", a quanto Sesel aveva capito, era il modo con cui ci si riferiva a lei e alla sua nuova famiglia. Un po' come i "figli" per gli esseri umani, con l'unica differenza che, tra loro e Francis, non c'era alcun legame di sangue.
Jacqueline era un'eccezione: non era una "colonia" di Francis, era una nazione indipendente che rivestiva più il ruolo di sua sorella adottiva.
A parte le poco apprezzate lezioni di francese, Sesel poteva dirsi felice.
Tra l'altro, era finalmente riuscita ad imparare tutti i nomi dei suoi nuovi fratelli e sorelle, sia quelli da nazione che quelli da persona. Inoltre, per quanto tre giorni non fossero un periodo di tempo lunghissimo, si sentiva già in qualche modo legata ad alcuni di loro.
Ovviamente, con Bourbon - Zephyrine -, in quanto sua compagna di stanza, aveva avuto più contatti: la prima sera avevano trascorso tutta la notte a parlare, addormentandosi solo alle prime luci dell'alba.
Ile de France - Dosnee -, invece, era riuscito a catturare la sua attenzione da solo: era sempre tranquillo e sorridente ed era apparentemente onniscente, data la sua risposta sempre pronta e sicura a qualsiasi domanda; Sesel, contrariamente a quanto aveva fatto con Ile Bourbon, aveva iniziato a chiamarlo "Ile", perché di "France" ce n'era già uno - e qualcuno avrebbe potuto aggiungere che bastava e avanzava.
Non aveva poi potuto fare a meno di notare la bambina minuscola che sembrava l'ombra di Ile: la piccola Rodrigues - Eurée -, dai grandi occhi castano scuro quasi sempre sgranati e alta abbastanza da poterle appoggiare un gomito sulla testa.
Aveva poi avuto modo di sentirsi più a suo agio con Jacqueline: Monaco emanava una certa aura d'importanza e serietà ma, quando le aveva detto che poteva darle del tu e chiamarla "Jacquie", le era sembrata molto più "vicina", quasi come Francis, Bourbon o Ile. Quasi.
E poi c'era Nacada.
In realtà, Sesel aveva davvero pensato a lui soltanto la prima sera, ricordandoselo il pomeriggio successivo solo perché la sua mente era volata a Kumajiro: capitava che la bambina ripensasse a quel morbido orsetto parlante, per poi ricordarsi di colpo del bambino biondo che lo accompagnava. Aveva rivisto Kumajiro un altro paio di volte, ma non aveva scorto Nacada nelle vicinanze.
Quando ripensava a lui, si rattristava: le dispiaceva sapere che uno dei suoi fratelli se ne stava isolato, senza farsi vedere neppure quando erano tutti insieme. Sicuramente, anche gli altri sarebbero stati felici di parlare con lui, se soltanto non avesse avuto la tendenza a scappare in quel modo rapido e improvviso.

- Sai... - sussurrò Sesel, incenerendo con lo sguardo il libro marrone che portava con entrambe le mani: - ... non ti odio solo perché Francis ti parla. -.
Accompagnata unicamente dal suono leggero e ritmico delle sue scarpette bianche contro il pavimento, la bambina percorse il lungo corridoio che conduceva alla biblioteca, per riportarvi il volume di grammatica francese su cui era stata china per circa due ore.
Secondo Monaco, era Sesel a dover prendere e riportare il libro - o i libri - in biblioteca: diceva che questo l'avrebbe aiutata ad orientarsi all'interno della casa, nonché ad allenare la sua capacità di lettura - dato che era costretta a leggere tutti i titoli di tutti i libri sullo scaffale dedicato alla grammatica, per poter prendere quello che le serviva - e la sua memoria - sia nel ricordarsi la strada per la biblioteca sia nel ricordarsi l'esatta ubicazione dei vari libri.
- Anche per noi è stato così. - aveva sospirato Ile, quando Sesel gli aveva chiesto se Jacqueline si fosse comportata con tutti allo stesso modo.
Svoltò a destra, individuando con lo sguardo, non troppo lontana, l'alta porta della biblioteca.
"Io non ce l'ho con il francese in sé..." stava pensando, cercando una soluzione al contrasto tra il fastidio che provava nell'imparare la lingua e il suo associarla a Francis: "... io ce l'ho con le lezioni, ecco. Perché sono noiose e difficili. Sono le lezioni, non è il francese!".
Era giunta alla conclusione che il metodo di insegnamento della lingua francese di Monaco fosse l'apprendimento per esasperazione: pur di non doverla più studiare, la si imparava a forza.
Quindi la colpa era senz'altro delle lezioni di per loro.
"E se la colpa è delle lezioni..." abbassò di nuovo lo sguardo, riportandolo su ciò che aveva in mano: "... allora posso tranquillamente odiare il libro. Sul libro c'è scritto il francese, ma questo è un libro che serve alla lezione! Io posso imparare il francese senza questo libro, ma non posso fare lezione senza questo libro!".
- Ti odio, libro. - sibilò decisa, gli occhi ridotti a fessure.
Oltrepassò la soglia della biblioteca, venendo colpita da un forte profumo di carta e inchiostro: quella stanza era l'unica a non avere l'odore dei fiori, data la totale assenza di vasi su tutti e tre i tavoli presenti.
Strinse le dita attorno al tomo, scrutando uno scaffale basso vicino all'entrata per ritrovare il posto da cui l'aveva preso; lo individuò abbastanza facilmente.
"... non c'è nessuno, qui." si rese conto, notando il silenzio che regnava in quel luogo: non si udivano neppure dei passi in lontananza, neanche il vociare della gente in strada. Era impossibile non sentire qualcuno avvicinarsi.
"... se non c'è nessuno, potrei..." conosceva quel libro da appena due giorni e già lo odiava come non aveva mai odiato in vita sua. Si rigirò il volume tra le mani, pensando attentamente alle parole da dire e con quale tono: "... Mi dispiace! Mi dispiace tantissimo! Stavo riportando il libro in biblioteca e, all'improvviso, è volato fuori dalla finestra! Non so come è potuto succedere, è come se si è lanciato da solo! Ho cercato di recuperarlo, davvero, ma, quando mi sono affacciata, era già in mezzo alla strada! E, non so come era possibile, ma aveva anche tutte le pagine a brandelli! Sì, erano ridotte tutte tutte in pezzettini piccolissimi! Mi dispiace tantissimo! Dovevo stare più attenta! Ma non sapevo che i libri si lanciavano da soli dalle finestre!". Annuì, soddisfatta della sua recitazione mentale: "Sì, è un ottimo piano. Francis mi crederà sicuramente!".
Adesso doveva soltanto scegliere una finestra, controllare che non passasse nessuno, fare a pezzi il libro e lasciarselo casualmente cadere dalle mani fuori dalla suddetta finestra.
Alzò lo sguardo dal libro e il respiro le si mozzò.
Una delle sedie, proprio quella davanti alla finestra più vicina, era occupata da una piccola figura che guardava nella sua direzione: un lungo ciuffo biondo tra due grandi occhi blu, la pelle rosea, le piccole mani posate su un libricino aperto sul tavolo, il bambino sembrava in qualche modo stupito.
Senza pensare, Sesel si liberò del volume rimettendolo al suo posto rapidamente e con poca grazia, per poi fare un passo avanti: - Tu sei... - sussurrò, incredula: "Da quanto tempo è qui? Sono sicura che non c'era, quando sono entrata!".
Il bambino mosse le labbra, ma Séchelles lo anticipò: - ... Nacada! -.
- ... Canada. -.
Sesel arrossì per l'errore: a quanto sembrava, non aveva memorizzato proprio tutti tutti i nomi.
- Aspetta, non scappare! - esclamò, decisa a far integrare suo fratello con il resto della famiglia. Senza distogliere lo sguardo da lui neppure un istante, prese un'altra delle sedie intorno al tavolo e la avvicinò a quella di Canada, per poi letteralmente arrampicarvisi e ritrovandosi alla stessa altezza del bambino.
Da parte sua, Canada sembrava stranamente più pallido: a Sesel parve fosse al tempo stesso intimorito e incuriosito. Sperò che la curiosità avesse la meglio sul timore: in caso contrario, non era sicura che Canada non sarebbe scappato di nuovo.
- Ecco! - trillò, sedendosi a gambe incrociate nella sua direzione e battendo leggermente le mani sulle ginocchia: - L'altra volta sei scappato e non abbiamo più parlato! -. Inclinò la testa di lato: - Perché te ne sei andato? Ile mi ha detto che lo fai sempre. Perché? -.
Quasi si fosse accorto di stare guardando Sesel negli occhi, Canada distolse lo sguardo, abbassando la testa; era stato un attimo, ma alla bambina era parso di vedere quegli occhi blu farsi tristi.
- ... io non scappo. - mormorò il bambino.
Sesel deglutì e si avvicinò: faticava a sentirlo persino in quella biblioteca silenziosa e si preoccupò dell'eventualità di perdersi qualche parola. Non le era mai capitata una cosa del genere.
- E' che non ho niente da dire. - sussurrò Canada, facendo sgranare gli occhi a Sesel: - E poi, non voglio disturbare. -
- Disturbare? - ripeté Séchelles, incredula: - Ma cosa stai dicendo? -
Canada abbassò ancora di più la testa e sembrò stringersi nelle spalle: - Tutti parlano con qualcuno, non mi voglio intromettere nei loro discorsi e disturbarli. Magari sono discorsi privati e non è giusto che io li sento. E poi parlano sempre di ciò che hanno fatto o di cose che riguardano loro. Io non so cosa fanno loro, quindi non ho niente da dire. E' inutile che vado a disturbare o a mettermi in mezzo, no? -.
Sesel sbattè più volte le palpebre: lei era riuscita ad integrarsi benissimo in poche ore, com'era possibile che quel bambino, dopo tanti anni, pensasse di disturbare i suoi fratelli e le sue sorelle?
- Ma... - esordì, confusa: - ... tutti parlano con tutti! Non c'è nessuno che è escluso! E poi è ovvio che non sai di cosa parlare, se tu per primo non parli con loro! -.
Canada sospirò, per poi scuotere appena la testa.
Sesel strinse i pugni, sentendo di essere sulla strada giusta: - Loro vogliono parlare con te! Sei tu che scappi! Ecco... Kumajiro! Pensa a Kumajiro! A tutti piace Kumajiro, puoi parlare di lui! Così avrai una scusa per parlare con loro e poi nasceranno altri discorsi e altri e altri e- -
- Io non scappo. - ripeté Canada, interrompendola.
Sesel si zittì, non capendo.
- Io ci sono sempre. Quando siamo tutti. Ci sono anch'io. Ma nessuno si accorge di me. Da un momento all'altro, tutti mi guardano come se non ci sono e dicono che sono sparito. Quindi è ovvio che non vogliono parlarmi. Altrimenti, si accorgerebbero di me, quando sto loro davanti. -.
La bambina deglutì di nuovo, stavolta a fatica: le parole di Canada suonavano inquietanti, le avevano fatto venire un doloroso blocco all'altezza della gola.
- Non è vero! - disse, facendo di no con la testa quasi a scatti.
- Neppure tu ti sei accorta che ero in biblioteca, quando sei entrata. -.
Séchelles tacque.
Si portò le mani in grembo, attorcigliando le dita fino a quasi farsi male. Abbassò lo sguardo e si morse un labbro, improvvisamente a disagio: non poteva mentire dicendo che, sì, l'aveva visto, dato che non l'aveva salutato e la sua reazione, nell'accorgersi di lui, era stata di palese sorpresa; non poteva neppure accusarlo di mentire, dato che era impossibile non sentire dei passi nel silenzio assoluto della biblioteca.
- ... ero sovrappensiero. - si giustificò, infine. Non era del tutto una bugia, in fondo.
Canada sospirò di nuovo, ma non disse niente.
Fu la volta di Séchelles di stringersi nelle spalle: "Ma io voglio parlare con lui... non mi sono accorta di lui perché pensavo al libro, no? E' per questo, no?".
In quel momento, si rese conto di un particolare.
Alzò la testa e sorrise, gli occhi che le brillavano: - Aspetta, ma... - afferrò una mano di Canada, facendolo trasalire e ottenendo di fargli alzare lo sguardo: - ... noi stiamo parlando! -.
"Come ho fatto a non accorgermene prima? Era così semplice!".
Anche Canada parve sorpreso, le sue guance si colorarono appena.
Sesel scoppiò a ridere, una risata che la liberò di quel blocco alla gola: - Stiamo parlando! Stiamo parlando! - trillò, felice, agitando la mano che teneva quella del bambino.
Tornò a sorridergli: - Basterà fare lo stesso con gli altri! -
- Ma io non- -
- Ah, non so il tuo nome! - si rese conto Sesel, avvicinandoglisi ancora di più: - Il tuo nome da individuo, non quello da nazione! L'altra volta non me l'hai detto! Ah, vero, non ti ho detto neppure il mio! Io sono Sesel! Piacere! -.
E Sesel poté vedere Canada spalancare gli occhi, più sorpreso di prima.
Quando lui parlò, la sua voce era esitante, quasi fosse troppo stupito per articolare bene una frase: - Io... sono Mathieu. -.
- Mathieu! - ripeté la bambina, allegra: le piaceva, quel nome.
- Sì... - fece lui, ancora indeciso.
Tuttavia, a dispetto del tono, Sesel notò l'ombra di un sorriso. Rise di nuovo, come se volesse spronare l'altro a fare altrettanto, a rivelare quel sorriso: - Allora, Mathieu, andiamo dagli altri? -.
Il volto del bambino tornò a scurirsi, l'ombra scomparve del tutto: - Io non sono sicuro che- -
- Dai, Mathieu! - lo incitò Séchelles, prendendogli anche l'altra mano: - Sono sicura che saranno tutti felicissimi! Non c'è niente di cui aver paura! Te l'assicuro, davvero! Li conosco da poco, però è bello stare con loro! E' come avere dei fratelli e delle sorelle! -.
Canada non rispose. Non abbassò la testa, ma il sorriso che apparve sulle sue labbra di gioioso aveva poco: - Grazie, Sesel. Ma, davvero, io non saprei cosa dire. Anche se parlo con loro, cosa dico? -
- Puoi iniziare con "Ciao!". - la proposta della bambina ricevette un'occhiata quasi compassionevole.
Un pensiero sfiorò la mente di Séchelles, appesantendole il cuore. Quando parlò, la sua voce era bassa, timorosa: - ... forse non ti piacciono? -.
Canada tornò a guardarla negli occhi, spalancando i propri come se temesse di aver detto qualcosa di terribile: - No, non è questo... - si affrettò a dire, in un sussurro leggermente più alto del solito.
- E' bello stare con altri come te. - mormorò Sesel, per poi distogliere lo sguardo: - Io non ho fratelli o sorelle di sangue. Credo. Non so niente di me e Francis è stato la prima nazione come me che ho incontrato. Quando sono arrivata qui, sono stata davvero felice di avere così tanti fratelli e sorelle.
Davvero. Sono felice di avere una famiglia. - sentiva caldo sulle guance. Non aveva mai nascosto di essere felice, ma dirlo così esplicitamente, non sapeva perché, la imbarazzava un po'.
Fece un profondo respiro e tornò a guardare Canada negli occhi: - Tu non sei stato felice, quando Francis ti ha portato qui? - chiese, un po' curiosa. In effetti, non sapeva assolutamente nulla di Mathieu.
Il bambino abbassò lo sguardo e non rispose. Sesel trasalì, temendo di aver toccato un tasto dolente.
Poi, finalmente, Mathieu parlò, in un sussurro: - Sì, sono stato felice. Anche se eravamo molti, molti di meno. Però... - trasse un profondo respiro: - ... io un fratello di sangue ce l'ho. Siamo soltanto noi due ma, tecnicamente, io una famiglia ce l'ho. Anche se pure questa è la mia famiglia. -
- Hai un fratello? - quella rivelazione aveva catturato l'attenzione di Séchelles: certo, molto probabilmente Ile e Rodrigues erano davvero fratello e sorella, forse anche di Bourbon, e magari c'erano altre parentele ipotizzate tra le altre colonie, ma nessuno era del tutto sicuro di un legame di sangue con qualcuno; sentire che Canada aveva un fratello di sangue le sembrava il racconto di una leggenda con l'assoluta certezza che fosse vera.
Mathieu annuì, senza aggiungere altro.
- Come si chiama? - domandò Sesel, per metà desiderosa di saperne di più e per metà sperando che il parlare di una cosa a lui vicina potesse distoglierlo dalla sua idea di essere un disturbo.
Il sussurro di Canada, con grande sorpresa della bambina, non era del tutto allegro come si sarebbe aspettata: - America. Alfred. Alfred Kirkland. -.
Sesel inarcò un sopracciglio, perplessa: - ... che nome strano. - giudicò.
Mathieu alzò le spalle: - Francis dice che ha un brutto suono perché è inglese. -.
Lei avrebbe voluto dirgli che quel nome non aveva tanto un suono brutto quanto strano, ma le era sfuggito il significato di una parola: - ... inglese? -.
Canada annuì: - Inglese. - ripeté.
Non la migliore delle spiegazioni.
- Dell'Angleterre. - aggiunse Mathieu, capendo che Sesel ne sapeva quanto prima. Un'altra occhiata al viso della bambina dovette fargli capire che la sua aggiunta era stata straordinariamente inutile.
Fu così che Mathieu sfilò con gentilezza le mani da quelle di Séchelles, per poi scendere dalla sedia un po' goffamente; Sesel, seppur restìa a lasciarlo andare, non distolse lo sguardo da lui, temendo di vederlo sparire nel nulla: lo guardò andare verso uno scaffale, lo vide mettersi in punta di piedi e afferrare un grande foglio arrotolato che si trovava su un ripiano più alto. Tornò da lei, che subito gli afferrò una mano, per assicurarsi che non scappasse.
- Cos'è? - domandò la bambina, quando lo vide srotolare sul tavolo ciò che aveva recuperato.
- Una mappa del mondo. - rispose il bambino.
Sesel si avvicinò alle terre disegnate, incuriosita. Aveva visto molte mappe, ma quella era completamente diversa: c'erano tantissime terre, un numero incalcolabile, diviso principalmente in due grandi blocchi, uno a destra e uno a sinistra; a loro volta, un blocco poteva essere diviso in almeno tre parti, l'altro minimo in tre, se non in quattro o in cinque. E potevano essere divisi ancora e ancora. C'erano tantissimi nomi, alcuni stampati alcuni scritti a mano, alcuni cancellati alcuni cancellati e riscritti, alcuni sottolineati alcuni cerchiati. E tra tutti quei blocchi, quelle terre, quei nomi, c'era l'azzurro chiaro che indicava i mari, mari che sembravano estendersi all'infinito.
- Il mondo? - ripeté Séchelles, rapita.
Mathieu annuì: - Qui ci sono tutte le nazioni esistenti. - spiegò, in un sussurro.
Il cuore di Sesel iniziò a battere più velocemente: "Tutte le nazioni?". Si portò una mano alla bocca, non riuscendo a credere a quanto aveva appena sentito: erano davvero così tante? Loro erano così tanti?
- Eccoti. - per la prima volta, Canada le rivolse un sorriso sincero, privo di quell'ombra amara, per quanto soltanto accennato. Sesel non poté fare a meno di sorridere di rimando.
Seguì poi con lo sguardo il dito di Mathieu, fermatosi in un punto azzurro del blocco destro della mappa, tra due blocchi minori: qualcuno vi aveva disegnato un piccolo cerchio e una freccia, alla cui base aveva scritto, con una calligrafia allungata ed elegante, "Séchelles". Il volto della bambina s'illuminò, il suo sorriso si fece più ampio, come se quel nome, su quella mappa, la riempisse d'orgoglio; sentiva il cuore battere forte, caldo, ma non era una sensazione sgradevole, tutt'altro.
Notò solo in un secondo momento che sopra il suo nome ce n'era un altro, quasi del tutto cancellato da tre righe orizzontali; quando si rese conto che il nome era "Iles de la Bourdonnais", si stupì di non provare alcuna sensazione di nessun tipo: quel nome non le diceva assolutamente niente.
Scorrendo lo sguardo su quella zona azzurra, notò con piacere anche i nomi di Ile, Bourbon e Rodrigues, tra loro incredibilmente vicini; c'erano altri nomi che non aveva mai sentito, nazioni che incontrava per la prima volta come disegni su un foglio di carta.
I suoi occhi si persero in quelle linee, divorando ciascuna lettera scritta, sperando di incontrare qualche nome conosciuto - per lo più due, ma uno in particolare.
Canada dovette averle letto nel pensiero, dato che indicò un altro punto sulla mappa, molto più a nord del ritaglio azzurro che ospitava il suo nome: - La France est ici. -.
Non appena i suoi occhi si posarono su quel nome, Sesel si mise in ginocchio sulla sedia e avvicinò il viso al foglio, come per assicurarsi di non stare sbagliando: la scritta "France" faceva mostra di sé a grandi lettere su una vasta terra del blocco destro, una delle più grandi di quella zona. Alla bambina sfuggì una leggera risata quando si accorse di un altro nome, più in basso, più piccolo e alla base di una freccia: "Principauté de Monaco".
- Eccoci... - sussurrò, elettrizzata. Si sentiva, in qualche modo, potente: stava guardando il mondo intero, ne accarezzava la superficie, lo scrutava in ogni suo nome e confine, poteva percorrere migliaia di chilometri in una frazione di secondo, sia sulla terra che sul mare.
Tornata a guardare la Francia, il suo sguardo cadde sulle due isole immediatamente sopra, in particolare sulla più grande e più vicina, dalla forma leggermente ricurva, quella che sembrava sfiorare la terra di Francis. Sgranò gli occhi nel riconoscerne il nome, quello pronunciato poco prima da Mathieu: "Angleterre".
- L'Angleterre... - mormorò, stupita. "E' così vicina...".
- Alfred è lì. - spiegò Canada: - Lui è una colonia di Angleterre. Per questo fa di cognome Kirkland, è il cognome di Angleterre. -.
Sesel gli rivolse uno sguardo interrogativo.
- Beh, le colonie prendono il nome della loro madrepatria. - chiarì Mathieu, con un sorriso un po' tirato: - Non lo sapevi? -.
Séchelles scosse la testa. Poi sorrise e domandò, alzando involontariamente la voce per la fretta di sapere: - Allora anche noi abbiamo il cognome di Francis? E qual è? -.
- Bonnefoy. - rispose il bambino, un po' a disagio, ritraendosi un po' di fronte a tutta quell'allegria.
- Sesel Bonnefoy! - esclamò Séchelles, facendo risuonare il suo nome per l'intera biblioteca. Sorrise, soddisfatta: - Mi piace, sì! E tu... - lo guardò, gli occhi che le brillavano: - ... sei Mathieu Bonnefoy? -.
Senza abbandonare il suo sorriso imbarazzato, Canada annuì.
- Siamo tutti Bonnefoy! - rise Sesel, felice nell'avere quella conferma: - Vuol dire che siamo tutti una famiglia! -. Tirò su con il naso e sentì un fastidioso bruciore alla gola. Si pizzicò il naso e fece un profondo respiro: "Perché sembra che mi devo mettere a piangere? Si piange quando si è tristi, non quando si è felici, stupida Sesel.".
Strinse forte la mano di Mathieu e gli rivolse un nuovo sorriso: - E tu, Mathieu? Tu dove sei? -.
Aveva scrutato i nomi in cerca di un gruppo di lettere che le risultasse familiare - come Nacada - ma, per quanto fosse andata a guardare persino le freccette più piccole e seminascoste, non era riuscita a trovarlo.
Non capì il motivo dell'improvviso rossore sulle guance del bambino, né perché avesse di nuovo distolto lo sguardo. Senza dire una parola, Mathieu indicò ancora una volta un punto sulla mappa del mondo, stavolta posando il dito sulla sua casa.
Curiosa, Sesel guardò: era nel blocco a sinistra, nell'estremo nord.
Poche righe che segnavano i confini, azzurro sopra, a destra e a sinistra, uno spazio su almeno metà di un blocco minore: una terra gigantesca, circa due volte non la Francia ma l'intero sottoblocco in cui si trovava la Francia.
La mano di Sesel divenne molle in quella di Mathieu, la bambina trattenne il respiro, gli occhi sbarrati.
"Ma che...?"
D'un tratto le sopracciglia si abbassarono sugli occhi, la fronte si allisciò, la voce si fece dura: - Non si dicono le bugie, Mathieu. Lo dirò a Francis e sono sicura che non sarà felice! E poi, gli dirò anche che mi hai presa in giro senza motivo! -.
Con sua grande sorpresa, Canada non si scusò, né si lamentò, né la pregò di non dire niente: era tranquillo, se non rassegnato, come se si fosse aspettato una simile reazione; così, semplicemente, indicò il nome di quella terra che si estendeva da un oceano all'altro.
Se non fosse stata inginocchiata, Séchelles avrebbe sentito le gambe farsi improvvisamente deboli, portandola a cadere carponi, se non del tutto per terra.
"Nouvelle France
(Canada)".
- Sì, Nouvelle France è il mio secondo nome. - confessò Mathieu, pacato: - Ma non lo usa mai nessuno: Francis e Jacquie mi chiamano Canada. -.
- Com'è possibile? - fece Sesel, la voce soffocata.
- Beh, già non mi chiama mai nessuno, usare anche il secondo nome è un po'- -
- No, intendevo... - lo guardò, gli occhi completamente spalancati: - La tua casa è enorme! E' la più grande del mondo! -
- No. - la contraddì il bambino, senza scomporsi: - C'è Russie che è molto più grande di me. -.
- A parte Russie. - riprese la parola Sesel, gettando una veloce occhiata all'impero che torreggiava nella parte destra della mappa, il più vasto del mondo: - La tua casa è la più grande di tutte! E' più grandissima anche di quella di Francis! Quando sarai grande, tu potrai... - si bloccò, sentendo un brivido lungo la schiena. Era assurdo. Eppure non poteva essere altrimenti.
- ... quando sarai grande, tu potrai anche conquistare il mondo. - terminò in un sussurro appena udibile, incapace di credere a ciò che lei stessa aveva appena detto.
Un suono particolare le accarezzò le orecchie, basso e leggero; trasalì nel rendersi conto che Canada stava ridendo, una risata a bocca chiusa priva di qualsiasi traccia di felicità o divertimento.
- Credimi, Sesel. Io non conquisterò mai niente. E, se anche potrò, non lo farò. Io non ne sono davvero in grado. - aveva ripetuto "io", si accorse Sesel. Lo sguardo di Canada era tornato alla mappa, verso l'isola chiamata Angleterre.
- E poi... - riprese Mathieu, la voce più serena: - ... essere grandi non significa essere forti. Vedi le nazioni colorate di rosa? -.
Sesel annuì lentamente: era impossibile non vederle, dato che almeno metà cartina era rosa pallido.
- Quello è il territorio di Angleterre. -.
D'accordo, per quella giornata Séchelles poteva dirsi soddisfatta del numero di shock che aveva subìto - di cui un paio particolarmente violenti.
- ... capisco. - fu l'unica cosa che riuscì a dire, una volta ripreso possesso delle sue capacità vocali: - E... dicevi che Francis dice che quello di tuo fratello è un brutto nome perché è inglese, vero? -
Canada annuì.
- ... per caso, Francis odia Angleterre? -
Il bambino alzò lo sguardo, come se fosse assorto in chissà quale pensiero. Dopo qualche istante, rispose, piano: - Diciamo che gli piace odiarlo. -.
Sesel inclinò la testa di lato, perplessa. Mathieu accennò ad un sorriso: - Un giorno capirai. -.
La bambina gonfiò le guance, con una punta di disappunto: - Parli come gli adulti, sai, Mathieu? -.
Per tutta risposta, il sorriso dell'altro si allargò appena.
Un istante dopo, Séchelles abbandonò la sua espressione contrariata, tornando ad incurvare le labbra verso l'alto: - Tra poco sarà l'ora della merenda. Sono buone le cose che cucinano qui! - esclamò, mettendosi in piedi sulla sedia.
- Vero. - convenne Mathieu, in un mormorio ai limiti dell'impercettibile.
- Quindi andiamo a mangiare con gli altri? - trillò la bambina, tirando leggermente la mano di Canada.
Quest'ultimo non si mosse, limitandosi a sospirare, ancora una volta come se avesse previsto le parole di Sesel.
Séchelles tornò ad inginocchiarsi sulla sedia, delusa: "Non riesco a muoverlo neppure parlando del cibo. Eppure ero sicurissima che era un'idea geniale!". Si concentrò, cercando un'altra scusa che suonasse abbastanza innocente e impossibile da scoprire nel suo reale obiettivo.
- Gli altri sanno che la tua casa è grandissima? - domandò, guardando di sfuggita quel territorio immenso su cui svettava il nome di Mathieu.
- Probabilmente sì. - rispose il bambino, a fatica, quasi fosse stanco - rassegnato? -: - Ma non credo che la considerano una cosa di grande importanza. -.
Altro tentativo fallito.
La bambina strinse le labbra, una smorfia dispiaciuta: le sembrava di vagare in un luogo sconosciuto, in cerca di un'uscita, di andare lungo una strada con il cuore carico di aspettativa e ritrovarsi d'innanzi ad un muro che trasformava quella via in un vicolo cieco.
Pensò ancora ad altre possibili scuse, scartandole una dopo l'altra; alla fine, rimase soltanto una frase possibile.
- Mathieu... - mormorò, sentendo le guance farsi sempre più calde: - ... non mi piace che tu sei da solo. Io voglio che tu stai con tutti noi. Con me, con Ile, con Zephie, con Jacquie, con Francis... Non mi piace sapere che sei da solo. Non è giusto. Tu fai parte di questa famiglia e devi stare con noi. -.
Non aveva guardato Canada negli occhi: non riusciva a capire perché, ma il suo sguardo era stato calamitato dalle proprie ginocchia e non era stata in grado di alzarlo.
Le ci volle qualche istante per rendersi conto del fatto che, in quella stanza, era tornato il silenzio: Canada non aveva risposto.
Fu solo nell'accorgersene che, senza pensare, alzò lo sguardo, incontrando gli occhi sgranati del bambino. Un attimo dopo, Mathieu divenne rosso in viso e fece quello che sembrava l'accenno soffocato di una risata: - Ma io ci sono. E poi, non è che in una famiglia bisogna sempre stare tutti insieme e parlare di continuo. - sussurrò, come se volesse in qualche modo giustificarsi.
Sesel scosse la testa, cercando di scacciare quelle parole appena udite. Le sembrava assurdo che qualcuno potesse pensare una cosa simile, illogico, contro natura.
Si portò una mano alla testa, sentendovi una fitta dolorosa.
Per un istante, sentì i granelli di sabbia rovente sotto i piedi, un violento calore sulle guance e nella gola, che niente aveva a che fare con i raggi del sole; sentì gli occhi pizzicarle, qualcosa di piccolo, leggero e bagnato che le scivolava lungo il viso, sentì le unghie conficcarsi nella carne dei palmi; sentì la gola squarciarsi, un urlo così forte da farle male.
- Hai detto... - sussurrò, la voce spezzata: - ... che eri felice quando Francis ti ha portato qui. Se stai da solo, cos'è cambiato da prima? Il luogo e basta. -.
Strinse i denti, guardando Canada in quegli occhi blu di nuovo stupiti: - Come fai a stare da solo, quando ci sono così tante persone come te? Io non ci riesco. Io voglio sempre stare con loro. Loro riapriranno gli occhi ogni volta che si addormenteranno. La loro pelle non diventerà piena di rughe. Loro non mi faranno promesse che non manterranno, ne sono sicura! Io non le faccio e, se loro sono come me, allora non le fanno neanche loro! -.
Un singhiozzo la scosse, una lacrima sfuggì ai suoi occhi.
Strinse i denti ancora di più e serrò gli occhi, cercando di non scoppiare a piangere di nuovo. Odiava piangere.
Qualcosa di caldo su una guancia.
Alzò le palpebre e vide una manina di Canada accarezzarle il viso, gli occhi velati dalla tristezza.
- Perché sei stata felice, quando Francis ti ha portata qui? -.
La domanda di Mathieu la spiazzò.
"Perché fa queste domande stupide? E' ovvio, no?".
- ... Francis mi ha vista. - rispose, in un sussurro.
Canada sembrò non avere alcuna reazione; forse soltanto il suo sguardo, vagamente, la invitava a parlare ancora.
- Sono sempre stata nelle mie isole. - aggiunse, la voce bassa, come se parlare ad alta voce potesse infrangere l'immagine di quella biblioteca e riportarla sulle spiagge della sua casa: - Sono belle, sai? Ci sono tanti uccelli e tanti pesci. C'è tanto verde e sono calde. Però ci sono poche persone con cui posso parlare. -.
Abbassò lo sguardo, ricordando i volti sorridenti o imbronciati di alcune donne, gli ampi sorrisi dei bambini con cui giocava, i volti seri o giocosi degli uomini.
- Arrivavano sulle navi. - raccontò: - Scendevano e mi vedevano. Ero sempre felice quando vedevo una nave venire verso di me. Davo sempre il benvenuto, regalavo un fiore alla prima persona che scendeva. Poi, quando ho capito che, sulle navi, c'era un capo, gli regalavo un pesce arrosto. -. Accennò ad un sorriso, ma non era felice: - Mi guardavano e, a volte, mi accarezzavano la testa. E basta. -.
Trasse un profondo respiro, riportando alla mente quelle scene vissute fin troppe volte: - Li seguivo. Però facevano finta che non c'ero. Tre o quattro volte, invece, alcuni uomini hanno chiesto al capitano se potevano prendermi con loro. E il capitano diceva sempre di no, perché sicuramente attiravo altri come me e non potevano rischiare di farli arrabbiare. All'inizio non capivo. Cioè, sapevo che non ero proprio come loro. Perché io vedevo i bambini con cui giocavo diventare più alti di me. Anche i loro corpi cambiavano un po'. E poi, ad un certo punto, succedeva sempre la stessa cosa. -. Chiuse gli occhi, il cuore sembrò perdere un battito, un brivido le attraversò la schiena, facendola trasalire: - Andavano a dormire. E non si svegliavano più. Un giorno, una signora mi ha detto che tutti gli esseri umani, prima o poi, si addormentano per sempre. Mi ha detto che a me non succederà. Che io rimarrò per sempre così. -.
Un'altra lacrima scivolò dai suoi occhi, bagnando la manina posata sulla sua guancia.
- Tutti i bambini con cui giocavo sono diventati più grandi e si sono addormentati per sempre. Tutti. E quelle persone che arrivavano sulle navi, poi, se ne andavano senza dirmi niente. Solo alcuni mi hanno salutata. Quando chiedevo loro se tornavano, mi dicevano sempre di sì. E non sono tornati mai più.
Non ho mai rivisto nessuno. Quando se ne andavano, tutto tornava silenzioso. Era come se si fermava tutto. E c'ero solo io. -.
Ricordava. Vedeva quelle navi così grandi allontanarsi sempre di più, correva sulla spiaggia, nell'acqua del mare e gridava con tutta la forza che aveva.
Ricordava quell'unica richiesta che faceva, che mai nessuno aveva esaudito: - Portatemi con voi! Non lasciatemi sola! -.
Ricordava di come girovagasse per le sue isole ma, ovunque andasse, trovava soltanto mare. A volte nuotava, a volte approfittava delle piccole zattere costruite da alcuni uomini per andare nelle isole vicine. Ma non c'era nessuno.
- Sapevo che c'erano altri come me. Me l'avevano detto i signori delle navi. - mormorò, dopo qualche secondo di silenzio: - Volevo tanto stare con qualcuno che non si addormentava per sempre. Che, una volta diventato più grande di me, non mi metteva da parte. Volevo stare con qualcuno a cui non dovevo dire addio. Per me è sempre stato tutto breve. Ci sono state delle persone a cui ho voluto bene, ma sono stata con loro per poco tempo. A volte, mi chiedevo se loro mi volevano bene come io ne volevo a loro. Giocavano con me, mi parlavano, mi sorridevano. E poi si dimenticavano di me. Tutti si sono sempre dimenticati di me. -.
La mano di Mathieu ebbe un fremito.
In quello stesso istante, il cuore di Sesel, fino a quel momento pesante, parve svuotarsi di colpo e divenire leggero, capace di battere più velocemente, quasi fosse libero: - Poi è arrivato Francis. - il suo sorriso, stavolta, fu sincero: - Lui era come me. Come me. Quando è sceso dalla nave, ha cercato me. Lui è arrivato alle mie isole per me. Era lì per me. Era venuto a prendermi e a portarmi da quelle persone che cercavo. E l'ha fatto. Lui ha esaudito il mio desiderio e io non gliel'avevo mai detto! Però l'avevo detto al mare. - alzò lo sguardo, il suo sorriso si allargò: - E Francis è arrivato dal mare. E me l'ha fatto attraversare, quel mare. E mi ha portata qui. Lui mi ha vista! Mi ha vista e mi ha portata dagli altri. E, quando sono arrivata, anche gli altri mi hanno vista. Nessuno mi ha ignorata, erano tutti felici di vedermi. Francis e tutti gli altri mi hanno vista e io voglio essere felice! Ora ho una famiglia, ho delle persone come me con cui potrò stare per sempre e non posso sopportare il fatto che uno dei miei fratelli sta da solo! E' orribile stare da soli e non voglio che una persona della mia famiglia sia triste come lo sono stata io! -.
Sentiva sul viso un calore mai provato prima. Ma non se ne curò.
Con sua grande sorpresa, Canada stava sorridendo: era un sorriso dolce, sincero, forse il più ampio che le aveva rivolto fino a quel momento.
- E' bello che la pensi così. - disse il bambino, ritraendo la mano e lasciando Séchelles confusa da quelle parole: - Non te lo scordare mai. -.
Sesel sbattè le palpebre: - ... per te non è stato così? Neanche un po'? Anche se c'era Alfred. -.
Mathieu annuì: - Anch'io ero triste, quando le persone a cui volevo bene si addormentavano per sempre. Però, come hai detto, c'era Alfred. Anche se non eravamo sempre insieme. A lui piaceva correre per le praterie, io preferivo stare fermo. E poi, Alfred faceva tante cose pericolose e mi faceva preoccupare sempre. - aggiunse, con un sospiro rassegnato.
Il calore sulle guance di Sesel aumentò: lei aveva parlato molto, lui poco, si sentiva in qualche modo scoperta ed era sicura che le stesse sfuggendo qualcosa.
Decise di essere diretta: - Allora non sei stato felice quando Francis ti ha diviso da Alfred? -.
Perché era quella la realtà dei fatti: se Alfred era da Angleterre e Mathieu da Francis, i due fratelli, uniche due nazioni immortali in mezzo a chissà quanti esseri umani vissute insieme per chissà quanto tempo, erano stati separati.
Il sorriso di Canada tornò a velarsi di amarezza, facendola preoccupare: - Non è che a casa mia si curavano molto di me. Non è soltanto qui che gli altri non mi vedono. Per questo la cosa mi è indifferente: è sempre stato così. A casa mia come qui. -.
Nonostante quelle parole, Sesel era sicura che, no, non era vero che lui fosse indifferente a quella situazione.
Vide Mathieu mordersi un labbro, quasi fosse indeciso se proseguire o meno. Alla fine, evidentemente, optò per il sì: - ... è bello quello che hai provato, Sesel. Davvero. Ma non è stata la stessa cosa che ho provato io. - un respiro profondo: - Francis non era lì per me. -.
La bambina sobbalzò, incredula. Schiuse appena le labbra, spalancò gli occhi. Ma non disse niente, in fremente attesa che Canada spiegasse.
- Francis è giunto sulle nostre coste insieme ad Angleterre. Quando hanno trovato Alfred, se lo sono litigato. - il viso del bambino si adombrò, il suo sorriso era quasi del tutto scomparso: - Alla fine, è stato Alfred stesso a scegliere. Ha scelto di andare con Angleterre. Francis, ovviamente, non l'ha presa bene. Poi si è accorto della mia presenza e ha deciso di prendermi con sé. In quel momento, sono stato felice del fatto che qualcuno mi aveva non solo notato, ma aveva anche deciso di prendermi con sé. Ma non mi ci è voluto molto a capire che sono stato solo il rimpiazzo di Alfred. Perché non era me che Francis davvero voleva. -.
Sesel avrebbe voluto alzarsi e accusarlo di stare mentendo. Non poteva credere ad una storia simile. Ma il viso, la voce e gli occhi di Mathieu erano troppo sinceri per poter anche solo pensare che stesse dicendo una bugia.
Si sentì travolgere da una strana sensazione, potente, che la spinse ad afferrargli entrambe le mani e a guardarlo dritto negli occhi, la voce decisa: - Francis sapeva di te? - domandò, dura.
Sorpreso da quella reazione, Canada scosse appena la testa.
- Allora è ovvio che voleva Alfred, se non sapeva di te! - esclamò: - E poi hai detto che l'hanno "trovato", no? Nessuno di loro due sapeva di te, ma non sapeva neppure di Alfred! Se trovavano prima te, allora litigavano per te! -.
Tornò a sorridere, un sorriso pacato: - Forse Francis non è venuto per te. Però, alla fine, ti ha preso con sé. -
- Perché non aveva potuto avere Alfred. -
- Ma non ti aveva visto! -
- C'ero anch'io, con Alfred. -
Sesel si zittì.
- Non quando l'hanno trovato. - specificò Canada: - Ma è capitato che ero con lui. Né Francis né Angleterre mi hanno notato. Erano troppo presi da Alfred. -.
La bambina, per un attimo, si sentì come se si stesse sgonfiando. Ma fu solo un istante: il Francis dipinto da Mathieu non era il Francis che conosceva, doveva esserci una spiegazione.
- Appunto! Era distratto! Anch'io ero distratta, prima! Però io voglio stare con te! - insistette, ottenendo un'espressione confusa sul volto del bambino: - Quando si è accorto di te, ti ha preso con sé! Se non ti voleva, ti lasciava lì! Era solo distratto! -
- ... però mi ha comunque preso come rimpiazzo di Alfred. -
- Che ti importa? - Mathieu trasalì: - L'ha fatto! Ti ha portato qui, con noi! Non importa perché era lì all'inizio, l'ha fatto! -.
Tornò il silenzio.
Non capiva cosa fosse esattamente, ma Sesel sentiva una strana sensazione: una sorta di soddisfazione, un senso di vittoria. Non sapeva a cosa fosse dovuto, ma era una sensazione positiva.
Forse era il fatto che Canada sembrava star rimuginando sulle sue parole; forse era l'impressione di essere riuscita a smuoverlo dalle sue idee, forse era l'aver trovato una soluzione che rendesse il suo Francis lo stesso Francis che aveva incontrato Mathieu. O forse era la speranza di essere riuscita a riportare nel cerchio della sua nuova famiglia anche quel suo fratello sempre così distante, la speranza che la sua nuova famiglia fosse finalmente davvero unita.
Dopo un tempo che parve eterno - forse un'ora intera, forse un paio di minuti, forse una manciata di secondi -, sul volto di Mathieu tornò un sorriso: non ampio, solo appena accennato, ma sincero.
- Forse. - le concesse.
Sesel ricambiò il sorriso: "Forse non ha cambiato idea, ma almeno non è più sicuro come prima.". Poteva bastarle, per il momento.
- Senz'altro meno significativo che nel tuo caso. - osservò il bambino.
- Forse. - ridacchiò Séchelles.
Gli tirò leggermente una mano, ancora una volta: - Adesso andiamo a fare merenda con gli altri? Sto cominciando ad avere fame! -.
Un altro sospiro di Canada: - Ci tieni proprio che vengo con te insieme agli altri. - non era una domanda.
Sesel annuì vigorosamente, gli occhi che le brillavano.
- ... forse oggi pomeriggio c'è la torta con le ciliegie. -
- Non l'ho mai mangiata! Com'è? - scese dalla sedia, seguita dall'altro.
- La torta è buona. Le ciliegie devi ricordarti di sputare il nocciolo. -
- Lo farò! -
Fece per avviarsi verso la porta, la mano di Canada ancora nella sua, quando sentì il bambino fermarsi.
Si voltò, sentendo improvvisamente freddo, negli occhi il timore che avesse cambiato idea.
- ... devo mettere a posto la mappa e risistemare il libro che ho preso. -.
Sesel espirò, rendendosi conto solo in quel momento di aver trattenuto il respiro: - Ti aiuto! - esclamò, tornando indietro. Nel farlo, praticamente sfiorò il bambino, accorgendosi del tutto di un particolare a cui, fino a quel momento, non aveva dato troppo peso, nonostante lo avesse avuto intorno per tutto il tempo.
- Hai lo stesso profumo di Kumajiro! - rise, inspirando quell'odore dolce che sapeva di zucchero.
- ... veramente, dato che lo tengo spesso stretto a me, è lui che ha il mio odore. - confessò, diventando di nuovo rosso in viso.
La bambina rimase interdetta per un istante. Poi rise di nuovo, trascinando in fretta Canada verso il tavolino, la mente ormai concentrata sulla fantomatica torta di cui avrebbero dovuto sputare i noccioli.



Note:
* La Nuova Francia (Nouvelle France), ad essere proprio precisi, non era esattamente sinonimo di "Canada": per quanto il territorio fosse all'incirca quello, la Nuova Francia era divisa principalmente in cinque territori e il "Canada" era uno di questi - gli altri erano la regione di Acadia, la Baia di Hudson, l'isola di Terranova e la Louisiana francese. Le prime tre fanno ora parte del Canada, mentre la Louisiana appartiene agli Stati Uniti dal 1803.
* Ad essere proprio precisi 2 e a non voler essere anacronistici, fate finta che il colore rosa sulla mappa in riferimento ai possedimenti inglesi sia una pura casualità. Perché, in realtà, l'impero inglese cominciò ad essere segnato in rosa solo dal 1800, una cinquantina d'anni dopo il periodo in cui è ambientato questo capitolo. Quindi, fate finta sia un caso e non pensateci troppo. *CoffCoff*
[Fonti: Wikipedia italiana e Wikipedia inglese]

Ed ecco quindi il secondo capitolo, ambientato poco dopo il primo. ^^ Perché, tecnicamente, era parte del primo capitolo, ma lo sapevo che non sarei stata in grado di stringere...
Come nel capitolo precedente, il delirio di congiuntivi e condizionali nel parlato di Sesel e Mathieu è un mio tentativo di rendere una parlata infantile - per quanto ne abbia comunque messi un paio anche nei loro dialoghi, quando la frase risultava troppo illeggibile per via di un indicativo; come nel capitolo precedente, se il delirio di congiuntivi e condizionali non è nel parlato di Sesel e Mathieu, allora dovrò prendermi le dita nella porta.

Come avrete notato, ho dato dei "nomi umani" a Monaco, Ile de France, Rodrigues e Ile Bourbon.
Visto che ho poca fantasia, per trovarne qualcuno più o meno adatto a delle nazioni, sono andata a guardare i significati dei nomi.
Il Principato di Monaco è stato ufficialmente fondato dalla casata Grimaldi; "Grimaldi" significa "potente protettore". Cercando nomi femminili francesi con un significato simile, mi sono imbattuta in "Jacqueline" che, oltre a piacermi, vuol dire "Possa Dio proteggerti" (un potente protettore, bisogna riconoscerlo...).
Riguardo Ile de France, Rodrigues e Ile Bourbon, i loro nomi antichi erano rispettivamente "Dina Arobi", "Dina Moraze" e "Dina Margabin", probabili traslitterazioni errate degli arabi "Diva Harab", "Diva Mashriq" e "Diva Maghrebin"; tali nomi significano "Isola deserta", "Isola dell'est" e "Isola dell'ovest". Dato che non trovavo nomi decenti che significassero "Deserto", "Est" e "Ovest", per le due bambine ho usato i nomi del vento dell'est (Euro) e del vento dell'ovest (Zefiro): il nome "Zephyrine" esiste, mentre "Eurée" l'ho inventato U.U"; "Dosnee", invece, significa "Nato da una collina di sabbia" quindi "Nato da una duna" (nome preso proprio alla larga...).

Onestamente, non so se Sesel sia capace di simili pensieri libricidi. °^° Però so che i bambini sanno essere molto distruttivi, specie con le cose che danno loro fastidio e/o che li mettono in difficoltà. u.u"
... e il profumo zuccheroso di Mathieu è perché, nella mia mente, lui è una cosa fluffosa che profuma di sciroppo d'acero. *Sì, profumo naturale allo sciroppo d'acero.*
E anche quella delle colonie che prendono il cognome della loro madrepatria è una mia malsana idea. U.U" *In fondo, se li "adottano"...*

Ringrazio molto chi ha recensito lo scorso capitolo e chi ha inserito questa storia tra le Seguite. ** Grazie! *^*
Spero che questo capitolo vi sia stato gradito. ^^ Se ho scritto cose disumane a livello narrativo o storico o se in generale avete critiche da muovermi o consigli da darmi, dite pure. ^^

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Capitolo 3
*** 1757 ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

1757

A Canada piaceva la tranquillità.
Non la tranquillità fredda e statica, avvolta dal silenzio più pesante, in grado di schiacciare chiunque.
Né la tranquillità ripetitiva, il continuo succedersi di avvenimenti esattamente come nel giorno precedente, sempre uguali e mai inclini a cambiare di un solo particolare.
Semplicemente, una tranquillità serena, l'assenza di qualsiasi turbamento, una vita calma e felice.
Questo non significava essere immobili.
Ricordava, nelle sue terre, quella piacevole sinfonia di fondo che accompagnava ogni giornata e ogni nottata: il fruscio delle foglie degli alberi, lo scorrere dell'acqua nei letti dei fiumi, a volte il bramire delle alci o il rugliare degli orsi, o gli improvvisi stridii delle civette che lo facevano trasalire ogni volta, più per sorpresa che per reale inquietudine. Ricordava i pomeriggi trascorsi seduto, insieme ad un gruppo di esseri umani, a costruire scarpe adatte a camminare nella neve senza affondare o a dare quel minimo aiuto - passando gli attrezzi necessari o portando del cibo ai lavoratori - agli uomini che costruivano toboghe o canoe. Ricordava le mattine in cui si univa al gruppo incaricato di raccogliere la linfa degli aceri, o quelle in cui seguiva i pescatori e, a volte, restava sulle rive, nascosto, ad osservare i salmoni che cercavano di risalire la corrente - fino all'arrivo degli orsi, momento in cui il bambino decideva di spostare la sua attenzione agli animali più grandi e pelosi, magari sui cuccioli rimasti, come lui, sulla riva. Ricordava le sere trascorse ad ascoltare i racconti dei più anziani, degli uomini tornati da una battuta di caccia, delle donne che, semplicemente, raccontavano fatti di vita quotidiana - specie altrui.
Gli piaceva, quella tranquillità.
Gli sarebbe piaciuta ancora di più, se non fosse stato per le non troppo poche - brutali - interruzioni date da bisonti volanti o alberi che sembravano camminare da soli, saltellando da una parte all'altra del suo campo visivo.
- Un giorno ti farai male davvero. - aveva sentenziato, in un sospiro esasperato.
- Ti preoccupi come i vecchi, lo sai? Anzi, di più! -.
E come avrebbe potuto non farlo? Come avrebbe potuto non avere un colpo nel vedere lui che cercava di risalire la corrente del fiume insieme ai salmoni, evitando le zampate degli orsi come se fosse tutto un gran bel gioco?
- Te l'avevo detto che ti facevi male. -
- Ma sono solo due graffi, non li sento neanche! -
- Stai zoppicando. -
- E tu sei noioso, oh! -.
Non sapeva come rapportarsi ai cambiamenti. Aveva imparato che i cambiamenti - anche radicali - erano necessari, indipendentemente da ciò che avrebbero portato: sia che fossero positivi sia che fossero negativi, avrebbe sempre avuto qualcosa da imparare, qualcosa che l'avrebbe aiutato in un tempo futuro.
L'arrivo degli uomini provenienti dall'altra parte del mare era uno di quei cambiamenti.
Non erano i primi a mettere piede sulle loro terre, lo sapeva. Ma non ricordava i volti di quelli che erano arrivati prima di loro, era troppo piccolo.
Poi era successo tutto troppo in fretta, o forse era successo tutto lentamente e a lui erano sembrate appena una manciata di ore.
Quei due che litigavano per lui, che cercavano di convincerlo a seguire l'uno o l'altro, che s'impegnavano a portarsi via lui con un trasporto che aveva visto solo nei confronti di una giovane donna. Gli venne da ridere nel pensare a lui come ad una fanciulla contesa.
- Perché ridi? -
- Niente, pensavo ad una cosa. -
- Cosa? -
- Niente, ti ho detto. -
- Non è vero, altrimenti non ridevi! -
- Secondo me, puoi capirlo da solo. -
- Non è v- certo che posso capirlo da solo! Che domande! Gli eroi capiscono sempre tutto da soli! -.
Era stato lui a scegliere, alla fine. Perché avesse scelto proprio uno e non l'altro, non riuscì a capirlo. Stava di fatto che il pretendente scartato aveva trascorso l'intero pomeriggio a parlare da solo con tono rabbioso, dicendosi chissà che cosa con quella sua lingua musicale.
Canada l'aveva seguito per tutto il tempo, forse per assicurarsi che non rompesse niente di suo, forse incuriosito dalla sua reazione, forse attratto dalla grande piuma azzurra che oscillava sul suo cappello.
Solo dopo un tempo imprecisato quella persona si era accorta della sua presenza.
L'aveva guardato, sorpreso e confuso al tempo stesso. Canada non se ne stupì: avrebbe scommesso tutta la sua scorta di sciroppo d'acero che era appena stato scambiato - per l'ennesima volta - con lui.
Poi, quella persona doveva aver intuito di non avere davanti quel lanciatore di bufali in miniatura.
Nonostante tutto, Mathieu era stato felice di parlarci. L'aveva trovato una persona piuttosto gradevole.
Quando lui gli chiese di seguirlo, Canada ci dovette pensare: stava bene nelle sue terre, insieme agli esseri umani. E, sì, stava bene anche con gli alberi che gli correvano davanti agli occhi.
Però, a giudicare da ciò che era successo, se fosse rimasto lì, non avrebbe più visto alberi corrergli davanti agli occhi.
Ne aveva parlato con gli anziani del villaggio.
- Se sei indeciso, allora non vuoi davvero rimanere. - gli aveva detto uno di loro: - Se le tue radici fossero ben piantate in questo terreno, la tua mente non sarebbe neppure stata sfiorata dall'idea di andare via. Ma, se accetterai, dovrai essere conscio del fatto che il tuo sarà un viaggio in una notte senza luna, in un luogo che ti è sconosciuto: non sai cosa c'è, oltre i mari. Dovrai trovare il modo di accendere un fuoco e vedere, conoscere. -.
Non era incoraggiante. E Mathieu non era affatto sicuro di essere in grado di accendere un fuoco senza vedere niente. In realtà, non sapeva neppure accendere un fuoco di per sé, aveva sempre lasciato che fossero gli altri a farlo - era troppo pericoloso, c'era il rischio di scottarsi, c'era il rischio che qualche scintilla finisse sui vestiti e prendesse tutto fuoco.
E poi, lui si era praticamente lanciato sull'altro. L'aveva visto, quest'ultimo, mentre lo teneva in braccio, lui che sembrava completamente a suo agio.
Non era incoraggiante. Tutto ciò che faceva lui era potenzialmente letale o comunque sicura causa di ferite più o meno gravi.
Tuttavia, sentiva che, se quella persona se ne fosse andata senza di lui, avrebbe sentito per sempre una voragine all'altezza del cuore, dolorosa, che gli avrebbe ricordato per sempre la sua risposta negativa.
Forse fu per questo che accettò.
Accettò di lasciare le sue terre, le persone che conosceva, il luogo in cui era sempre vissuto per andare non sapeva neppure lui dove.
- Stai attento a non farti troppo male. -
- Ah, perché dici cose noiose anche adesso? -
Per tutta la prima parte del viaggio, quando la grande nave con la bandiera bianca e la sottile croce rossa era ancora in vista, Canada aveva avuto un'espressione ben poco raggiante, gli occhi apparentemente persi nel vuoto, assenti.
- Non devi essere triste per tuo fratello. - gli aveva detto quella persona, accarezzandogli i capelli: - Questo non è un addio. Vi reincontrete, un giorno. -.
Mathieu gli aveva rivolto lo sguardo per un istante, per poi tornare a guardare il mare oltre il legno della nave: - Sì, questo lo so. So che è soltanto un arrivederci. Per questo non sono del tutto triste. Più che altro, sto provando pietà. -
- ... pietà? -
- Per il signor Angleterre. Spero non abbia nulla di fragile, a casa sua. -.

Il luogo in cui si ritrovò, dopo aver attraversato il mare, era il più strano che avesse mai visto.
"Strano" che non corrispondeva a "spaventoso"; certo, inizialmente, quelle costruzioni così alte, allineate lungo quelle che sembravano delle vie precise, lo avevano inquietato: si era sentito un essere minuscolo d'innanzi a dei giganti, giganti che gli davano l'idea di potergli cadere addosso da un momento all'altro. Tuttavia, vedendo le persone passeggiare tra quei giganti come se niente fosse, notando come anche Francis facesse lo stesso, senza curarsi minimamente di loro, si tranquillizzò: in fondo, quelli erano come alberi. Meno verdi, meno marroni, meno profumati, più larghi, ma erano come alberi: giganti che, salvo cause naturali, non sarebbero mai caduti loro addosso.
C'erano state tante cose che avevano catturato la sua attenzione - all'incirca tutto ciò su cui si era posato il suo sguardo.
Gli abiti indossati dalle persone di quella terra, ad esempio: dalle gambe coperte solo da quelle che sembravano calze pesanti ad alcuni strani collari bianchi pieni di punte, all'apparenza relativamente leggeri, da lunghissime gonne che sembravano fatte per spazzare per terra con l'orlo a cappelli con qualcosa sempre intento ad oscillare, fosse una piuma o un pennacchio.
Aveva fissato a lungo anche i vestiti della donna che li aveva accolti una volta giunti a destinazione: azzurri e bianchi, le mani candide che uscivano da enormi maniche imbottite, l'ampia gonna che aveva il suo inizio su una vita assurdamente stretta e l'ormai aveva capito immancabile pennacchio che faceva capolino dai suoi capelli raccolti.
Aveva dato per scontato che Jacqueline fosse la moglie di Francis.
Quando aveva chiesto loro se avessero figli, si era sorpreso nel vederli dapprima sgranare gli occhi e poi lasciarsi sfuggire una risata - Francis soltanto, Monaco si era limitata ad inarcare le sopracciglia.
- Non siamo sposati. Lei è mia sorella. -
- Un qualcosa di simile... -
Canada aveva compreso di avere decisamente tante cose da imparare e, no, non si sarebbe potuto fermare ad una prima occhiata, per comprenderle davvero. Niente poteva dirsi ovvio, in un luogo che non conosceva.
In ogni caso, la Francia non gli sembrava così buia. Era, anzi, più calda delle sue terre.
Anche le persone non erano così diverse da quelle che conosceva: in tutti quegli anni, aveva avuto a che fare con persone sia gentili che scortesi, sia di piacevole compagnia che difficili da sopportare.
Stava bene, lì. Non ebbe mai occasione di rimpiangere la sua scelta di seguire Francis.
Lì in Francia si sentiva in un posto tranquillo.
Certo, il frusciare delle foglie degli alberi giungeva alle sue orecchie come ovattato, la Senna era un fiume silenzioso e gli unici animali che riusciva a sentire erano cavalli, cani, gatti e piccoli uccelli. Sentiva il rumore degli zoccoli dei cavalli lungo la strada, il vociare delle persone. Era quella la sinfonia di fondo della Francia e non gli dispiaceva.
C'era tranquillità, in quel luogo.
Soprattutto nella biblioteca, luogo in cui amava ritirarsi per leggere. Era il luogo più silenzioso dell'intera casa; le domestiche umane, ma anche Francis e Jacqueline, dicevano che l'unico rumore percepibile in quella grande stanza era il fruscio delle pagine quando venivano girate.
Non era esatto: c'era sempre il suono, leggerissimo, del vento. Sembrava quasi una voce, se la si ascoltava con attenzione; sentita distrattamente, durante la lettura, era come un piacevole sottofondo capace di donare la giusta atmosfera a quel che si leggeva.
Canada aveva provato a farlo notare, ma nessuno l'aveva sentito e aveva preferito rinunciare.
... ecco, in fondo al cuore, aveva sperato - un pochino - che in Francia le cose andassero diversamente. Che la gente smettesse di dire che il piccolo Mathieu aveva la tendenza a sparire all'improvviso.
E invece no.
Il momento più epico ci fu in un pomeriggio di primavera, mentre Canada stava tranquillo davanti al caminetto, seduto su una poltrona a leggere, spalla a spalla con il piccolo orsetto polare decisamente longevo che aveva portato con sé dalle sue terre: Francis, Jacqueline e le domestiche tutte avevano iniziato a chiamarlo a gran voce, correndo da una parte all'altra della casa, chiedendo di rispondere loro, di farsi vedere, che non era carino fare scherzi del genere, che sarebbe potuto essere pericoloso.
E tutti quanti, dal padrone di casa alla giovane servetta appena assunta, erano rigorosamente passati davanti alla sua poltrona.
Mathieu aveva risposto, all'inizio. Poi aveva semplicemente alzato le spalle ed era tornato a leggere.
Non era cattiveria: semplicemente, dopo tanti anni trascorsi così, aveva capito che sarebbe stato inutile urlare o sbracciarsi per farsi notare; tanto valeva attendere che fossero loro ad accorgersi di lui.
La scena si era conclusa come sempre.
- Mathieu! Ma sei qui! Perché non ci hai risposto? Eravamo tutti preoccupati! -
- ... veramente sono sempre stato qui. -
- Impossibile, sono passato qui davanti almeno tre volte e non ti ho mai visto! -
- ... eh. -.
Sì, nonostante tutto, stava bene, in quella casa.
In fondo, non gli mancava nulla.
Non sentiva neppure la mancanza di suo fratello, dato che, almeno una volta al mese, gli veniva recapitata una lettera proveniente dall'Inghilterra, scritta con una calligrafia che definire disordinata sarebbe stato riduttivo, un po' stropicciata e con i bordi inferiori rigorosamente piegati verso l'interno.
Decisamente diversa dalle lettere che lui gli inviava, perfettamente rettangolari e senza piogge di macchie d'inchiostro.
Nonostante tutto, a Mathieu faceva piacere ricevere quelle lettere: Alfred ci teneva ad informarlo minuziosamente di tutte le sue gesta eroiche e a raccontargli, con una ricchezza di particolari forse un po' poco credibili, tutte le pseudomeraviglie dell'Inghilterra; certo, a volte trovava frasi inquietanti come "Lo sai che qui mangiano i sassi? E li ho mangiati anch'io, me li ha dati Arthur! Tu dicevi che non potevo mangiarli e invece l'ho fatto! E sono davvero buonissimi!", ma, in generale, erano lettere che lo facevano sorridere.
Erano lettere scritte nella loro lingua natìa e non c'erano mai stati problemi nel comprendersi. Finché, un giorno, Mathieu aprì una lettera di Alfred e la trovò interamente scritta in inglese; inutile dire che Canada, non conoscendo neppure una parola di quella lingua, non poté far altro che andare da Francis e chiedergli di tradurla. Ma Francis non lo fece: Mathieu non aveva ben capito che razza di espressione dovesse essere quella assunta da Francia - forse il tic all'occhio e la leggera risatina un po' isterica potevano essere interpretati come dei buoni indizi -, ma aveva accettato di scrivere una risposta, breve e concisa, a quella lettera.
"Je n'ai pas compris."
Non ci furono più "incidenti" del genere, con le loro lettere.
"Va bene, niente più lettere in inglese, che poi Arthur dice che è colpa mia se si ritrova in casa lettere in ranese. Ma è vero che mangiate le lumache? Con tutto il guscio?"
Con il passare degli anni, Mathieu aveva imparato tante cose sugli esseri umani e sulle nazioni.
Soprattutto sulle nazioni, soprattutto circa il loro desiderio di avere più territorio possibile. Non che tutte le nazioni fossero animate da una così forte voglia di mettere le mani su altre nazioni: aveva capito che, in quel continente in cui si trovava, c'erano alcuni più desiderosi di altri. Francis faceva parte di quegli "alcuni". O forse lui da solo incarnava la definizione stessa di quegli "alcuni".
- Angleterre? - aveva domandato Monaco, con voce monocorde, lo sguardo chiaro fisso su un brutto taglio che gli si apriva lungo uno zigomo.
Francis aveva scosso la testa, la sconfitta ancora bruciante: - Espagne. -.
Non era raro che Francia tornasse a casa più o meno malconcio, a volte trillando in maniera forse un po' troppo femminile di aver conquistato questo o quel territorio o sibilando di aver dovuto cedere quello o questo territorio.
Le prime volte, Canada si era spaventato nel vedere bende macchiate di sangue o ematomi scuri in vista; era bastata una manciata di anni per imparare a prendere quella visione in modo più leggero.
- Temo non abbia gradito il modo con cui ho guardato Italie du Sud. -
- Posso immaginare come tu l'abbia guardato. -
- Ehi! Per chi mi hai preso? Era uno sguardo innocente! -
- "Sguardo innocente di Francis Bonnefoy", la voce è tra "Sfinge" e "Sirena". -
- Come puoi non fidarti di me, dopo tutti questi secoli? -
- Nessuna nazione che ti conosce da secoli si fiderebbe mai di te. -
Era una sorta di rito: Francis era costretto a letto per via delle ferite e Monaco, dopo aver preso in braccio Mathieu, che a sua volta teneva in braccio il piccolo orso polare, si sedeva compostamente su una sedia accanto a lui, ascoltando il racconto dei suoi successi e delle sue sconfitte.
Canada ne era affascinato: gli sembrava di essere tornato tra la sua gente, ad ascoltare racconti sotto le stelle; stavolta i racconti erano in qualche modo più avvincenti, interi eserciti, combattimenti tra migliaia di persone, lotte tra la sua madrepatria e altre nazioni confinanti, resoconti troppo grandiosi per essere veri, troppo dettagliati per essere falsi; quei racconti gli sembravano più "vicini", come se stesse davvero assistendo a quelle gigantesche battaglie in cui Francis era rimasto coinvolto in prima persona.
Per quanto riguardava la donna che lo teneva in braccio, Mathieu sospettava che Jacqueline fosse animata più da un ben celato desiderio di farsi gli affari degli altri che da reale interesse per le battaglie.
- Anche quello è opera di Espagne? - aveva poi domandato Jacquie, notando un grosso livido violaceo all'altezza dello stomaco.
- ... temo che anche Italie du Sud abbia poco gradito il modo in cui l'ho guardato. -.
A Canada sarebbe andato benissimo così: non era uno scenario ameno - Francis dolorante nel letto, Monaco sedutagli vicina, lui sulle gambe di lei, intento ad abbracciare un morbido batuffolo di pelo bianco troppo grande - ma c'era tranquillità, la consapevolezza di essere insieme nonostante le battaglie. Certo, Mathieu le aveva ridimensionate nella loro gravità, ormai non dava più Francis prossimo alla morte lenta e dolorosa alla minima ferita, ma sempre di combattimenti si trattava. Era come il sole dopo una brutta tempesta e, nonostante tutto, gli piaceva.
Poi erano arrivati gli altri.
Mathieu era stato felice di sapere che avrebbe avuto dei fratelli e delle sorelle - non aveva nulla da temere, era fisicamente impossibile che fossero più vivaci del suo fratello di sangue. Aveva pensato che sarebbe stato bello fare giochi da bambini o parlare di cose più al suo livello, cose che con Francia e Monaco non gli era davvero possibile fare. Aveva pensato che sarebbe dovuto essere un bravo fratello maggiore, che avrebbe dovuto guidarli in quella grande casa che ormai conosceva alla perfezione, farli sentire a loro agio e aiutarli come meglio poteva.
Era una responsabilità, sì, ma sentiva di doverlo fare. Ma non l'avrebbe fatto per "dovere", come un peso: in fondo, provava una certa soddisfazione all'idea di essere utile per qualcuno.
Le cose non erano andate come previsto.
Mathieu non sarebbe mai stato in grado di capire quando era iniziato tutto. Forse era stato un insieme di fattori, forse aveva sbagliato lui in partenza, forse avrebbe dovuto "imporsi" di più.
Ma come avrebbe potuto mettersi in mezzo a Saint Pierre e Miquelon, bambini che già avevano pianificato le loro nozze e che sembravano vivere in un mondo tutto loro? Come avrebbe potuto rivolgere la parola a Saint Martin, che sembrava essersi attaccato alle gambe di Francis e Jacquie e non parlava mai con nessuno che non fosse Francia o Monaco, neppure con le domestiche? Come si sarebbe dovuto rapportare a Dominica, la prima nazione bambina femmina che avesse mai visto? Stessa cosa per Saint-Domingue. Inutile dire che le due bambine fecero subito amicizia e sembrarono in qualche modo risucchiare Saint Martin, da loro visto come un adorabile giocattolino. Mathieu riuscì a rivolgere un timido saluto a Saint Christopher, prima che anche quest'ultimo venisse coinvolto nel giocare alla famigliola felice con le bambine - guadagnandosi tanti sguardi di compatimento da parte di Saint Martin. Quando Guadalupa, Marie-Galante, La Désirade e Martinica arrivarono, tutti e quattro insieme, Canada si era pienamente reso conto di essere stato tagliato fuori.
Loro quattro si conoscevano da chissà quanto, erano amici; fecero a loro volta amicizia con gli altri, diventando quel che sembrava un grande nucleo famigliare. E ne arrivarono ancora, di piccole colonie. Tutte, con una facilità disarmante, si univano alle altre, con un sorriso che illuminava anche gli occhi.
Canada era sempre con gli altri, quando Francis si presentava con uno o più bambini che, da quel momento, avrebbero fatto parte della famiglia. Nessuno lo notava.
Guardava il suo nuovo fratello o sorella come se fosse al di là di un vetro; forse, se avesse allungato una mano, le sue dita avrebbero incontrato una superficie liscia e fredda.
Provava a parlare, a dire qualcosa, ad inserirsi in qualche discorso che - forse - sarebbe stato in grado di sostenere; la sua voce, più impercettibile del suono della brezza, si perdeva tra i toni concitati del resto della sua famiglia, come se non avesse aperto bocca.
Man mano che la famiglia si allargava, Canada si rendeva sempre più conto di come lui stesse spiando, senza neanche troppe difficoltà, la vita degli abitanti di quella casa. Osservava, ascoltava. E basta.
Sentiva ogni cosa scivolargli addosso, come se non lo riguardasse, come se fosse il racconto che aveva come protagonista il cugino del cugino del cugino. Forse si sarebbe dovuto sentire triste. Forse avrebbe dovuto rimpiangere quei momenti trascorsi da solo con Francis e Jacquie, dove lui, nonostante tutto, era davvero parte di quella allora piccola famiglia. Forse avrebbe dovuto sgomitare con rabbia tra i suoi "fratelli" e "sorelle", gridare con tutta la poca voce che aveva in corpo, farsi notare, dire a tutti gli abitanti della casa che lui non era un fantasma, che era vivo e che non faceva parte dell'arredamento.
Forse.
Sì, sarebbe stata una cosa molto scenografica, da vero protagonista di un libro, deluso dalla vita e tormentato da grandi afflizioni e dal peso insostenibile di segreti troppo dolorosi per poter essere taciuti, con il cuore sanguinante per il grande amore della sua vita che non lo ricambiava, preferendogli il primo uomo di bell'aspetto ma privo dei veri valori che le era passato davanti agli occhi luminosi da dea scesa in terra per allietare l'animo di chi la amava. O qualcosa di simile. Non è che gli fosse proprio chiarissimo, ma doveva essere una cosa del genere.
Però Mathieu aveva imparato a conoscere anche se stesso: semplicemente, sarebbe stato inutile.
Perfetto, ti hanno notato. Forse. E poi? Una pacca sulla testa, un sorriso - di compassione - e tutti sarebbero tornati a parlare con gli altri. Ormai i legami si erano creati, non si sarebbe potuto mettere in mezzo, né avrebbe potuto creare legami con qualcuno soltanto con un discorso carico di pathos - o una serie sconnessa di frasi sussurrate, quel che molto più probabilmente sarebbe uscito dalla sua bocca.
Quindi era giunto alla conclusione che fosse inutile provarci, una perdita di tempo che non avrebbe fatto altro che renderlo triste di fronte al più epocale e vergognoso dei fallimenti.
Così, andava in biblioteca e s'immergeva nella lettura. Curioso come non vedesse alcuna differenza tra i personaggi dei libri e le persone che lo circondavano: era felice per i loro successi, triste per le loro sconfitte, trovava alcuni simpatici alcuni antipatici, era curioso di vedere cosa avrebbero fatto e sapeva cose rigurdanti uno di loro che altri non sapevano. Ed erano tutti al di là di una barriera a cui aveva ormai imparato a non fare caso, di carta o di aria che fosse.
In realtà, a voler trovare una differenza, qualcosa di diverso tra i personaggi dei libri e la sua "famiglia" c'era: l'aspetto.
Tutti i libri che Canada leggeva descrivevano persone come lui, Francis e Jacqueline: capelli lisci, leggeri, che al tatto somigliavano alla seta, a volte chiari come il sole, a volte scuri come la notte; gli occhi erano come il cielo, come la terra o come le foglie; la pelle era sempre del colore della luna o imbrunita dal sole.
Certo, Mathieu sapeva benissimo che esistevano persone con la pelle più scura - se esistevano persone con i capelli biondi o corvini, era evidentemente lo stesso per la pelle. Soltanto, non si aspettava di trovare così tante persone con la pelle del colore del cacao, più o meno intenso.
Per la precisione, tutti i suoi fratelli e le sue sorelle avevano la pelle del colore del cacao. Le uniche eccezioni erano Ile de Clipperton, Saint Pierre e Miquelon, la cui pelle era più tendente al colore della terra arida.
Guardandoli bene, Canada aveva iniziato a sentirsi un po' a disagio, stonato come un castoro albino tra castori bruni. Non lo aiutava il fatto che Ile de Clipperton avesse i capelli neri come le nubi temporalesche, né che i due in futuro sposi li avessero rispettivamente castano chiaro e castano scuro: Mathieu era l'unico biondo in mezzo a tante piccole chiome scure.
Era stato un disagio temporaneo, scioltosi come la neve al sole quando aveva visto tutti quei bambini letteralmente circondare Francis e chiamarlo a gran voce - fu la volta buona che si definì da solo "idiota". O forse qualcuno gli avrebbe dato del "genio", visto che era riuscito a dimenticarsi che Francia era biondo con gli occhi azzurri, caratteristiche di cui lui andava ben fiero. Forse era meglio non farlo sapere a nessuno, tanto meno al diretto interessato.
Il disagio si era quindi trasformato in curiosità: quante combinazioni potevano esserci, nell'aspetto fisico di una persona?
Aveva visto tanti capelli castani, come quelli di Grenada, ma soprattutto neri, come nel caso di Guadalupa e Ile de France; aveva visto capelli neri simili a nuvole, nel loro essere composti di tanti riccioli, come l'indomabile chioma di Ile Bourbon, ma anche lisci come un fiume d'inchiostro, come i serici capelli di Marie-Galante; aveva visto capelli del colore del fango, sia corti e ribelli, come quelli di Martinica, sia lunghi e sicuramente piacevoli da pettinare, come quelli di Rodrigues e Séchelles.
Séchelles.
Era ancora una bambina, Sesel. Non soltanto nel corpo, ma anche nella mente, molto più di lui. Ed era anche la persona con cui aveva parlato di più. Non che fosse la prima a tentare di avvicinarglisi: ci avevano già provato anche Saint Barthélemy, Sainte Lucie e Ile de France, ma si erano arresi nel giro di poco tempo.
- Sparisce sempre, quando parliamo! -
Sempre la stessa storia.

La mano della bambina che letteralmente gli stritolava le dita, la sua vocina che spezzava l'apparente silenzio della biblioteca, quasi rimbombandogli nelle orecchie, la sua insistenza che l'aveva distratto dalla lettura.
Non sapeva spiegarsi esattamente perché, ma nessuna di quelle cose gli era dispiaciuta.

- Lo sapete già, ma ripeterlo non fa male: state attenti al vostro compagno di fila. Sapete quanto ami Paris e quanto ami voi, ma non ho intenzione di percorrere ogni via di Paris per cercare voi che vi siete persi. -.
Canada sospirò: quel giorno ci sarebbe stata la Sfilata degli Anatroccoli.
Nome arbitrariamente dato dagli abitanti di Parigi al curioso intrattenimento che, almeno un paio di volte al mese, aveva luogo per le strade della città: la loro nazione, in testa; a seguire, una fila per due di bambini con indosso vestiti dalle stoffe più ricercate e confezionati su misura dai migliori sarti francesi; a chiudere il tutto, Monaco, apparentemente distaccata da tutto ciò che la circondava.
In casa Bonnefoy, la Sfilata degli Anatroccoli era semplicemente: - Oggi andiamo al parco! -.
Il parco, quel luogo leggendario in cui sembrava ci si potesse andare solo tutti insieme e solo in fila per due, un ritaglio di verde che, agli occhi di un bambino, sembrava uno sconfinato boschetto in cui perdersi volentieri.
Non che le colonie non uscissero mai: soltanto, non andavano tutte insieme ed erano sempre accompagnate da una domestica; l'Oggi-andiamo-al-parco era più una scusa per stare tutti insieme, con anche Francis e Jacquie, all'aria aperta.
Con un gesto quasi meccanico, Mathieu infilò nella piccola borsa assicurata alla cintura il libricino che aveva appeno preso dalla biblioteca: casa o parco, per lui non faceva differenza. Soltanto, invece che su una sedia, si sarebbe seduto tra le radici di un albero e, invece del leggero soffio del vento, avrebbe udito il fruscio delle foglie, così simile al suono che accompagnava le giornate nelle sue terre.
Sì, in fondo, il parco era una sorta di punto d'incontro tra la Francia e il Canada: non era né l'una né l'altro, quanto più una piacevole via di mezzo in grado di mischiare le essenze di entrambi - il vociare delle persone in lingua francese, l'abbaiare dei cani, il vento tra le foglie, il sole che faceva capolino tra le nuvole.
Avrebbe alzato lo sguardo solo ogni tanto, quando gli occhi sarebbero stati stanchi, e avrebbe guardato i suoi fratelli e le sue sorelle impegnati in chissà quale gioco - magari qualcuno sarebbe riuscito a sfuggire all'attenzione di Francis e Jacquie e avrebbe cercato di arrampicarsi su un albero, ottenendo solo mani e ginocchia graffiate, un forte dolore al fondoschiena - o alla spalla, come nel caso di Martinica, che precipitò da un ramo atterrando fin troppo male -, le calze lacerate e le scarpe irrimediabilmente rovinate. E una lunga ramanzina, ovviamente.
Si riscosse dai suoi pensieri e cercò Jacqueline con lo sguardo: era sempre stata lei a tenerlo per mano, durante la Sfilata degli Anatroccoli.
Era scontato: tutti avevano già trovato qualcuno con cui stare in fila e sfortuna voleva che le piccole colonie fossero in numero dispari.
Neppure Kumajiro sarebbe stato un possibile compagno di fila: era rarissimo che l'orsetto polare accettasse di uscire - trovava le cucine più interessanti, a suo dire, specie quando c'erano poche persone in giro - e quello non era uno dei casi in cui era ben disposto.
Come sempre in simili giornate, il salone d'ingresso era invaso dal vociare eccitato delle colonie, tutte impegnate a cercare il loro compagno di traversata - a parte i soliti noti, come i sempre appiccicati Saint Pierre e Miquelon e Ile de France e Rodrigues. Una massa di riccioli a stento tenuti a bada da un calash rosso sfrecciò nella sua visuale e un piccolo urlo di sorpresa gli confermò che Ile Bourbon era saltata addosso ad Iles de Saintes.
"Ci sono modi meno violenti per scegliersi un compagno di traversata..." giudicò Mathieu, scuotendo la testa. Anche se nulla avrebbe potuto superare le gentili maniere di convincimento di Marie-Galante - che, ricordava, all'inizio aveva la sgradevole tendenza a tramortire La Désirade e a trascinarla via per far sì che nessuno le si avvicinasse.
Dopo qualche secondo di ricerca, finalmente individuò Jacquie, rigida davanti alla porta, intenta a dire chissà cosa a Francis.
Mosse un passo nella sua direzione.
- Danaca! -
- Canada. - rispose, senza pensarci. Fu solo quando si accorse di essersi fermato e voltato che si rese davvero conto che qualcuno l'aveva - più o meno - chiamato.
- ... ah. - il viso di Sesel si tinse di rosso, la bambina tirò leggermente i bordi del suo calash bianco per nascondere le guance come meglio poteva.
A Mathieu sfuggì l'accenno di un sorriso: aveva come l'impressione che per Séchelles fosse fondamentale sapere alla perfezione ogni nome.
- Cosa c'è? - domandò, nella lingua delle nazioni.
La manina scura di Sesel, celata da un lungo guanto di pizzo bianco, scattò nella sua direzione: - Andiamo insieme? -.
Il suo cuore sussultò.
D'accordo, Sesel era una bambina insistente. Forse aveva in mente un qualche piano ingenuo, svelabile nel giro di una manciata di minuti. Eppure, una semplice traversata della città, in fila per due, non avrebbe dovuto offrirle eccessivi spunti.
Si accorse solo in quel momento di avere caldo alle guance e di essere rimasto a fissare, imbambolato, quella mano ancora tesa. Sbattè le palpebre e guardò Séchelles: sorrideva. Esattamente l'espressione che si era aspettato.
- ... non vuoi andare con Dosnee o Zephyrine? - domandò, perplesso. Poi ricordò e si diede dello stupido.
- Sono già occupati! - esclamò infatti la bambina, come se stesse parlando di una cosa divertente.
Canada sospirò, abbassando lo sguardo: "Ovvio che non va con loro. Hanno già un compagno di fila. Ora non siamo più in numero dispari, è rimasta fuori anche lei. Non ha altra scelta, in fondo.".
Annuì con la testa, senza emettere un suono.
- Andiamo insieme! - il trillo entusiasta di Sesel gli perforò le orecchie. Ma non ebbe il tempo di lamentarsene, perché le tenaglie - non erano mani, quelle - della bambina si erano serrate attorno alle sue dita e, con uno strattone, l'avevano costretto a camminare in una direzione diversa da quella che aveva preso all'inizio.
- Andiamo insieme! Andiamo insieme! Però non voglio stare in fondo a mangiare la polvere! E neanche in mezzo, che non si vede niente! Forza, Mathieu! - si voltò verso di lui e Canada non poté trattenere un brivido di inquietudine nel vedere uno strano fuoco ardere nei suoi occhi scuri: - Combattiamo con tutta la nostra forza per prendere il primo posto! Sarà versato del sangue e forse qualcuno cadrà, ma io voglio stare subito dietro a Francis! -
- ... aiuto. -.

Alla fine, Sesel era riuscita a conquistare il primo posto della fila con lacrime, sudore e sangue, sopravvivendo ad una violenta lotta, il corpo segnato da cicatrici di guerra che le avrebbero sempre ricordato il suo valore.
Ossia, la bambina era trottata da Francis, aveva assunto l'espressione più innocente e adorabile del suo repertorio - occhi castani sgranati e luminosi, sopracciglia scure leggermente sollevate, labbra appena socchiuse, guance tinte di rosa - e gli aveva chiesto, con un filo di voce, se potesse essere la prima della fila.
Francis si era messo in ginocchio, per essere alla sua altezza, e, con un sorriso, aveva detto: - Se me lo chiederai in un certo modo, ti dirò sicuramente di sì. -.
Mathieu aveva visto Séchelles sgranare gli occhi ancora di più, stavolta non per intenerire, ma per manifestare la sua perplessità e il suo fin troppo evidente timore di dire la cosa sbagliata; altrettanto evidente era il fatto che non si fosse resa conto che, a prescindere dalla risposta, Francia le avrebbe detto di sì.
La bambina aveva quindi abbassato gli occhi, per poi mormorare un timido ed esitante: - Silvouple. -.
E si erano ritrovati, lui e lei, ad aprire la fila degli Anatroccoli, subito dietro Francis e con tutti i loro fratelli e sorelle alle spalle.
Era un po' strano essere i primi della fila: gli occhi non incontravano nessuna fiumana di teste castane o nere e la mente era più concentrata sul tragitto, non potendo seguire meccanicamente i passi di tutte le altre colonie ma soltanto quelli di una singola persona.
Era strano anche non avere il braccio alzato, il non sentire quell'ormai familiare indolenzimento alla spalla, la manina stretta in quella grande di Monaco; era strano avere il braccio abbassato, avere un compagno di fila di una spanna più basso, sentire le dita intrecciate ad altre così piccole.
Per tutta la traversata, aveva notato Canada, Sesel non aveva chiuso la bocca un attimo: ammirava silenziosamente ciò le circondava, divorando con lo sguardo tutto ciò che non le era familiare, oppure emetteva un gridolino e indicava con una certa insistenza un qualcosa che l'aveva colpita; intervallava i passi con i saltelli, a volte aumentava la velocità, a volte diminuiva, si guardava intorno e alzava gli occhi al cielo, girava la testa così repentinamente che Mathieu si stupì di come fosse riuscito ad evitare che una delle sue lunghe code castane gli si abbattesse sulla faccia come una frusta.
Come previsto, il parco entusiasmò tutte le piccole colonie - tranne Canada - in modo forse eccessivo: la fila si infranse non appena misero piede nella distesa di verde, nessuno ascoltò le ennesime raccomandazioni di Francis e alcuni avevano già preso d'assalto un albero - per poi venire prontamente afferrati per la collottola e trascinati via senza permettere loro di posare i piedi a terra.
Canada lasciò che il suo sguardo si perdesse tra i tronchi, in cerca di un posto dove sedersi e leggere in pace. Tirò appena la mano, per liberare le dita dalla presa di quelle di Sesel; una resistenza non prevista lo costrinse a rivolgere lo sguardo alla sua compagna di fila, trovandola con un sorriso sereno e la curiosità negli occhi.
- Non sono mai stata qui! - esclamò, come se non fosse ovvio: - Tu sì, però, vero? Mi guidi? -.
Mathieu si sarebbe detto di aver sentito male, che quella bambina non poteva davvero avergli chiesto di rimanere in sua compagnia; tuttavia, in quell'ora in biblioteca aveva capito abbastanza di Sesel e, no, non aveva affatto sentito male.
- E' solo un prato. - sussurrò, guardando la distesa verde che si apriva d'innanzi a loro: - Ci sono un po' di alberi... ma non ci sono cose particolari da vedere. -.
Sul viso di Sesel apparve un broncio di disappunto, le sopracciglia abbassate sugli occhi, le labbra appena arricciate: - E' tutto uguale? Non c'è niente niente? -.
Trasalì: non aveva intenzione di far fare una brutta figura al parco, né voleva che quel momento così atteso - e sicuramente fin troppo idealizzato - dalla bambina si tingesse del grigio della monotonia, spezzando le sue illusioni.
Sentì le guance andargli a fuoco e si affrettò ad aggiungere, inciampando nelle parole: - N-no, cioè, nel senso, non è tutto uguale, ci sono anche cose che non sono uguali! - farfugliò, con un fastidioso groppo alla gola.
Séchelles piegò la testa di lato, il volto fattosi curioso. Attendeva un chiarimento.
Mathieu, la mente annebbiata dal panico, cercò di delineare una piccola mappa del parco: doveva esserci qualcosa di diverso dall'erba e dagli alberi, era sicuro ci fosse. Qualcosa in grado di attirare l'attenzione di Sesel, che non deludesse le sue aspettative, che la incuriosisse al pari di ciò che aveva visto mentre camminavano per le strade di Parigi.
"... forse...?".
Tirò la mano di Séchelles, facendo cenno di seguirla, senza neanche sapere esattamente dove andare: ricordava la strada in modo molto vago ma non doveva essere eccessivamente difficile arrivarvi.
- N-non so se ti può piacere... - sussurrò subito, per non farle pensare a chissà quali cose meravigliose: - P-però è carino. Credo. -.
Almeno, a lui appariva come una cosa bella da vedere, l'aveva incuriosito nella sua semplicità; forse Sesel l'avrebbe trovato noioso, di poco conto. Forse, una volta arrivati, si sarebbe voltata verso di lui e gli avrebbe detto, con tono deluso: - ... tutto qui? -.
Lanciò una rapida occhiata alla bambina al suo fianco: a giudicare dal suo sguardo luminoso e dal suo sorriso ampio, doveva star pensando a chissà quale grande magnificenza o spettacolo della natura.
Sospirò, preparandosi a sentire la sua vocina bassa ed esitante, piena di amarezza, la bocca incurvata verso il basso.
"... forse faccio meglio a risparmiarlo ad entrambi."
Fece per fermarsi, per dire di non ricordare la strada, per poi spingere Sesel verso il luogo dove Francis e Jacquie erano soliti sedersi, cercando di convincerla ad unirsi alle altre colonie - sicuramente impegnate in attività più interessanti.
Purtroppo, però, era già in vista e la bambina se n'era accorta.
- E' quello? - chiese, infatti, trattenendo il respiro.
Canada si limitò ad annuire con la testa, affranto: "Si è davvero fatta un'idea troppo grande.".
Ancora una volta, fu costretto a correre, quando Sesel lo tirò e lo trascinò fino alla loro meta.
Un ampio specchio d'acqua, un'interruzione rettangolare nella distesa erbosa, un'estremità a meno di un metro dai loro piedi, l'altra che sembrava volersi fondere con la linea dell'orizzonte; al centro esatto si ergeva una statua che un tempo doveva essere stata bianca come i petali di una margherita, ma che ora esibiva un colore indefinito e non esattamente gradevolissimo tra il giallo chiaro e il grigio - dalle fattezze, doveva essere una donna, ma era troppo lontana per capire chi o cosa rappresentasse.
Ad infrangere la piattezza della superficie dell'acqua, le foglie cadute dagli alberi galleggiavano senza ordine e cinque uccelli bianchi dal lungo collo nuotavano pigramente attorno alla statua, indifferenti anche alle esclamazioni di sorpresa e apprezzamento delle dame che passavano nei pressi della vasca.
La mano di Mathieu divenne improvvisamente meno calda: Sesel l'aveva lasciata, avvicinandosi di qualche passo al bordo della distesa d'acqua.
Canada incassò la testa nella spalle e chiuse istintivamente gli occhi, pronto a sentire la voce dispiaciuta e lo sguardo deluso della bambina su di sé.
- Che carina! -
- Mi dispiace di averti delusa, non volev- eh? -
Mathieu riaprì gli occhi, disorientato. Questa volta era sicurissimo di aver capito male.
- E' carinissima! - trillò Sesel, giungendo le mani dietro la schiena e facendo una graziosa piroetta per poterlo guardare in volto: - Da me c'è tantissima acqua, qui ce n'è poca poca! Sono felice che c'è anche qui, anche se è nascosta! - esclamò, con un sorriso che le raggiungeva gli occhi.
Il groppo alla gola sembrava aver raddoppiato la sua grandezza: ora gli riusciva difficile anche deglutire e il cuore che sembrava martellarvi da sotto non aiutava.
- Q-quindi ti piace? - osò chiedere, in un sussurro più basso del normale.
Sesel, probabilmente, più che sentire la domanda, la intuì; fece di sì con la testa, raggiante: - E' carinissima! - ripetè, girando di nuovo su se stessa e tornando a guardare l'ampio specchio d'acqua.
- Ci sono anche i pesci? - chiese, curiosa.
Canada scosse la testa: - C'erano. Poi li hanno tolti. -. Evitò di aggiungere che era stato fatto per impedire traumi ai bambini e alle dame che, avvicinatisi al laghetto, vedevano galleggiare dei pesci incurvati verso il fondo della vasca.
- Che peccato... - la voce delusa di Sesel, eccola. Ma non era un'amarezza così marcata, non sembrava dare eccessivo peso alla cosa.
- A me piacciono tanto i pesci. - proseguì Séchelles, ancora intenta ad osservare la vasca: - Sai che so prenderli con le mani? All'inizio mi scivolavano sempre e mi ricadevano in acqua. Poi ho imparato a tenerli fermi e a portarli sulla spiaggia senza farli mai cadere! - esclamò, orgogliosa.
- Complimenti. - Mathieu non sappe come altro commentare. L'ammirava per questa sua capacità che lui non aveva, sì, era colpito davvero e probabilmente avrebbe ammirato la cosa ancora di più se, nella sua mente, non fosse apparso con prepotenza un bambino con un salmone grande quasi quanto lui che si dibatteva con violenza tra le sue braccia, e la sua voce concitata: - Guarda! Guarda! L'ho preso! L'ho preso! -.
Si battè una mano sulla fronte, scuotendo la testa.
Però, sentiva che il nodo alla gola si stava lentamente sciogliendo, percepiva un senso di calma invaderlo partendo dal cuore - e, stranamente, sentì anche una fitta dolorosa allo stomaco.
Vi portò una mano, chiudendo di nuovo gli occhi, cercando di rilassarsi.
Un rumore.
Un rumore fin troppo brutto lo costrinse ad aprire gli occhi di scatto, il cuore ebbe un sussulto e il nodo tornò a stringersi di colpo, con violenza, quasi soffocandolo.
Sul bordo della vasca, due scarpette bianche risaltavano nel verde dell'erba, incorniciate da tante goccioline d'acqua.
Le gambe diventarono molli, si rifiutarono di muoversi, nonostante Mathieu continuasse a dir loro - ad urlare - di scattare, correre verso il laghetto. La sua pelle diventò di marmo, impedendogli qualsiasi gesto.
Un battito più forte degli altri fu talmente violento da riscuoterlo.
Prima che il suo corpo potesse rifiutarsi di nuovo di eseguire la sua volontà, si gettò sull'estremità della vasca, artigliando il bordo e guardando verso il basso: una macchia bianca, vaporosa come una nuvola, era ormai appena visibile, ogni istante si faceva sempre più piccola e sfocata.
Soffocò un gemito premendosi una mano sulla bocca, i denti cozzarono tra loro per la violenza dei tremiti che lo scuotevano. Il sangue si era ghiacciato, lo stava congelando dall'interno, chiudeva le sue vie respiratorie e gli bruciava gli occhi.
Strinse i denti, soffocando, e mise un braccio in acqua, illudendosi che fosse solo un'impressione, desiderando di sentire le dita accarezzate dalla stoffa.
Sentì solo freddo, le sue dita si chiusero nel vuoto, accarezzate solo dall'acqua.
Nausea, un dolore improvviso al petto e allo stomaco, un senso di rigetto e disgusto lungo il braccio immerso.
"Non so nuotare!".
Ritrasse il braccio, la mente avvolta dalla nebbia. Trasse un profondo respiro, sentendosi soffocare ancora di più: "Ora? Ora? Ora? Ora? Ora?".
Scattò in piedi senza neanche volerlo, lo sguardo che correva da una persona all'altra, qualcuno che si fosse accorto di qualcosa, che potesse gettarsi in acqua e riportare Sesel in superficie. Un brivido di orrore, quando osò guardare di nuovo il laghetto, vaneggiando una figura bianca che galleggiava sulla superficie, rivolta verso il fondo della vasca.
Aprì la bocca, gridò, ma non uscì nessun suono: il nodo e il ghiaccio lo stavano soffocando, sentiva le lacrime bruciargli le guance roventi.
Voltò la testa, sperando che qualcuno vedesse, che si accorgesse.
Le risate di un gruppo di bambini lo colpì con violenza, nella nebbia della sua mente apparve un unico nome.
Corse, più veloce, le gambe come avvolte da spine, corse, le ginocchia, le mani e il naso che più di una volta si schiantarono sull'erba, un dolore inesistente, corse, una spalla sbattè contro il tronco di un albero, una fitta leggera, corse, serrò le dita tremanti su quella stoffa azzurra così conosciuta, non riusciva a parlare, non respirava più.
Due mani grandi sulle spalle, uno scossone, il suo nome ripetuto due volte, spaventato, un silenzio improvviso là dove un attimo prima c'era un vociare allegro.
- Sta andando sul fondo! - gemette, le ginocchia sbatterono sul terreno: - Sta andando sul fondo! Sta andando sul fondo! -
- Cosa sta andando sul fondo, Mathieu? -
- Sesel! - gridò, riuscendo a far uscire quel nome dalla sua bocca. Il nodo non l'aveva fermato, riusciva ad arrivare alle corde vocali: - Sesel! Sesel! - ripeté, finché un singhiozzo non spezzò quel nome a metà.
La stoffa scomparve di colpo, nelle orecchie solo il suono di passi troppo veloci.
Alzò lo sguardo, incontrando gli occhi azzurri di Monaco, sgranati come non li aveva mai visti, colmi di preoccupazione.
- Andate a chiamare gli altri! - ordinò la donna, un istante dopo, rivolgendosi ai suoi fratelli ammutoliti con tono deciso, lo sguardo fermo: - Venite tutti qui e non muovetevi! -.
I bambini presenti annuirono meccanicamente, i volti pallidi, e corsero a cercare i fratelli e le sorelle nei paraggi, mentre Jacqueline si portava una mano al cuore, visibilmente agitata.
Canada sentì le gambe muoversi da sole, costringerlo ad alzarsi e a correre in una direzione precisa, non per radunare fratelli o sorelle, allontanandosi da Monaco, andando contro il suo ordine.
Per Mathieu, l'importanza dell'ordine di Jacquie era pari a quella delle macchie d'erba e terra sulle sue calze.
La nebbia nella sua mente era meno fitta, qualche pensiero coerente cominciò a prendervi forma.
Sapeva che Sesel era ancora in pericolo, ma una microscopica parte di lui, quella che aveva bloccato ogni sua capacità di intendere e volere, era più tranquilla: Francis sapeva cosa era successo, lui avrebbe di sicuro fatto qualcosa, non avrebbe mai lasciato Sesel lì dov'era.
Forse, una volta arrivato, avrebbe trovato Sesel tra le braccia di Francia, forse l'avrebbe trovata priva di conoscenza, ma sarebbe stata viva.
Si era fermato.
Si costrinse ad andare avanti, camminando e non correndo: strano, ricordava la strada. Forse conosceva quel parco meglio di quanto credesse.
Lo vide.
Il cuore perse un battito, le sue labbra si curvarono istintivamente in un sorriso: Francis era in piedi, sul bordo del laghetto, immobile.
"Ha già salvato Sesel!" si avvicinò, accelerando il passo.
Lo notò.
Si sentì soffocare: Francis aveva le braccia lungo i fianchi. Non stava tenendo Sesel in braccio.
"... dov'è...?"
I piedi divennero pesanti. Troppo per essere sollevati. Strinse i denti e mosse un passo in avanti, poi un altro e un altro ancora, fino a ritrovarsi vicino a Francia, vicino alle scarpette bianche abbandonate.
Guardò verso la superficie d'acqua, la nebbia doveva essere arrivata ai suoi occhi - o forse era colpa delle lacrime.
Si sentì precipitare.
Sentì che sarebbe caduto nelle gelide acque del laghetto e che forse non ne sarebbe più risalito.
Il nodo si sciolse completamente, una boccata d'aria fresca gli riempì i polmoni.
Una risata forse un po' troppo isterica gli sfuggì dalle labbra, ma non gli importò.
L'attenzione dei passanti fu catturata dallo stridere irritato e sorpreso dei cigni, da una risata infantile divertita.
Séchelles s'immerse di nuovo; un istante dopo, un cigno stridette e si alzò in volo, sbattendo le ali con violenza, mentre Sesel riemergeva e scoppiava a ridere, esclamando un divertito: - Dai, ti ho solo tirato la zampa! Come sei permaloso! - un'altra risata, un'altra immersione, un altro cigno infastidito.
Poi Mathieu incontrò i suoi occhi, troppo lontani per leggervi qualche emozione.
La vide sparire di nuovo sotto la superficie dell'acqua, per poi rivedere il suo viso sorridente sul bordo della vasca, vicino ai suoi piedi.
- L'acqua è fredda! - esclamò lei, reimmergendosi fino a lasciare fuori solo la testa e il calash ormai fradicio: - Però ci si abitua quasi subito! Venite anche voi, si sta benissimo! - alzò entrambe le braccia, investendolo con una pioggia di gocce.
La risata di Sesel si spense un istante più tardi.
Vide il suo sorriso sparire, l'allegria sostituita dalla preoccupazione, dalla confusione. Lo sguardo della bambina correva da Mathieu a Francis, sempre più velocemente.
- ... c'è qualcosa... - esitò, la voce ridotta ad un sussurro: - ... qualcosa non va...? -.
Fu solo quando sentì Francis sospirare che Mathieu si rese conto di non averlo neanche guardato in faccia: in realtà, non sembrava arrabbiato. Ma non era neppure felice, né triste, né preoccupato.
Era un'espressione fredda, di un'impassibilità diversa di quella di Monaco. Stonava in maniera inquietante sul suo volto.
Durò pochi istanti: la sua espressione divenne più naturale, più rilassata, ma la fronte era ancora un po' tesa e gli occhi non erano del tutto spensierati.
Lo vide mettersi in ginocchio sul bordo della vasca, immergere le braccia in acqua e riuscirne con una Sesel sorpresa e gocciolante, subito messa con i piedi sull'erba.
- Qui non ci si tuffa in acqua in questo modo. - disse, con un tono gentile che a stento nascondeva una preoccupazione passata, mentre le scioglieva il nodo del calash.
Sesel sgranò gli occhi, visibilmente sorpresa: - Come no? E allora perché c'è questo? - domandò, indicando il laghetto.
Mathieu si vide arrivare il calash bianco tra le mani e non potè far altro che tenerlo, attento a non bagnarsi troppo.
- E' un semplice ornamento. - spiegò Francis, sfilandole i guanti e facendoli cadere nel calash: - Noi non ci tuffiamo nel primo specchio d'acqua che incontriamo, né infastidiamo gli animali. -.
Il viso di Sesel si tinse di rosso.
- E anche se fosse... - riprese Francia, strizzandole i lunghi capelli bagnati: - ... sarebbe stato carino, da parte tua, avvisare Mathieu. -.
Séchelles trasalì, come se si fosse ricordata solo in quell'istante del bambino che aveva fissato un attimo prima.
- Era davvero molto preoccupato, sai? - aggiunse l'uomo, sfilandosi la giacca e posandola sulle spalle della più piccola: - Non è affatto bello che tu non l'abbia avvisato delle tue intenzioni. Vi avevo detto di tenere d'occhio il vostro compagno di fila, anche una volta arrivati qui. Lui è responsabile di te come tu lo sei di lui: non puoi gettarti in un lago senza dire nulla, non riemergere per chissà quanto tempo e pretendere che nessuno si preoccupi. E' stato un gesto incosciente per te e irrispettoso per Mathieu. -.
Ad ogni parola, Mathieu aveva visto Sesel abbassare la testa sempre di più, fino a quasi farla sparire nelle spalle e dietro i capelli. Alla fine, l'aveva rialzata, incontrando nuovamente il suo sguardo, il volto in fiamme, gli occhi spalancati e preoccupati.
- M-Mathieu... - farfugliò lei, intrecciando le dita in modo innaturale, forse anche doloroso, come già l'aveva vista fare: - I-io non volevo farti preoccupare. Non credevo che non si poteva fare, non ci ho pensato. - deglutì, stava tremando.
La mano di Francis sulla testa la fece sobbalzare ma, quando vide che l'uomo stava sorridendo, parve tranquillizzarsi.
- E' anche colpa mia. - sospirò Francia: - Avrei dovuto dirti una cosa simile, in ogni caso. E' stato un grave errore, da parte mia, pensare che fosse scontato. Pardonne-moi, Sesel. -. Guardò Canada, sinceramente dispiaciuto: - Pardonne-moi, Mathieu. E' stata anche colpa mia, se ti sei spaventato. -.
Mathieu scosse la testa, accennando ad un sorriso nella speranza di rassicurare entrambi.
Non ce l'aveva con nessuno dei due: era stato un incidente conclusosi nel migliore dei modi, nessuno dei due aveva colpa.
Sesel gli si avvicinò e gli prese le mani tra le sue, fredde a causa dell'acqua in cui era stata immersa per tutto quel tempo: - ... eskiz mon. - mormorò, con un buffo accento, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi, le guance completamente rosse: - Pardon. -.
Mathieu non riuscì a trattenere un sorriso: sentiva nel petto una sensazione di sollievo più forte del normale, come se si fosse appena svegliato realizzando che tutto ciò che era successo fino a quel momento non era altro che un incubo, qualcosa che l'aveva scosso ma che, in fondo, non era mai successo.
- Ne te inquiétes pas. - rispose, con un filo di voce appena percettibile - e se ne rese conto anche lui. Forse quel nodo alla gola gli aveva bloccato le corde vocali e ci sarebbe voluto del tempo per riabilitarle.
In effetti, cominciava a sentire un dolore fin troppo acuto un po' su tutto il corpo - soprattutto sulle gambe e su una spalla.
- Va tutto bene, adesso, no? - cercò di sorridere, sperando che il suo non fosse un sorriso tirato o nervoso.
Sesel annuì con la testa, senza dire una parola.
- Torniamo a casa. - annunciò Francis, riportando l'attenzione di Séchelles su di sé per rimetterle le scarpe: - Sei rimarrai così, sicuramente ti ammalerai. Andiamo a casa a cambiarci, va bene? -.
Séchelles fece di sì con la testa per la seconda volta.
- Vieni anche tu con noi, Mathieu? -
Canada annuì: non sapeva esattamente perché, ma aveva paura a perdere di vista Sesel, per il momento. Ringraziò mentalmente Francis per averglielo chiesto - non era sicuro che sarebbe stato in grado di domandarlo lui stesso.
- Ma... - esordì la bambina, timidamente: - ... poi torniamo, vero? -. Quando Francis alzò lo sguardo dalle sue scarpe, lei arrossì: - Non voglio che Mathieu torna a casa prima perché mi devo cambiare. E' stata colpa mia, non è giusto che lui deve stare qui di meno. -.
Il bambino sentì le guance farsi più calde: "Si sta davvero preoccupando per me?". Perché gli suonava così strano e irreale?
Per tutta risposta, Francia sorrise, un sorriso ben più spontaneo dei precedenti: - Ovviamente sì. E mi premurerò di dimenticarmi di riportare indietro te. -.
Séchelles gonfiò le guance, con disappunto: - E io ti seguo a piedi. -.
Mathieu soffocò un sorriso divertito, per poi accorgersi di un particolare: - Andremo con una carrozza? - domandò, mentre Francis prendeva in braccio la bambina.
Quando vide l'uomo annuire, osò far notare, esitante: - Ma... faranno entrare Sesel... così? - chiese, lanciando una rapida occhiata ai vestiti ancora gocciolanti di Séchelles.
- Oui. - rispose Francis, semplicemente: - In questa città, nessuno dirà mai di no a me. -.
"... mi sembra giusto.".
- Passiamo prima da Jacquie e gli altri. - disse Francia, incamminandosi verso il luogo in cui, fino a poco prima, era con Monaco: - Avvisiamoli che la nostra signorina ha soltanto rovinato i bei merletti del suo vestito. -.
Sesel tossì nervosamente, una tosse ben poco credibile.
- Tra l'altro, dovrei chiedere a Jacquie di insegnarti un po' di galateo per signorine. Credo sia uno dei pochi campi in cui è più esperta di me. -
Séchelles rabbrividì: - ... altri libri? - chiese, in un pigolio.
- Chissà... Jacquie ha dei metodi di insegnamento tutti suoi. -
Séchelles rabbrividì di nuovo.
Fu soltanto sentendo parlare Sesel e Francis che Mathieu si accorse di una cosa: per tutto quel tempo, nonostante tutto, non aveva pensato al libro ancora nella borsa neppure per un istante.



Note:
* L'accenno a Espagne e Italie du Sud (U.U) è un riferimento alle guerre tra la Francia e l'impero asburgico, conclusesi con la pace di Cateau- Cambrésis nel 1559 - alias, quando la Spagna prese ufficialmente&totalmente il possesso del Sud Italia.
* - Ma no, Soe! Hai sbagliato a scrivere "S'il vous plait" ed "Excuse moi"! -
Ebbene, no. Stando a quanto dice Wikitravel, "Silvouple", "Eskiz mon" (che altri siti mi danno come "Eskiz" e basta) e "Pardon" sono termini dell'attuale creolo delle Seychelles - lingua che, come si può facilmente intuire, deriva dal francese. Tradotto in questa storia: Sesel sta sì imparando il francese... ma lo sta facendo a modo suo. U.U"

E' trascorso un anno dal secondo capitolo, o forse no. *Nella sua mente è Gennaio, quindi sono passati appena due mesi. Cercherà di chiarirlo nel prossimo capitolo.* *Sì, in pratica, Sesel va a quasiaffogarsi (?) a Gennaio.*
Spero di essere riuscita a gestire il punto di vista di Canada in maniera decente. oAo *Sono tutti personaggi che muove per la prima volta, quindi...*
(Come sempre, i periodi ipotetici con poca voglia di vivere nel parlato delle piccole colonie sono voluti. Quelli non nel parlato delle piccole colonie non sono voluti e non dovrebbero esserci. *Coff*)
Riguardo Francia, mi sembra sia uscito forse un po' tanto più fluffoso del previsto. °A° *Vabbè... cofftantosisacomeandràafinirecoff*
Eh-ehm. Mentre scrivevo, mi è sorto un dubbio: ... ma, in effetti, tutti gli animaletti delle nazioni (tipo Kumajiro e Gilbird) sono immortali come i loro padroni...? *Nell'indecisione, ha optato per il sì* °^°

In tutto ciò, ho come l'impressione che questi capitoli siano zucchero sparato direttamente in vena. °A° *Impressione, Soe...?*
Ehm, il fluff doveva esserci solo nei primi due capitoli. oAo Però sono grafomane compulsiva, quindi il fluff si ritrova ad occuparne quattro. *Cose che capitano...*

Spero che, in ogni caso, questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^ Se avete consigli o critiche da farmi, dite pure. ^^

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Capitolo 4
*** 1757 ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
[Vivamente consigliato assicurare i vostri denti. Forse avrei dovuto dirvelo tre capitoli fa. Pazienza. Son cose che capitano.]

1757

- Cosa? Parti di nuovo? - il coro di Iles des Saintes e Saint Barthélemy diede voce ai pensieri dei presenti, tono incredulo e lamentoso compreso.
- Ma sei tornato da poco! - protestò Sainte Lucie, in un pigolio, subito seguita da Grenada: - Infatti! Ha ragione! -.
La stanza fu preso invasa dalle lamentele delle piccole colonie: alcune si alzarono dal pavimento davanti al camino, altre rimasero sedute, ma sempre contrariate; qualche colonia saltò giù dal divano bianco, altre vi rimasero, strette l'un l'altra come animaletti avvolti in strati di stoffa pregiata; Jacqueline si limitò a distogliere l'attenzione dal libro che stava leggendo, alzando il viso con assoluta tranquillità.
- Dai, non è la prima volta! - intervenne Ile de Clipperton, con un sorriso tirato, cercando invano di riportare un po' di ordine.
- Ma non è giusto! - l'acuto di Marie-Galante ferì diversi timpani.
Sesel si strinse di più a Ile de France, rannicchiata sul divano: si era ritrovata nel bel mezzo di un vortice di schiamazzi in francese stretto e riusciva a capire una parola sì e dieci no; l'unica cosa che le era ben chiara era anche l'unica che avrebbe preferito non capire affatto.
- Cosa sono questi toni da animale da cortile, Marie? - la voce di Francis, bassa e calma, per chissà quale proprietà magica, fu udita da tutti, zittendo all'istante qualsiasi protesta o parola di troppo.
Marie-Galante, chiamata in causa, avvampò in un secondo, per poi farfugliare delle scuse imbarazzate.
- Però non sono stata solo io. - aggiunse, in un sussurro contrariato.
- No, non sei stata solo tu. - le diede ragione l'uomo, scoccando un'occhiata a tutte le colonie in piedi - azione che, sempre per chissà quale motivo, portò le suddette colonie a ricadere sul pavimento o sul divano nel giro di pochi istanti.
La voce di Francia si fece più morbida, priva di qualsiasi nota di rimprovero: - Però Clipperton ha ragione: non è certo la prima volta. E, aggiungerei, non credo sia il caso di fare queste scene ad ogni mia partenza. - sorrise, quasi divertito: - Del resto, sono sempre tornato, no? -.
Il sospiro di Monaco portò diverse colonie a rivolgerle uno sguardo perplesso.
- Però... - prese parola Saint Pierre, con voce esitante: -... stai pur sempre partendo per una guerra. -.
Il silenzio tornò a pesare sulla stanza, spezzato soltanto dal crepitare delle fiamme nel camino.
- Come ha detto Clipperton... - ripeté Francis, pacato: - ... non è la prima volta. -.
Sesel sentì un brivido scivolarle lungo la schiena, la stoffa della manica di Ile stritolata tra le sue dita: quel tono così tranquillo nel dire cose del genere la inquietava. Le sembrava assurdo che qualcuno potesse parlare di una cosa così pericolosa come se stesse constatando la presenza o meno di nuvole nel cielo.
- Non è stata una sorpresa. - aggiunse Francia, facendo ondeggiare appena il bicchiere di vino che aveva in mano: - Inde mi aveva già parlato di diversi problemi a casa sua. Era solo questione di tempo. -.
- Problemi? - ripeté Martinica, piegando appena la testa di lato.
Le labbra di Francis si curvarono in un sorriso appena accennato, simile al principio di una risata: - Ma perfide Albion sta facendo i capricci. -.
Sesel sgranò gli occhi: non si era neppure accorta che Francia avesse iniziato a parlare nella lingua delle nazioni ma, soprattutto-
- Perfide Albion? - ripeté, senza pensarci.
- Oh, giusto! - esclamò Bourbon, spalmata contro la sua spalla e il suo braccio, attirando l'attenzione su di sé: - Séchelles non lo sa! -
- Cosa? - chiese la bambina, salvo poi rendersi conto della stupidità di quella domanda.
- Albion! - ridacchiò Zephyrine: - Tu sai chi è Albion? -
Séchelles sbattè più volte le palpebre, sentendo le guance farsi stranamente più calde: - Ehm... - balbettò, presa alla sprovvista: - ... una signora molto perfida? - azzardò.
- Esatto. - intervenne Ile de France, mentre Bourbon ridacchiava un: - Perspicace! -.
- Francis la nomina spesso. - spiegò Dosnee, con il suo eterno sorriso: - ... solo che, di solito, non è mai in relazione a cose belle. -.
Sesel annuì più per cortesia, sapendone quanto prima: "Se è perfide...".
- Però non l'abbiamo mai vista. - aggiunse Saint-Domingue, un po' contrariata: - Nessuno di noi! -.
- Io vorrei tanto incontrarla! - esclamò Guadalupa, illuminandosi all'idea.
- Anch'io! - gli fece eco La Désirade, con voce allegra.
- Oh, mi auguro davvero che la perfide Albion non appaia mai sulla strada di nessuno di voi. - disse Francis, bloccando qualsiasi altro intervento simile. Il suo tono si era fatto più freddo, il sorriso accennato era scomparso quasi del tutto.
Nonostante questo, Marie-Galante non riuscì a trattenere un borbottio: - A me non piace. E' sempre colpa sua. -
- Vero. - riconobbe La Désirade, dispiaciuta: - Ti fa affaticare troppo. Devi sempre partire e raggiungerla ovunque si trova, ti fa sempre andare e venire, andare e venire, di continuo! -.
- Non è del tutto esatto. - Francia tornò a sorridere, di un sorriso un po' strano, in verità: - Anche ma perfide Albion va e viene a causa mia. -.
Un improvviso rumore sordo portò gli occhi di tutti su Jacqueline, la mano che accarezzava la copertina del libro appena chiuso: - E' quasi ora di cena, ritengo sia opportuno prepararsi. - disse, alzandosi e rivolgendo a Francis un'occhiata indecifrabile: - Se il padrone di casa vuol precedermi... -.
Così, mentre Francia accoglieva l'invito di Monaco, Sesel si voltò verso Dosnee, confusa: - Francis non mi sembra dispiaciutissimo. - osservò: - Però, prima, non era felice, quando diceva che è meglio se non incontriamo quella signora perfida... -
- Forse noi non sapremmo come rapportarci a lei. - rispose Ile de France, alzando le spalle: - E poi, credo che incontrare la perfida Albion sia sinonimo di problemi. Gravi problemi. - aggiunse, facendo rabbrividire la bambina.
- ... e... - fece Sesel, cercando di scacciare dalla mente l'idea di un'ombra sinistra che sgusciava fuori da sotto il suo letto e le faceva capitare le peggiori sventure solo apparendo: - ... come facciamo ad evitarla...? -.
Dosnee parve pensarci un attimo, per poi rispondere: - Beh, una volta, Francis, dopo essersi imbattuto in un signore vestito in modo estremamente dubbio e averlo guardato come più meritava, borbottò qualcosa tipo "Piuttosto ma perfide Albion in mezzo al mare". Quindi credo che, per evitarla, basta stare lontano dal mare... -
Quelle parole bastarono a far inorridire Sesel: - ... ma noi siamo isole! - si rese conto, con voce soffocata.
- Oh, giusto. - fece Dosnee, come se niente fosse: - Ma magari Albion si nasconde nelle acque profonde. Se rimaniamo sulla terraferma o nei primi metri d'acqua, non dovremmo incontrarla. -.
Séchelles annuì meccanicamente, deglutendo a fatica: la sua mente era volata a pochi giorni prima, quando si era tuffata nello specchio d'acqua del parco; la sua fantasia creò l'immagine di una vecchia dalla pelle gialla e rugosa, il naso lungo e ricurvo verso il basso, in bocca soltanto una decina di denti neri o marroni, che emergeva dal fondo della vasca, allungava un braccio scheletrico dalle lunghissime dita sottili e le afferrava una caviglia, trascinandola sul fondale.
Scosse violentemente la testa, scacciando quell'immagine: no, decisamente, non le sarebbe affatto piaciuto incontrare la perfida Albione.

"Come ha fatto a non funzionare...?"
Sesel non trovava pace, né per sé né per le pagine del libro che stava riportando in biblioteca, ormai talmente piene di orecchie da riuscire a tenere sollevata la copertina: "Marie era così sicura..." scosse la testa, inspirando a fondo per calmarsi.
Il loro piano era stato un fallimento completo: guidate da Marie-Galante, lei, Bourbon, La Désirade, Sainte Lucie e un Grenada apparso dal nulla avevano ideato un piano per sabotare la partenza di Francis - piano che consisteva nel nascondergli cappello, stivali e giacca. Tutti i cappelli, tutti gli stivali e tutte le giacche, per la precisione. Sfortunatamente, le domestiche, nel loro consueto giro di pulizia mattutino, erano riuscite a trovare due giacche, un cappello e uno stivale, allarmandosi e riuscendo non si sa come a ritrovare tutto il rubato prima che il padrone di casa si svegliasse.
Il fatto che tutti i suddetti oggetti fossero stati nascosti sotto i mobili - unico "nascondiglio" accessibile a dei bambini - poteva averle aiutate nella ricerca. Come poi fossero riuscite a rendere nuovamente presentabili tutti i suddetti oggetti nel giro di un paio d'ore, nessuno lo seppe mai. Per il resto, il fatto che lo stivale mancante fosse sotto il letto di Marie-Galante fu una prova piuttosto schiacciante circa l'identità di almeno uno dei ladri. Non ci volle molto a risalire anche a Grenada, che confessò spontaneamente, e a Sainte Lucie e Séchelles che, al momento della partenza, erano quasi scoppiate in lacrime - o meglio, Sainte Lucie si era messa a piangere, lei non aveva pianto assolutamente, le si erano solo arrossati gli occhi perché le domestiche, pulendo, avevano sollevato troppa polvere. La Désirade e Bourbon furono le uniche a scampare all'essere riconosciute come colpevoli. Forse.
Perché Francis aveva guardato anche loro, quando aveva detto: - La prossima volta, sperando che non ci sia alcuna prossima volta, dovreste imparare a fare meno rumore. -.
In effetti, il fatto di aver rubato mezzo armadio di Francia, nella stanza di Francia, mentre a pochi metri, apparentemente addormentato, c'era Francia poteva essere stato un motivo non indifferente circa il fallimento del loro piano.
- Tornerà! - aveva detto Ile de Clipperton, cercando di tirare su di morale le sue sorelle: - E' sempre tornato! -
- Non portare sfortuna! - salvo poi essere zittito da un discreto coro.
Erano trascorse nove ore dalla partenza di Francis e a Sesel sembrava fossero trascorsi solo nove minuti; forse voleva illudersi che fosse ancora nei paraggi, che fosse ancora in Francia, con i piedi per terra e non sul legno di qualche nave o in una carrozza. Che magari ci ripensasse e che tornasse indietro.
Fece un altro respiro: la polvere non le dava tregua.
Così come non le aveva dato tregua Jacqueline, che l'aveva costretta a tornare al suo studio del francese.
Non che ci fosse voluto granché per convincerla a rimettere mano al libro.
- Non vuoi parlargli nella sua lingua, quando tornerà? -
Tra l'altro, Jacquie le aveva consigliato di provare a parlare francese anche con i suoi fratelli e le sue sorelle e di iniziare a leggere anche gli altri libri in biblioteca.
Forse avrebbe potuto fare un tentativo con i libri. Mettersi a parlare in francese con Zephyrine o Ile era fuori discussione - l'immagine di se stessa che farfugliava cose senza senso con le guance rosse e gli occhi bassi era troppo umiliante per renderla reale.
Giunta in biblioteca, quindi, sistemò il libro al suo solito posto e si guardò intorno, in cerca di un qualcosa da poter provare a leggere.
Nell'abbracciare la grande sala con lo sguardo, Sesel notò tre cose.
La prima le fece venire mal di testa: era tutto troppo grande, troppo vasto, troppo alto per poter anche solo pensare di poterlo esplorare in cerca di un libro. Un libro, poi. Lì dentro dovevano essercene centinaia di migliaia, avrebbe avuto difficoltà anche solo a sceglierne uno a caso.
La seconda la lasciò perplessa: qualcuno doveva aver iniziato a sistemare una serie di scaffali, dato che tre file non molto distanti erano vuote, i libri impilati sul tavolo più vicino in tre colonne alte almeno il doppio di lei.
La terza la portò ad un vistoso salto, facendole sfuggire un sorpreso: - Danaca! -
- Canada. -.
"Ha fatto le radici in biblioteca! Gli fioriranno libri dalle dita e farà frutti d'inchiostro!".
Era la seconda volta che lo incontrava in quel luogo ed era la seconda volta che non lo notava. Quella volta, tuttavia, Mathieu non era seduto: era davanti allo scaffale di fronte a lei, quello che lei aveva praticamente sfiorato nell'entrare in biblioteca.
Ossia, l'aveva sfiorato e non si era minimamente accorta di lui. Per la seconda volta.
Sentì le guance diventare più calde, ma cercò di ignorarle: - Cosa ci fai qui? - chiese, pur rendendosi conto di quanto scontata fosse la domanda.
- Leggo. - rispose, infatti, l'altro: - O meglio, leggevo. Me ne stavo andando. - aggiunse, in un sussurro ai limiti dell'impercettibile.
"Oh, giusto." si ricordò Séchelles, avvicinandoglisi fino a serrare una mano attorno al suo polso: "Mathieu parla piano e va sempre tenuto sott'occhio.".
- Ehm... - un leggero colpo di tosse, che più finto di così non si poteva: - ... stai bene? - domandò, cercando di sorridere e fallendo miseramente. Del resto, l'ultima volta che era rimasta da sola con lui, era riuscita a farlo diventare più bianco della luna - il poveretto aveva riacquistato un colore sano soltanto un paio di giorni dopo.
Nessuno aveva più parlato di quella faccenda, quindi Sesel aveva iniziato a rivederla in un'ottica meno apocalittica di quanto non le fosse apparsa all'inizio - con Francis arrabbiato e Mathieu in punto di morte.
Però voleva assicurarsi che fosse lo stesso anche per il bambino - ma, soprattutto, che non fosse arrabbiato con lei. Probabilmente, era questo che, più di tutto, non sarebbe riuscita a sopportare.
Canada annuì, apparentemente sovrappensiero.
- Però... - mormorò, facendola trasalire: - ... mi prometti che non ti getterai più in acqua davanti a me? -
Sesel sbattè le palpebre più volte. Poi annuì, sollevando appena gli angoli della bocca: - Sì! Mi getterò in acqua con te! -
- ... cosa? - farfugliò Mathieu, sgranando gli occhi chiari.
- Così ti insegnerò a nuotare sott'acqua! - esclamò Séchelles, alzando la mano che gli teneva stretto il polso: - Tu non sai nuotare sott'acqua, vero? -
- N-no, ma- -
- Allora è deciso! - trillò la bambina, serrando il pugno libero: - Ti insegnerò a rimanere sott'acqua per tantissimo tempo e a muoverti sui fondali! Magari... - aggiunse, abbassando un po' la voce, fino a quel momento rimbombante tra le pareti della biblioteca vuota: - ... non nel laghetto del parco. -.
Mathieu annuì, gli occhi sbarrati: - Non nel laghetto del parco... - ripetè, piano.
Tornò il silenzio.
Séchelles riabbassò la mano, rimasta alzata tutto il tempo, insieme al braccio del bambino, cercando qualcosa di vagamente intelligente da dire. Non sapeva perché, ma non voleva che lui se ne andasse proprio in quel momento.
- Tu sei qui perché hai riportato il libro di francese? -
Sesel alzò lo sguardo - neanche si era accorta di averlo abbassato -, stupita dal fatto che a rompere il silenzio fosse stato Canada e non per congedarsi.
Stavolta riuscì a sorridere pienamente, senza neanche pensarci. Annuì e spiegò: - Così, quando Francis tornerà, saprò parlare in francese! -.
Si bloccò, l'entusiasmo si spense in un istante, il sorriso scomparve.
- Perché... - mormorò, facendo scivolare le dita dal polso alla mano dell'altro: - ... Francis tornerà, vero? -.
Silenzio. Di nuovo.
- Sono duecento anni che lo vedo partire. - sussurrò Canada, spiazzandola: - Per tornare, è sempre tornato. Come, invece, è a seconda delle situazioni. - alzò le spalle, le labbra si curvarono appena, come se volesse sorridere.
Séchelles fece di sì con la testa, incapace di rispondere.
Tuttavia, non sentiva più il cuore pesante come un sasso, che le premeva dolorosamente sullo stomaco: non era leggero come una piuma, ma era più sopportabile.
Forse era dovuto al curioso accostamento del bambino terrorizzato per lei e il bambino tranquillo nel parlare della partenza che aveva invece preoccupato tutti.
"Se l'ha spaventato di più ciò che è successo al lago, allora non è così grave...?" cercò di capire, stranamente sollevata. Non dubitava del fatto che Mathieu volesse bene a Francis come gliene voleva lei, quindi era impensabile - ridicolo - che potesse essere indifferente a ciò che gli sarebbe potuto succedere.
Soltanto, era strano. In positivo.
- Et alors... -
Sesel fu distolta dai suoi pensieri: Mathieu aveva di nuovo infranto il silenzio. E sembrava quasi stesse sorridendo: - ... parles tu français? -.
No, un attimo.
- N-non! - esclamò, inorridendo nel rendersi conto di quanto le guance le stessero andando a fuoco: - A-ancora non sono così brava. - farfugliò, trovando di colpo interessantissimo un libro particolarmente in alto.
Deglutì e buttò lì: - E-ero venuta per questo! Jacquie mi ha detto di leggere qualche libro in francese e quindi ho deciso di leggere un libro in fran- -
Un suono leggero la bloccò, costringendola a tornare a guardare il suo interlocutore, notando che sembrava aver assunto un'espressione tranquilla solo da pochi istanti.
"... stava ridendo...?"
- Quindi stavi cercando un libro in francese. - concluse Canada, come se niente fosse.
Séchelles annuì, poco convinta: - Il fatto è che... - confessò, alzando un sopracciglio e gettando una rapida occhiata agli scaffali: - ... questa biblioteca è enorme. Non saprei neppure dove trovarli, dei libri non troppo difficili. -.
Mathieu fece di sì con la testa, dandole ragione: - E non sono neppure tutti in francese. -.
- Oh... -
"... perfetto." pensò, sconfortata. A quelle parole, però, le venne un dubbio.
- Mathieu, ma tu... - disse, perplessa: - ... come fai a sapere che non sono tutti in francese? -.
Stavolta Canada sorrise davvero, di un sorriso imbarazzato: - Ecco... duecento anni, poche cose da fare... dato che sto spesso in biblioteca, ho letto parecchi libri, ho guardato un po' su tutti gli scaffali e cose così... - le ultime parole furono dette a voce talmente bassa che Sesel non riuscì a sentirle neppure da quella distanza ravvicinata.
- E poi... - tornò a parlare con il suo tono normale, ossia un sussurro appena udibile: - ... questa è una delle biblioteche più fornite di tutta la France. Ci sono tutti i classici di tutto il mondo, sia in lingua originale che tradotti in francese. Anche se molti sono difficili da capire... - sospirò, lasciando intendere di aver provato a leggere i libri più complessi, con scarsi risultati.
Sesel gli stava stritolando una mano, gli occhi spalancati, fremente: "Avevo ragione, questa biblioteca è troppo immensa!".
- Questi cosa sono? - chiese, indicando lo scaffale di fronte a loro.
- Libri in francese. - la rassicurò Canada: - Anche quelli e quelli. - spiegò, indicando alcuni scaffali più vicini, tra cui quelli in parte svuotati.
- E quelli? - domandò la bambina, rivolta verso degli scaffali un po' più distanti.
- Classici greci. Dalla Grèce. E accanto ci sono quelli latini. E' una lingua molto antica. - spiegò l'altro.
- E quelli? -
- Libri dall'Italie, mi pare. Sì, dall'Italie. -
- E quelli lì davanti? -
- Dall'Espagne. -
- E quelli lì vicino? -
- Dalla Prusse. -
- E quelli lassù? -
- Dall'Angleterre. -
Lo sguardo di Sesel tornò a Mathieu, per poi spostarsi nuovamente su quegli scaffali: erano in alto, fin troppo in alto. Erano praticamente relegati sul soffitto.
- Ma sono troppo in alto... - protestò Séchelles, con una smorfia dispiaciuta: - ... bisogna usare la scala ed essere anche alti, per prenderli! Non possono metterli più in basso? Così nessuno riuscirà mai a leggerli, neanche si notano! -
- ... per questo sono lì. -.
Sesel non capì, Mathieu non aggiunse altro.
- Quelli lì, invece? - provò a chiedere di nuovo, stavolta indicando dei libri sì molto in alto ma ad altezza ben più umana.
- ... non lo so. - confessò Mathieu, cogliendola di sorpresa: - Ho provato a leggerli, ma non ho capito niente. Ci sono tante parole difficili e quelle poche che si capiscono rendono tutto più confuso. -
- Perché? - fece Sesel, sconcertata.
Canada alzò le spalle: - Perché, da quanto ho capito, parlano di gente che si aggroviglia. -
- ... gente che si aggroviglia? - ripeté la bambina, ancor più disorientata di prima.
- Sì... - rispose Mathieu, visibilmente perplesso al ricordo: - ... mani qui, gambe lì, bocche qui, labbra lì... - scosse la testa: - Dato che non capivo, sono andato a chiedere a Francis di cosa parlassero quei libri. Ricordo che Francis mi ha tolto il libro dalle mani, ha riso, in modo un po' strano, sinceramente, e mi ha detto che quei libri mi sarebbero piaciuti quando sarei stato abbastanza alto da poterli prendere senza la scala. Ma non mi ha mai spiegato di cosa parlassero. -
- Che strano... - osservò Sesel, piegando la testa di lato.
- Già. - concordò l'altro, la fronte aggrottata. Scosse la testa, come per scacciare i pensieri: - Volevi un libro semplice, no? - chiese, quindi, tirando appena Séchelles per farle cenno di seguirlo.
Lei annuì, accorgendosi di come la stesse portando nei pressi degli scaffali vuoti.
- Ecco, qui ci sono i libri in francese per bam- più semplici. - spiegò, mostrandole degli scaffali alla loro altezza, praticamente rasoterra.
- Mersi! - esclamò lei, avvicinandosi e piegando appena la testa per leggere meglio i titoli sui dorsi dei libri: - Tu li hai letti? - chiese.
Quando si accorse che Canada aveva annuito, tornò a guardarlo, con un sorriso: - Ce ne sono che parlano di pesci? -
- ... pesci? - ripeté Mathieu, gli occhi sgranati.
Sesel annuì: - Pesci! -.
- Sì, forse... - fece l'altro, avvicinandosi alla libreria, titubante.
Séchelles lo lasciò fare, azzardandosi a lasciargli la mano: voleva leggere i titoli di qualche libro più distante.
Mentre il suo sguardo vagava sui dorsi, la sua attenzione fu catturata dalle pile di libri sul tavolo alle loro spalle. Si avvicinò, incuriosita: "Chissà che libri sono..." si chiese, salendo su una sedia. Nessun titolo le suggerì niente di interessante; più che altro, la bambina fu attratta da dei piccoli disegni dorati in cima ad alcune costole: alcuni erano simboli che non aveva mai visto, altri erano immagini facilmente riconoscibili, come una stella, un fiore o persino un uccellino.
Il suo cuore sussultò: - Un pesce! - trillò, notando la piccola figura dorata sul dorso di un libro: - Se c'è un pesce, allora parlerà di pesci! - esclamò, tirando fuori il libro dalla pila, non senza difficoltà.
- Sese- -

C'era più luce di prima, bisognava riconoscerlo. O meglio, c'era la luce che c'era di solito: erano state le varie pile di libri sul tavolo ad averla oscurata per un breve tratto degli scaffali più bassi.
Sfortunatamente, ora le pile non c'erano più: malauguratamente, i libri che le componevano erano misteriosamente franati al suolo. O meglio, i libri di una pila si erano misteriosamente mossi e avevano coinvolto, nel loro volo verso non si sa dove, la pila vicina. La terza pila era rimasta in piedi, salvo poi cadere per solidarietà.
- Quando siamo arrivati, era già così. - disse Sesel, guardando Mathieu con uno sguardo mortalmente serio. Quest'ultimo annuì, gli occhi sbarrati.
- E io, nel mucchio, ho trovato questo! - trillò la bambina, illuminandosi nello sventolare il libro con il pesce dorato.
- Se lo dici tu... - sospirò Canada, arrendendosi.
Séchelles gli afferrò di nuovo la mano, felice del fatto che non fosse svanito nell'arco di quei minuti.
- Ti piacciono così tanto, i pesci? - chiese il bambino, una nota vagamente incuriosita nella voce.
Sesel annuì, sorridendo al ricordo delle scaglie bagnate sui palmi delle mani: - La mia casa ne è piena! Ce ne sono di tantissimi tipi, sai? Alcuni sono talmente piccoli che, per mangiare, bisogna pescarne a grappoli. Altri, invece, sono così grandi che ci può mangiare una famiglia di cinque persone per almeno una settimana. - ridacchiò, trascinando Canada lontano dal disastro librario.
Una volta giunti nei pressi di un tavolo abbastanza distante, Mathieu parlò: - Tu aimes ta maison. -.
Séchelles si voltò a guardarlo: era stupita da quell'affermazione, era stupita per averla capita ed era inquieta perché stava parlando in francese.
- Mais... - si bloccò: no, non le andava proprio di fare una figura del genere. - ... mi piace anche la France. E' più fredda della mia casa, ma è bella! - disse, il volto che le andava a fuoco.
- Ecco... puoi non parlarmi in francese? Non sono capace di risponderti. Te l'ho detto. - confessò, senza riuscire a guardare il suo interlocutore.
- Pour moi, oui. - la voce di Mathieu era bassissima, ma riusciva a sentirvi una nota... divertita?: - Tu me comprends. -.
Sesel abbassò la testa: - ... ma non so rispondere. -.
- O non vuoi? -
Incontrò di nuovo gli occhi azzurri del bambino: sembravano tranquilli, incuriositi, ma privi di qualsiasi traccia di derisione.
- ... non voglio dire cose sbagliate. - sussurrò lei, infine: - E non voglio fare una brutta figura. -.
- Ma nessuno di noi sapeva il francese. - stavolta Canada sorrideva sul serio, pacato: - L'abbiamo imparato tutti, come te. Anch'io. E... - abbassò ulteriormente la voce, Sesel dovette avvicinare il viso al suo: - ... anche Jacquie ha dovuto impararlo. -.
Séchelles si tirò indietro, spiazzata: - Jacquie? - ripeté, incredula.
Mathieu annuì: - Le français n'est pas sa langue maternelle. -.
Pensare a Jacqueline china sui libri di francese era ai limiti dell'irrealtà: Monaco era colei che insegnava, non colei che imparava e, nella sua testa, ciò era un'immagine fissa, impossibile da modificare, un punto di riferimento, una delle sue certezze della vita.
"... Mathieu ha fatto crollare una delle mie certezze della vita.".
- Quindi, nessuno riderà di te. -
Sesel chiuse gli occhi e inspirò.
Era assurdo. Forse sarebbe stato anche umiliante.
"Però... però, se anche andrà male, cosa può succedere? E poi, in fondo, non lo saprà nessuno."
Riaprì gli occhi, sorrise: - ... beh, se non ci provo, non so come andrà, no? -.
Canada annuì, semplicemente.
- Tu... - aveva come l'impressione che, se fosse andata nelle cucine, i cuochi e le cuoche avrebbero potuto cuocerle un uovo sul viso: - ... peux tu aider moi? - balbettò, incerta. Per l'appunto.
- Oui. - Era strano sentire Mathieu così loquace. Ma "strano" in senso positivo.
- Alors... - Il pesce dorato sul libro era affascinante. Un fascino molto raro, ma capace di catturare. - ... je te dirai comment est belle ma maison. Mais... - Sì, era proprio impossibile staccargli gli occhi di dosso. - ... aprés, tu parles-moi de ta maison. -.


- Bonzour, Jacquie! Komansava? -
-
Oh, bien, merci. Ho sentito che, in questi giorni, stai parlando con i tuoi fratelli e le tue sorelle in francese, ciò non può che rendermi felice. Ti sento molto migliorata! -
-
Mersi! -
- Ti va di fare una prova scritta? -
-
Wi! -

- ... beh, Séchelles, è indubbio che tu sia molto, molto migliorata, però... temo ci siano ancora dei grandi problemi con lo scritto. -
-
... kwa? -
- Quindi, dato che stai migliorando così velocemente, credo proprio sia il momento perfetto per intensificare le lezioni sullo scritto! -
-
... KWA? -



Note:
* Non credo ci sia bisogno di specificare chi sia la "Perfida Albione".
Vorrei precisare una cosa, però: l'espressione in questa forma risale al 1793 (quindi successivamente alle vicende narrate); tuttavia, l'aggettivo "perfida" fu usato già tra il 1600 e il 1700 e pare risalga addirittura al XIII secolo. Sembra anche che la definizione fosse già largamente in uso in Francia durante la Guerra dei Sette Anni e le Guerre napoleoniche. *Quindi, magari, "Perfida Albione" esisteva già prima che qualcuno la mettesse specificamente per iscritto*
[Fonti: 1, 2, 3]
* Per quanto nel Principato di Monaco si parli francese, la sua "lingua madre" è il monegasco, ossia una variante dialettale della lingua ligure; del resto, a fondare il Principato fu una famiglia ligure, quella dei Grimaldi.
E quindi, sì, il Principato di Monaco è, in origine, "linguisticamente" più vicino all'Italia che non alla Francia.
* Tra il 1757 e il 1763, durante la Guerra dei Sette Anni, ebbero luogo le cosiddette "Battaglie della campagna delle Indie Orientali", alias le battute finali tra la Francia e l'Inghilterra per la totale conquista dell'India - contesa che aveva avuto il suo inizio già nel 1700.
All'epoca, i vari nababbi erano filo-francesi o filo-inglesi, cosa che da sola garantiva un pretesto per attaccare un nababbo avversario.
Nel 1757, un nababbo filo-francese attaccò a sorpresa una guarnigione inglese a Calcutta, avendone la meglio. Gli inglesi, quindi, inviarono rinforzi, riconquistando Calcutta nei primi giorni del Gennaio 1757. Tutto sembrò concludersi per il meglio ma la pace non durò a lungo: stavolta furono gli inglesi ad attaccare un insediamento francese, per poi avanzare richieste assurde.
Da questa premessa, si aprì un nuovo fronte nella guerra tra la Francia e l'Inghilterra. Fronte in cui praticamente tutte le battaglie furono vinte dall'esercito e dalla marina inglesi; ne conseguì la totale conquista dell'India da parte dell'Inghilterra.
Per la precisione, a quanto sembra, la Battaglia di Plassey - quella che scoppiò in seguito a quanto descritto sopra, quindi praticamente subito - fece sì che gli inglesi infligessero un durissimo colpo all'esercito francese, per poi limitarsi "semplicemente" a conquistare il resto dell'India, fino a diventarne gli unici dominatori.
[Fonte: Wikipedia italiana]

Dizionario (sperando di non aver cannato troppe cose, tralasciando le parti facilmente comprensibili e sperando che, un giorno, Google Translator impari la differenza tra seconda persona singolare e seconda persona plurale)
- Le français n'est pas sa langue maternelle.: Il francese non è la sua lingua madre.
- ... peux tu aider moi?: ... puoi aiutarmi?
- ... je te dirai comment est belle ma maison. Mais... aprés, tu parles-moi de ta maison.: ... ti dirò com'è bella la mia casa. Ma... dopo, tu parlami della tua casa.
- [Creolo delle Seychelles] Bonzour, Jacquie! Komansava?: Buongiorno, Jacquie! Come stai?
- [Creolo delle Seychelles] Mersi!: Grazie!
- [Creolo delle Seychelles] Wi!: Sì!
- [Creolo delle Seychelles] ... kwa?: ... cosa?
(Le parole in creolo hanno praticamente la stessa pronuncia delle loro corrispettive francesi; per questo, nel parlato, con poche parole non si sentono le differenze)

Errata corrige:
Sarà perché, dopo aver preso appunti in quattro lingue diverse, ho finito col fare confusione con i nomi, sarà perché sono tOrda, ma mi sono accorta di alcuni deliri onomastici. Ora ho corretto spero tutto, ma ci tenevo ad avvisare:
- Guadaloupe e Martinique nel parlato francese, Guadalupa e Martinica nella narrazione in italico.
- Nonostante l'abbia chiamata Dominica anche nel parlato, in realtà, per i francesi è Dominique.
- La Désirade. Se, precedentemente, vi avete letto una sillaba "de" in più, non ve la siete sognata, sono io che non so leggere Wikipedia.
Un altro errore onomastico, invece, è ben più grave, quindi totalmente mea culpa:
- Haiti acquisirà questo nome soltanto nel 1804: fino ad allora, il suo nome è Saint-Domingue (sì, in francese, è omonima alla capitale della Repubblica Dominicana). Lo so, è un nome maschile e il personaggio è una femmina. Tuttavia, in precedenza, la colonia era identificata come La Española, o Hispaniola, dal nome dell'isola su cui si trovano sia Haiti che la Repubblica Dominicana - quindi sono giustificata (?).


*Guarda su*
Tra Note, PseudoDizionario e fantasticoso Errata corrige, son venute più lunghe le spiegazioni che il capitolo. °A°
... beh, non che in questo capitolo succeda niente di eccessivamente rilevante Perché, negli alt-. Ma l'ho detto: in realtà, questa sarebbe la conclusione del capitolo precedente. Che era di pseudotransizione. Così, diventa la transizione della transizione. (...?) *Ossia: tutto va avanti con estrema calma.*
Ma - perché c'è sempre un "Ma" - c'è un motivo per tutto questo fluff slice of life pucciosità varia ed eventuale. *Se non ci fosse, sarebbe grave, Soe.*
Questo perché (!), nel prossimo capitolo, succederà qualcosa. *Eh...?* No, non sarà il 1758, né il 1759. E anche il genere "Storico" comincerà ad avere il suo senso di esistere. °A°
A proposito, riguardo il contesto storico: sì, in termini di storia narrata, Francis, sicuro di sé dopo aver sconfitto Inghilterra, se ne va in India e lì sarà da Arthur particolarmente mazzolato, ritrovandosi con una colonia in meno e un fronte fallimentare. Perché, durante la Guerra dei Sette Anni, la Francia e l'Inghilterra combatterono su vari fronti. Tipo quello africano. O quello centro-americano. O quello nord-americano.
Per la storia dei periodi ipotetici eventualmente deliranti - perché, bene o male, stanno cominciando ad impararli -, vale quanto ho già detto nei capitoli precedenti. (Eh, dopo un po', mi stanco a ripeterlo. Però lo accenno perché magari uno clicca sull'ultimo capitolo, legge, vede Cose Incredibili e dice che non so i periodi ipotetici. Ma io li so! ... credo.)

Spero che lo zucchero non vi abbia annientato e che, almeno, abbiate seguito il mio consiglio di assicurare i vostri denti. E che il capitolo vi sia stato gradito. ^^ Come sempre, qualora abbia scritto Cose Inenarrabili E Terrificanti, dite pure. °A°

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Capitolo 5
*** 1763 ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
[Dove Soe si chiede se non sia il caso di aggiungere pure "Sentimentale".]

1763

- Ma... sei sicura che funzionerà...? - il pigolio di Mathieu fu soffocato da uno sbuffo bianco, costringendo il bambino a serrare gli occhi all'istante.
- Fidati, fidati! - esclamò Sesel, chinandosi per raccogliere la farina caduta sul pavimento: - E' una questione di... uhm... logica! - spiegò, con fare sapiente, nonostante i secondi passati a ricordarsi il termine esatto.
Con grazia molto poco aggraziata, gli schiaffò sui pantaloni i pugni pieni di farina, spalmandola alla meglio.
Si trovavano nelle cucine, in quel momento vuote, per mettere in pratica un cosiddetto "piano infallibile": dato che Canada aveva la strana capacità di passare - involontariamente - inosservato, Séchelles aveva avuto un'idea per ovviare al problema.
Suddetta idea comprendeva svariati chili di farina e comprendeva anche che i suddetti svariati chili di farina ricoprissero il bambino da capo a piedi.
Letteralmente.
- Vedi, Kumajiro non passa inosservato! - aveva detto lei, pratica: - Probabilmente perché è tutto bianco. Se diventi bianco anche tu, tutti ti vedranno! -.
- Sesel... - parlò di nuovo Mathieu, passandosi una mano sui capelli per abbattere la montagnola bianca formatasi sulla sua testa: - ... non sono sicurissimo di ciò che stai facendo. -.
Séchelles alzò lo sguardo verso di lui, gonfiando le guance con un certo disappunto: - Sei troppo negativo, Mathieu. Lascia fare a me! - e strofinò le mani sulle sue braccia, sporcando la stoffa di farina.
Fece un paio di passi indietro, piegando appena la testa per rimirare la sua "opera": ora Canada era effettivamente bianco e sarebbe stato molto difficile che passasse inosservato.
Anche se, in realtà, non era esattamente del bianco uniforme che si era figurata nella sua mente: i capelli, la faccia e le spalle erano indubbiamente bianchi come nuvole, ma i vestiti sembravano a malapena coperti da uno spesso velo bianco trasparente, anche volendo ignorare che pantaloni e maniche esibissero righe più bianche e svariati segni di dita.
Sesel si portò le mani alla vita, incurante del fatto che fossero sporche: con tutte le volte che si era tirata indietro i capelli, che si era passata la mano sul viso e che si era lisciata la gonna, era praticamente sicuro che fosse a sua volta ricoperta di macchie e strisce bianche.
- Sì! - esclamò, curvando le labbra in un sorriso soddisfatto: - Così è perfetto! -.
- Se lo dici tu... - sospirò l'altro, scuotendo appena la testa e facendo cadere svariati granelli bianchi.
Un rumore improvviso, simile ad un trattenere il respiro con eccessiva foga, costrinse Sesel a voltarsi, incontrando gli occhi spalancati di una delle due cuoche appena entrate.
- ... ah. - fu l'unica cosa che riuscì a dire, mentre l'altra cuoca si precipitava fuori dalle cucine, diretta chissà dove.
- Cosa... cosa... - farfugliò la signora rimasta, spostando lo sguardo atterrito da lei a Canada, probabilmente rimasto paralizzato.
Nel notarlo, Sesel tornò a guardare il bambino, con un sorriso accennato: - Visto che ti vedono, ora? - fece, divertita, per quanto fosse conscia del fatto che, di lì a poco, non avrebbe più avuto alcun motivo di ridere.
Difatti, pochi istanti dopo, l'altra cuoca tornò, seguita da una figura rossa che si fermò a pochi metri dai bambini infarinati, inarcando le sopracciglia nel vederli.
- ... e dunque? - parlò Jacqueline, dopo qualche secondo di silenzio.
- Te l'avevo detto. - onestamente, Séchelles trovò un po' irritante il sussurro intimorito di Canada.
- ... è solo farina! - fece notare la bambina, sollevando la braccia - e, con esse, un paio di sbuffi bianchi.
- Sì, ma la farina non serve per giocare. - osservò Monaco, pacata, rimanendo a distanza di sicurezza: - Inoltre, credo siate entrambi abbastanza cresciuti per questo genere di cose, ne convenite? -.
Sesel sentì le guance farsi di colpo fin troppo calde: il suo piano era incappato in un risvolto del tutto inaspettato e questo non le piaceva affatto.
- Scusa, Jacquie. - mormorò Mathieu, abbassando lo sguardo.
Ora il suo volto stava andando in fiamme; come se non bastasse, si sentiva come se le avessero conficcato una spina nel cuore.
Fece per aprire la bocca, per dire che Canada non c'entrava niente, ma Jacquie la anticipò: - Non credo sia stata una tua idea, Mathieu. - disse, semplicemente, sul volto l'accenno di un sorriso.
Si rivolse alle cuoche, la voce priva di un'intonazione particolare: - Portate un secchio e uno straccio, bisogna pulire. -.
Le due donne annuirono, per poi obbedire.
Sesel intrecciò le dita, la testa bassa ma lo sguardo fisso su Monaco, quella frase bloccata sulle sue labbra. Anche se lei aveva probabilmente capito come stessero le cose, sentiva di doverlo dire comunque.
- Non... - balbettò, accorgendosi solo in quel momento di quanto la sua voce si fosse abbassata. Diede un colpo di tosse e riprovò: - Non c'entra Mathieu. E' stata una mia idea. E' colpa mia. -.
Le prime parole erano uscite decentemente; le altre avevano stentato, le ultime erano praticamente un sussurro.
- Oh, lo so. - rispose Jacqueline, sottraendo dalle mani delle cuoche il secchio e lo straccio che le avevano appena portato: - Per questo sarai tu a pulire a questo disastro, Séchelles. -.
Sesel alzò la testa, sbigottita, certa di aver capito male: - ... scusa? - chiese, sbattendo più volte le palpebre.
Quando si ritrovò il secchio davanti ai piedi e lo straccio in mano, capì di non aver affatto sentito male.
- Vai a lavarti, Canada. - disse Monaco, come se nulla fosse: - E indossa dei vestiti puliti. Séchelles, fai altrettanto, una volta che avrai finito qui. -.
Era arrivata alla porta delle cucine quando parve ricordarsi di qualcosa; si fermò e si voltò, con un'espressione quasi serena: - Dimenticavo. Le signore cuoche controlleranno che tu faccia quanto ti è stato detto, Sesel. Non provare a scappare, quindi! -.
Detto questo, scomparve nel corridoio.
Séchelles era rimasta nella stessa posizione di prima: straccio tra le mani, secchio pieno d'acqua davanti ai piedi, fronte aggrottata, bocca spalancata.
"Ma... ma..." abbassò lo sguardo allo straccio, prendendone un'estremità e alzandolo davanti agli occhi, quasi stesse valutando la qualità di un pesce appena pescato: "... una signorina non dovrebbe fare queste cose! Sono le domestiche che puliscono!".
"Una signorina non dovrebbe neppure ricoprirsi di farina." le ricordò una vocina maligna, facendola sentire ancora peggio di quanto già si sentisse.
Non che non avesse mai pulito in vita sua, ma era la prima volta che si ritrovava a dover pulire un pavimento del genere.
"... e ora cosa dovrei fare?" si chiese, continuando a fissare lo straccio, quasi sperando che evaporasse sotto i suoi occhi.
Guardò il secchio e, senza pensarci troppo, vi gettò lo straccio: avrebbe potuto chiedere aiuto alle cuoche, ma non aveva intenzione di farlo. Per qualche motivo, l'idea la bloccava.
"... forse, ora, dovrei buttare l'acqua per terra e passare lo straccio...?" si chiese, afferrando il bordo del secchio e facendolo dondolare, indecisa se rovesciarlo o meno.
- Prima bisogna spazzare. - quella voce appena sussurrata la fece sobbalzare, rischiando di farla scivolare dentro il secchio. Si voltò, accorgendosi solo in quel momento che Mathieu era ancora nelle cucine, che era lì vicino e che aveva trovato non si sa dove una scopa.
- ... ma tu non dovevi andare a lavarti? - fu l'unica cosa che riuscì a dire, le mani serrate sui bordi del secchio.
Lui accennò ad un sorriso di scuse, quasi dovesse farsi perdonare qualcosa: - Tu hai avuto l'idea, ma io non ti ho fermata. Quindi, ti aiuto. - disse, iniziando a spazzare per terra.
Sesel non seppe cosa dire, né cosa fare: semplicemente, fissava Canada e teneva il secchio.
E, per qualche strana ragione, dovette soffocare l'impulso di urlare: - Tihannodettodiandaresonoiochedevopulire,oh! -, rigorosamente detto d'un fiato e molto probabilmente con il viso utile per cuocere il pranzo.
- Tu passa per terra. - il sussurro di Mathieu la distolse dal suo riflesso sulla superficie dell'acqua, che si era incantata a fissare senza neppure rendersene conto, portandola a guardarlo e a notare che le stava facendo segno di passare lo straccio bagnato dove lui aveva già spazzato.
Sesel annuì appena e, quando fece per recuperare lo straccio dal fondo del secchio, si accorse di un paio di bianche zampette pelose nella sua visuale.
- Lo tengo io. - disse Kumajiro, semplicemente.
Non seppe con precisione quanto tempo trascorse fino a quando le cuoche, con un sorriso - intenerito? - si ripresero secchio, straccio e scopa, invitandoli ad eseguire l'ordine di Monaco; Sesel sapeva soltanto che pulire non le era dispiaciuto poi così tanto, anche se aveva le mani completamente rosse e i polpastrelli raggrinziti.
- ... va perfezionato. - esordì Séchelles, non appena furono usciti dalle cucine, diretti verso la scala che li avrebbe poi portati nelle due diverse ali della casa, quella riservata alle donne e quella riservata agli uomini.
- Insomma... - riprese, sollevando appena la gonna per non inciamparvi nel salire e approfittandone per concentrare lo sguardo sulle sue scarpette, piuttosto che su Mathieu: - ... ti hanno visto, quindi ha funzionato. Però è un piano va perfezionato. - borbottò, annuendo da sola alle sue parole.
Sentì l'altro fare un suono leggero, che ormai aveva imparato a riconoscere come risata.
Nessuno dei due aggiunse altro, se non un: "A dopo!" quando si separarono.
Per fortuna il bagno e il cambio erano già stati preparati e Sesel potè fare tutto rapidamente; l'unica cosa che, come al solito, le prese fin troppo tempo fu l'asciugarsi i capelli.
Era in momenti così carichi di sentimento che Séchelles rimpiangeva la sua casa: nelle sue isole, neanche si poneva il problema di asciugarsi i capelli, bastava stare al sole, in un qualsiasi giorno dell'anno, e si asciugavano da soli, senza alcun problema. In Francia no: anche stando al sole, i capelli si asciugavano dopo un'eternità e, come se non bastasse, a volte c'era anche un vento fin troppo freddo; in aggiunta, poteva permettersi un simile "lusso" soltanto nei mesi estivi.
E, essendo Febbraio, Sesel dovette passare fin troppo tempo a sfregare l'asciugamano sui capelli, tra l'altro lunghi, quindi ancora più difficili da asciugare in breve tempo.
Non avevano neanche acceso il camino, perché non faceva poi così freddo. E lei doveva asciugarsi i capelli con l'asciugamano.
Era evidente che si trattava di un complotto.
Ne ebbe la certezza quando, tornata al punto in cui si era separata da Mathieu, lo vide arrivare poco dopo con i capelli perfettamente asciutti.
"Perché i suoi capelli sono asciutti e i miei no? Anche lui li ha lunghi!". Poco importava che quelli di lui gli ricadessero sulle spalle e quelli di lei le sfiorassero la vita, erano comunque compresi nel concetto di "capelli lunghi", quindi si trattava di un palese complotto ai suoi danni.
- Ci hai messo un po'. - osservò Séchelles: lei aveva la scusa dei capelli, ma lui no.
- Sì, scusa. - rispose Mathieu, con un accenno di sorriso imbarazzato: - Rileggevo una lettera di Alfred che mi è arrivata due giorni fa. -.
Sesel annuì, senza aggiungere altro: di tanto in tanto, Canada riceveva lettere dal suo fratello di sangue, non era così strano.
Una volta, Mathieu le aveva persino mostrato una delle suddette lettere: Séchelles aveva fatto per leggerla, ma aveva rinunciato dopo circa cinque righe - non si riteneva capace di tradurre i geroglifici e ne aveva avuto la conferma.
- Dovremmo andare a scusarci con le cuoche. - riprese la parola Mathieu, facendola trasalire: - Ma ci siamo già scusati tre volte, prima! - obiettò Sesel, le guance di nuovo calde. Avrebbero davvero dovuto smetterla di accendersi in quel modo.
In quel momento, le loro orecchie furono colpite dal rimbombo di passi affrettati; un istante dopo, Saint Pierre, Miquelon, Iles de Saintes e Saint Barthélemy apparvero dalla scala dell'ala maschile, quasi prossimi al ruzzolare lungo i gradini tanto era la velocità a cui andavano.
- Che succede? - domandò Sesel, facendo istintivamente un passo indietro.
Troppo presi dalla foga, i quattro parvero non sentirla, perché né la guardarono né le risposero, proseguendo la loro corsa verso il basso, verso il piano terra.
Era passato appena un secondo quando un'altra serie di rimbombi si mescolò a quella dei quattro bambini, precedendo l'apparizione, dal lato opposto, di Dominica, Saint-Domingue e Sainte Lucie, anche loro con l'aria di doversi direttamente tuffare al piano inferiore.
Stavolta, Séchelles fu più rapida: agguantò un braccio di Sainte Lucie, bloccandola.
- Che succede? - domandò nuovamente, a voce alta, per sicurezza.
La bambina, già voltatasi verso di lei quando era stata afferrata, aveva gli occhi che parevano brillarle: - E' tornato! E' tornato! - esclamò, la voce più acuta del solito: - Abbiamo visto le sue carrozze! - trillò, liberandosi e tornando alla sua corsa.
Sesel non ebbe bisogno di farsi dire chi fosse il soggetto.
Erano bastate quelle parole a far saltare il suo cuore fino a colpirle la gola, ritornando al suo posto più grande, più gonfio, eppure più leggero.
- Francis... - fu l'unica cosa che riuscì a dire, prima che la sua mano corresse a stringersi attorno al polso di Mathieu, per poi unirsi alla corsa folle dei suoi fratelli e delle sue sorelle, trascinandosi dietro Canada.
Quando giunse al portone d'ingresso, esattamente come si era aspettata, vi trovò tutte le altre colonie, la servitù quasi al completo - gli ultimi ritardatari stavano sopraggiungendo proprio in quel momento - e Jacqueline, in piedi dietro i più piccoli.
Séchelles, la presa ancora salda attorno al polso di Mathieu, si fece strada tra la folla, fermandosi solo quando si accorse di aver raggiunto Bourbon.
- E' vero che Francis è tornato? - chiese, facendola sobbalzare per la sorpresa.
Zephyrine si voltò a guardarla e annuì, con un sorriso luminoso: - Sì! L'hanno visto arrivare Marie e Désirade! E' tornato! -.
- Dov'è? Dov'è? - fece il piccolo Sénégal, saltando sul posto per cercare di vedere oltre le teste dei più grandi.
- Tu vedi qualcosa, Domingue? - domandò Dominica, poco più in là.
Saint-Domingue, in quegli anni diventata la più alta di tutti loro di almeno una spanna, le rivolse un'occhiata torva: - Il portone è chiuso anche per me, eh! -.
- Neanch'io vedo niente. - sospirò Eurée, posando il mento sulla testa di Dosnee - il quale la stava portando sulle spalle come se nulla fosse, rendendola di fatto quella con gli occhi più in alto di tutte le colonie.
- Non spingete. - disse Jacqueline, con tono calmo ma deciso, riuscendo ad acquietare i più piccoli almeno un po'.
Sesel iniziò a battere nervosamente il piede per terra: erano sei anni che Francis non faceva ritorno a casa.
Sei anni senza vederlo, con soltanto tre lettere di numero giunte tra le mani di Monaco che, incalzata dalle loro domande, aveva sempre risposto che andava tutto bene.
Séchelles era sicurissima del fatto che Francis avesse spedito ben più di tre lettere in sei anni. Era anche sicurissima del fatto che ci fosse qualcuno ad avere impedito a quelle lettere di giungere a destinazione. Nel convincersene, la sua mente era arbitrariamente volata a quella orribile vecchia, Albione: aveva pensato alle sue dita che strappavano con crudeltà la stragrande maggioranza delle lettere, perché lei era brutta e cattiva e voleva impedire a Francis di comunicare con le sue colonie. Era tutto un complotto, ecco.
"A proposito di complotti, ma Francis quanto ci metterà ad asciugarsi i capelli?". Perché anche Francia aveva i capelli lunghi - davvero lunghi, anche se molto meno dei suoi -, quindi doveva incorrere nel suo stesso problema. "Ora che ci penso, anche Jacquie ha i capelli lunghi..." notò, gettando una rapida occhiata a Monaco.
In quel momento, il portone si aprì, zittendo all'istante tutti i presenti, catturando tutti gli sguardi.
Quando fece la sua apparizione un uomo dal vestito scuro - uno dei collaboratori di Francis -, la confusione che invase l'aria fu quasi palpabile.
L'uomo guardò in direzione di Monaco e le fece cenno di avvicinarsi.
Stupita come tutti, Jacqueline lo raggiunse, per poi ascoltare ciò che l'uomo sembrava le stesse sussurrando.
I più vicini cercarono di carpire qualche parola ma, a giudicare dalla loro espressione disorientata, non ci riuscirono.
Quando l'uomo si scostò, Sesel avrebbe voluto che Jacquie non fosse di spalle, per poter vedere la sua reazione. Quando poi vide Monaco precipitarsi fuori dalla porta, il suo cuore ebbe un sussulto, molto meno gradevole del precedente.
- Voi rimanete qui! - aveva detto Jacqueline, rivolta alle colonie, prima di richiudersi la porta alle spalle.
Nel farlo, si era voltata per un istante, ma era stato abbastanza perché tutti si rendessero conto del fatto che fosse impallidita.
Il silenzio che calò di colpo nell'ingresso fu troppo pesante.
- E' successo qualcosa? - pigolò La Désirade, spaventata.
- Secondo te? - la sgridò Marie-Galante, pur condividendo la sua espressione.
- Francis sta bene? - quasi urlò Guadalupa, guardandosi intorno.
- Tranquilli, sta bene. - rassicurò una domestica, sbirciando dalle tendine della finestra.
- Eh, si vede? - saltò su Martinica.
- Vai a vedere, Domingue! - esclamarono diverse colonie, quasi spingendo Saint-Domingue verso la finestra.
- Jacquie ha detto di rimanere fermi! - ricordò loro Ile de Clipperton.
- Perché state urlando? - gemette Bourbon, allarmata.
- Stai urlando anche tu! - le fece notare Grenada, ad alta voce.
- Vedi qualcosa, Eurée? - domandò Ile de France, con assoluta tranquillità, Rodrigues ancora sulle spalle portata davanti alla finestra.
- Quel signore si è messo davanti! - protestò la bambina, dando dei leggeri pugni sulla testa di Dosnee: - Vedo a stento la gonna di Jacquie! No! Un altro! Spostatevi, non vedo niente! -.
- Rimettetevi al vostro posto, per cortesia. - intervenne il maggiordomo, facendo segno alle colonie di ricomporsi.
Per tutto quel tempo, Sesel era rimasta immobile: aveva un brutto presentimento. Si era annidato all'altezza del cuore e non riusciva a scacciarlo.
Una mano era andata a prendere quella di Zephyrine, l'altra era rimasta stretta attorno al polso di Mathieu che, ovviamente, non aveva detto una parola.
Il ritorno di Francis sarebbe dovuto essere un momento di felicità; perché, allora, sentiva quello strano malessere?
La porta si aprì.
Dopo Jacqueline e alcuni collaboratori, finalmente, dopo sei anni, Francia rimise piede a casa.
E fu travolto all'istante da tutte le sue colonie.
Se anche qualcuno avesse detto ai più piccoli di abbassare la voce o di non lasciarsi andare a tentativi di saltare addosso al padrone di casa, sarebbe stata solo aria sprecata e rapidamente persa tra le urla che avevano invaso l'ingresso.
Séchelles si era praticamente lanciata in avanti, ottenendo solo di finire addosso a Miquelon e quasi facendo cadere Bourbon, ancora attaccata a lei.
Fu solo in quel momento che Francis si inginocchiò, per stare alla loro altezza.
Ma c'era qualcosa di strano, notò Sesel: aveva posato una mano sul ginocchio che aveva piegato, per poi portarvi anche l'altra mano; il ginocchio che andò a terra toccò il pavimento quasi con cautela, rigido.
Francis si inginocchiava alla loro altezza con un unico movimento fluido.
A giudicare dall'improvviso irrigidirsi di alcuni suoi fratelli e sorelle accanto a sé, non doveva essere stata l'unica a notarlo.
- Bentornato! - esclamò Sainte Lucie, per prima, scatenando un'ondata di trillanti "Bentornato!".
- Grazie. - rispose Francis, la voce bassa. Anche il sorriso che rivolse loro era strano: sembrava stanco, amaro.
- Perché quella faccia? - Iles des Saintes sembrò voler capire subito cosa stesse succedendo.
Perché era ovvio che stesse succedendo qualcosa. O che fosse successo.
- Hai perso? - intervenne Saint Barthélemy, con un tatto che gli fece guadagnare svariate occhiatacce.
Il sorriso sul volto di Francia si allargò - e, con esso, anche quell'amarezza che sembrava portare con sé: - Si vede così tanto, Barthélemy? - rise, senza allegria.
Trasse un profondo respiro e disse, alzando appena la testa: - Tanti risvolti che non potevamo prevedere. Fortuna troppo capricciosa. E un prezzo troppo alto da pagare per aver fatto indietreggiare la regina dei mari nel suo stesso regno una volta soltanto. - calcò su quel titolo, con un'inquietante nota velenosa che vibrava nella voce.
Séchelles sentì un brivido lungo la schiena: aveva l'impressione che quell'atmosfera così tesa non fosse colpa della sconfitta subìta da Francis.
Ma non osava pensare a cosa potesse esserci di più grave.
Istintivamente, guardò Dosnee, che aveva fatto scendere Eurée dalle proprie spalle; lui non stava osservando Francis: il suo sguardo era su Jacqueline.
Sesel fece altrettanto e si sentì gelare: Monaco aveva occhi arrossati, quasi stesse trattenendo le lacrime, una mano premuta contro la bocca.
- Dai, ti rifarai! - esclamò Saint Vincent, con un largo sorriso: - Sei tornato, è questo ciò che conta! -.
- Sì, infatti! - gli diede ragione Grenada.
Il silenzio tornò a pesare nella stanza.
Quando Francis aveva guardato Saint Vincent e Grenada, i suoi occhi si erano fatti come quelli di Jacqueline.
Alzò un braccio, facendo loro cenno di avvicinarsi: - Vincent, Grenade... Dominique? Dov'è Dominique? -
- Eccomi. - disse la bambina, cauta, emergendo da dietro due colonie.
- Venite qui. -.
I tre si avvicinarono a Francia, per poi essere catturati dalle sue braccia, stretti all'uomo.
Nessuno osò parlare.
- Che succede? - chiese Grenada, quasi soffocando.
- Stai bene? - domandò Saint Vincent, preoccupato.
- Stai piangendo! - si rese conto Dominica, la voce strozzata.
Quelle parole pietrificarono i presenti, sembrarono quasi solidificare l'aria, rendendo troppo difficile il respirare.
Sesel strinse ancora più forte la mano di Zephyrine, sentendosi tremare. Il polso di Mathieu scivolò via dalla sua mano, ma fu solo un istante: le sue dita andarono ad intrecciarsi con quelle della bambina, stringendole la mano a sua volta.
Séchelles si voltò a guardarlo: a differenza di tutti quei volti spaventati, il viso di Canada era serio.
- Andate... - la voce di Francis tremava, Sesel tornò a lui con lo sguardo, sentendosi come se le mancasse di colpo la terra da sotto i piedi.
Vide Francia inspirare a fondo, per poi parlare di nuovo, il tono appena più fermo: - Andate nel mio studio. Dopo dovremo parlare di una cosa. -.
L'uomo scoccò uno sguardo ad alcuni domestici, che scattono per far strada ai tre bambini che Francis aveva appena lasciato, allontanandoli dagli altri.
Dominica, Grenada e Saint Vincent seguirono i domestici, sui volti la stessa espressione confusa e preoccupata, ma capendo di non dover fare domande, non in quel momento.
Quando i tre scomparvero dalla visuale dei loro fratelli e delle loro sorelle, tutti gli sguardi tornarono su Francia.
La domanda era sulla bocca di tutti, ma nessuno trovava il coraggio di farla uscire; era così chiaro che tutte le colonie sperarono che la risposta giungesse senza bisogno di porre quella domanda.
L'unica cosa che riceveva quel loro mutismo, però, continuava ad essere solo un silenzio troppo carico di tensione.
I servitori, uomini e donne, rimanevano immobili; l'unica persona che si muoveva, anche se di poco, era Francis, che salutava una ad una le sue colonie, a voce bassa, quasi temesse di sentir tremare di nuovo il suo timbro se avesse parlato a voce normale.
Muoveva solo il braccio destro, notò Sesel: anche quando aveva abbracciato Dominica, Grenada e Saint Vincent l'aveva fatto principalmente con quello, il sinistro appena alzato come a mimare un'azione; in quel momento, l'altro braccio era ripiegato sul ginocchio, come se stesse lì per non rimanere inerte sul pavimento.
Dopo aver salutato Marie-Galante e La Désirade, Francia esitò.
Le colonie si strinsero le une alle altre, Séchelles sentì le spalle tra Bourbon e Canada, il respiro lento, pesante.
- Guadaloupe... - mormorò l'uomo, alzando lo sguardo sul bambino: - Martinique... - l'altro bambino trasalì.
Dominica non si era sbagliata: quella non era l'espressione di una nazione sconfitta in una guerra. Sembrava quasi che la fantomatica sconfitta fosse solo una cornice di qualcosa di nettamente più grave.
Quando Francis abbracciò Guadalupa e Martinica, le due colonie si irrigidirono, incapaci di ricambiare.
Lo sguardo di Sesel corse a Zephyrine, a Dosnee, a Mathieu: vedeva occhi sgranati e spaventati, occhi addolorati, occhi che sembravano sapere; sentiva la testa girare, non riuscì a ricollegare le espressioni, tanto veloce si spostava da uno all'altro.
Non giunse nessun ordine di accompagnare Guadalupa e Martinica altrove: Francis li lasciò andare, rivolgendo loro un sorriso stanco, per poi salutare le altre colonie vicine.
Quel fatto mise i presenti ancora più in confusione.
Quanto ancora avrebbero dovuto aspettare, per sapere?
Dopo un tempo imprecisato, fu il loro turno: Francia salutò Eurée, Zephyrine e Dosnee, e Sesel.
L'unica cosa che la trattenne dal lanciarsi su di lui fu il suo avere le gambe di pietra, ancorate al pavimento. Per un attimo, volle illudersi che andasse tutto bene: che tutta quella tensione fosse dovuta unicamente alla sconfitta di Francia, che non ci fosse niente di strano, che Dominica, Grenada e Saint Vincent fossero stati chiamati in disparte solo perché dovevano essere sgridati o lodati per qualcosa; che Francis avesse abbracciato in quel modo Guadalupa e Martinica perché era felice e stupito di ritrovarli vivi e integri e non appesi ad un ramo o con la pelle striata di graffi; che Jacqueline si fosse commossa per il suo ritorno, che fosse stata chiamata fuori per un qualche motivo noto solo agli adulti e che dunque non la riguardavano; sì, era sicuramente così.
Il momento in cui Francis spostò lo sguardo alla sua sinistra fu il momento in cui si sentì come se avesse un cuore di vetro, improvvisamente colpito da un sasso. Le parve quasi di udire persino il rumore di quel materiale delicato che si infrangeva. Sentì le schegge ferirle il petto, dall'interno.
Lo sguardo di Francia era mutato: da quella vicinanza, riuscì a vedere una scintilla di rabbia nei suoi occhi chiari, vide i pugni serrarsi.
- Tu non sei inutile. -.
Lo sibilò, quasi stesse accusando lo stesso Mathieu. Lo abbracciò e Sesel, per la prima volta in quell'ora, gli lasciò la mano, osservando ciò che stava succedendo: Francis abbracciava Canada, con entrambe le braccia, quasi cercasse di soffocarlo. E gli tremavano le spalle.
Non riusciva a vedergli il viso, ma era sicura che Dominica avesse avuto ragione.
Percepiva dei sussurri continui, come una frase senza fine, spezzata solo da qualche breve sospiro per riprendere fiato. In realtà, erano soltanto due frasi ripetute, quasi stesse cercando di far perdere loro significato, di consumarle: - Non sei inutile. - e - Mi dispiace. -.
Sesel si strinse a Zephyrine, sentendo le gambe troppo deboli.
Quando Francia si scostò, il volto di Canada sembrava privo di emozioni: l'unico barlume di vita erano gli occhi, coperti da un velo di tristezza.
Non le piaceva ciò che stava succedendo. Non le piaceva quell'espressione. Non le piaceva ciò che Francis stava facendo. Non le piacevano quegli occhi arrossati. Non le piaceva quello sguardo triste.
- Cosa sta succedendo? - finalmente, qualcuno sputò quella domanda: Saint-Domingue.
La risposta, però, non giunse.
- Quando avrò parlato con Dominique, Grenade e Vincent... - disse Francia, guardando Canada dritto negli occhi: - ... voglio parlare con te. Da solo. -.
Mathieu annuì, senza parlare.
Con un'ultima carezza ai capelli biondi del bambino, Francis si rivolse alle colonie: - Quando avrò parlato con loro, vi spiegherò tutto. Vi prego di portare pazienza fino ad allora. Potete congedarvi. -.
Con un improvviso moto di agitazione più forte, Séchelles lasciò le mani di Bourbon, raggiungendo Canada con due falcate, stringendogli un polso per assicurarsi che non fuggisse: sembrava avesse capito, voleva sapere.
Le domestiche le coprirono la visuale di Francis, ancora inginocchiato, sentì una mano sulla spalla che la invitava ad andare altrove, ad uscire dalla sala d'ingresso.
Prima che la porta del salone si chiudesse alle sue spalle, Sesel si voltò e, in quello spiraglio che si faceva sempre più sottile, vide Jacqueline passare un braccio di Francis attorno alle sue spalle, aiutandolo a rialzarsi, una frase che non comprese scagliata con un odio che non aveva mai sentito vibrare in quella voce che non udiva da sei anni: - Make your choice. -.

- Tu hai capito cosa sta succedendo? -
Sesel guardò Mathieu, seduto sulla sedia accanto alla sua, senza smettere di stringergli la mano.
Dopo essere stati congedati da Francis, Séchelles aveva praticamente trascinato via Canada, senza neppure sapere dove andare; senza accorgersene, si erano ritrovati nella biblioteca, vuota e silenziosa come sempre. Si erano arrampicati su due sedie ed erano rimasti lì, senza parlare, lo sguardo di Mathieu perso nel vuoto, quello di Sesel fisso su di lui.
Avrebbe voluto tempestarlo di domande, sarebbe arrivata anche a scuoterlo per le spalle, ma qualcosa le diceva di non farlo, di aspettare. Era riuscita a parlare dopo quella che le era parsa un'eternità, quando il peso che sentiva all'altezza del cuore si era fatto insostenibile.
- No. -
La risposta del bambino la colse di sorpresa: a giudicare da come aveva reagito con Francis, era sicurissima che lui sapesse tutto.
- Posso immaginarlo, però. - aggiunse Canada, con un sospiro leggero. Non disse altro.
- Ossia? - Sesel provò ad incalzarlo, sentendo tornare l'agitazione, sempre più forte. Non le piacevano quelle frasi brevi, in una situazione del genere.
Mathieu alzò appena le spalle: - E' inutile parlarne ora. Credo che entro stasera sapremo tutto. -.
Avrebbe voluto strattonargli la mano, guardarlo dritto negli occhi e ordinargli: - Dimmelo. -. Ma la sua mano non rispondeva alla sua volontà, rimase immobile.
Fu solo in quel momento che si accorse di un particolare: la mano del bambino, al contrario della sua, non era immobile; le ci volle qualche secondo per rendersi conto del fatto che stesse tremando.
Deglutì a fatica, capendo quanto anche lui fosse spaventato: capì di non dover insistere. Non era quello ciò che doveva fare.
- Ti stai riammalando? - le parole uscirono dalle sue labbra senza pensarci.
Canada parve sorprendersi di quella domanda, a giudicare da come sgranò gli occhi, ma poi scosse la testa: - No, sto bene. Grazie. -.
Sesel annuì, sovrappensiero: in quei sei anni, alcuni di loro, tra cui Mathieu, si erano ammalati. Avevano iniziato starnutendo, poi tossendo, ritrovandosi deboli, con la febbre, finendo quasi costretti a letto, anche per mesi interi.
Canada, in particolare, due anni dopo la partenza di Francis, aveva avuto la febbre così alta da spaventare le domestiche.
"Ora che ci penso..." notò improvvisamente Séchelles: "... oltre a Mathieu, si sono ammalati anche Lucie, Sénégal... Guadaloupe, Martinique, Dominique, Grenade e Vincent.". Esattamente coloro che Francis aveva abbracciato, a parte Sainte Lucie e Sénégal. Che avesse saputo della loro malattia? "Ma allora perché non ha abbracciato in quel modo anche Lucie e Sénégal? D'accordo, Sénégal ha avuto la febbre piuttosto bassa, ma Lucie no!".
- Sai... - il sussurro di Canada la distolse dai suoi pensieri, riportandola al presente: - ... un po' lo sospettavo. Però, in fondo, credevo non sarebbe mai successo. -.
Sesel piegò la testa di lato, pensando per un istante di aver perso qualche pezzo di frase: - Non capisco. -.
- Non ho molto da offrire. - quella frase fu detta con un tono strano: sembrava quasi che Mathieu fosse indeciso se trovarla una cosa positiva o negativa.
Séchelles aggrottò la fronte, strinse la sua mano: - Cosa- -
- Mathieu. -.
Le fece uno strano effetto vedere Francis, in quel momento, in quel luogo: appoggiato allo stipite, una gamba appena piegata, le braccia conserte, sembrava che la sua espressione stanca si fosse accentuata, gli occhi rossi e quasi vitrei, rendendolo simile ad un reduce di una fatica disumana; aveva i capelli legati, come al solito, ma molte ciocche più corte erano sfuggite, quasi si fosse passato la mano tra i capelli troppe volte, torturando i ciuffi a cui riusciva ad arrivare.
- Sì. - rispose Canada, soltanto, in un sussurro atono.
- Séchelles. - stavolta, Francia si stava rivolgendo a lei, nella voce una nota d'urgenza: - Per favore, posso chiederti di lasciarci soli? Gli altri sono nella sala del caminetto, puoi raggiungerli lì. -.
Sesel annuì meccanicamente, sentendosi di troppo - come se già le parole di Francis non fossero state cristalline, a riguardo.
"Ha già parlato con Dominique e gli altri?" si chiese, lanciando un'occhiata a Mathieu, esitando a lasciare la sua mano: "Allora potrei chiedere loro cosa si sono detti!".
Canada mosse appena la testa, un vago "sì". Si riferiva alla mano.
Fu solo allora che Séchelles sfilò la mano dalla sua, scendendo dalla sedia e uscendo dalla biblioteca a passi lenti: sentiva la mano improvvisamente fredda, la sensazione di malessere si fece più forte. Qualcosa, dentro di lei, sembrava urlarle di non andare via, di rimanere lì: aveva l'impressione di star per fare qualcosa di irreparabile, qualcosa per cui non sarebbe stato possibile tornare indietro.
Scosse la testa per scacciare quei pensieri, andando nel corridoio.
Si voltò verso Francis, trovandolo ancora appoggiato allo stipite, stavolta con la schiena, voltato verso di lei con tutto il corpo: - Non origliare. - disse, solo, con quello che forse sarebbe dovuto essere un sorriso.
Séchelles tornò al corridoio, girandosi un paio di volte: Francia era sempre lì. Quando scese i primi gradini, si assicurò di essere fuori dalla visuale di Francis, per poi battere ritmicamente i piedi sullo stesso gradino, fingendo di stare scendendo; dopo qualche istante, si sfilò le scarpette e tornò indietro, facendo appena in tempo a vedere quelle che sembravano due aste di legno svanire oltre la porta della biblioteca.
Un istante dopo, Francia riapparve sulla soglia, facendole fare un salto dallo spavento.
-Non origliare. -.
E chiuse la porta, lasciandola fuori.

Entrò nella sala, trovando i suoi fratelli e le sue sorelle sparsi tra il pavimento e i divani, come le era stato detto.
Di Dominica, Grenada e Saint Vincent, però, nemmeno l'ombra.
Adocchiati Bourbon, Ile e Rodrigues, li raggiunse, continuando a guardarsi intorno.
- Allora? - domandò, esitante: - Si sa qualcosa? -.
Zephyrine scosse la testa, afflitta: - Niente. Appena hanno finito di parlare con Francis, si sono chiusi in camera di Jacquie con Jacquie. - spiegò.
- Barthélemy, Guadaloupe e Martinique hanno provato ad origliare... - aggiunse Eurée, lo sguardo basso: - Ma non hanno sentito niente. E Jacquie li ha allontanati, non appena li ha visti. -.
Sesel rivolse lo sguardo a Dosnee: lui sapeva sempre tutto, forse aveva almeno una vaga idea?
A giudicare da come il suo eterno sorriso avesse assunto una sfumatura più amara, forse sì.
- Tu che dici, Ile? - domandò, sperando in una risposta chiara.
Lui scosse la testa, inspirando a fondo: - Dico che non è la prima volta che sento un'atmosfera del genere. -.
Non disse altro.
"Perché tutti hanno iniziato a parlare a mezze frasi?" s'irritò Séchelles, allisciando la fronte: - Ossia? -.
- Ossia... - riprese Ile, senza una particolare intonazione: - ... tra qualche giorno, qualcosa potrebbe essere nettamente diverso. -.
Sesel preferì non pronunciarsi: voleva bene a Dosnee ed era una signorina. Certe parole insegnatele - dallo stesso Ile, peraltro - non si confacevano ad una signorina e non era il caso di rivolgerle ad una persona a cui voleva bene.
Per lei, quelle erano solo parole a caso. I pochi che sembravano aver capito continuavano a fare i misteriosi, facendola sentire stupida e inerme.
L'unica certezza che aveva era che, qualsiasi cosa stesse succedendo, non le piaceva. E, sinceramente, non era una bella cosa.
Rimase in quella stanza per ore, parlando con Zephyrine, Dosnee ed Eurée, senza riuscire a strappare neppure mezza parola di più a lui e condividendo con le sue sorelle il totale spaesamento.
Quando iniziò a trovare le pareti della stanza troppo soffocanti, decise di fare un giro per i corridoi, anche soltanto per vedere qualcosa di diverso.
Fu mentre stava salendo una gradinata - senza neppure far caso a dove stesse andando esattamente - che incrociò Mathieu.

- Bugiardo! -
Sentiva la gola bruciarle, feritasi nell'urlo che ancora rimbombava nei corridoi. Si sentiva soffocare, inspirò ed espirò più velocemente, la testa le pulsava.
- Smettila di dire bugie, Mathieu! - urlò di nuovo, serrando i pugni e ignorando le fitte di dolore che si scaricarono lungo i polsi: - Non si dicono le bugie! Perché sei così antipatico? Cosa ti ho fatto? -.
Incatenò il suo sguardo al proprio, quasi sperasse di fargli male.
- Smettila di guardarmi! Rispondi! -
"Smettila di guardarmi, abbassa la testa! Abbassa la testa e dì che ti dispiace. Dillo, pregami di perdonarti, perché hai deciso di farmi uno scherzo di cattivo gusto in un momento del genere. Rispondimi con delle scuse, chiedimi di perdonarti e io lo farò. Abbassa la testa, Mathieu, abbassala! Smettila di guardarmi! Non devi farlo! Ti devi scusare con me! Scusati, dimmi che ti dispiace, dimmi che non lo farai più. Dammi ragione, dì che sei un bugiardo e che vuoi che ti perdoni. Dillo, Mathieu, ti prego!".
- Non ho detto una bugia. -
Smise di respirare. Sentì qualcosa bagnarle le guance calde, gli occhi iniziarono a farle male, tanto li teneva spalancati. Quella sensazione che non l'aveva mai abbandonata si accumulò nella gola e nello stomaco, togliendole il respiro, facendole male fisicamente.
- Sei un bugiardo. - ripeté, la voce che usciva a stento, le frasi spezzate, alcune lettere mute: - Se insisti, lo dirò a Francis. E lui ti sgriderà. Perché non si dicono le bugie, Mathieu. Non si dicono! - cercò di urlare, di risultare minacciosa, di fargli rimangiare tutte le parole che aveva detto. Quel che ne uscì fu solo un pigolio strozzato.
Canada rimase fermo: le braccia lungo i fianchi, l'espressione triste, gli occhi quasi bui. Non rispose.
"E' una bugia!" si disse, riprendendo a respirare, ogni respiro era doloroso: "E' una bugia, è una bugia, è soltanto una bugia!".
- E va bene, allora! - esclamò, passandosi con rabbia i pugni sulle guance, asciugandole come poteva: - Lo dirò a Francis! Io ti avevo avvertito! -.
Afferrò un polso del bambino e trascinò Canada giù per le scale, diretta verso lo studio di Francis - solitamente, si ricordò, lui era lì, in quel momento della giornata.
Neanche si accorse di essere arrivata, la sua mente sembrava incapace di capire qualsiasi cosa: non appena la porta dello studio entrò nella sua visuale, si alzò sulle punte e abbassò la maniglia, precipitandosi all'interno della stanza, strattonando Mathieu.
Le bastò vedere quella figura famigliare seduta sulla poltrona in un angolo per farla parlare: - Francis! - urlò, il petto che si alzava e si abbassava troppo velocemente e non solo per la corsa: - Mathieu è un bugiardo! Sgridalo! Digli che non si dicono le bugie! Digli che- - la voce le morì in gola.
Le due aste di legno erano lì, appoggiate accanto alla poltrona: erano più alte di lei e terminavano con una forma triangolare. Ora che le vedeva bene, aveva capito cosa fossero: stampelle.
Il braccio che Francis aveva mosso poco era piegato e avvolto in della stoffa, legata al collo per sostenere l'arto; una delle due gambe stava tesa, su un poggiapiedi, e sicuramente non per caso.
La cosa che l'aveva spinta ad indietreggiare, però, era stato lo sguardo di Francis: l'aveva fulminata con un'occhiata, provocandole un tremito involontario.
Fu soltanto un istante: lo sguardo azzurro di Francia tornò pacato come sempre, così come la voce con cui parlò.
- Sono un po' malandato. - disse, lasciandosi andare contro lo schienale della poltrona: - Ma credo che la mia memoria sia rimasta illesa. E mi pare di ricordare di averti insegnato a bussare, prima di entrare in qualsiasi stanza. -.
Séchelles abbassò lo sguardo, sentendosi ancora peggio: - Scusa. -.
- Poi, non mi hanno ferito al viso -per fortuna- né hanno colpito i miei occhi. Tuttavia, non hanno colpito neppure le mie orecchie, eppure io ho sentito chiaramente uno starnazzare molto poco elegante. Mi è forse sfuggito che abbiamo delle oche in casa, Sesel? -
Scosse la testa, sentendosi sprofondare sempre di più: - No, Francis. Scusa. -.
Un sospiro, Francis parlò di nuovo: - Chiudi la porta. Non è bene che ciò che si dice in una stanza ne esca fuori. -.
La bambina obbedì, senza lasciare il polso di Canada, per poi tornare a guardare Francia, intimorita e con una certa vergogna. Quando vide l'uomo farle cenno di avvicinarsi, lo fece senza dire una parola.
- Cosa succede, Sesel? - le chiese Francis, la voce gentile, quasi le stesse dicendo di non preoccuparsi troppo dei suoi modi bruschi.
Séchelles deglutì, sentendo l'imbarazzo svanire pian piano, risucchiato da quella sensazione spiacevole che l'aveva accecata fino ad un momento prima. - ... Mathieu è un bugiardo. - fu l'unica cosa che riuscì a dire, accorgendosi di stare tremando.
- E' una parola pesante. - osservò Francia: - Perché dici una cosa del genere? -.
Strinse i denti e trasse un profondo respiro, le guance di nuovo bagnate: - Perché lo è! - esclamò, un altro tremito: - Perché lui mi ha detto che tu gli hai detto... - ecco, sì, dicendo così coinvolgeva anche Francis, gli avrebbe fatto capire che Mathieu non solo era un bugiardo, ma anche un vigliacco, perché si era nascosto dietro di lui che, ovviamente, non c'entrava niente: - ... che se ne dovrà andare via! Che partirà! Che se ne andrà da Paris! Che andrà via dalla France! Che lascerà questa casa! Che lascerà noi! Che andrà da Angleterre! -.
La voce si spezzò, dovette lasciare la mano di Canada per nascondere il volto dietro le mani, ormai incapace di fermare quell'acqua che continuava a bagnarle le guance roventi.
- Diglielo che è un bugiardo! - gemette, le gambe che tremavano: - Sgridalo, Francis! Digli che è un bugiardo! Digli che non si dicono le bugie! Sgridalo, sgridalo! -.
Una mano grande sulla testa, alzò lo sguardo, incontrando Francis.
- Non posso sgridarlo. - disse lui: - Perché non ha detto nessuna bugia. -.
Le braccia le ricaddero lungo i fianchi. Non riuscì a staccare lo sguardo, non ne aveva la forza. Il malessere era scomparso completamente.
Ora si sentiva vuota.
- Lui, Vincent, Grenade e Dominique partiranno per Londres. - spiegò Francis, risistemandosi sulla poltrona: - Tra tre giorni. -.
Tre giorni.
Solo tre giorni.
Prima della partenza.
Ne aveva viste tante, troppe, di partenze.
- Perché? - fu l'unica cosa che riuscì a chiedere, la voce stranamente meno bassa di quanto si aspettasse.
Francia le rivolse uno sguardo che si sarebbe potuto dire rassegnato, se non avesse avuto quella sinistra luce rabbiosa: - Perché stavolta è andata male. Molto male. -.
- E a te sta bene così? - chiese Sesel, incredula, abbracciando Mathieu per la vita, improvvisamente bisognosa di sentire più di un polso tra le sue dita, disposta anche a collassare con i polmoni pieni di profumo zuccherato.
Troppe partenze.
Non poteva tollerare che a partire fosse anche Canada.
- Ovvio che non mi sta bene. - la luce irata aveva sopraffatto la rassegnazione, la voce vibrava di rabbia, Francia dovette portarsi un pugno alla bocca, quasi cercasse di trattenersi dallo spaccare qualcosa: - Ho perso, sì, ma il prezzo che devo pagare è troppo grande. Non mi ha portato via dei territori, no, stavolta ha deciso di fare le cose in grande e di prendermi direttamente le colonie! -.
Sesel non aveva idea di chi fosse la persona di cui Francis stesse parlando, ma era certa di una cosa: la odiava. Chiunque fosse, desiderò si sentisse vuota come lo era lei adesso, che si ostinasse a stringere tra le braccia qualcosa che, nonostante tutto, sapeva le sarebbe stato strappato.
Non aveva mai provato un sentimento simile, si spaventò.
Scosse la testa, gli occhi le bruciarono: chiunque fosse, anche la più malvagia delle creature, persino la perfida Albione, nessuno meritava di sentirsi come lei ora. Strinse Mathieu di più a sé, soffocando un singhiozzo. Stava diventando sempre più consapevole e, per quanto il vuoto venisse sempre meno, ciò che lo riempiva era una sensazione dolorosa provata troppe volte, che sperava di non dover provare mai più.
- Non sono felice, affatto, di lasciare le mie colonie in mani altrui. - ringhiò Francis, lo sguardo rivolto verso un punto imprecisato della stanza: - Soprattutto in mano ad Angleterre! -.
Abbattè il pugno sul bracciolo della poltrona, chiudendo gli occhi e inspirando a fondo, forse cercando di calmarsi.
Qualcosa di leggero scivolò sulla schiena di Sesel, cingendole la vita: distogliendo lo sguardo da Francia, la bambina si accorse che era un braccio di Mathieu, che aveva risposto al suo abbraccio solo in quel momento.
Lei accentuò la presa su di lui, quasi fino a posargli la fronte su una tempia. Sperava di svegliarsi. Sarebbe stato bello svegliarsi in quel momento, davvero. Sarebbe persino a scoppiata a piangere dalla felicità, nel rendersi conto di come fosse stato solo un incubo.
Ma non si svegliò. Lo era già.
- Se non altro... - Francis parlò di nuovo, la voce tornata pacata, controllata: - ... starai con Alfred, Mathieu. -.
Canada annuì. Sesel si morse un labbro: almeno una cosa positiva, in tutto quello, c'era. Almeno Mathieu si sarebbe ricongiunto al suo fratello di sangue, almeno non sarebbe stato solo. Almeno lui.
- Odio dovervi cedere. - disse Francia, assumendo un tono e una postura più rilassati: - Soprattutto ad Angleterre. Da parte mia, personale e riguardante solo me, è il peggio che possa succedere. Pensando a voi, a come sarete trattati, a come rapportarvi ad Angleterre... - trasse un profondo respiro: - ... sappi, Mathieu, che è la persona più insopportabile che abbia mai messo piede su questa terra o su questi mari. Si stizzisce al minimo commento, non si può toccare né verbalmente né fisicamente la sua egregia persona, detesta qualsiasi tipo di contatto con qualsiasi forma di vita, guarda chiunque dall'alto in basso, considera chiunque a lui inferiore, pretende e non chiede, passa metà del tempo a fare i capricci e l'altra metà pure, odia gli altri ma guarda sempre nelle loro case per vedere se può prendersi qualcosa -senza chiedere, ovviamente-, è talmente acido che potrebbe usarsi da solo al posto dei cannoni -visto che li scioglierebbe al minimo tocco, tra l'altro-, risponde sempre male qualsiasi cosa gli si chieda, è seriamente convinto di essere al centro del mondo e che ogni cosa gli sia dovuta perché sì, è talmente gonfio di boria che potrebbe spiccare il volo, mangia cose rivoltanti e rifiuta i cibi raffinati -non che me ne stupisca, rozzo e incivile com'è-, oh, sì, è anche sgraziato e sciatto, gli stracci che gli piace tanto indossare provocano solo intensivo sanguinamento degli occhi e quell'informe massa di sterpaglia che lui chiama "capelli" sembra tagliata alla cieca con uno strumento non identificato. Per non parlare di... - fece una faccia disgustata, quasi avesse morso una fetta di limone, strizzando gli occhi e riaprendoli come se stesse cercando di scacciare una visione orribile: - ... mio dio, quelle cose. -.
Sesel cercò lo sguardo di Mathieu, trovandovi riflessa la sua stessa espressione scioccata.
- Ma... - quella parola riportò la loro attenzione su Francis, il volto stranamente rilassatosi, la voce più tranquilla: - ... Angleterre ha anche tre pregi. -.
- ... wow. - riuscì a dire Séchelles, profondamente colpita: "Addirittura tre?". A giudicare dallo sguardo di Canada, stava pensando la stessa cosa.
- Il primo, quello che si nota subito nel guardarlo... - confessò Francia, abbassando le palpebre: - ... sono gli occhi. Ne ho visti tanti, in tutta la mia vita, ma mai di quel colore così vivo, quasi innaturale, a pensarci. Forse compensano tutto il resto. E, visto com'è ridotto, potete intuire cosa possano essere quegli occhi. -.
Sesel inclinò appena la testa, incuriosita: non si aspettava un riferimento del genere.
- Anzi, no. - ci ripensò Francis, riaprendo gli occhi: - Non si può intuire. Incrociare lo sguardo di Angleterre è una cosa al tempo stesso orribile e meravigliosa. Raramente quegli occhi rivolgono sguardi gentili o sereni. Ma riescono ad incantare, anche se ti scagliano contro disprezzo o derisione. -.
Di colpo, strinse i denti, colto da un moto di stizza: - Per fortuna che, dopo quasi ottocento anni, mi ci sono abituato! Combattere in uno scontro diretto con lui e ritrovarsi quegli occhi puntati addosso non è affatto bello! Soprattutto perché appartengono ad una personcina così pacifica e inerme. Basta distrarsi un attimo e ti ritrovi con la spada alla gola! -.
Sesel si affrettò a fare di sì con la testa, forzando un sorriso falsissimo: quando la voce di Francis si alzava di qualche ottava, bisognava sempre sorridere e annuire. Sentì Mathieu fare lo stesso.
- E qui c'è il suo secondo pregio... - Francia si passò una mano sugli occhi, per poi parlare come se le parole faticassero ad uscire: - ... per quanto mi costi dirlo, è una cosa oggettiva e non posso negare che sia uno dei suoi pregi. Angleterre è dannatamente bravo a combattere. Come stratega e come guerriero, è quasi impossibile sconfiggerlo, in ogni campo. Averlo come alleato è una benedizione, averlo come avversario è quasi una maledizione. -.
In cuor suo - e a giudicare dallo stato in cui versava Francis -, Séchelles si era aspettata una frase simile. Non ne fu troppo sorpresa, quindi, se non per il tono usato da Francis e la continua domanda: "Ma perché, se Angleterre è così potente e invincibile, continua ad andargli contro?".
- Infine... - rivolse lo sguardo verso Canada, stanco ma, per la prima volta da quando era tornato, sinceramente sereno: - ... tratta bene le colonie sotto la sua ala. Tanto spietato è con i nemici, tanto protettivo è con le sue colonie. Potrei paragonarlo ad una gallina con i suoi pulcini se, con un simile paragone, non temessi di offendere le povere galline. -.
Dopo un attimo di smarrimento, a Sesel sfuggì un sorriso: lo vedeva, lo sentiva quanto Francis stesse dicendo la verità. Non era quella verità vuota, quei "Va tutto bene" che non dicevano niente; quella brutta sensazione non se n'era andata, ma si era attenuata, rimanendo solo come fastidioso fumo, impalpabile.
- Quindi, Mathieu... - sorrise Francis: - ... detesto dover dare le mie colonie ad Angleterre. Ma, al tempo stesso, non posso che essere felice per voi. So che starete bene. -.
Séchelles vide Canada annuire, notò l'ombra di un sorriso; il velo triste dai suoi occhi sembrava essere stato tolto.
- Andrà... - mormorò: - ... andrà tutto bene, allora. -.
L'ombra divenne accenno. Di fronte a quello, Sesel poté dirsi almeno un po' rincuorata. Un po'.
- Francis... -
- Sì? -
Mathieu aveva parlato. A Sesel parve non parlasse da un'eternità.
- Le nazioni... - esordì Canada, gli occhi appena sgranati, incuriositi: - ... possono rimpicciolire? -.
Silenzio.
- ... ma certo che no, Mathieu. - rise Francia, aggrottando la fronte: - Che domande sciocche fai? -.
Il bambino sospirò, lo sguardo fattosi esasperato: - Lo sapevo. Un'altra delle sciocchezze di Alfred. Ne ero quasi sicuro. -
- Alfred? - s'incuriosì Francis.
Mathieu annuì: - Qualche giorno fa mi è arrivata una sua lettera. - spiegò: - Tra le tante cose, mi ha scritto che tutti si sono rimpiccioliti. Anche Angleterre. Si sono rimpiccioliti talmente tanto, mi ha detto, che ora non deve più alzare lo sguardo per vedere Angleterre, che ora riesce a guardarlo direttamente negli occhi. Si chiedeva se fosse una cosa permanente. E lo sperava, perché era divertente. - scrollò le spalle: - Sospettavo fosse una sciocchezza delle sue, ma l'ha descritta in modo talmente convincente... -
- E così... - la voce di Francis si era abbassata: - ... Alfred guarda Angleterre direttamente negli occhi, eh? -.
Le sue labbra si curvarono in un sorriso strano, che Sesel gli aveva visto pochissime volte, meno delle dita di una mano: era uno di quei sorrisi che illuminavano anche gli occhi, ma non di divertimento. Era come una soddisfazione strana, che non riusciva a spiegarsi. Se non fosse stato Francis, avrebbe persino osato pensare che non fosse una cosa del tutto positiva.
Lui prese il volto in una mano, il gomito sano a puntellare il bracciolo della poltrona: - Sai, Mathieu... - disse, pacato, seppur di una tranquillità diversa da prima: - ... credo che troverai Alfred un po' cambiato. -.
Canada sbattè più volte le palpebre, visibilmente perplesso.
- Ricordati una cosa, Canada. - proseguì Francia, senza mutare tono né espressione: - La fratellanza è un sentimento nobile e importante e non va mai dimenticata. Ma, come ogni sentimento, anche la fratellanza esige il suo rispetto. Se viene a mancare l'uguaglianza, qualcosa, inevitabilmente, finisce con lo spezzarsi. E, se una ferita può essere rimarginata e dimenticata, a volte senza neppure lasciare una cicatrice, il rispetto della fratellanza distrutto dall'uguaglianza venuta meno finisce per trasformarsi in un'emozione incontrollabile, un desiderio di libertà nei confronti di chi ha mancato di rispetto che, per quanto possa essere mosso da desideri positivi, in casi simili finisce per calpestare la fratellanza che unisce le persone. -. Mosse il polso, portando le nocche sotto il mento: - E' un equilibrio. Basta che venga infranto e la reazione a catena sarà impossibile da fermare. -.
Sesel portò tre dita alla tempia: non aveva capito assolutamente niente, le era soltanto venuto un gran mal di testa.
- Non capisco... - confessò Mathieu, disorientato quanto lei, le sopracciglia inarcate.
- Non ti preoccupare, Canada. - lo rassicurò Francis: - Credo che lo capirai. -.

I due giorni successivi trascorsero lentamente, eppure troppo rapidamente.
A Sesel sembrò che ogni secondo si fosse allungato a dismisura, quasi per darle il tempo di viverlo pienamente; ma si era ritrovata nel letto prima di quanto si aspettasse, come se le giornate si fossero accorciate apposta per farle un dispetto. Quando si svegliava e riprendeva contatto con la realtà, si sentiva come se qualcuno le avesse sussurrato, per tutta la notte: - Uno in meno. -. Quella frase le martellava la testa, fino a diventare un continuo brusìo di fondo, fastidioso e, se osava prestarvi attenzione, doloroso.
- Anche se se ne andrà... - le aveva detto Francis, prima di congedare lei e Mathieu: - ... avrete sempre la possibilità di reincontrarvi. -.
Aveva sentito spesso promesse di ritorno.
Non ricordava tutte le parole esatte, i visi di quelle persone che le avevano fatto quelle promesse erano sbiaditi.
Nessuna di quella promesse era stata mantenuta. Non aveva mai rivisto più nessuno.
Ma Francia e Canada, e Dominica, Saint Vincent e Grenada, non erano come loro, erano come lei.
E Francis le aveva già dimostrato di mantenere fede alle sue promesse: era andato lontano, per sei anni, ma alla fine era ritornato. Malandato, sconfitto, ma era lì con loro.
Per questo si fidò di quelle parole. Qualcosa le diceva che poteva farlo.
In quei due giorni, era rimasta sempre accanto a Mathieu, stando attenta a non lasciarlo mai, per impedirgli di sparire all'improvviso. Nessuno di loro due, però, aveva parlato della partenza: forse era quel continuo illudersi che fosse un giorno come un altro ad averle dato l'impressione che tutto fosse diventato più lento, e più veloce.
Quando giungeva l'ora di andare a dormire, però, si riuniva con le sue sorelle per consolare Dominica; si era sforzata di pensare che fosse solo lei a dover partire, lei e Grenada, anche lui agitato, con gli occhi lucidi. Saint Vincent era l'unico che sembrava più incuriosito che triste.
- Ci rivedremo. -.
Era l'unica cosa che riusciva a tirarli su di morale, sia coloro che dovevano partire, sia coloro che sarebbero rimasti.
Quando Sesel si svegliò, quel giorno, si sentì stanca.
Le sembrava di non dormire da settimane e di non aver fatto altro che camminare. Sentiva persino i piedi farle male, i polpacci e le spalle tesi. Eppure, per quanto si sentisse spossata, la sua mente era anche troppo lucida.
Notò subito un particolare, non appena si sedette per la colazione: - Dove sono? - domandò. Non c'era bisogno di specificare.
- Hanno fatto colazione prima di noi. - le rispose Saint-Domingue, la voce appena un sussurro: - Sono venuti a svegliare Dominique circa tre ore fa. -.
Séchelles annuì: Saint-Domingue condivideva la camera con Dominica, era ovvio che sapesse tutto.
- Come mai? - chiese Bourbon, sedendolesi vicino: - Ho visto i bagagli pronti già ieri sera, stamattina avrebbero dovuto mettere solo le ultime cose... -.
Saint-Domingue alzò le spalle, senza parlare.
Nessuno disse nulla per tutta la durata della colazione.
Come se non bastasse, notò Sesel con una punta di amarezza, al tavolo non erano presenti neppure Francis o Jacqueline. Era logico che sarebbero rimasti con le colonie in partenza, ma ne rimase comunque dispiaciuta.
Di nuovo. Ogni secondo si era allungato. Ma stavolta era quasi irritante. Era per questo che sentiva un doloroso blocco alla gola e le bruciavano gli occhi.
Unicamente per la tensione. Perché, quando tutti loro si diressero nella sala del camino, ebbero modo di vedere i domestici fare su e giù per le scale con gli ultimi bagagli. Non era una bella visione. Sembrava quasi un conto alla rovescia.
Una giovane cameriera bussò alla porta, entrando e facendo un leggero inchino: - La signorina Dominique, il signorino Saint Vincent, il signorino Grenada e il signorino... - si fermò, colta da un improvviso attacco di mutismo. Riprese a parlare mangiandosi le parole: - ... Handà sono in partenza. -.
Sesel saltò giù dal divano, così come un salto l'aveva fatto anche il suo cuore, facendole più male di quanto si fosse aspettata. Lo sentiva, più grande del normale, che si stringeva con una fitta ad ogni battito.
Lei, le sue sorelle e i suoi fratelli corsero nella sala d'ingresso, fermandosi di colpo solo quando si ritrovarono davanti Francis, Jacqueline, la servitù e loro.
Il portone era aperto, potevano intravedere una carrozza nera bordata d'oro alla fine del viale, oltre il cancello; i domestici più robusti stavano facendo avanti e indietro con i bagagli, dodici in totale, forse da caricare su un'altra carrozza.
Monaco era in piedi al lato dell'entrata, quasi stesse controllando - e, probabilmente, era davvero così. Francis stava più in disparte, anche lui in piedi, appoggiato al muro; non aveva le stampelle né portava il braccio appeso.
- Non ditelo agli altri. - aveva chiesto a lei e Mathieu, tre giorni prima. Nessuno di loro due aveva rivelato nulla.
E poi, qualche metro davanti al portone, stavano le quattro colonie in partenza.
Tutti rimasero immobili, come pietrificati. E capirono perché fossero stati svegliati con così largo anticipo.
Non erano vestiti da bambini, quelli che indossavano: erano abiti da adulti, confezionati su misura per loro con le stoffe più pregiate e, sicuramente, dai sarti più bravi dell'intera Francia. Certo, tutti i loro vestiti lo erano: ma quei quattro abiti incutevano soggezione, tanto sembravano maniacali gli intrecci sui pizzi, bianchissimi e apparentemente impalpabili, composti di una fittissima ragnatela di minuscoli fili; nessuno osò toccare la stoffa, dai bordi forse di fili oro vero, che dava l'idea di potersi rovinare irreparabilmente solo sfiorandola; le scarpe nere quasi riflettevano la luce, tanto erano lucide.
Sesel aveva visto spesso abiti di nobili, aveva avuto modo di intravedere, in lontananza, anche i vestiti ricchi e solenni del re e della regina: tutto ciò che aveva visto le parve solo una scadente imitazione.
Dominica quasi faticava a camminare: la gonna era immensa, almeno quattro volte lei, bianca come il corpetto e il nastrino che le fasciava il collo, decorata con fiori dorati, gli steli composti da un unico ricamo argentato che avvolgeva l'intera gonna con riccioli e foglie; il pizzo spuntava da sotto la gonna, ricopriva il bordo della scollatura non poi così scollata e le ricadeva sulle braccia, lasciando gli avambracci scoperti. Portava fiori d'oro anche intrecciati fra i riccioli scuri e le sue erano le uniche scarpe ad essere bianche.
Anche l'abito di Grenada era bianco: cappotto, pantaloni, panciotto e fazzoletto al collo. Tutti i bordi possibili erano ricoperti d'oro, di un disegno così intricato da far male agli occhi.
Stesso abbigliamento era per Saint Vincent e Canada, con la sola differenza del colore: il primo era vestito con i toni del rosso, il secondo dell'azzurro.
I loro capelli erano tenuti in una coda bassa, a stento nel caso delle chiome troppo corte di Grenada e Saint Vincent, spiazzante nel caso di Canada.
Perché Canada, forse per la prima volta, attirò gli sguardi di tutti i presenti: pelle bianca, occhi azzurri, capelli lunghi e biondi in una coda lungo la schiena, vestito azzurro dal taglio adulto. La somiglianza faceva quasi paura.
"Non so com'era Francis da bambino..." fu l'unica cosa che riuscì a pensare Sesel: "... ma credo era una cosa del genere.".
L'unica differenza stava negli effettivi tratti del viso, più morbidi, e nell'espressione, infinitamente più candida. Per il resto, chiunque avrebbe potuto scambiarli per padre e figlio naturali.
- ... quei vestiti da soli devono valere quanto questa casa. - il commento di Marie-Galante infranse il silenzio che era venuto a crearsi, facendo risvegliare i presenti da una sorta di trance.
- Non esagerare... - gemette Grenada, alzando appena le braccia, quasi temendo di rovinare le maniche strofinandole sulla giacca.
- Vorrei tanto anch'io il vestito di Dominique! - esclamò La Désirade, avvicinandosi a lei.
Le bambine la seguirono, Sesel compresa: in effetti, non le sarebbe affatto dispiaciuto indossare un abito del genere.
"Sembra così scomodo, però è così brillante...".
Con la coda dell'occhio, notò che i suoi fratelli avevano letteralmente circondato Saint Vincent e Grenada, dicendo loro chissà quali cose da maschi.
Accanto a Mathieu, solo Kumajiro.
- Chi sei? - sentì domandare dall'orsetto bianco.
- Sono Canada. - non udì la risposta, ma riuscì ad intuirla dal labiale del bambino.
Si avvicinò, raggiungendolo con pochi passi: - Però... - esordì, con un sorriso: - ... somigli davvero tantissimissimo a Francis, sai? -.
Si bloccò: aveva sorriso? Sinceramente? Spontaneamente? Da quanti giorni non lo faceva? "Tre, probabilmente...".
Mathieu sorrise di rimando: non era un accenno, per quanto imbarazzato, c'era.
- Detto da te, è un gran complimento. - rispose.
Séchelles portò le mani dietro la schiena, per poi rendersi conto di un punto sottointeso in quella frase: - ... aspetta, cosa vorresti dire? - chiese, le guance che si accendevano.
Canada alzò appena le spalle: - Nulla di che. -.
Lei gonfiò le guance ancora troppo calde e socchiuse gli occhi, molto poco convinta.
- Le carrozze sono pronte. - annunciò il maggiordomo, i servitori schierati ai lati della porta.
Quelle parole la colpirono in pieno: "E' il momento, quindi...".
- Vi ricordate quello che vi ho detto? - Francis prese la parola, portando tutti gli sguardi su di sé.
Le quattro piccole colonie annuirono.
- Siate sempre educati e non mostrate una rozzezza che non vi appartiene. - ripeté Dominica, il tono solenne.
- Prendetevi cura di vostra sorella. - ridacchiò Saint Vincent, guardando in direzione della bambina, che arrossì appena.
- Ciascuno offra in omaggio agli ospiti uno dei mazzi di gigli che porterete con voi, sperando che il viaggio non li rovini troppo. - disse Grenada, la frase evidentemente imparata a memoria.
- Fingete di non sapere nulla della cultura inglese, anche se in realtà sapete tutto. - concluse Canada, in un sospiro.
- Esattamente! - annuì Francia, con un ampio gesto della mano destra: - E, a proposito, spero non si rovini neppure il mazzo di aconito da parte mia... -.
"Ma tutto ciò ha senso?" si ritrovò a pensare Sesel, aggrottando la fronte. Non che dubitasse di Francis, però...
Sentì una leggera risata divertita e, quando volse lo sguardo, incontrò Dosnee, le labbra incurvate verso l'alto, lo sguardo sui quattro. Alla sua muta domanda, lui le si avvicinò all'orecchio e le sussurrò: - Guardali, i nostri fratelli sembrano una bandiera francese! -.
- Oh... - ora che lo notava, in effetti, i colori predominanti dei vestiti di Canada, Grenada e Saint Vincent erano proprio quelli della bandiera francese.
"L'avranno fatto apposta?" si chiese.
- E' ora di andare. - di nuovo, una frase che non le piaceva, che stavolta suonava con la voce di Jacqueline.
Tornò a guardare Mathieu, prendendogli le mani per evitare che svanisse prima di poterlo salutare. Gli altri li avrebbe salutati dopo: temeva che, se non l'avesse fatto subito, l'avrebbe visto sfuggirgli dalle dita.
- Senti... - esordì, le guance fastidiosamente calde: - ... anche se vai al di là del mare, noi ci rivedremo. Non so quando, ma ci rivedremo. - disse, seria.
Ne era convinta. Stavolta sì.
Canada annuì: - Certo. -.
- E... - aggiunse, stringendogli le mani: - ... ricordati di scrivermi, va bene? Non dico subito appena arrivi. Però, mi scriverai, vero? Mi dirai com'è l'Angleterre? Se è tanto diversa? Se si sta bene? Ah, e salutami Alfred, eh! -.
- Sì. - ripeté Mathieu: - Tu, però, ricordati di rispondermi. -.
Sesel sbattè le palpebre, sicura di aver capito male. A quanto sembrava, no.
- Certo che mi ricorderò di risponderti! - protestò.
Un istante dopo, senza neppure sapere come, si ritrovò stretta a lui, abbracciandolo come se volesse stritolarlo, quel profumo zuccherato intenso ma piacevole; aprì e chiuse le palpebre rapidamente, sperando di ricacciare indietro le lacrime. Era colpa della polvere. Sì.
Anche il suo tirare su col naso, quel singhiozzo che riuscì a soffocare all'ultimo. Tutta colpa della polvere.
Perché non avrebbe pianto. Il suo ultimo - momentaneamente ultimo - ricordo con Mathieu non poteva vederla in lacrime.
Si scostò, i pugni serrati, un sorriso sulle labbra: - ... allora, ciao. - disse.
"Oh, anche Mathieu è arrossito." almeno non era la sola ad avere problemi di involontario riscaldamento facciale.
- Ciao! -. La sua voce gli parve quasi più alta del solito, quasi ad un tono normale.
Sesel passò una mano nel pelo morbido di Kumajiro, accarezzandogli la testa e salutando anche lui, ricambiata da una morbida carezza su una mano.
Salutò Grenada e Saint Vincent stringendo loro la mano, abbracciò forte Dominica.
Li vide varcare la soglia del portone, percorrere il viale accompagnati dai servitori; vide Dominica salire per prima sulla carrozza, aiutata da due uomini, seguita da Saint Vincent, Grenada, Kumajiro e, infine, Canada.
Senza pensarci, camminò fino alla soglia, notando solo distrattamente che alcuni suoi fratelli e sorelle avevano fatto altrettanto.
Quando la porta della carrozza fu chiusa con un rumore secco, ebbe un sussulto.
Poi la carrozza nera dai bordi d'oro partì e lei continuò a guardarla, vedendola sempre più piccola ogni secondo che passava, il rumore degli zoccoli dei cavalli e delle ruote sulla strada si faceva sempre più ovattato, fino a scomparire del tutto, insieme a quella che non era diventata altro che una piccola macchia scura.
Alzò un braccio e salutò solo allora, pur conscia di non poter essere vista; ma era meglio così. Almeno le sue guance erano rimaste asciutte abbastanza a lungo.
Si sfregò gli occhi e rientrò, ritrovandosi avvolta dalle braccia di Zephyrine; alzò appena lo sguardo, sentì una mano di Dosnee carezzarle la schiena e le dita di Eurée che le toccavano il gomito, come a volerla confortare.
E solo allora si arrese a tutto ciò che aveva soffocato fino ad un istante prima.
Per quel momento, poteva permetterselo.



Note:
* 1763: Alla conclusione della Guerra dei Sette Anni, con il Trattato di Parigi, la Francia cede all'Inghilterra il Canada e le isole caraibiche di Dominica, Saint Vincent e Grenadine e Grenada.
Durante la guerra, entrambe le nazioni erano riuscite ad occupare territori avversari: l'Inghilterra aveva occupato i territori francesi della precedentemente citata India, Canada, Guadalupa, Martinica, Sainte Lucie, Dominica, Grenada, Saint Vincent e Grenadine e l'isola di Gorée, in Senegal; la Francia aveva occupato degli avamposti commerciali inglesi a Sumatra, in Indonesia, e il territorio inglese di Minorca.
Sì, l'Inghilterra occupò diecimila colonie francesi e la Francia, a stento, riuscì a prendere un'isola e qualche briciola.
Tra l'altro, la Battaglia di Minorca avvenne nel 1756 - prima dell'inizio di questa storia - e non si trattò di una vittoria schiacciante da parte dei francesi: l'esito della battaglia è considerato "vittoria strategica francese" - nonostante i francesi si siano ritirati per primi - perché gli inglesi, date le navi troppo danneggiate, si ritirarono a Gibilterra, lasciando "scoperta" Minorca - che fu dunque conquistata. (Ed è più o meno come segnare a porta vuota.)
* Con il Trattato di Parigi, Minorca e le conquiste di Sumatra ritornarono all'Inghilterra; quest'ultima, di contro, restituì alla Francia l'isola senegalese di Gorée, alcune industrie in India - cosa piuttosto inutile, dato che era diventata interamente colonia inglese - e Sainte Lucie.
Fu poi chiesto alla Francia stessa di scegliere se tenere le isole caraibiche di Martinica e Guadalupa o il Canada: i francesi scelsero le due isole, in quanto lucrative fonti di zucchero; del Canada, invece, i francesi non avevano esattamente una grandissima opinione, considerandolo soltanto un gigantesco e costoso territorio improduttivo - dunque un inutile spreco di denaro. Tant'è che, in seguito, la Francia cercherà di riprendersi solo le tre colonie caraibiche, riuscendoci ma dovendole poi restituire all'Inghilterra con un altro Trattato di Parigi, nel 1783.
I francesi avranno poi modo di mangiarsi le mani quando scopriranno che il sottosuolo canadese trabocca di oro (il famoso Klondike è in Canada) e petrolio.
[Fonti: 1, 2]
* Riguardo il Canada, nel 1759 avvenne la Battaglia di Québec, della durata di meno di un'ora, che vide la decisiva vittoria inglese sui francesi nel fronte nord-americano.
* L'acquisizione del Canada fu l'inizio della fine dell'impero britannico.
L'Inghilterra, difatti, si ritrovò ad avere a che fare con un vasto territorio che, fino a poco prima, era stato francese, dunque non esattamente ben disposto nei suoi confronti; per rabbonire i canadesi e per mostrarsi in buona luce, concesse loro una grande libertà, sia civile che religiosa, e diede loro anche svariati territori. Territori che, tuttavia, erano già stati presi di mira espansionistica dalle Tredici Colonie.
Tutto ciò avvenne attraverso il Québec Act, che non piacque affatto alle Tredici Colonie, anzi, lo considerarono intollerabile. Le tensioni tra le Tredici Colonie e l'Inghilterra crebbero sempre di più, covando per un decennio, fino a sfociare in un disastroso tea party a Boston.
[Fonti: 1, 2]
* Il Trattato di Parigi fu stilato in modo da non umiliare eccessivamente la Francia, temendo sue possibilissime ripercussioni - tant'è che alcuni parlamentari inglesi giudicarono il Trattato troppo indulgente.
Che lo dico a fa', la Francia non solo si sentì umiliata, ma iniziò a covare proprio quel desiderio di vendetta che gli inglesi avrebbero voluto evitare. Di lì ad un decennio, i francesi ebbero la loro Occasione nel Nuovo Mondo.
[Fonte]
* L'aconito è una delle piante più velenose d'Europa, il cui significato è "vendetta" e "amore colpevole".

Dizionario
- Make your choise.: Fa' la tua scelta.
(Se qualcuno si fosse chiesto perché Francia dica una frase in inglese: lo dice per ripetere le parole esatte di Inghilterra, quindi in inglese. Ossia, per lui, già che è detto in lingua inglese, è già di per sé un insulto.)


E così si conclude il primo arco narrativo. oAo
Ebbene sì: il Canada e le Seychelles sono stati contemporaneamente territorio francese per soli sette anni, tra l'altro durante la celebre guerra omonima. Quindi, storicamente parlando, è difficile vedere il trio Francia-ChibiCanada-ChibiSeychelles. °A° *C'è rimasta un po'...*
Confesso di essere rimasta un po' male anche scoprendo dell'Alta Opinione che la Francia aveva del Canada. °A° Però, siccome non ce lo vedo Francis a dire/pensare una cosa simile di una sua colonia - tra l'altro, mi pare fu anche la prima effettiva "colonia" francese -, ho deciso di fare scaricabarile (?) sulla classe politica, a cui spesso le nazioni devono obbedire anche controvoglia.

Rileggendo questo capitolo, per ragioni a me non note (?), mi è parso che Francis si comporti da barbagianni. O da rapace indefinito.
Sul serio: se ne sta appollaiato, segue con lo sguardo e spunta fuori a sorpresa. O forse è un gufo, visto il suo discorso - a proposito, da quel discorso fratellanza/uguaglianza/libertà, anche se con un significato un po' diverso da quello che effettivamente hanno quelle tre parole, credo si intuiscano anche quali due fatti storici avverranno alla fine del 1700. *Come se le tue note non fossero state cristalline, a riguardo*
Mi sono accorta anche che pure Sesel sembra tirarla un po' ad Arthur. *Solo che questo non era voluto.*

Il fatto che i tre bambini siano vestiti à la bandiera francese è casuale?
Ovviamente no: i quattro bambini sono vestiti in modo da formare la bandiera francese (i maschi) e da ostentare la super-ricchezza dell'epoca (Dominica); i gigli, inoltre, erano/sono il fiore nazionale francese.
In poche parole, le quattro colonie vengono spedite da Inghilterra in modo da sbattergli in faccia quanta più "francesità" possibile.
Riguardo l'aconito. Alla ricerca di un fiore il cui significato fosse "vendetta" - giusto per mettere in chiaro le cose con Angleterre -, Google mi ha palesato davanti la suddetta pianta. Leggo: è diffusa sulle Alpi, è una delle più velenose d'Europa... guardo il significato: è effettivamente "vendetta". Perfetto, mi dico. Poi vedo che ha un altro significato: "amore colpevole". E allora capisco che è proprio Perfetta. *Dopo le dovute risate, ovviamente*

Come già detto, con questo capitolo si conclude il primo arco narrativo, quello francese. Dal prossimo, inizierà il secondo arco. *Ma no! Davvero quando si conclude un arco ne inizia un altro?*
No, non sarà ambientato nel 1764, né nel 1770 o 1780 o 1790. Non sarà ambientato neppure nel Diciottesimo Secolo, a dire la verità. E l'intero specchietto di questa storia acquisirà un senso, voce "Personaggi" compresa.
*Vabbè, Soe, l'hanno capito tutti. Va' a prendere quella bandiera blu, bianca e rossa, giusto per...*
*Sventola bandiera francese*
*... ma che abbiamo fatto di male?*

Spero che questo capitolo, così come questo primo arco, non vi abbia fatto schiumare per il fluff vi sia stato gradito. ^^ Se ci sono Errori Madornali, se l'abbigliamento in tinta unita bordato d'oro fa sanguinare gli occhi, se in realtà l'aconito cresce solo in Islanda (?), se ci sono problemi di qualsiasi sorta - a parte eventuali congiuntivi disastrati nel parlato di Séchelles o Canada, unici voluti - o altro, dite pure. ^^

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Capitolo 6
*** 1810 ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

1810

Affondò le dita nelle braccia, premette le ginocchia contro il petto.
Si concentrò sul suo respiro: doveva regolarizzarlo, doveva smettere di respirare così velocemente, sentiva il cuore pulsarle dolorosamente nelle orecchie.
Inspirò a fondo, ma qualcosa le afferrò la gola, costringendola a tossire.
Aprì e chiuse gli occhi più volte, strinse i denti per soffocare i gemiti. Piangere era inutile. Ma non sapeva cos'altro fare.
Aveva camminato per troppo tempo, aveva visto una trave di legno caderle a pochi metri, avvolta dal fuoco. Era fuggita nelle cucine in cerca di qualsiasi cosa, di chiunque, ma l'unica cosa che era riuscita a trovare era una stanza vuota, integra. Si era rannicchiata in un angolo, sperando con tutto il cuore di aver trovato un posto sicuro.
Non sapeva più dove fosse l'uscita.
L'aveva cercata ma aveva trovato solo fiamme troppo alte, il soffitto scomparso oltre il denso fumo nero che aveva invaso quasi ogni stanza.
Aveva caldo. Aveva strappato la base della gonna del suo vestito per correre più velocemente e per non dare al fuoco un'occasione in più di avvicinarlesi; aveva le gambe e le braccia scoperte, ma il caldo era troppo, tanto da farle male sulla pelle.
Avrebbe voluto gridare aiuto, ma la sua voce sembrava svanita, soffocata. Le uniche cose che uscivano dalle sue labbra erano singhiozzi e respiri troppo veloci.
Prima o poi, le fiamme sarebbero svanite.
Prima o poi, non avrebbero trovato più nulla da divorare, sarebbero scomparse da sole.
Prima o poi, non avrebbero trovato più nulla da divorare, e allora...
Qualcosa di pesante cadde, nella stanza accanto. Sesel sobbalzò e premette le mani contro le orecchie: non voleva sentire neppure un suono.
Posò la fronte sulle ginocchia, fissando l'orlo distrutto della sua gonna, per quanto le fosse possibile.
Cominciava ad avere sonno. Se si fosse addormentata, al risveglio sarebbe stato tutto finito? Forse si sarebbe risparmiata la vista di quelle colonne rosse. Forse non avrebbe sentito più alcun rumore spaventoso. Forse non si sarebbe neppure accorta di quel calore che sembrava ferirla. Forse dormire era la cosa migliore da fare, l'unica che poteva fare.
Un boato troppo vicino la costrinse ad alzare la testa.
La porta delle cucine era caduta, troppo debole per rimanere nei cardini; un giovane uomo riportò il piede a terra, doveva averla calciata.
Il cuore battè ancora più forte: "C'è qualcuno!".
Non aveva idea di chi fosse, forse un servitore poverissimo, forse un contadino che passava da quelle parti, a giudicare dai pantaloni rovinati, dalla maglia bianca troppo grande e dal cappello troppo piccolo.
Portava qualcosa, qualcuno, in braccio.
Neanche si accorse di essere scattata in piedi, non appena riconobbe Sénégal e Guadalupa tra quelle braccia quasi del tutto scoperte.
Il giovane dovette vederla, perché le si avvicinò a grandi falcate, il passo deciso. E, quando fu vicino, in ginocchio, Sesel fu ad un passo dal piangere davvero: una lunga ciocca di capelli castano chiaro era scivolata fuori dal cappello, sfiorando il volto dai tratti troppo morbidi per appartenere ad un uomo.
- Jacquie... - gemette, buttandole le braccia al collo, travolgendo i suoi fratelli senza curarsene.
- C'è qualcun altro, qui? - domandò Jacqueline, sbrigativa.
Séchelles scosse la testa, staccandosi da lei.
Monaco guardò rapidamente Sénégal e Guadalupa, poi si voltò e disse: - Sali sulla schiena. -.
Sesel forzò le gambe tremanti, le caviglie che le mandavano scariche di dolore, e avvolse le braccia attorno al collo della donna, portando le ginocchia alla sua vita.
- Stringiti forte e chiudi gli occhi. - ordinò, rivolta anche alle altre due colonie: - Non aprite gli occhi, qualsiasi cosa succeda o sentiate. -.
Séchelles strinse gli occhi e sentì Jacqueline tornare in piedi, per poi iniziare a correre.
Sentì ventate calde sferzarle la pelle delle braccia e delle gambe, riparò il viso contro il collo e il cappello della donna; la sentì cambiare direzione, sentì il suo respiro farsi affannoso, la sentì fermarsi più di una volta, seppur per pochi istanti, sentì delle esclamazioni improvvise che non comprese.
Poi il vento si fece fresco, l'aria pulita che non graffiava più la gola.
Ma non osò aprire gli occhi. Sentiva le ciglia incollate tra loro e non aveva il coraggio di forzarle.
Sentì Jacqueline correre ancora, stavolta in un'unica direzione, più veloce.
Si fermò.
- Potete aprire gli occhi. - sussurrò, in un ansimo.
Solo allora Sesel trovò la forza di schiudere le palpebre.
La prima cosa che vide fu una grande carrozza nera, incredibilmente vicina.
Quel che vide subito dopo furono tanti volti famigliari.
- Sesel! Sesel! - Zephyrine saltò giù dalla carrozza, il volto arrossato rigato dalle lacrime, tendendo le braccia nella sua direzione.
Monaco s'inginocchiò, facendo riportare i piedi a terra - su un prato, notò Séchelles - alle tre colonie.
Un istante dopo, Sesel era stretta nell'abbraccio tremante di Bourbon, che ricambiò subito. Alzò lo sguardo, incontrando i volti rassicurati di Dosnee ed Eurée, anche loro scesi dalla carrozza per andarle incontro.
- Non sei ferita, vero? - singhiozzò Zephyrine, pallida come non l'aveva mai vista.
Annuì, sicura che la propria voce sarebbe uscita ancora più spezzata di quella di sua sorella.
- Chi manca? - la voce dura di Jacqueline catturò l'attenzione di tutti. Fu uno dei quattro domestici presenti, che Sesel non aveva neppure visto, a rispondere: - La signorina Saint-Domingue è andata a cercare le signorine Marie-Galante e La Désirade e i signorini Saint Martin e Ile de Clipperton. -.
Monaco annuì e fece cenno alle colonie uscite dalla carrozza di rientrare: - State giù, non fatevi vedere. -.
Sesel seguì Zephyrine, Dosnee ed Eurée all'interno del mezzo, pressandosi tra le altre colonie, chi sdraiato sui sedili, chi sotto. A loro spettarono dei posti a terra.
Séchelles afferrò le mani di Bourbon e Ile, le spalle premute contro le loro, ben decisa a non allontanarsi. Lì non c'erano fiamme. Lì c'erano gli altri. Lì era al sicuro.
- Eccomi! - Saint-Domingue apparve, Marie-Galante tra le braccia, La Désirade, Saint Martin e Ile de Clipperton stretti alla sua camicia.
- Entrate. - ordinò Monaco: - Domingue, tu siediti e fatti vedere, una carrozza vuota attirerebbe l'attenzione. -.
Saint-Domingue, ormai abbastanza alta da poterla guardare negli occhi, annuì e prese posto, seguita dalle quattro colonie che aveva recuperato dalla casa in fiamme.
Jacqueline guardò altrove, probabilmente rivolgendosi ai servitori: - Voi andate. - disse: - Non seguiteci. -.
Dall'interno della carrozza, Sesel non potè vedere le loro reazioni, ma dovevano aver obbedito, dato che Monaco aveva dato loro le spalle per risistemare i lunghi capelli nel copricapo.
- Partiamo. - annunciò, una volta finito.
- Sicura di non volere una scorta? -
Quella voce colpì Sesel al cuore, facendola come risvegliare all'improvviso da un lungo sonno.
Dei passi sull'erba, pesanti, e Francis apparve accanto a Jacqueline.
Séchelles fu costretta a sbattere più volte le palpebre, sentendo il cuore appesantirsi di colpo: quello era Francis, senza dubbio, l'avrebbe riconosciuto in ogni caso. Ma la sua pelle era troppo pallida, gli occhi sembravano stanchi, incavati, quasi divorati da occhiaie di un viola troppo scuro; le sembrava che i capelli fossero molto meno chiari, che fossero diventati quasi castani, rovinati; le sue dita, poi, non le erano mai parse tanto sottili.
Indossava abiti troppo modesti, dei colori della terra, neppure della sua taglia.
A vederli in quel riquadro della carrozza, Francis e Jacqueline sembravano due poveri, di cui uno malato. E non si trattava di Jacquie.
- Una scorta attirerebbe l'attenzione. - rispose Monaco, ferma.
- Ma è pericoloso. - le ricordò Francia, come se nessuno se ne fosse accorto.
Jacqueline si voltò a guardarlo apertamente, scoccandogli uno sguardo glaciale che Sesel mai le aveva visto: - Sono le tue colonie. Nessuno del tuo popolo le attaccherà. Sai bene chi, invece, potrebbe farlo. E sono coloro che stanno scappando come noi. - accennò con il viso a qualcosa sul posto del conducente: - Se anche qualcuno oserà toccarci, comunque, saprei difendermi. -.
Francis seguì il suo sguardo, per poi chiudere gli occhi, con un sospiro stanco.
Riaprì gli occhi e sfilò dalle dita l'unico anello che indossava: - Tieni. - le disse, porgendoglielo: - E' lo stemma della mia casa. Ti basterà mostrarlo per far capire chi sei. -.
Jacqueline lo scrutò dall'alto in basso. Poi allontanò l'anello, spingendo appena la mano verso di lui: - Non sono una delle tue fanciulle indifese. - disse, le labbra incurvate in uno strano sorriso. Alzò un pugno, le nocche verso Francis, mostrando un anello anche su una della sue dita: - Non devo mostrare lo stemma di France per farmi riconoscere come nazione. -.
Abbassarono le mani, Francis aveva sgranato gli occhi, quasi gli avessero palesato una qualche strana verità.
- E poi... - Jacqueline parlò di nuovo, il sorriso scomparso, la voce dura: - ... non ho intenzione di rischiare la vita di qualcuno soltanto perché il tuo popolo si è svegliato una mattina e ha deciso che non gli piaceva più la monarchia. -.
Francis non rispose.
- Spero di rivedere te e la tua casa. - si augurò Monaco: - Anche se so che non sarete più come prima. Spero soltanto di rivedervi felici. -. Posò un bacio sulla guancia di Francis e scomparve dalla visuale; dai rumori che seguirono, doveva essere salita al posto di guida.
Fu soltanto allora che Francia lì guardò.
Come già Sesel aveva notato, i suoi occhi erano stanchi: stanchi, ma con una strana luce che non riuscì ad identificare. Era come se, nonostante tutto, cercassero di aggrapparsi alla vita, come desiderosi di qualcosa troppo distante.
- Mi raccomando... - disse, la voce ammorbidita: - ... fate i bravi, a casa di Jacquie. Siate educati e non fatela arrabbiare. -.
Un coro sussurrato di "Sì, Francis." si levò dall'interno della carrozza, facendolo sorridere appena. Se non altro, notò Séchelles, in quel volto quasi irriconoscibile c'era la traccia di un sorriso conosciuto.
Avrebbe voluto abbracciarlo; tuttavia, al tempo stesso, ne era spaventata e non sapeva spiegarsene il motivo. Forse era la paura che provava da troppi giorni, da quando aveva iniziato a sentire delle urla fuori dalla casa, ad annebbiarle la mente.
- Arrivederci, allora. - con quelle parole, Francis chiuse la portiera della carrozza, riducendo ancora di più la visuale sull'esterno: ora rimaneva soltanto un rettangolo che, dalla posizione in cui lei si trovava, mostrava solo uno spicchio azzurro del cielo. Uno spicchio azzurro striato da sottili colonne di fumo.
Poco dopo, la carrozza partì.
Ma le sentiva ancora, le urla in lontananza. Erano grida rabbiose, grida spaventate. Riuscì a distinguere delle frasi, delle incitazioni, delle suppliche, dei nomi; sentì più volte il clangore del metallo, lo spicchio iniziava a tingersi di rosso.
Premette le mani contro le orecchie e strinse gli occhi.
Non le voleva più sentire, non voleva più sentire niente, non voleva essere lì, non era giusto, non poteva fare niente, non capiva, aveva paura, continuava a sentirle, premette ancora di più, serrò i denti per impedirsi di emettere qualsiasi suono, ma continuava a sentirli, le sembrava quasi di vederli, erano-
- Sesel! Sesel! -


- Sesel! Sesel! -
Aprì gli occhi, si specchiò nelle iridi castane di Dosnee.
- Ki manier? - le chiese Ile, preoccupato.
Sesel sbattè le palpebre; la testa le girava, come avvolta in una nebbia che andava via via diradandosi; sentiva le guance calde, bagnate, intravedeva delle minuscole gocce sulle ciglia; una spalla era stretta nella mano di Dosnee, chinato verso di lei.
Mosse appena le labbra, come per recuperarne il controllo. Poi sussurrò, riprendendo il contatto con la realtà: - Byen... -.
La mano di Ile le massaggiò la spalla, riuscendo a portar via l'agitazione che ancora la scuoteva.
- E' tutto finito, Sesel. - le disse, con un sorriso d'incoraggiamento: - E' tutto finito. Da tempo. -.
Séchelles annuì.
Lo sapeva. Era finito da quasi vent'anni, ma quelle scene continuavano ad insinuarsi nella sua mente sotto forma di incubi. Era tutto finito e tutto si era risolto nel migliore dei modi. Lo sapeva, ma si sentiva come se l'avessero ferita, talmente a fondo che ci sarebbero voluti ben più di vent'anni per permettere alla ferita di rimarginarsi. E, in ogni caso, sarebbe rimasta una cicatrice difficile da ignorare.
Scosse la testa, si portò una mano alla fronte. Con la coda dell'occhio, si accorse dello sguardo sconvolto del piccolo Chagos, seduto di fianco a lei.
Séchelles accennò ad un sorriso timido, sentendo le guance farsi più calde: - Va tutto bene, Ocie... - disse, sperando di essere convincente. A giudicare dal viso terreo del bambino, no.
E dire che doveva comportarsi da brava sorella maggiore...
Sbirciò il posto accanto ad Ile: esattamente come si aspettava, Eurée la guardava con occhi spalancati, quasi pietrificata. Sorrise anche a lei: - Dico sul serio. - insistette, portando le mani in grembo.
Anche loro avevano vissuto la stessa cosa ma, a differenza di lei, non si mettevano a piangere nel sonno; probabilmente, neppure avevano incubi del genere.
E sì che doveva essere lei la sorella maggiore...
In quelle ore, non si era dimostrata affatto come tale. Come al solito, era stato Dosnee a fare tutto: parlare, camminare in testa alla fila, rassicurare loro.
Eppure, non si sentiva inutile. Non era dispiaciuta neppure un po'. Ile e Rodrigues ci erano già passati, questa era la terza volta; per Chagos era la prima volta, sì, ma lui era stato con Francis molto di meno. E poi, in quegli anni, Francis era stato spesso in battaglia, erano successe tante cose, e Océan non l'aveva mai conosciuto davvero. Quindi, lei aveva tutto il diritto di appoggiarsi a Dosnee, se quest'ultimo le offriva una spalla. Aveva tutto il diritto di ritenersi più ferita di lui, di Eurée o di Océan.
Ovvio, non si sarebbe lamentata ogni tre secondi. Sarebbe rimasta in silenzio, possibilmente senza piangere, sarebbe stata educata e composta, avrebbe provato a fare la brava sorella maggiore e a prendersi cura di Eurée ed Océan, come Francis aveva detto a lei e a Dosnee.
Però, se avesse tentennato, se non fosse stata una sorella maggiore perfetta, non se ne sarebbe rattristata. I suoi fratelli e sua sorella l'avrebbero capita, lei aveva le sue motivazioni.

- Perché? - gridò.
Non le importava niente di essere maleducata, non le importava di fare brutta figura: scagliò un pugno contro il petto di Francis, sperando di fargli più male possibile. Sentì le mani di Dosnee serrarsi attorno ai suoi polsi, tirandola, facendola allontanare.
- Perché noi? Perché io? - urlò, tremando, per la rabbia e per la paura: - Non mi vuoi più bene? Sono stata cattiva? Mettimi in punizione, tutto quello che vuoi, ma non mandarmi via! -.
- Non dipende da me. - la voce di Francis le giunse alle orecchie a stento, le sembrava di essere diventata sorda: - Sai che non farei mai una cosa simile. -
- E invece la fai! - strillò, strattonando le braccia di Ile per liberarsi dalla sua presa: - Perché hai scelto noi? In cosa siamo inferiori agli altri? -
- Smettila di dire stupidaggini del genere, Séchelles. - Sesel ammutolì: di rado Francia usava quel tono così duro, soprattutto con lei. Forse aveva esagerato.
- Non sono stato io a scegliere. - parlò Francis, piano, il tono immutato: - Mi è stato imposto. Sono stati altri a scegliere voi, non io. Io non vorrei mai una cosa simile. -.
Il suo sguardo era freddo.
Era così. Non c'erano alternative. Qualsiasi cosa fosse successa, niente sarebbe stato in grado di cambiare la realtà dei fatti.
Doveva andarsene.
Lasciare la Francia. Lasciare Francia. E Monaco, e Bourbon -
Réunion, Ile Bonaparte o qualunque fosse il suo nome attuale -, e le sue sorelle, e i suoi fratelli. Doveva andarsene, con Ile, Rodrigues e Chagos, prendere una carrozza, una nave e andare al di là del mare.
Aveva attraversato il mare una volta, tra le braccia di Francis: lontano dalla sua casa, sì, ma per vedere cosa ci fosse oltre.
Lei amava la Francia. Per lei sarebbe bastata solo quella, l'avrebbe considerata "mondo", mai si sarebbe pentita di aver lasciato le sue isole per raggiungerla.
Non voleva attraversare di nuovo il mare. Non sapeva cosa ci fosse al di là, non c'era nessuno a sostenerla davvero, neppure Dosnee conosceva il luogo in cui li stavano mandando.
Non voleva.
Aveva paura.


Aveva provato di tutto.
L'ultima sera si era intrufolata nella camera di Francis - non le importava niente che fosse vietato, che fosse da maleducati non bussare, e tutto il resto -, si era infilata nel suo letto e l'aveva stretto per tutta la notte, rifiutandosi di staccarsi, piangendo talmente tanto da rovinargli la veste - non che le importasse - e da fare la più pessima figura della sua esistenza - cosa che, onestamente, le importava ancora meno. Se piangere l'avesse aiutata a rimanere, se, di fronte alle sue lacrime, Francis avesse insistito per scegliere una qualsiasi altra colonia, non le sarebbe importato niente.
Eppure, anche se era stato tutto inutile, non si era pentita di nulla.
Non sarebbe mai riuscita a salutare Francis con un sorriso.
Almeno, al momento della partenza, si era risparmiata le lacrime, visto che ne aveva versate in abbondanza per tutta la notte.
Non aveva dormito. Non avrebbe potuto, sapendo che avrebbe rivisto Francis chissà quando. Perché, sì, si sarebbero rivisti. Gliel'aveva detto lui. E, anche se l'aveva fatta piangere, anche se avrebbe voluto non fidarsi solo per fargli un dispetto, si fidò lo stesso, senza neppure pensarci un attimo.
Dato che non aveva più forze per reagire, non si era opposta.
Il viaggio da Parigi a Calais era stato lungo, anche troppo: se non altro, Sesel se l'era risparmiato quasi del tutto, dato che era crollata addormentata dopo pochi minuti dalla partenza. Non aveva avuto incubi.
Era in quella carrozza che si erano presentati. Quando si era riaddormentata di nuovo, spossata dalla traversata in mare.
Non le piaceva, quel mare. Era freddo.
E lei odiava il freddo.
Anche ciò che vedeva scorrere dal finestrino non le piaceva: sentiva un freddo pungente entrare nella carrozza, tutto sembrava grigio, grigio chiaro e grigio scuro, grigio un po' più chiaro e grigio un po' più scuro, grigio scuro sfumato di grigio chiaro e grigio chiaro sfumato di grigio scuro.
E lei odiava il grigio.
Sentiva freddo da quando aveva messo piede sulla nave, ma lì la sensazione si era accentuata. Non c'era neppure il calore del sole.
In realtà, sembrava quasi che il sole avesse deciso di abbandonare quel posto - forse neppure a lui piaceva il grigio: il cielo non era altro che una distesa biancastra, di un bianco sporco, senza raggi, solari o lunari che fossero.
In effetti, Sesel si chiedeva anche come facesse a dire che fosse giorno: tecnicamente, le strade non erano buie, si vedeva tutto alla perfezione. Ma del sole neppure l'ombra, una traccia, un accenno, un ricordo, niente; forse, lì, il sole era una leggenda.
E lei odiava i luoghi senza sole.
La sua vita, ciò che sapeva renderla felice, poteva essere racchiusa in tre cose: il caldo, i colori e il sole.
E lì mancavano tutti e tre, con una sinistra precisione millimetrica.
Odiava quel posto.
Voleva tornare indietro. In Francia. A Parigi.
Trasse un profondo respiro: avrebbe di gran lunga preferito rimanere in quella casa dall'atmosfera improvvisamente tanto tesa piuttosto che andare in una città del genere.
Perché, in fondo, una minuscola parte di sé, talmente piccola da passare inosservata o da essere soffocata senza problemi, era stata quasi felice di lasciare la casa di Parigi.
Era diventata... strana.
Tutti, dopo quello che era successo quasi vent'anni prima, erano diventati strani. Beh, era ovvio. Jacqueline aveva detto loro che sarebbe successo.
Tuttavia, anche lei era diventata strana. Era diventata più fredda, parlava di meno, rivolgeva a Francis occhiate gelide.
Cercò di capire quando fosse iniziato tutto: finché erano a Monaco città, non era successo nulla di strano.
A parte...

- E' ridicolo. - sentenziò Jacqueline.
Saint-Domingue piegò la testa di lato, con un sorriso talmente grande da illuminarle gli occhi: - E invece no, Jaquie!
Questo è il momento perfetto! -.
Sesel, le sue sorelle e i suoi fratelli guardavano le due donne in silenzio, spostando lo sguardo prima su una, poi sull'altra. Nessuno osava intervenire.
- Sai perfettamente come stanno le cose. - disse Jacquie, quasi cercasse di farla ragionare: - E' un suicidio. -
- E' il momento. - ripetè Saint-Domingue, decisa: - In fondo, lui approva queste cose, no? Ora più che mai! - strinse i pugni: - Ci riuscirò, Jacquie. -.
Mise del denaro in una piccola borsa legata alla cintura, andò alla porta e si rivolse a loro, piccole colonie: - Allora vado! Vi scriverò direttamente da casa mia, appena tornerò! - sorrise, trionfante: - Ricordatevi di rispondere a tutte le lettere della vostra Ayiti! -.


Non avevano ricevuto lettere da Haiti. Né l'avevano più vista. Era giunta loro qualche sporadica notizia, ma nessuno era voluto essere più preciso.
Però, non credeva che fosse iniziato tutto dalla partenza di Haiti.
Forse... era stato dal loro ritorno a Parigi?

La casa era stata ricostruita. Più grande. Molto più grande.
Sesel riuscì ad orientarvisi in breve tempo soltanto perché ne conosceva la struttura iniziale: chiunque vi fosse entrato per la prima volta, sicuramente, si sarebbe perso al primo cambio di direzione.
Anche l'arredamento era diverso: le sembrava ci fossero più colonne, più mobili, più sculture, fregi, foglie intagliate nel legno, fiori di marmo. Alcuni - molti - quadri erano stati tolti; paesaggi, canestri di frutta, dame dalle vesti preziose, antichi sovrani, la fanciulla in armatura sul suo cavallo, con la spada levata verso il cielo, erano scomparsi.
La casa precedente la estasiava, la faceva rimanere a bocca aperta tanto era maestosa; al suo ritorno, si sentiva come persa. Non era estasiata. C'era una sinistra freddezza in tutto quello. Quasi fossero mobilia e decorazioni costruite meccanicamente, senza metterci alcuna passione.
Ma l'arredamento era passato in secondo, terzo, quarto, millesimo piano. Qualcosa in grado di estasiarla, in quella casa, c'era ancora.
Francis sembrava in qualche modo essere diventato più alto, più splendente, più... avrebbe detto bello, ma la sua mente si era persa chissà dove prima di formulare quel pensiero.
Sarebbe rimasta a guardarlo anche per giorni, senza mai staccargli gli occhi di dosso. E, lei che poteva permetterselo, si faceva prendere in braccio alla minima occasione - per quanto dovesse fare a gara con praticamente tutte le sue sorelle, esclusa forse Rodrigues.
In quegli anni, era vissuta con una profonda angoscia. Sia per ciò che aveva visto e sentito, sia per ciò che sarebbe potuto succedere a Francis.
Nel ritrovarsi lì, al sicuro, di fronte ad un
impero tanto potente, ogni pensiero cupo era svanito come soffiato via da un forte vento.
La casa non era bella come la precedente, ma Francis sembrava "più" tutto. Poteva dirsi felice, davvero.
Se non fosse stato per gli sguardi di Jacqueline.
E di coloro che avevano messo piede nella loro casa.


Sì, forse era iniziato tutto lì.
Poco dopo essere tornati a Parigi, nella loro casa erano giunti degli "ospiti", così li aveva definiti Francis: Illiria, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Italia Veneziano.

Olanda era un uomo fatto e finito, altissimo e con le spalle larghe; Illiria e Lussemburgo erano due giovani alti all'incirca quanto Monaco, dai tratti delicati; Belgio era l'unica donna, dai capelli corti e mossi, sempre sorridente - con loro - e dall'aria simpatica; Italia Veneziano era un cugino di Francis e Jacqueline, un bambino dall'aria indifesa e innocente, rivelatosi incredibilmente ingenuo appena aperta bocca.
Illiria e Lussemburgo parlavano poco con loro, rivolgendo sorrisi un po' timidi ma buoni; Italia Veneziano, stranamente, aveva la mania delle pulizie. Era carino da osservare. Belgio si era rivelata giocosa e affettuosa, era bello stare con lei; nessuno, invece, osava parlare con Olanda, troppo intimidito dal suo aspetto imponente e dal suo sguardo serio.
Ma c'era una cosa che accomunava Illiria e i fratelli Olanda, Belgio e Lussemburgo: tutti e quattro, quando si rivolgevano a Francia, cambiavano tono ed espressione.
I loro sguardi si facevano affilati, i volti seri, la voce fredda e tagliente. Parlavano poco, quasi il necessario, solo se interpellati; sembravano rispondere solo per fare un favore a Francis, pareva quasi che ogni loro sillaba fosse intrisa di veleno.
Lo stesso valeva per Jacqueline.
Italia Veneziano sembrava l'unico "ospite" a rivolgersi a Francis in modo normale - anche se a voce più bassa del solito, con lo sguardo verso il pavimento, a volte scosso da un tremito. Non aveva mai voluto spiegare il perché si comportasse in quel modo.
Per il resto, il piccolo non aveva mai turbato nessuno, né le colonie né il padrone di casa, con i suoi comportamenti.
Soltanto una volta, pochissimi anni prima, era scoppiato in lacrime. All'improvviso, senza una spiegazione. L'unica cosa che era stato in grado di dire era che gli faceva male il cuore. Furono chiamati dei dottori, ma tutti assicurarono che Italia stava benissimo.
Cosa gli fosse preso quel giorno, nessuno lo seppe mai.


Sbattè le palpebre: sì, era iniziato tutto con l'arrivo degli "ospiti". O meglio, il loro arrivo aveva accentuato il comportamento strano di Jacqueline.

Sentiva le loro voci provenire da dentro la stanza chiusa.
Guardò Zephyrine, leggendo nei suoi occhi la sua stessa confusione. Posarono un orecchio al muro, vicino alla porta, per poter udire meglio.
- Io ti sono sempre stata vicina. - stava dicendo Monaco, la voce bassa e fredda come le era solita da qualche tempo: - Come tua cugina e sorella. Sono sempre stata al tuo fianco, sotto il tuo stesso tetto, ti ho sempre aiutato, e tu hai protetto la mia casa. E di questo te ne sono grata. - un pausa, un respiro profondo: - Ma forse ti sei così abituato alla mia presenza da dimenticare chi io sia. Io sono esattamente come te. Non sono una tua colonia, Francis, né mai lo sarò. Ti sono sempre stata vicina come tua pari e non accetterò mai di essere posta sullo stesso piano di una colonia. - la sua voce si era abbassata, un sibilo: - O di un paese a te sottomesso. -.
Silenzio.
Sesel si spostò, premette l'orecchio contro il muro ancora di più: per qualche strana ragione, si sentiva agitata.
- Usi parole che poco ti si addicono, Jacquie. - il tono di Francia non rispecchiava affatto quello di Monaco: era leggero, sembrava quasi divertito.
- Non è educato rivolgersi con questi toni al padrone di casa, sai? - una risata spensierata: - Né a chi fa sì che tu abbia una casa a cui tornare. -.
Séchelles trasalì. Il cuore aveva iniziato a battere più velocemente, spaventato.
La voce di Francis era cambiata di colpo. Non le piaceva il modo in cui aveva pronunciato la seconda frase. Aveva l'impressione che nascondesse un qualche altro significato.
- ... non oseresti. - la voce di Jacquie si era fatta soffocata.
- Mia cara Jacquie... - quel tono non le piaceva, affatto: - ... posso fare ciò che voglio con le cose che mi appartengono. -.
Silenzio.
Troppo pesante.
- ... cosa sei diventato? - tremava. Monaco tremava. Almeno la sua voce. Non si sarebbe stupita di vedere i suoi occhi arrossati per lo sforzo di non piangere: - ... come puoi dire una cosa del genere? A me? - sussurrò: - Che cosa ti hanno messo in testa? Cosa direbbe
lei di tutto questo? -.
"Lei?" ripeté Sesel, tra sé e sé, non capendo.
- ... Francis. - Jacqueline parlò di nuovo. Ma la sua voce era improvvisamente esitante. Spaventata.
- ... dov'è il
suo quadro? - domandò, piano.
Séchelles guardò Zephyrine, in una muta domanda. Lei scosse la testa. Con tutti i quadri che erano stati tolti, era difficile capire di chi parlassero. Di una delle belle dame? O forse della donna in armatura?
Il silenzio che seguì a quella domanda fu il più lungo di tutti. E ogni istante che passava lo faceva diventare ancora più insostenibile.
- ... ci sono cose... - Francis parlava a voce bassa. Nonostante la distanza, riuscì a sentire un tremito nel suo tono: - ... che appartengono al passato. -.
Un respiro mozzato.
Dei passi affrettati che si facevano sempre più vicini.
La porta si aprì di colpo, Sesel e Zephyrine riuscirono ad indietreggiare appena in tempo.
Jacqueline quasi fuggì dalla stanza, una mano premuta sulla bocca, gli occhi rossi come li aveva immaginati.
Quando Séchelles osò dare un'occhiata oltre la porta, vide Francis su una poltrona, il volto affondato in una mano.


Aveva avuto paura.
Non riusciva a capire, aveva paura di chiedere, delle risposte che sarebbero potute arrivare.
Francis non era cattivo. Questa era la sua unica certezza, qualsiasi cosa dicessero gli ospiti o Jacquie.
Sentiva quella tensione ogni volta che Francia tornava. Ma voleva illudersi che fosse solo una sua impressione. Che andasse tutto bene, che non ci fosse niente di sbagliato. Rimanere abbracciata a Francis e fargli i complimenti per tutte le sue vittorie - davvero tante, in quel periodo.
Avrebbe voluto continuare così. Sarebbe stata felice, in fondo.
Scosse la testa, togliendosi dalla mente il sollievo per non essere più in quella casa.
Forse stava andando incontro a qualcosa di ben peggiore, non poteva saperlo.
E poi, cosa sarebbe successo? Non aveva idea di cosa significasse cambiare madrepatria. Andava a vivere da un'altra parte, ma... com'erano le altre nazioni?
Lei conosceva solo i suoi fratelli, le sue sorelle, Monaco, Francia e gli ospiti.
Sentì di nuovo una brutta stretta all'altezza dello stomaco.
Era la prima volta che succedeva una cosa simile, a lei. Non sapeva cosa fare, cosa pensare.
Sgranò gli occhi: "... per me." si rese conto. L'aveva avuto sotto gli occhi - letteralmente - per tutto il tempo.
- Ile? - lo chiamò, guardandolo negli occhi: - Questa non è la prima volta che cambi madrepatria, vero? -.
Dosnee le rivolse un sorriso - forse sollevato nel vederla più tranquilla - e scosse la testa: - No, infatti. E' la terza volta. Questa è la mia attuale quarta madrepatria. - spiegò. Guardò Rodrigues, al suo fianco: - Vero, Eurée? -.
La bambina annuì.
- E... - fece Sesel, improvvisamente incuriosita: - ... com'erano... le altre madrepatrie? -.
Ile de France tornò a guardarla: - Portugal e Pays-Bas? -.
"Oh, giusto." si ricordò Séchelles: Paesi Bassi, Olanda, era stato una madrepatria di Ile de France.
Le fu spontaneo aggrottare la fronte: Dosnee e Olanda non si erano mai rivolti la parola - almeno, non li aveva mai visti parlare tra di loro. Inoltre, nessuno dei due le era parso cercare il dialogo con l'altro. Ricordava soltanto che Ile si era rivolto ad Olanda in due occasioni.
La prima era stata al suo arrivo. Aveva esibito uno dei suoi sorrisi luminosi e aveva detto: - Welkom, Nederland! -. L'unica cosa che non le tornava era stato il suo sguardo: avrebbe detto che vi brillasse una luce di soddisfazione. Ma non le dava una bella sensazione.
La seconda volta era stato durante un pranzo. Ricordava come Olanda guardasse il pollo nel piatto quasi con sufficienza, stuzzicandolo di tanto in tanto con la forchetta. Ile aveva preso la parola: - Walgvogel, nietwaar? -. Aveva sorriso, non aveva aggiunto altro. Lo sguardo di Olanda si era indurito. L'aria si era fatta più pesante. Sesel non osò mai chiedere cosa gli avesse detto.
- Beh... - Dosnee sorrise, sereno: - ... hanno sterminato la mia fauna, distrutto la mia identità e approfittato impunemente della mia casa. -.
Un blocco alla gola.
Si sentì ghiacciare il sangue nelle vene, gli occhi iniziarono a farle male, tanto li aveva sgranati: - ... cosa? - riuscì solo a farfugliare.
- Quello che ho detto! - esclamò Ile, con una risatina: - Portugal ha iniziato, Pays-Bas ha completato l'opera. Non era molto bello, in realtà. - scosse la testa con fare paziente, come se stesse parlando di due bambini dispettosi: - Portavano i loro animali e mangiavano le uova dei miei uccelli. Oppure, erano proprio loro a dare la caccia ai miei animali. So che hanno anche scritto dei brevi trattati sul modo migliore per ucciderli. - alzò gli occhi al cielo, il tono divertito: - Ma, purtroppo, ora sono inutili. Non ci sono più! -.
Si sentiva soffocare. "Cosa sta dicendo...?".
- Però le loro carni avevano un saporaccio, a sentir loro. - proseguì Dosnee, scuotendo di nuovo la testa: - Ma c'è da dire che sono stati gentili ed educati. Me le hanno offerte! -.
Si portò una mano alla bocca, sconvolta. "E' orribile...".
- Sono scomparsi tanti animali. - sospirò Ile, gettando un'occhiata fuori dal finestrino: - Tipo i dodo. Erano carini, i dodo. -. Tornò a guardarla, sulle labbra un enorme sorriso: - Erano grandi quasi quanto me. Grandi e grossi, ciccioni. Con tante piume, soprattutto sulla coda, sembrava un batuffolo! E avevano anche un becco enorme. Così. - mise le mani ad una ventina di centimetri di distanza l'una dall'altra, a mimarle una grandezza: - E facevano un verso carino! Era tipo "Do do! Do do!". - rise, come se avesse sentito una battuta divertente.
Séchelles inorridì: non sapeva cosa la stesse spaventando di più, se ciò che Dosnee le stava raccontando o come.
- Quindi Portugal li ha chiamati "dodo"! - riprese Ile: - Adatto, sai? Nella sua lingua, "doido" vuol dire "stupido". Ed erano davvero stupidi! - inclinò la testa di lato: - Andavano incontro agli stranieri, non scappavano ed erano talmente lenti da farsi catturare facilmente. Proprio come me! -. Il suo sorriso sembrava essere irreversibile: - Sai, è stato grazie a Portugal e Pays-Bas che ho imparato a non fidarmi di nessuno. Io li ho accolti in casa... o meglio, loro sono arrivati nella mia casa e hanno fatto i loro comodi. - si corresse: - L'hanno fatto anche con Rodrigues. Vero, Eurée? -.
La bambina annuì, il volto cupo.
- Però la casa di Rodrigues è piccola, quindi hanno fatto presto. - alzò le spalle: - A casa mia si sono divertiti di più. Io di meno. Non era carino trovare ovunque uova rotte e animali che erano in vita fino a poco prima. -.
Sesel rabbrividì. Fu tentata dal fermarlo.
- Prima c'erano tanti animali. - sospirò Dosnee, puntando il gomito sul bordo del finestrino e appoggiando il volto su una mano: - Poi non c'erano più. Magia! - ridacchiò, muovendo le dita dell'altra mano: - C'è da dire che Portugal e Pays-Bas hanno avuto un ottimo insegnante. Fratello per l'uno, madrepatria per l'altro. Sono sicuro che tante nazioni dell'America del centro e del sud possono confermare l'abilità di Espagne! -.
- Capisco... - intervenne Séchelles, sperando di fermarlo. Aveva sentito abbastanza. Aveva rimpianto di aver fatto una domanda simile.
Tuttavia, si rese conto solo in quel momento di sapere davvero poco di Dosnee. Non avrebbe mai immaginato che avesse un passato così doloroso.
- Ma, in fondo, hanno fatto una cosa giusta. - disse Ile: - Come ho detto prima, è solo grazie a loro se ora non mi fido di nessuno. Se non avessero fatto ciò che hanno fatto, probabilmente sarei ancora un marmocchio ingenuo che va dietro a chiunque si mostri vagamente sicuro di una sua idea. - sorrise: - Ho imparato che la cosa migliore da fare è assecondare. Ma rimanere fermi nelle proprie idee. E pensare soltanto a se stessi, senza curarsi o fidarsi di nessuno. -. Il suo sorriso mutò. E non le piacque.
- Vero, Eurée? - domandò alla bambina. Quest'ultima annuì, seria.
- Ma tu ti fidavi di Francis! - si morse la lingua all'istante. Era stato l'istinto a farla parlare, non avrebbe mai voluto dire una cosa del genere. Perché temeva la risposta.
Ile tornò composto, la testa appena inclinata, il sorriso pacato e inquietante, gli occhi illuminati di una luce sinistra: - Sicura di voler sapere la risposta, Sesel? -.
Scosse la testa.
Si ritrovò a ringraziarlo mentalmente per averle dato l'occasione di rifiutare.
Non osò, né mai avrebbe osato, chiedergli se si fidasse di lei.
Spostò lo sguardo su Chagos, a disagio. Il bambino non aveva emesso alcun suono, era rimasto uno spettatore silenzioso. Gli prese una mano, cercando di convincersi che fosse per confortare lui, più che lei.
Le nazioni non erano tutte buone come Francis. Portogallo e Olanda avevano fatto soffrire Dosnee in un modo che non avrebbe mai creduto possibile. Non accusò suo fratello: aveva vissuto esperienze troppo orribili perché potesse dare la sua fiducia a qualcuno che non fosse Rodrigues. Poteva capirlo.
E c'era anche quello Spagna, crudele, a dire di Ile; le era parso di sentire quel nome da Francis e, a volte, anche in accezione positiva. Forse Dosnee si era sbagliato, forse gli erano giunte dicerie false. Considerando il modo in cui aveva capito vedeva gli altri, poi, non era così strano che avesse dato maggior peso alle voci negative.
Deglutì, inspirò a fondo. Troppe "madrepatrie" che facevano soffrire. Non sapeva come fosse lui.
Aveva un vago ricordo di ciò che Francis stesso disse a proposito, qualcosa di positivo. Era l'unica cosa che riusciva a mantenerla lucida.
- Siamo arrivati. -.
Una voce la distolse dai suoi pensieri: l'uomo che li aveva accompagnati fin lì, un ambasciatore o qualcosa del genere, era sceso dal posto accanto al conducente, aveva parlato ed era andato a posizionarsi all'inizio di un lungo viale visibile dal finestrino. La porta della carrozza fu aperta - Sesel neppure si era accorta si fosse fermata - e loro quattro poterono scendere.
Fuori dalla carrozza, il freddo era ancora più intenso.
Si strinse nel mantello, stupendosi in prima persona di non star battendo i denti. Persino i profumi che sentiva sembravano freddi; ogni volta che inspirava, si sentiva ghiacciare i polmoni, affrettandosi ad espirare. Non che quel posto profumasse. Erano odori indistinti e non disgustosi, il che poteva portarli ad essere definiti "profumi accennati". L'unico vero profumo che riuscì a riconoscere fu quello dell'erba: impossibile non sentirlo, dato che l'uomo li stava accompagnando lungo un viale - grigio, ovviamente - immerso nel verde. Verde. Un prato il cui colore poteva essere associato al verde. Un verde smorto, come se qualcuno avesse dipinto degli steli grigi nel disperato tentativo di dare un briciolo di colore. Piatto, molto poco vitale e forse prossimo allo sparire alla prima glaciazione. A giudicare dal tempo, non doveva mancare molto, tra l'altro.
Strinse la mano di Chagos nella destra, quella di Ile nella sinistra; Rodrigues lo teneva per l'altra mano. Avanzarono in riga, più che in fila, seguendo l'ambasciatore e un altro uomo, notando quelli che probabilmente erano servitori intenti a trasportare i loro bagagli a destinazione: una casa grigia. Che forse voleva essere marrone, ma Sesel la vedeva grigia. Un grosso rettangolo di un marrone fallimentare. Il tetto, però, era grigio davvero. I bordi delle finestre e della porta e le colonnine del piccolo portico avevano la pretesa di essere bianche; il risultato era un bianco sporco simile al grigio chiaro.
Non le piacque. Voleva tornare a Parigi, in una casa meno bella della precedente ma inifinitamente migliore di quella.
La porta era aperta e i bambini poterono entrare subito.
L'unica cosa positiva fu che, almeno, dentro non faceva freddo. Per il resto, non c'era di che gioire.
Sulla destra c'erano delle scale che portavano in alto. Grigie. Con un corrimano di legno. Scuro. Di un marrone talmente scuro da sembrare nero.
Sulla sinistra si aprivano diversi corridoi, si intravedevano svariate porte, c'era persino una finestra. Il pavimento e il soffitto erano bianchi. Ossia grigio chiaro. E la finestra non si sa che luce avrebbe dovuto far entrare, visto che il sole era un'entità mitologica. Alzando lo sguardo, riusciva a vedere i piani superiori, poteva vedere i parapetti composti di tanti cilindri dalla base tondeggiante. Sempre di quel marrone che sembrava nero.
Rivolse uno sguardo affranto a Dosnee, notando che aveva inarcato le sopracciglia.
Di fronte a cose del genere, persino i loro abiti di broccato impreziositi di fili d'oro e d'argento sembravano perdere lucentezza. Quasi temette di abbassare lo sguardo e ritrovare il suo vestito bianco e argento improvvisamente bianco sporco e color sasso.
Lanciò uno sguardo all'ambasciatore: stava parlando con un signore impettito vestito di nero e grigio scuro - ovviamente -, l'altro uomo che era con loro si era scoperto essere un interprete.
Dopo qualche minuto, il signore firmò un foglio che gli veniva porto; l'ambasciatore lo riprese, per poi inginocchiarsi davanti alle piccole colonie.
- Ogni cosa è sistemata. - annunciò: - Vi ricordo che il signor France si aspetta la massima educazione da parte vostra, finché rimarrete qui. -.
Annuirono.
- Seguite il maggiordomo. - aggiunse, facendo un cenno al signore impettito: - Sarà lui a condurvi. -.
Annuirono di nuovo.
- Arrivederci, allora. - salutò, visibilmente desideroso di andarsene. Sesel avrebbe voluto seguirlo. Ma si ritrovò ad annuire ancora una volta e a ricambiare il saluto, suo e dell'interprete.
Quando i due uomini furono nei pressi della carrozza, la porta fu chiusa.
Séchelles si sentì come intrappolata. Strinse più forte le mani dei suoi fratelli.
- Come with me. -
Il maggiordomo parlò, ma Sesel non capì una parola. Guardò Dosnee, aveva un sopracciglio inarcato. Era nella sua stessa situazione.
Tuttavia, il signor ambasciatore aveva detto loro di seguirlo e così avrebbero fatto. Se avesse voluto farsi capire, che parlasse loro in una lingua comprensibile.
Fu così che i quattro bambini seguirono l'uomo impettito lungo le scale, salendo di chissà quanti piani; Sesel non se ne curò, troppo presa a notare quanto fosse alto il parapetto: per toccarne la parte superiore, avrebbe dovuto distendere un braccio e alzarsi sulle punte.
Dopo un tempo imprecisato, si fermarono in un corridoio, davanti ad una porta di legno scuro.
Il maggiordomo bussò. Dovette ricevere una risposta, perché entrò; chinò la testa a qualcuno sulla loro destra e annunciò: - Mister Ile de France, Miss Séchelles, Mister Chagos and Miss Rodrigues. -.
Sesel sentì i brividi lungo le braccia: non aveva mai sentito i loro nomi pronunciati in una maniera simile. Non aveva azzeccato un accento che fosse uno, aveva detto lettere a caso - la "s" finale del suo nome era sempre stata muta, lui l'aveva detta quasi con enfasi. E Ile si era ritrovato una "i" attaccata al "de" del suo nome. Il nome di Chagos era riuscita a capirlo solo per intuizione, viste quella "c" al posto di "sc" e quell'"ei" apparso dal nulla. - e sembrava aver litigato con la "r" - Rodrigues non poteva salvarsi, ovviamente.
Si sentì tirare da Dosnee: erano stati annunciati, dovevano entrare nella stanza.
Il maggiordomo uscì, richiudendo la porta alle loro spalle.
Di nuovo, Sesel si sentì quasi prigioniera. Non era una bella sensazione.
Se non altro, almeno, quell'ambiente poteva dirsi bianco. Bianco quasi bianco vero. C'erano ben due finestre - sempre di utilità ignota - e il divano su cui andarono a sedersi era di un gradevole color panna. Dalle gambe e dai contorni di braccioli e schienale marroni. Marrone scuro. Sarebbe stato un ambiente troppo chiaro, altrimenti. Anche i bordi delle finestre erano marrone scuro.
L'ampio tavolo oltre un secondo divano color panna, posizionato esattamente davanti a quello su cui si erano seduti, speculare, era invece di uno strano colore rossiccio. O forse era un marrone diverso. Marrone rossiccio.
Quella in cui li avevano fatti sbarcare era una terra dai colori confusi. Pochi e confusi.
Dietro il tavolo, c'erano cinque persone: quattro uomini e una donna.
I cinque si erano alzati non appena loro erano entrati, per poi aggirare il tavolo e andare a sedersi sul divano speculare al loro.
Sesel sbattè più volte le palpebre: tre dei quattro uomini erano vestiti di nero e grigio, sì, ma la donna e l'altro uomo erano abbigliati di verde; non un verde smorto, quello era il verde delle fronde degli alberi, un colore vivo.
Le loro teste sembravano la tavolozza di un pittore: i due in verde, alla loro destra, e il più alto degli uomini, alla loro estrema sinistra, esibivano una chioma rossa, quasi con riflessi arancioni. Aveva visto delle parrucche, delle fanciulle dai boccoli di un castano che ricordava il rosso, ma mai un rosso così acceso e vero.
La donna, poi, aveva una treccia lunghissima, tanto che il fiocco verde che le legava i capelli era all'altezza della vita; probabilmente, la sua chioma, sciolta, sarebbe stata bellissima, come un cielo al tramonto.
L'uomo a destra del più alto, invece, era bruno, un marrone simile a quello della sua pelle, forse più chiaro.
I capelli dell'uomo al centro, infine, erano biondi. Un biondo più intenso di quello di Francis, dovette ammettere Sesel.
Aveva dato loro uno sguardo approssimativo, quando proprio il giovane dai capelli biondi si schiarì la voce e parlò, catturando la sua attenzione: - Salve. -.
La sua voce aveva un tono conciliante: - Spero che il viaggio non sia stato troppo faticoso. -.
Nessuno rispose.
Lui accennò ad un sorriso - imbarazzato? - e proseguì: - Noi... - con un gesto della mano, indicò se stesso e i quattro a lui vicini: - ... siamo lo United Kingdom. - presentò: - E vi diamo il benvenuto a London. -.
Giusto. Quelle cinque persone erano nazioni.
Avevano parlato loro nella lingua delle nazioni e, a quella distanza ravvicinata, poteva sentire quella sensazione particolare che la coglieva in presenza dei suoi simili.
Erano davvero vicini, poteva vederli meglio, con più attenzione.
Ad esempio, notò come l'uomo più a sinistra fosse quello fisicamente più grande di tutti: aveva già notato come fosse il più alto, ma anche la sua stazza, le sue spalle, erano più ampie di quelle degli altri uomini; aveva dei tratti molto duri, incredibilmente in contrasto con quelli morbidi del ragazzo al suo fianco, che a stento doveva arrivargli al mento.
I due in verde la lasciarono perplessa: non riuscì a capire se fosse l'uomo ad avere tratti effeminati o la donna ad avere tratti mascolini. Presi singolarmente, avrebbe senz'altro pensato così; insieme, risultavano paradossalmente identici, impossibile capire se fossero maschi o femmine, se non dai vestiti.
L'uomo al centro non sembrava avere niente di speciale: non era né il più alto né il più basso, né il più robusto né il più esile, una via di mezzo tra tutti e cinque.
Ma gli occhi.
Tutti e cinque i componenti dello United Kingdom avevano gli occhi verdi, belli, sì, ma erano di un verde quasi "normale", un verde molto simile a quello che aveva visto anche nelle iridi di alcuni suoi fratelli e sorelle; quelli del ragazzo biondo no.
Aveva sentito spesso l'espressione "occhi come smeraldi"; l'aveva sempre trovata una definizione poetica, che ben rendeva l'idea di occhi di un verde intenso, brillante. Ma era una descrizione un po' esagerata, nessuno aveva davvero gli occhi del verde degli smeraldi - ne aveva visti, di smeraldi, ad adornare gli abiti di alcune dame e persino di alcuni signori, quindi aveva potuto fare spesso dei confronti.
Quelli lo erano. Sembravano avere le stesse sfaccettature degli smeraldi, un verde di tantissime tonalità, più scure, più chiare. Anzi, al confronto, alcuni smeraldi che aveva visto negli anelli o nelle collane sembravano soltanto volgari imitazioni malriuscite, opache, grezze.
Per un istante, pensò che fossero occhi finti. O frutto di qualche magia. O che fossero davvero smeraldi, i più preziosi che potessero esistere. Era come se Madre Natura avesse avuto a disposizione dieci smeraldi meravigliosi, al di sopra di tutti gli altri, e li avesse donati allo United Kingdom per farne i loro occhi; soltanto che otto di quegli smeraldi erano come una "prova", particolari, ma inferiori a quei due.
Sesel lo pensò, tutto questo. Rimase sinceramente incantata dagli occhi del giovane dai capelli biondi, tanto da fissarlo in maniera poco educata, con le labbra schiuse per lo stupore.
Lo pensò, ma in un secondo momento.
Perché la prima cosa che aveva catturato la sua attenzione, come una calamita a cui era impossibile sottrarsi, non era quella coppia di smeraldi, ma ciò che si trovava sopra.
Sopracciglia.
Enormi.
Dovevano essere alte almeno tre dita, spaventosamente folte, a righe. Erano a righe. Erano sopracciglia a righe. Di tre dita. Una folta strisciolina, poi una breve interruzione, un'altra folta strisciolina, poi un'altra interruzione. Per tre dita.
Erano ovunque. Su tutti e cinque i volti.
La cosa più disturbante stava nel fatto che quelle... cose fossero nere. O di un qualsiasi colore molto, molto, molto scuro, tanto da risultare nero.
Risaltavano in maniera spaventosa su quelle pelli bianche. Sul ragazzo bruno di meno, dato che i ciuffi di capelli più o meno scuri riuscivano a farle passare quasi inosservate; su quelle tre chiome rosse, non erano difficili da individuare ma, ad un'occhiata di sfuggita, forse sarebbero potute non essere notate.
Tra quei capelli biondi risaltavano in un modo inquietante. Tra la pelle chiara e i capelli chiari, la prima cosa visibile erano proprio quelle cose, in maniera a dir poco nitida e piuttosto disturbante.
Se la loro funzione era fungere da guardiane e custodi di quegli smeraldi tanto belli, riuscivano benissimo nel loro intento. Ma veramente bene. Nessuno avrebbe osato avvicinarsi a quegli occhi tanto magnifici, con due foreste nere di quelle dimensioni pronte ad attaccare.
Come se quelle cose non bastassero, i capelli biondi del ragazzo sembravano una consistente manciata di fieno sbattuta sulla sua testa. Una parte di Sesel avrebbe voluto toccarli per scoprire se ne avessero anche la consistenza, l'altra metà era terrorizzata per lo stesso motivo.
Quei capelli non avevano un perché, un senso, una qualsiasi cosa, esattamente come quelli degli altri tre uomini. Séchelles comprese che era un bene che la donna li portasse legati: sì, sarebbero stati belli, per il loro colore, ma sarebbe anche stata una cascata di capelli spezzati e sfribrati, magari folti non per natura ma per un'illusione ottica data dalle troppe doppie punte. Davvero, avrebbe fatto meglio a scioglierli solo nella sua camera.
"Oltre al sole, anche i barbieri devono essere una leggenda, qui..." si rese conto Sesel, con un moto di compassione: forse non avevano i mezzi per prendersi cura dei propri capelli, dunque non poteva accusarli. Tuttavia, con orrore, si rese conto che, se una cosa simile fosse stata vera, avrebbe dovuto curarsi dei suoi capelli da sola, con ancor più attenzione e con molti meno mezzi a disposizione.
Decisamente, odiava quel posto.
Si voltò verso Dosnee, sperando che dicesse qualcosa: lo trovò con gli occhi sgranati, la fronte aggrottata, lo sguardo fisso su... era ovvio.
Gettò una rapida occhiata anche ai più piccoli: Océan aveva la stessa espressione di suo fratello, Rodrigues altrettanto, se non fosse che, avendo già di suo l'abitudine di spalancare gli occhi ad ogni minima cosa, in quel momento sembrava le stessero per uscire dalle orbite.
L'uomo dai capelli biondi si schiarì la voce; se prima era un dubbio, ora era palese che fosse un po' a disagio. Forse avrebbero dovuto dire qualcosa. Ma, almeno lei, non riusciva a parlare. Quelle cose avevano occupato tutto lo spazio disponibile nella sua mente.
- Io sono England. - si presentò il ragazzo, riuscendo a riportarla un minimo alla realtà: - Loro sono Scotland... - l'uomo grande dai capelli rossi fece un cenno con il capo: - ... Wales... - il ragazzo bruno sorrise: - ... e Ireland. - concluse England, accennando ai due in verde: - Northern... - il giovane schiuse le labbra in un enorme sorriso: - ... e Southern. - la ragazza lo imitò.
Séchelles riuscì a trovare la forza di chinare appena la testa, un cenno di saluto, notando, di sfuggita, che Dosnee, Eurée e Océan avevano fatto altrettanto.
- Noi conosciamo i vostri nomi. - riprese England, in apparenza più tranquillo: - Però non sappiamo chi esattamente è chi. -. Accennò ad un sorriso, lasciando intuire di essere ancora un po' imbarazzato - dal loro mutismo, forse?
Sesel tornò a guardare Ile, indecisa sul da farsi: sembrava un tacito invito a presentarsi, ma qualcosa la frenava.
E, no, non era la timidezza. Assolutamente.
Dopo qualche secondo, Dosnee parlò: - Mo apel Ile de France. -.
Bastarono quelle poche parole per spazzare via quel freno - che non era timidezza, ovviamente: - Mo apel Séchelles. -.
Udì, subito dopo, la vocina di Eurée: - Mo appélé Rodrigues. -.
Océan concluse: - Mo apel Archipel des Chagos. -.
- Ah... - England inarcò le cose - chissà quanto sforzo fisico ci voleva. Magari doveva pure prepararsi con qualche minuto d'anticipo. - e portò le mani avanti: - Ehm, potreste parlare nella lingua delle nazioni? - un sorriso esitante: - Non capiamo molto bene il francese. -.
Scotland serrò le labbra ed espirò forte, come se stesse trattenendo una risata.
Northern e Southern, invece, non si erano fatti problemi: - Oh, no, we don't understand french language! - disse il ragazzo, in un sussurro divertito.
- Us? Of course not! - gli fece eco la ragazza: - Expecially you! -.
Qualunque cosa avessero detto, ad England non era piaciuto, a giudicare dal modo in cui li fulminò con lo sguardo.
Quegli occhi meravigliosi, sempre accompagnati dalle cose, tornarono a loro, più tranquilli: - Anche alcuni dei vostri nomi sono difficili da pronunciare, per noi. - disse, con tono di scuse.
"Sì, di questo me n'ero accorta." pensò Sesel.
- Magari non Rodrigues e Chagos... -
"Cosa?" si ritrovò a sgranare di nuovo gli occhi: "Ma se sono i nomi che pronunciano peggio! E lui li pronuncia anche peggio del signore di prima!".
- ... ecco, Ile de France... - England si rivolse a Dosnee, di nuovo con un sorriso incerto: - ... il tuo nome, ad esempio, per noi è un po' difficile da dire.
Sappiamo che ne avevi un altro prima di chiamarti così. O no? -.
Ile piegò appena la testa di lato, l'espressione incuriosita. Sesel lo vide sbattere le palpebre un paio di volte prima di rispondere: - Voulez-vous dire... - scosse la testa, correggendosi: - Volete dire "Mauritius"? -.
Fu la volta di Séchelles di stupirsi: "Anche Ile aveva un altro nome?". Sapeva davvero pochissime cose di lui, nonostante lo conoscesse da oltre cinquant'anni. "... beh, lui non mi ha parlato troppo del suo passato." riflettè: "... e credo sia meglio così.".
England annuì alle parole di Dosnee: - "Mauritius" può andare bene, sì. -.
Stavolta il suo sguardo di smeraldo si spostò su Sesel: - Anche il tuo nome... -
Bastò quello per farle ridurre gli occhi a fessure: lei non era Bourdonnais. Non era più Almirante. Non avrebbe mai accettato di riprendere quei nomi che non le appartenevano più. Strinse i pugni, un stretta al cuore nel ricordare come il nome che portava gliel'aveva dato Francis. Un motivo in più per rifiutarsi di rispondere ad un altro.
England tacque, tirandosi appena indietro, forse involontariamente.
- Il tuo nome va bene così... - sorrise, imbarazzato: - ... soltanto, potremmo renderlo più facile da pronunciare per noi, no? -.
Sesel non rispose. Sentiva il cuore più leggero, ma non riusciva a rilassare le spalle e le mani, le nocche sbiancate.
- Ad esempio, che ne dici di "Seychelles"? -.
Quel nome la colpì in pieno, facendole perdere la tensione alle mani. "Non è brutto..." notò: "E' il mio, ma con una lettera in più.".
Lo ricordava. Un nuovo nome apre la strada per una nuova vita.
Aveva attraversato di nuovo il mare, era in una terra sconosciuta e chissà per quanto sarebbe dovuta rimanere. Non era più davvero "Séchelles". Però, forse, se anche avesse iniziato una nuova vita, non era necessario che lei cambiasse completamente.
Séchelles e Seychelles. Erano nomi simili, ma diversi. Forse anche lei sarebbe un po' cambiata, pur rimanendo se stessa. Simile, ma diversa.
- ... d'accordo. - annuì, infine.
Vide una luce di sollievo in quegli smeraldi. Se ne stupì: "Il signor England aveva paura che dicevo di no?".
- Bene! - esclamò il ragazzo dai capelli biondi, con un tono più allegro: - Mauritius, Seychelles, Rodrigues e Chagos! - riepilogò, guardandoli man mano che pronunciava i loro nomi: - Finché rimarrete qui, vi chiameremo in questo modo. -.
"... loro? Qui?" qualcosa non tornava: "Non ci devono portare da lui?".
Guardò Ile - Mauritius? -, in cerca d'aiuto: "Cosa sta succedendo?" fu la sua muta domanda.
Dosnee, a giudicare dalla faccia sorpresa, ne sapeva quanto lei. Fu lui, quindi, a porre la domanda: - Eskiz-mwa... - esordì, confuso: - ... credo ci sia un equivoco. -.
I cinque componenti dello United Kingdom assunsero la stessa espressione stupita.
- Prego? - domandò England.
- Ci è stato detto che saremmo andati presso Angleterre. - spiegò Dosnee: - Eppure non l'abbiamo visto. Potremmo incontrarlo? -
Séchelles intervenne per dargli manforte, rivolgendosi direttamente al ragazzo biondo: - Voi conoscete il signor Angleterre, signor England? -.
Silenzio.
Poi, come una sola persona, Scotland, Wales, Northern e Southern scoppiarono a ridere, risate così forti che sembrarono far tremare i vetri delle finestre, talmente improvvise e inaspettate da far trasalire loro.
England era impietrito. Fronte aggrottata, cose inarcate, occhi sgranati e labbra schiuse, sembrava essersi congelato.
- It's wonderful... - fece Scotland, riprendendo fiato. La sua voce era un po' roca.
- Come on, it's just a little mistake... - disse Wales, cercando disperatamente di ricomporsi o, almeno, di non ridere in modo troppo sguaiato.
- Stop laughing! Everyone! - England parve essersi ripreso, il volto di colpo imporporato, il tono furioso.
- Now we have to explain it to them. - Northern recuperò fiato, tornando più o meno composto.
- Artie can do it! - disse subito Scotland.
- "I can" what? - sibilò England, rivolgendogli un'occhiata decisamente poco carina.
- Yes! - sorrise Wales, senza neanche far caso all'espressione dell'altro: - You speak french very well! -
- Absolutely. - non sapeva cosa si stessero dicendo, ma il ragazzo dai capelli biondi non stava gradendo. England tornò a rivolgersi a Scotland: - Why don't you do it? - domandò, calcando sullo "you": - I thought you knew very well french language. -. Nel dirlo, aveva curvato le labbra in uno strano sorriso, più simile ad un ghigno soddisfatto, in realtà.
Scotland rispose con un sorriso identico: - Yes, Artie, I can speak french without problems. Just... - il suo tono si fece dispiaciuto, del tutto in contrasto con la sua espressione ironica: - ... my accent is awful. Really. And you don't want us to make a bad impression with these children, right? -.
Il sorriso di England si era fatto tirato, gli occhi lasciavano chiaramente intendere il suo desiderio di prendere la prima cosa - non sopracciglia - disponibile e fracassarla con quanta più violenza possibile sulla testa rossa di Scotland. Per un attimo, Sesel temette gli lanciasse contro Wales.
- Ah, Artie is so cutie when speaks french! - sospirò Northern, l'aria intenerita.
- So lovely! - fece Southern, il viso sognante.
England guardò i due con un sorriso di colpo tranquillo, sereno, pacato e pacifico: - Die. -.
Trasse un profondo respiro, come se stesse cercando di sentire un qualche profumo, e disse: - I hate you with all my heart. -. Poi si alzò, tornando al tavolo alle loro spalle.
- Where are you going? - domandarono i quattro, in perfetta sincronia, una nota stupita nelle loro voci.
England non rispose, impegnato ad armeggiare con dei fogli sul tavolo. Dopo qualche istante, fu di ritorno, in mano quella che si rivelò essere una cartina geografica.
Non si sedette sul divano: andò a mettersi in ginocchio davanti a loro, la cartina davanti.
Sesel si avvicinò al foglio, sentendo Dosnee, Océan e presumibilmente anche Eurée fare lo stesso: una cartina dell'Inghilterra. Aveva già avuto modo di vederla, la conosceva.
- Il Royaume-Uni. - pigolò Chagos, nel vedere la cartina.
- United Kingdom. - disse England, tracciando con un dito un cerchio immaginario attorno alle due isole rappresentate. Poi indicò l'isola a sinistra, più piccola.
- Irlande. - rispose Sesel. Era con quel nome che la conosceva.
- Ireland. - la corresse England: - Northern... - indicò la parte in alto: - ... e Southern. - si spostò in basso. Portò poi il dito sull'estremità superiore dell'isola più grande, a destra.
- Écosse. - parlò Dosnee, dubbioso.
- Scotland. - lo contraddì l'altro, scendendo fino ad una piccola protuberanza sulla sinistra.
- Galles. - fece Rodrigues.
- Wales. - disse il ragazzo. Infine, indicò quella terra che Sesel aveva già conosciuto su carta.
- Angleterre. - si lasciò sfuggire. Guardò il giovane negli occhi, un sospetto improvviso.
- England. -.
Si sentì come se fosse finita sotto una cascata di acqua fredda. Eppure, al tempo stesso, le veniva da ridere. Sbattè le palpebre, non riuscì a trattenersi oltre e portò una mano davanti alla bocca, cercando di non apparire maleducata.
Non sapeva neppure lei perché, ma la cosa le sembrava assurda, assurda in modo divertente, però.
- Es-tu monsieur Angleterre? - non se lo immaginava così. In realtà, non si era soffermata troppo a pensare come potesse essere "monsieur Angleterre". Di certo, non si aspettava un giovane dagli occhi di smeraldo e...
... non si aspettava England, ecco.
Poteva dirsi piacevolmente sorpresa. Piacevolmente, perché England, nonostante tutto, non le aveva dato una brutta sensazione. Soprattutto quando si era avvicinato, aveva sentito una strana tranquillità, rilassante, in un certo modo.
Inspirò e si bloccò.
Mare.
Sentiva un odore salmastro, leggerissimo, a stento percettibile. Non era il profumo del mare freddo che aveva attraversato, non era il profumo di uno specchio d'acqua costretto tra la terra. Quello era il profumo del suo mare, il mare senza confini, che si fondeva con il cielo sulla linea dell'orizzonte, libero e immenso.
Non sentiva quel profumo da anni, metà secolo. In Francia non l'aveva più sentito. "E ora lo sento qui?".
Quando England si rialzò - doveva averle risposto, ma non aveva sentito -, ebbe un tuffo al cuore: era il profumo di England.
Non era un profumo intenso, come quello di Francis, che dava l'idea di essere caduti di faccia su un immenso mazzo di almeno duecento rose; era un profumo discreto, come se non volesse farsi sentire.
"Il signor Angleterre ha il profumo della mia casa." si rese conto, sentendo le guance farsi più calde.
In quella città non c'erano colori, non c'erano profumi, non c'era calore, non c'era niente. Non riusciva a credere di aver ritrovato, in un posto che aveva odiato fin da subito, qualcosa che non era stata in grado di ritrovare in Francia.
Forse l'Inghilterra non era un posto così brutto.
Per quanto non ci fossero barbieri.
- Bene. - England era tornato al divano davanti al loro, ma non si era seduto: - I vostri bagagli dovrebbero essere stati portati nelle vostre stanze. Wales e Southern vi accompagneranno. -.
Il giovane dai capelli bruni e la donna si alzarono, avvicinandosi a loro. Senza pensarci, Sesel scivolò giù dal divano, imitando ciò che Dosnee aveva fatto un secondo prima, seguita dai più piccoli.
Southern si chinò appena verso di lei, tendendo una mano verso Rodrigues: - Seguitemi, prego. -. Sorrideva, con fare materno, la voce pacata e gentile. Non somigliava neppure a quella quasi acuta che aveva sentito fino ad un attimo prima.
Dopo un istante di esitazione, Sesel lasciò la mano di Dosnee, ritrovandosi al fianco la minuscola presenza di Eurée. Sapeva quanto fosse scontato che l'ala maschile e l'ala femminile fossero separate, ma non voleva dividersi da suo fratello maggiore. Le sembrava troppo presto.
- Buon riposo. - disse England, alla loro volta.
Sesel fece un leggero inchino, imitata da Rodrigues: - Grazie, monsieur. -.
"Ah, abbiamo di nuovo parlato in francese." alzò le spalle: "Beh, non è una cosa così grave.".
Dopo dei piccoli inchini anche a Scotland e Northern e dopo aver salutato temporaneamente "Mauritius" e Chagos, le due bambine seguirono Southern prima per le scale, poi lungo un corridoio a sinistra. La manina di Eurée nella sua, Sesel continuava a guardarsi intorno, nelle orecchie il solo suono dei loro passi: neppure quella zona si risparmiava colori smorti e gradazioni di grigio. Chissà perché, se l'era aspettato.
Percorsero il tragitto in silenzio, fino a raggiungere un piccolo corridoio costellato di porte scure sulla destra, una porta visibile alla fine, davanti a loro.
Una delle porte era aperta e fu lì che Southern si fermò, facendo loro cenno di entrare.
- Questa è la vostra stanza. - spiegò. Quando le bambine entrarono, Sesel potè dirsi piacevolmente sorpresa: il pavimento, il soffitto e le pareti erano di una tonalità piuttosto vicina al bianco, c'era una finestra il quintuplo di lei sulla sinistra e due letti dalle coperte dorate sulla destra. Non erano giganteschi come quelli a Parigi, anzi, erano la metà, se non di più, ma sembravano utilizzabili. C'era persino una toeletta bordata di giallo scuro, forse un'imitazione dell'oro.
Questo la sorprese.
- Spero vi piaccia. - sorrise Southern, portando l'attenzione su di sé: - E, anche se non vi piacesse, vi sconsiglio di cercare di fuggire dalla finestra, perché siamo al terzo piano e scappare da lì non vi assicurerebbe un atterraggio piacevole. -
"Eh?"
- Non provate a scappare legando le tende o i vostri vestiti: abbiamo provato e si arriva al massimo a metà del secondo piano. Allo stesso modo, lasciarsi cadere dal secondo piano non vi assicurerebbe un atterraggio piacevole. - senza abbandonare il suo sorriso, indicò il corridoio con un gesto della mano: - In caso di pericolo, l'uscita è al piano terra. Non correte lungo le scale, tenetevi sulla parte del corrimano e procedete in fila. La notte è estremamente consigliabile rimanere nelle proprie stanze. Qualunque rumore, urlo o voce sentiate, non uscite e non fate domande fino al mattino successivo! -
"Eh?"
- La mia stanza è quella in fondo al corridoio. Per qualsiasi problema o dubbio, rivolgetevi pure a me! - giunse le mani in grembo e fece un leggero inchino: - Vi auguro una buona permanenza presso la nostra casa. La cena sarà servita alle sette in punto, al primo piano. Chiedete pure aiuto alla servitù. - il suo sorriso luminoso si accentuò: - Buon riposo! -.
Se ne andò, lasciando Sesel ed Eurée impietrite. Lentamente, si voltarono l'una verso l'altra, scambiandosi un identico sguardo scioccato.
Senza dire una parola, tornarono nel corridoio, lo sguardo nella direzione in cui si era diretta Southern, già scomparsa dalla visuale.
- ... ma che diamine...? - fu l'unica cosa che riuscì a dire Sesel, aggrottando la fronte.
- Questi sono i più strani che mi sono capitati. - sentenziò Eurée. Seychelles tornò alla realtà, accorgendosi di un particolare: era da sola con Rodrigues. C'era sempre stato almeno Dosnee, o Zephyrine. Rimanere da sola con lei - nella sua mente, come una sorta di prosecuzione di Mauritius - le fece uno strano effetto.
In quel momento, le altre porte del corridoio si aprirono.
Piano, da dietro il legno, spuntarono tanti volti dalla pelle più o meno scura, capelli lisci e ricci, castani o neri. Una decina di bambine avvolte in abiti color perla o delicati colori pastello apparve nel corridoio, praticamente circondandole.
Sesel si strinse ad Eurée: non aveva idea di chi fossero, non aveva idea di cosa volessero e tutte erano più alte di lei di minimo una spanna.
Le loro espressioni, però, non erano minacciose: sembravano incuriosite, più che altro.
- Séchelles? - trasalì: - Rodrigues? -.
Si voltò, stupita di sentire il suo nome - o quello che era il suo nome fino ad un'ora prima - pronunciato in maniera corretta, in quel posto dove parlavano in modo strano.
Una bambina più alta di lei, forse appena più alta di Dosnee, si era fatta avanti: la pelle scura, gli occhi castani, i riccioli neri acconciati come una coroncina intorno alla testa.
Sentì il suo cuore avere un sobbalzo.
- Dominique...? - sussurrò, allibita.
La bambina schiuse le labbra in un sorriso: - Ora si pronuncia Dominica. - rise.
- E... - mormorò Sesel, facendo un passo avanti, gli occhi sgranati: - ... ora si pronuncia Seychelles. -. Era una frase stupida, se ne rendeva conto. Ma non sapeva cos'altro dire. Faticava ad articolare i pensieri, si sentì improvvisamente stupida.
"Dominique era andata da Angleterre..." si ricordò, incredula: "... e Grenade, e Vincent!". Qualcosa di pesante e doloroso s'insinuò alla base dello stomaco: aveva l'impressione di star dimenticando qualcosa, qualcosa di molto importante.
Non se ne curò. Aveva stretto Dominica in un abbraccio, forse anche soffocandola, sentendo a stento Eurée fare lo stesso - più che altro, sembrava essersi appesa alla vita della loro sorella.
- Sei cresciuta così tanto! - esclamò, non appena riuscì a scostarsi da lei. Dominica accennò ad una risata divertita: - Vero! E' stato dopo circa un anno dal mio arrivo. Anche gli altri sono cresciuti! - portò le labbra in avanti, con una smorfia di disappunto: - Però sono rimasta la più piccola. -.
Seychelles sgranò gli occhi: "Se lei è la più piccola, gli altri quanto sono cresciuti...?". Improvvisamente, desiderò che arrivassero presto le sette: era curiosa di vedere come fossero diventati Grenada e Saint Vincent.
- Oh! - si ricordò di colpo: - Hai sentito di Domingue? - domandò. Dominica e Saint-Domingue erano state molto unite, forse Haiti aveva scritto almeno a lei. Dominica trasalì, il suo sorriso s'incrinò: - Sì, abbiamo sentito di Haiti... - rise, ma era una risata nervosa: - Però non abbiamo avuto notizie precise. E' stato tutto molto vago. -.
Sesel annuì, dispiaciuta: "Allora non ha scritto neppure a Dominique... Dominica. Chissà perché...".
- Ohi, chicas! - una bambina dalla pelle meno scura delle altre era intervenuta: - Non rimaniamo aquì in mezzo al corridoio, let's go in una stanza. -.
"Che parlata assurda..." giudicò Seychelles, mentre le altre bambine annuivano.
- Andiamo da Antigua e Barbuda! - trillò una bambina, raccogliendo subito il consenso delle altre.
- Cosa? - protestarono due bambine, all'unisono: - Perché proprio da noi? -.
- Porque la vostra stanza è la più vicina! - rispose la bambina dalla parlata strana, spingendo Seychelles e Rodrigues in quella che, effettivamente, era la stanza più vicina.
Sesel si lasciò portare, incapace di reagire e incuriosita al tempo stesso.
Una volta dentro, lei ed Eurée furono fatte sedere su dei cuscini buttati a terra ad una velocità impensabile, le altre bambine in semicerchio davanti a loro.
Si sentiva un po' l'attrazione del giorno - e, in effetti, era così.
- Then, vi chiamate Seychelles e Rodrigues? - chiese la bambina con la parlata strana: - Ah, a proposito, me llamo Gibraltar! -.
Subito Sesel si sentì travolta da una sequela di nomi, che riuscì a dimenticare nel giro di un secondo.
- Che carine! - trillò una.
- Quando abbiamo saputo del vostro arrivo, Dominica ci ha raccontato tante cose di voi! - squittì un'altra.
- Sappiamo che ci sono anche due ragazzi, sono carini? - chiese un'altra ancora.
A quella domanda, Seychelles sentì una sensazione spiacevole allo stomaco: non era tanto l'idea di Océan, ancora piccolo, appena più alto di Eurée, ma il pensiero che qualcuna che non fosse Rodrigues o Zephyrine guardasse Dosnee la irritava. Fu tentata dal rispondere che, no, non erano affatto carini, anzi, erano le più brutte colonie dell'intera Francia.
Non ci fu bisogno, dato che un'altra bambina si intromise: - Starete benissimo qui, ne sono sicura! - esclamò: - Avete già conosciuto lo United Kingdom? -
- Il signor Scotland incute un po' di timore, a volte, ma il signor Wales è così gentile! -
- Ed England è così cutie quando arrossisce! -
- Ah, sono strani, ma sono divertenti! Lo sapete che Ireland è considerato il più grande bevitore del North Europe? -
- Ah, sì, quella fu splendida! -
- Il fatto è che il signor Northern e la signorina Southern sono identici, quindi, alle gare di bevute, si scambiano di posto! Il signor Scotland, il loro più grande avversario, di solito è talmente ubriaco che neppure se ne accorge! -
- Ma neanche England scherza, in quanto ad ubriacarsi! -
- England ubriaco è troppo divertente! -
- Ti ricordi quella volta in cui si è messo a cantare a squarciagola in cima al tetto? -
- Povero Wales, è dovuto andare lui a recuperarlo! E quella volta in cui lui e Scotland, tutti e due ubriachi, si sono messi a rotolare lungo le scalinate? -
- E quella volta in cui ha rotto la bottiglia ed è caduto il vaso nell'altro corridorio quando- - si bloccò.
Sesel sbattè le palpebre: aveva seguito con interesse tutti quei pettegolezzi poco lodevoli sullo United Kingdom, non capiva perché quella bambina si fosse fermata.
- -quando si era ubriacato così tanto! - intervenne un'altra, con una risata troppo alta.
- Sì, era davvero ubriaco! - rise la giovane che si era interrotta, una nota nervosa nella voce.
- Credo che Seychelles e Rodrigues vedranno da sole come sono tutti strani! - s'intromise un'altra bambina, gioviale: - Però in positivo, eh! -
- Credo che Seychelles e Rodrigues siano stanche per il viaggio. - disse Dominica, alzandosi: - Possiamo parlare un'altra volta, no? -.
Le altre bambine annuirono, Sesel si voltò verso Eurée: in effetti, la bambina aveva le palpebre quasi del tutto abbassate, la testa ciondolante, quasi stesse dormendo seduta.
- Credo sia il caso di dormire, sì. - concordò, aiutando la sorellina a rimettersi in piedi.

Come previsto, Rodrigues si era addormentata non appena si era ritrovata in posizione orizzontale, sul letto.
Sesel le aveva rimboccato le coperte e aveva gettato un'occhiata dubbiosa al proprio letto: lei aveva dormito per gran parte del viaggio, non aveva alcuna traccia di sonno.
E poi, l'aver rivisto Dominica, così cresciuta, le aveva dato una scarica di vitalità e curiosità: voleva vedere Grenada e Saint Vincent. Sia per salutarli, sia per vedere come fossero diventati.
Decise di andare nell'ala maschile: era ancora giorno - incredibile a dirsi -, non sarebbe stato considerato eccessivamente sconveniente.
Magari si sarebbe imbattuta in Dosnee o Océan. Magari neppure loro avevano sonno.
Uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Era piuttosto probabile che l'ala maschile fosse sullo stesso piano. Tanto valeva esplorare; nel caso si fosse persa, avrebbe potuto rivolgersi a qualche domestico o raggiungere la prima rampa di scale visibile, scendendo fino al piano terra e dunque all'ingresso, dove sarebbe stato più facile orientarsi o trovare qualcuno.
Cominciò a camminare, il cuore iniziò ad appesantirsi ad ogni passo: ora la sua compagna di stanza era Eurée. Zephyrine era rimasta a Parigi.
Strinse i pugni e cercò di pensare in positivo: "La rivedrò. Non so quando ma, sicuramente, la rivedrò. Non devo essere triste!".
Non aveva pianto quando l'aveva salutata e non avrebbe pianto in quel momento. Anche se, forse, a Parigi, al momento della partenza, non aveva pianto per lei per lo stesso motivo per cui non era stata in grado di piangere per Francis.
Deglutì, un tentativo di calmarsi, e proseguì, andando praticamente a caso.
Grigio. Grigio. Marrone scuro. Nero. Bianco sporco. Grigio. Grigio. Un'ode al colore e alla vitalità, era l'ennesima conferma. Grigio. Grigio. Bianco sporco. Nero. Marrone scuro. Marrone scuro. Grigio. Bianco sporco. Bianco sporco. Bianco. Grigio. Grigio.
Si fermò, riportando lo sguardo a poco prima: c'era qualcosa di bianco, lì. Bianco vero. Era una macchia grande, almeno il triplo di lei, dall'aspetto morbido.
"Morbido?".
Vide la macchia bianca sparire dietro un angolo e, istintivamente, si diresse in quella direzione, seguendola.
Attraversò un breve corridoio, svoltò un altro angolo e la vide.
Una creatura effettivamente molto più grande di lei, un'immensa palla di pelo bianco, con quattro zampe morbide e piccoli occhi scuri.
Si avvicinò, i passi meccanici. Sentiva il respiro farsi più difficile. Quella figura la conosceva.
- Where were you? -
Trasalì nell'accorgersi di un'altra figura accanto alla creatura. Si chiese come avesse fatto a non notarla prima.
Quando poi la riconobbe, sentì le gambe meno salde sul pavimento.
Avrebbe tranquillamente potuto appoggiare il gomito al parapetto, forse si sarebbe anche dovuto chinare appena. La pelle era chiara, diversa dalla sua, più simile a quella dello United Kingdom; i capelli biondi ricadevano morbidi lungo le spalle, molto diversi da quelli dello United Kingdom. L'abito, purtroppo, ricordava quelli di England, Wales e Scotland, nero e grigio com'era.
Quando si accorse della sua presenza, l'uomo si voltò verso di lei. Aveva gli occhi azzurri, visibili dietro alle lenti degli occhiali, divisi da un ciuffo biondo.
- Sesel. - era un sussurro, come quello che aveva sentito un istante prima. Ma non era la voce di un bambino.
Lo vide accennare ad un sorriso, per poi inginocchiarsi davanti a lei, per non dover abbassare lo sguardo per vederla.
Seychelles fece un passo indietro, senza volerlo: era alto. Più di Scotland. Più di Francis.
Dovette comunque alzare gli occhi. Si era inginocchiato con un unico movimento, completamente diverso da quello sgraziato di England, come una versione più pacata di quello elegante di Francis.
Soltanto, non avrebbe mai pensato di veder compiere un simile gesto da lui.
- ... Nacada. - mormorò, riuscendo finalmente a far uscire la voce.
Mathieu inarcò le sopracciglia, le labbra appena curvate in un accenno di sorriso imbarazzato: - Canada. -
- Ah. -.
Qualcosa di mosse, dentro di lei, l'improvviso bisogno di afferrargli la mano, per assicurarsi che non fuggisse.
Quando andò a prendergli la mano, esitò: la sua manina era poco più grande del suo palmo. Se lui avesse chiuso le dita, avrebbe potuto intrappolarla con facilità.
- Sei... - sussurrò, sfiorando quella pelle chiara, incapace di guardarlo negli occhi: - ... cresciuto. -.
- Già. - non ne sembrava felice. Alzò lo sguardo, notando la sua espressione dubbiosa: - Pochissimi mesi dopo il mio arrivo. - aggiunse, come se dovesse scusarsi.
Ora che ci pensava...
- Scusami. - disse, dispiaciuta: - Non ho potuto scriverti. Sono successe tante cose... -
- Ho sentito. Non ti preoccupare, neanche noi abbiamo potuto farlo. -.
Annuì, sentendo le guance più calde. Le bruciavano gli occhi. Ma non avrebbe pianto, sarebbe stato stupido. Non ne aveva motivo. Doveva essere, anche lì, colpa della polvere.
- Ci siamo rivisti. - disse, soltanto.
- Vero. - le diede ragione lui, la voce sempre ai limiti dell'impercettibile.
- L'avevo detto che succedeva. - ribadì Sesel, trattenendo un sorriso. Voleva abbracciare Mathieu, ma non sapeva come. Dominica era cresciuta, sì, ma ancora poteva darle un abbraccio decente. A Canada si sarebbe potuta aggrappare alla vita. Dopo aver saltato. Forse.
- Vero anche questo. - concordò Mathieu.
Voleva parlare. Voleva parlargli, ma non sapeva di cosa. Erano successe troppe cose, non si vedevano da più di quarant'anni e lui era molto diverso da come lo ricordava. Non era la prima volta che vedeva una persona che conosceva diventare più grande. Molto più grande. Di solito, a quel punto, la lasciavano stare, non più interessati ai discorsi e alla compagnia di una bambina.
Non voleva che Mathieu la considerasse noiosa o si stancasse di lei. Ma non sapeva come fare per evitarlo.
Scavò nei suoi ricordi, alla ricerca di un qualsiasi argomento che non sembrasse troppo artefatto, buttato lì tanto per parlare. Lo trovò: - Ah, giusto! - esclamò, sentendo anche nascere una nuova curiosità che andava ad aggiungersi a quelle che già aveva: - Ora che sono qui, puoi presentarmi Alfred! Dov'è? -.
Canada sgranò gli occhi, impallidì. Sesel non capì: "Cosa ho detto...?".
- Ecco... - esordì Mathieu, la voce, se possibile, ancora più bassa. Esitò un istante, poi disse: - ... Alfred non è più qui. E' tornato a casa sua qualche anno fa. -.
- Oh... - fece Seychelles, dispiaciuta, la curiosità che si spegneva all'istante: le sarebbe piaciuto conoscere il fratello di Mathieu.
- Come Haiti? - domandò, piegando appena la testa di lato. Canada esitò di nuovo. Poi rispose, la voce incerta: - Sì. Come Haiti. -.
- Neanche lui vi ha più scritto? - chiese, triste: "Perché non fanno più sapere niente, quando tornano alle loro case?".
Mathieu scosse la testa: - No. Non l'ha fatto. E... - lo vide fare un profondo respiro: - ... ti chiederei, ecco... di non nominarlo. -
- Perché? -
Un'altra esitazione: - ... manca molto a tutti. Sono stati tutti molto tristi, quando è partito. -. Accennò ad un sorriso di scuse: - Se lo nomini, rievocherai ricordi tristi. - spiegò.
Sesel annuì, con un certo rammarico.
- Ma... - esordì, confusa: - ... se tutti erano tristi, perché è partito? Perché se n'è andato anche se sapeva che rendeva tristi tutti voi? -.
Vide Mathieu trasalire. Non riusciva a capire perché fosse così pallido. Si diede subito della stupida: "Ah, ovvio... anche lui deve essere triste.".
- Era... - mormorò Canada, piano: - ... una cosa che desiderava molto. Tornare a casa. -.
- Anche se sapeva che vi rendeva tristi? -
- ... sì. -.
Seychelles abbassò lo sguardo: il tono di Mathieu non era d'accusa nei confronti di Alfred. Però era innegabile che ne avesse sofferto. Non riuscì a farsi un'opinione: non sapeva se considerare il fratello di Mathieu una persona egoista o una persona decisa. Per un istante, si chiese se anche Alfred avesse sofferto, se avesse preso quella decisione per lui così importante sacrificando qualcosa.
In fondo, l'aveva fatto anche lei: aveva scelto di seguire Francis, lasciando la sua casa. Non se n'era pentita. Forse neppure Alfred si era pentito. Forse lui era davvero felice, per ciò che aveva scelto.
- Eskiz-mon. - sussurrò: - Ho fatto ripensare a cose tristi anche a te. Pardon. -.
Una mano sulla testa. Grande. Come quella di Francis. Ma non era di Francis.
- Ne te inquiétes pas. -.
Le parve di aver già sentito quelle parole. Proprie e sue. Le tornarono in mente una distesa di erba verde, uno specchio d'acqua. Si sentì arrossire, lasciò sfuggire una risata: - Qui fa davvero troppo freddo per tuffarsi. -.
- Posso stare tranquillo, allora. - sospirò Mathieu. Sesel gli scoccò un'occhiata di disappunto, ma molto poco seria.
- E poi... - Canada parlò di nuovo, il colorito di nuovo normale, la voce bassa e pacata: - ... non dovremmo parlare in francese. - alzò le spalle: - Non apprezzano molto. -. Accennò ad un sorriso, Sesel ridacchiò anche per lui.
- Perché non lo sanno pronunciare, vero? - rise: - Pensa che mi chiamano "Seychelles". E' il mio nuovo nome, sai? - fece, come se stesse esibendo un nuovo abito.
- Ti sta bene. - commentò lui, sempre come se lei gli stesse mostrando un vestito fresco di cucitura: - Io, invece... - parve ricordarsi solo in quel momento: - ... non mi chiamo più Mathieu. Ora mi chiamo Matthew. -.
Sesel sbattè più volte le palpebre, cercando di assorbire quell'informazione: "... è molto meno elegante." scelse di non dirglielo.
- D'accordo! Ehm... -
- ... Matthew. -
- Esattamente ciò che volevo dire! -.



Note:
*Nel 1810, con l'Atto di Capitolazione, le isole di Ile de France, Séchelles, Rodrigues e Chagos divennero colonie inglesi.
Il 90% delle volte, viene riportata come data il 1814, a seguito del Trattato di Parigi del medesimo anno: in realtà, il Trattato di Parigi confermò la sovranità dell'Inghilterra sulle quattro colonie, effettivamente sue già da quattro anni.
Dell'Atto di Capitolazione, invece, non si trova praticamente niente. *Detto in modo molto diretto*
In breve, gli inglesi avevano occupato e reclamato le Seychelles già dal 1794; occuparono anche Rodrigues - e quindi, implicitamente, anche Ile de France - e Ile Bourbon rispettivamente nel 1809 e nel 1810.
L'amministratore Jean Baptiste Quéau de Quincy negoziò con gli inglesi: non ci sarebbe stata alcuna opposizione militare, ma doveva essere garantita la neutralità e l'autonomia dei coloni. Nonostante ciò, battaglie navali tra francesi e inglesi ce ne furono comunque e gli inglesi applicarono un embargo a tutte le colonie francesi nell'Oceano Indiano.
Nel 1810, Ile Bourbon e Ile de France si arresero e fu stipulato l'Accordo di Mauritius (l'Atto di Capitolazione di cui sopra) a cui anche le Seychelles dovettero sottostare. Tale accordo prevedeva che le isole di Ile de France, Rodrigues, Seychelles e Chagos passassero sotto il dominio britannico.
A volte, vengono indicate le sole Seychelles o la sola Mauritius. In realtà, le colonie erano subordinate l'una all'altra.
Ossia. Le Seychelles erano una colonia subordinata a Mauritius: prendi Mauritius e ottieni anche le Seychelles, paghi uno e prendi due. A Mauritius è strettamente legata anche l'isola di Rodrigues: prendi Mauritius e hai in omaggio Rodrigues. Alle Seychelles, allo stesso modo, è subordinato l'Archipelago delle Chagos: prendi Mauritius, ottieni le Seychelles e con queste ultime hai in omaggio le Chagos.
Il succo della situazione è: prendi Mauritius e hai in regalo Rodrigues, Seychelles e Chagos.
[Fonti: 1, 2, 3, 4, 5]
* L'Archipelago delle Chagos divenne effettiva colonia francese nel 1768 - per questo non è apparso nei capitoli precedenti.
In realtà, i francesi avevano già "puntato" l'arcipelago nel 1721, ma fu solo nel 1768 che si presero la briga di occuparlo - con tutto che iniziarono a stabilirvisi nel 1785; nel frattempo, dato che i francesi se l'erano presa molto comoda, nel 1745, gli inglesi avevano avuto il tempo di sbarcare sulle isole e ammirarne il panorama.
* A cavallo tra il 1700 e il 1800, a seguito delle varie vicende politiche francesi, Ile Bourbon cambiò nome diverse volte.
Nel 1793 fu chiamata "La Réunion", nel 1801 divenne "Ile Bonaparte"; nel 1810, il suo nome tornò Ile Bourbon, poi confermato nel Congresso di Vienna del 1815. Nel 1848, l'isola riprese il nome di "La Réunion", nome che porta ancora oggi - "La Riunione", in italiano.
[Fonte]
* 1775-1783 e 1789-1799.
Non penso di dover aggiungere altro.
* Sulla scia della rivoluzione francese, entusiasmati dagli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, nel 1790, gli abitanti di Haiti chiesero maggiori diritti.
Tuttavia, libertà-uguaglianza-fratellanza, sì, ma solo per i francesi bianchi; scoppiarono dunque delle rivolte che poi sfociarono in una vera e propria guerra. La situazione giunse a conclusione nel 1804, quando Haiti dichiarò la sua indipendenza dalla Francia.
Fu la seconda nazione del continente americano a dichiararsi indipendente. Chi fu la prima, non è difficile intuirlo.
Tra l'altro, suddetta "prima nazione a dichiararsi indipendente" ebbe, a suo tempo, un consistente aiuto proprio da parte dei francesi che ironicamente, nel giro di un decennio, si ritrovarono a dover fronteggiare la stessa situazione dall'altro lato della barricata.
[Fonte]
* Dopo la Rivoluzione Francese, giunse il Periodo Napoleonico - dal 1799 al 1815 - in cui i francesi, dopo aver messo a ferro e a fuoco tutta la loro nazione per liberarsi di un re, si ritrovarono ad essere dominati da un imperatore.
Suddetto imperatore diede vita a quello che fu poi chiamato "Primo impero francese" - perché poi ce ne fu un Secondo, nella seconda metà dell'Ottocento e sotto un altro Napoleone, il terzo.
Come noto, una delle cose più evidenti che Napoleone fece durante il suo impero, detto con tanto affetto (?), fu rompere le balle a tutto il resto d'Europa, sottomettendo praticamente tutta l'Europa Occidentale e un pochino quella Orientale. Ciò passò alla storia come "Guerre napoleoniche".
I Paesi da lui conquistati furono Monaco, il Regno d'Olanda (il pacchetto Paesi Bassi + Belgio + Lussemburgo), una consistente fetta del Nord Italia (rinominato "Regno d'Italia") e le cosiddette Province Illiriche: esse corrispondono all'attuale Croazia, con un po' di Italia, di Austria e Lubiana, l'attuale capitale della Slovenia.
Il personaggio di Illiria, qui, rappresenterebbe solo Croazia; anche se la capitale slovena era in mano ai francesi, loro avevano solo quella e vedrei più Slovenia "al riparo" a cercare di riprendersi la sua capitale - un po' come la stessa "Francia Libera" durante la Seconda Guerra Mondiale.
L'Impero francese ebbe anche i suoi stati satelliti: il Regno di Spagna, il Regno di Napoli (il Sud Italia, dunque), il Ducato di Varsavia (alias Polonia) e la Repubblica elvetica, ossia un regime imposto alla Svizzera - che, tuttavia, non ebbe molto successo.
Ebbe poi anche uno stato fantoccio, la Confederazione del Reno, ossia tutti gli Stati che facevano precedentemente parte del Sacro Romano Impero - tra cui il Principato del Liechtenstein.
Tra le guerre napoleoniche, difatti, figura anche la Battaglia di Austerlitz, del 1805. Ora sapete anche perché Italia piangesse.
* Durante la rivoluzione francese, nel moto di generale anti-cristianità e rifiuto di tutto ciò che era appartenuto all'"Ancient Regime", il culto di Giovanna D'Arco venne meno: i rivoluzionari arrivarono anche a distruggere le statue che la raffiguravano, a bruciare le sue reliquie e a cancellare la processione in suo onore.
Sotto Napoleone, Giovanna D'Arco fu riabilitata come simbolo del nazionalismo francese; in gran parte, tuttavia, si trattava di una manovra "pubblicitaria" (?) per la sua politica.
[Fonti: 1, 2]
* Il "Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda" è stato creato nel 1801.
Tuttavia, non è che i componenti - soprattutto l'Irlanda - ne fossero eccessivamente entusiasti.
* Anche Ile de France/Mauritius ebbe svariati nomi: "Ile de France" fu il nome dato all'isola nel 1715 dai francesi, quando ne presero possesso; "Mauritius", invece, fu il nome con cui gli olandesi chiamarono l'isola all'inizio del Seicento, in onore del principe Maurizio di Nassau.
Quando l'isola divenne colonia inglese, questi ultimi ripristinarono il nome olandese.
[Fonte]

Dizionario
- [Creolo di Mauritius] Ki manier?: Come stai?
- [Creolo delle Seychelles] Byen...: Bene...
- [Olandese] Walgvogel, nietwaar?: Uccello disgustoso, non è vero?
("Walgvogel" era il nome con cui gli olandesi chiamavano i dodo, in riferimento alla loro carne, che si diceva essere disgustosa.)
- Oh, no, we don't understand french language!: Oh, no, noi non capiamo la lingua francese!
- Us? Of course not! / Expecially you!: Noi? Certo che no! / Specialmente tu!
- [Creolo di Mauritius] Eskiz-mwa...: Scusatemi...
- It's wonderful...: E' meraviglioso...
- Come on, it's just a little mistake...: Dai, è solo un piccolo errore...
- Stop laughing! Everyone!: Smettetela di ridere! Tutti!
- Now we have to explain it to them.: Ora dobbiamo spiegarglielo.
- Artie can do it!: Artie può farlo!
- "I can" what?: "Posso" cosa?
- Yes! / You speak french very well!: Sì! / Tu parli molto bene il francese!
- Absolutely. / Why don't you do it? / I thought you knew very well french language.: Assolutamente. / Perché non lo fai tu? / Pensavo conoscessi molto bene la lingua francese.
- Yes, Artie, I can speak french without problems. Just... / ... my accent is awful. Really. And you don't want us to make a bad impression with these children, right?: Sì, Artie, posso parlare francese senza problemi. Soltanto... / ... il mio accento è terribile. Davvero. E tu non vuoi farci fare una brutta figura con questi bambini, vero?
- Ah, Artie is so cutie when speaks french!: Ah, Artie è così carino quando parla francese!
- So lovely!: Così adorabile!
- Die.: Morite.
- I hate you with all my heart.: Vi odio con tutto il cuore.
- Where are you going?: Dove stai andando?
(Seychelles, Mauritius, Rodrigues e Chagos si presentano nei rispettivi creoli. Non sono sicura per Chagos, visto che non sono riuscita a trovare uno specifico dizionario di creolo delle Chagos. °^°)
(Secondo l'audio (!) di Google Translator (ri-!), i nomi delle quattro colonie si pronunciano Sescèl, Il de Frons, Rodrìg e Sciagòs in francese e Sèscels, Il dei Frans, Ròdrighes e Cèigos in inglese. *Così, a titolo informativo*)


E così, nella Terra delle Piogge E Delle Grandi Sopracciglia (?), ha inizio il secondo arco narrativo. *O*
... sì, il capitolo è lunghetto. E il prossimo sarà la continuazione di questo. *Soe l'aveva detto di avere problemi di grafomania.*
*Coff*
Dicevo.

Per prima cosa, vorrei far presente che la storia è narrata dal punto di vista di Sesel e che non necessariamente ciò che lei dice/pensa sia anche ciò che dico/penso io. Né che ciò che dice/pensa lei sia necessariamente giusto&corretto. Lo stesso vale per tutti gli altri personaggi, canon o oc che siano.
Poi, io non ho nulla contro Olanda o contro Spagna - specialmente quest'ultimo - ma... mi sembra piuttosto comprensibile che Ile de France/Mauritius non ne abbia un'opinione esattamente positiva. u.u"" *Soprattutto perché è innegabile che entrambe, così come anche il Portogallo, abbiano fatto cose terribili, storicamente.* .-.

Francia.
Io sono piuttosto convinta che le incarnazioni di imperi siano fondamentalmente esaltate. In positivo, ma anche in negativo. Perché la ricerca del potere porta a cose poco carine; quando poi lo si ottiene e se ne vuole sempre di più, la situazione degenera. E la Francia, in epoca napoleonica, fu davvero uno dei più grandi imperi d'Europa.

Parlando di Monaco e del nuovo arrivo Chagos.
La "rocca di Monaco" è, per l'appunto, una rocca, una fortezza: ce la vedo, quindi, la sua incarnazione come fisicamente molto robusta e con un risvolto "deciso", anche se non sempre visibile. ^^
Il piccolo Chagos, come avrete notato, si chiama Océan. Oceano. Il perché del suo nome è presto detto: attualmente, le isole Chagos si chiamano "Territorio britannico dell'Oceano Indiano". Sì, è idiota come sembra. In realtà, questo era il suo nome provvisorio, mentre ne cercavo di più validi. Però, per quanto cercassi significati affini a tutti i suoi nomi, che avessero un qualcosa capace di ricondurvi o altro, non c'era nessun nome che mi soddisfasse pienamente. Alla fine, ero talmente abituata a vederlo come "Océan" che gli ho lasciato quel nome. u.u"

Dopo la prima metà angst-depressiva-psychoyandere, si giunge dallo United Kingdom. I cui nomi sono in inglese anche nella narrazione soltanto per questo capitolo, unicamente per sostenere l'equivoco sul nome di Angleterre/England.
E a proposito di Angleterre/England...
... ebbene sì, Arthur ha fatto la sua comparsa! *O*
Sì, lo so, è stata una sorpresa incredibile. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato, è apparso così, all'improvviso, senza alcun preavviso.
E, assieme ad Arthur, ci sono anche i suoi adorabili fratelli maggiori, alias il resto del Regno UnitoMaNonTroppo. U.U"
Tra l'altro, io sono seriamente convinta che tutte le nazioni conoscano le lingue dei loro vicini/eterni rivali. Anche soltanto per capirli mentre cospirano. (?) Quindi, non mi sembra così strano che Arthur conosca bene il francese. XD *Soltanto, evita accuratamente di pronunciarne anche solo una sillaba.*

Infine, le ex-colonie francesi sono cresciute.
Chi meno, chi più. U.U *Del resto, si parla pur sempre della seconda più grande nazione al mondo...*

Spero che siate riusciti ad arrivare fino a qui, in un modo o nell'altro questo capitolo vi sia stato gradito. ^^
Come sempre, se ci sono Orrori Storici O Grammaticali - e, stavolta, la scusa dei congiuntivi schizofrenici vale solo per Sesel e triade di piccole colonie al seguito -, se Google Translator mi ha mentito, se l'inglisc è eccessivamente maccheronico, se vi si sono cariati i denti... no, per quest'ultima cosa non sono responsabile, vi avevo avvisato. Per tutto il resto, consigli o critiche, dite pure. ^^

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