Profumo di Neve

di fragolottina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I parte ***
Capitolo 2: *** II parte ***
Capitolo 3: *** III parte ***



Capitolo 1
*** I parte ***


profumo di neve
fragolottina's time
buonasera lettrucciole,
vi presento il mio Racconto di Natale... lo so che è un po' presto per pensare al Natale, però è tutto programmato! piacendo al cielo, dovremmo finire tutto per il ventiquattro dicembre, o il venticinque... insomma quel periodo lì...
dunque... sarà un racconto caratterizzato dalle tre B: breve, bello, buono!
se sgamate l'inghippo subito mi indispettirò abbastanza... quindi, nel caso non ditemelo... e soprattutto fate la faccia sorpresa quando ve lo dico io!
poi... fondamentalmente come idea è un po' bislacca, ma tanto non vi turberete più di tanto, no? insomma, ormai vi sarete fatte una certa idea di quello che scrivo...


PROFUMO DI NEVE

I parte

Quando mi sveglio mi rendo subito conto che è quasi il momento. Mi sembra di riuscire a toccare la sua crescente eccitazione nell’aria e sorrido con gli occhi ancora chiusi.
    Nick è già in piedi e lo sento baciarmi il collo, il petto attraverso la scollatura del pigiama, la pancia nuda, facendomi rabbrividire per il freddo, che gela il suo bacio umido immediatamente.
    Apro gli occhi e cerco la sua testa, passo le dita tra i suoi dreadlocks stretti e precisi. Sbadiglio. «Qualcuno è di buon umore.» commento, ancora assonnata.
    Nick si tira su, rimanendo comunque con il busto su di me. Ha il sorriso più bello del mondo, perché il suo sorriso non è una smorfia rapida, che torna al disappunto o alla noia subito dopo; quando Nick sorride è allegro sul serio ed è duraturo, sarà così felice fino all’anno prossimo.
    «Non lo senti?» mormora, tanto vicino al mio viso che non resisto alla tentazione di baciarlo, con le sue parole che vibrano sulle mie labbra. Io non resisto mai alla tentazione di baciarlo. È così bello, ha il viso che ho sognato di trovare per tutta la vita. Ha il naso perfetto. Adoro i suoi dreadlocks castani. Ha gli occhi più grandi e blu che si siano mai visti. E brillano, come la prima neve sotto un raggio di sole mattutino. Brillano di quello che è, nel suo intimo più profondo.
    Dio, il ragazzo che mi ama è perfetto.
    «Cosa?»
    Si appoggia coi gomiti ai lati della mia testa e prende a giocherellare con i miei capelli. «La neve.» solleva il mento ed annusa l’aria intorno a noi. «La prima neve di quest’anno.»
    So cosa significa per lui, non c’è qualcosa che ami più della neve: la prima neve, significa che è quasi ora di tornare a lavoro ed a Nick il suo lavoro piace. Mi tiro su sui gomiti e mi trovo ancora più vicina, quando mi bacia questa volta, è più intenso, più profondo. Sarà difficile smettere.
    «E se non andassi a… mm…» gli mordo le labbra riuscendo a togliergli l’intenzione di parlare per qualche secondo, finché non appoggia la fronte contro la mia. Abbiamo entrambi il respiro talmente frammentato, che sembra flash-forward di quello che accadrà tra poco. «Non andare a lavoro, Meg.»
    «Devo.» cerco le sue spalle, le sue braccia sotto la t-shirt leggera con cui dorme e le strofino con le mani.
    «Il capo sono io.» mi ricorda.
    Rido contro le sue labbra. «Quindi questa potrebbe quasi essere considerata molestia sul lavoro.» lo prendo in giro.
    «Ah-ah.» mi riprende. «Qualcuno non sta facendo la brava bambina.»
    Mi lascio di nuovo cadere sul cuscino e dischiudo le gambe, per lasciare che una delle sue scivoli tra le mie.
    Nick mi sfiora la linea del collo in punta di dita. «Dovresti stare attenta, è quasi Natale. Babbo Natale sarà sicuramente in ascolto.» sgrana gli occhi con enfasi. «Niente regali per la mia Maggie.»
    Mi specchio nel suo sorriso e non riesco ad impedirmi di essere felice. Sono sperduta in un villaggio nordico semi deserto per quasi tutto l’anno, lavoro in una tavola calda desolata con pochi clienti abituali che mi chiamano per nome, ho lasciato tutto, la mia vita, il mio mondo per seguire un ragazzo che è stato il mio più perfetto regalo di Natale. E non riesco a ricordare un anno più felice di questo.

Nick dice che ci eravamo già incontrati, molti anni prima. Dice che ero molto piccola ed è normale che non ricordi. C’era ancora mia madre, io avevo quattro anni ed un’idea tutta mia sulla morte.

Dice che lo sorpresi mentre la guardava in piedi accanto al suo letto.
    Mio padre si era addormentato vestito per paura che allontanandosi, distraendosi anche solo per un secondo l’avrebbe persa, gli sarebbe scivolata tra le dita. Mamma era così fragile e l’ultima chemioterapia l’aveva distrutta. Ricordo il suo viso solo dalle foto, ma ricordo il suo respiro: esitante, troppo profondo, come se i suoi polmoni accumulassero più aria del necessario per paura che non ce ne fosse un altro.
    Io, che mi ero alzata per andare in bagno, lo trovai lì, immobile.
    «Sei un angelo?» gli chiesi preoccupata.
    Nick si voltò dispiaciuto, senza dire niente.
    Io rimasi in piedi sulla soglia, stringendo in mano il braccio del mio orsetto. «Papà, dice che siccome mamma sta tanto male, presto un angelo verrà a portarla via.»
    Lui sospirò.
    Ora mi racconta sempre che non sapeva cosa dirmi, che ero così piccola, che mia madre mi amava così tanto.
    Usò anni di esperienza con i bambini per sorridermi, uscì dalla stanza dei miei genitori e la socchiuse per non svegliarli; poi si accucciò davanti a me e studiò il mio peluche. «Quello è davvero un bell’orsacchiotto.»
    «Ti piace?» gli domandai eccitata. Troppo piccola per pensare che c’era uno sconosciuto in casa mia e poteva essere pericoloso.
    «Tantissimo e io me ne intendo di orsacchiotti.» mi lisciò la magliettina del pigiama con affetto. «Sai cos’altro mi piacciono?» mi chiese.
    Io continuai a guardarlo, dice che avevo occhi enormi per essere una bambina tanto piccola.
    «Gli alberi di Natale.»
    Lo portai a vedere il mio e gli indicai la presa della corrente per illuminarlo, papà si era raccomandato di non toccarla. Per alcuni secondi rimanemmo lì, fermi, a guardare le lucine accendersi e spegnersi.
    Io allungai la mano e presi la sua. «Se sei un angelo, perché non guarisci la mia mamma invece di portarla via?»
    Lui si accucciò di nuovo accanto a me. «Non posso guarire la tua mamma.» scosse la testa. «Ma non sono qui per portarla via. Passerete il Natale insieme e sarete felici, ti prometto che sarà bellissimo.» abbassò gli occhi. «Però poi verranno a prenderla.»
    «Oh.» gli occhi mi diventarono lucidi ed acquosi e Nick mi abbracciò.
    «Non fare così, piccina.» cercò di consolarmi.
    «Sarà brutto.»
    «Si, dovrai essere molto buona e forte per il tuo papà.» si allontanò per guardarmi negli occhi. «Anche la mia mamma se n’è andata da poco, sai?»
    «Davvero?» chiesi incerta.
    Lui annuì con la testa.
    «E ti manca?»
    Sospirò, poi però cercò di sorridere. «Sempre, ma sono sicuro che ovunque si trovi anche io manco a lei.»
    «Mamma non mi dimenticherà?»
    «No.» il suo sorriso fu più convinto questa volta.
    «E tu?»
    Si allontanò e mi baciò la fronte. «Mai.»

Tutto quello che mi aveva detto si avverò. Mamma per Natale stette bene, abbastanza da stare alzata in soggiorno a giocare, mangiare biscotti e guardare la tv con me.
    Si avverò tutto, però.
    Cominciò a stare di nuovo male il ventotto dicembre e chiese di farsi ricoverare, per non essere nella mia bella casetta quando… beh, immagino fosse un gesto molto premuroso.
    Io ricordo l’ambulanza, come il lampeggiante si rifletteva sul mio albero di Natale.
    L’anno dopo quando mio padre provò a decorare un abete, io scoppiai a piangere disperata. Lui non disse niente, prese tutto, lo chiuse in un paio di scatoloni e lo portò in soffitta. Niente più alberi di Natale.


lo so... è un po' cortino - Lamponella dice di no, ma lei non è abituata ai miei capitoli chilometrici... vedi il Mitronio di Synt!
ma quanto sono cucciolosi!
anche perchè deve essere tutto tenero e morbidoso per Natale...
ma parlando di cose serie... che ne pensate? vi piace? 
se vi va di farmelo sapere mi renderete molto gioiosa!
baciallajinglebellsinanticipo



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Capitolo 2
*** II parte ***


profumo di neve
fragolottina's time
secondo capitolo del racconto natalizio, lettrucciole.
allora, mi devo parare un po' il sederino. prima che me lo diciate o che aggrottiate le sopracciglia perplesse davanti allo schermo facendovi venire le rughe, of course, lo so, che di norma le cose non vanno proprio così. ma è una storia fantasy e lui è... LUI!
cmq, ci vediamo più giù!
PROFUMO DI NEVE
II parte

Ci vestiamo insieme davanti allo stesso specchio, la convivenza ha scacciato via ogni imbarazzo.
   
Ricordo ancora la prima notte che ho dormito in questa casa, la nostra casa; ricordo il terrore cieco che mi ha assalita quando ho visto il letto enorme nella camera. Io non avevo mai avuto un fidanzato, quindi, non avevo mai esplorato certi orizzonti. Avevo baciato un paio di ragazzi, quasi per sbaglio.
    «Nick…»
    Lui mi aveva abbracciata da dietro, con il mento appoggiato alla mia spalla. «Ti sentiresti più a tuo agio con una camera tutta tua?» mi aveva chiesto, indovinando i miei timori. «Posso chiedere a Mrs. Tillman di preparartela.»
    «Mrs. Tillman?»
    «La governante.»
    Avevo continuato a tenere gli occhi fissi sul letto. «Abbiamo già dormito insieme.» gli avevo ricordato.
    «Si, ma questa è casa mia, nostra… magari ti rende imbarazzata.»
    Ci avevo pensato. «Tu sai…» avevo lasciato la frase in sospeso per qualche secondo, per dargli tempo di concluderla da solo. «vero?»
    Mi strinse più forte la vita. «Si, lo so, Meg. Per questo non ti ho chiesto niente.» mi aveva girata piano e guardata con un misto di fastidio finto e divertimento. «Se mi dici di no ancora prima che te lo chieda mi scoraggi. Devo presumere che sia venuta via con me solo perché sono un ragazzo facoltoso.»
    L’avevo guardato, avevo scosso la testa e gli avevo buttato le braccia al collo prima di baciarlo. Completamente consapevole che lo volevo, a livello molto teorico in quel momento, ma prima o poi sarebbe stato tutto più concreto. Nick l’avrebbe capito, sapevo che mi avrebbe chiesto solo in quel momento.
    In quel momento io gli avrei detto di si.

«Frustrante.» commenta lui, legandosi tutti dreadlocks.
    Lavora come assistente nel reparto pediatrico di un ospedale, non è un infermiere, è più una specie di maestro. Gioca con loro, racconta favole, li aiuta a fare i compiti. Nick ama i bambini, tutti i bambini. Forse perché una parte di lui è ancora un bambino giocoso, dice sempre che la cosa che odia di più è essere costretto ad essere triste.
    Il problema è che quando lavori nel reparto pediatrico di un ospedale, sei costretto ad essere triste più spesso di quanto vorresti.
    «La prima neve e devo lavorare.»
    «Siamo quasi a dicembre.» lo rincuoro mentre mi intreccio i capelli. «Tra poco potrai dedicarti a quello che ti piace di più.»
    Mi rende un po’ triste sapere che avrà un mese di aspettativa e che non avrà mai tempo per me, ma capisco anche che il suo è un impegno improrogabile.
    Lui incrocia il mio sguardo nello specchio. «Rotolarmi nel letto con te?» mi chiede malizioso.
    Rido arrossendo poco, poco. «Anche.» fisso la treccia con un elastico, poi faccio forza sulle braccia e mi siedo sul piano del lavello.
    Nick si avvicina e si appoggia con le gambe alle mie ginocchia. «Dovremmo fare qualcosa per festeggiare la prima neve stasera.» riflette.
    «Tipo?»
    «Non lo so.» scrolla le spalle e mi da un bacio veloce sulle labbra. «Ne riparliamo a pranzo?»

Come ricordo il nostro primo incontro? Mm… strano, se non altro.

Mancavano due settimane a Natale ed io ero sola a casa. Mio padre aveva il turno di notte e, da quando ero diventata troppo grande per le baby-sitter, mi infilava sotto il letto la sua mazza da baseball, ricordandomi ogni volta che se qualcuno entrava in casa senza il mio invito, non era per mangiare biscotti.
    Così quando sentii un rumorino venire dal piano di sotto, sbarrai gli occhi, recuperai la mazza e mi avviai, tenendola ben salda tra i pugni, in cucina. Cercai di non fare nemmeno un rumore, evitai le assi del parquet che scricchiolavano, mi impedii perfino di accendere la luce. Al buio riuscivo a riconoscere solo un’ombra ed il raggio di una torcia che vagava per la cucina.
    Quando fui abbastanza vicina da colpirlo, il ladro si voltò di botto, gridò un «Aspetta!» e bloccò la mia mazza con un braccio. La sua torcia volò per terra e rotolò fino a fermarsi contro il mio piede nudo, creando strane ombre dietro di lui.
    Per alcuni secondi rimanemmo a fissarci: io con il respiro rotto da tutta l’adrenalina rilasciata, lui con gli occhi sgranati di paura. «Potevi ammazzarmi!» mi rimproverò.
    Io presi un respiro profondo ed allungai una mano, senza smettere di guardarlo, per accendere la luce, poi tirai di nuovo indietro la mia arma improvvisata. «Chi-chi sei?» deglutii. «Che ci fai in casa mia?» domandai con più sicurezza.
    «Non voglio farti del male.» mi disse mostrandomi i palmi vuoti. Era fermo e calmo, non c’era niente in lui che potesse sembrare pericoloso, ma era comunque uno sconosciuto.
    «Che ci fai in casa mia?» ruggii di nuovo, senza abbassare la guardia.
    Lui guardò dietro di sé quattro biscotti, di cui uno mezzo mangiucchiato, e del latte in un thermos. Lo sapevo perché ce lo avevo messo io.
    «Non è presto per lasciare i biscotti a Babbo Natale?» mi domandò curioso mentre si sedeva ad una sedia, evidentemente nemmeno io sembravo gran ché aggressiva.
    «Non sono per Babbo Natale, sono per mio padre, quando tornerà domandi mattina.»
    «Premurosa.» commentò.
    Io scossi la testa. «Fammi capire, sei entrato per rubarmi i biscotti?» chiesi incredula.
    Annuì piano, poi, come ripensandoci: «Non rubarli, io… ehm…» si morse le labbra, sembrava divertito.
    Abbassai la mazza, giacché non sembrava intenzionato ad aggredirmi, ed incrociai le braccia sul petto in attesa di una spiegazione più convincente. «Dimmi perché non dovrei chiamare la polizia?»
    «Perché avevo molta fame?» tentò guardingo.
    Alzai gli occhi al cielo. «Da dove sei entrato?» continuai implacabile.
    Lui recuperò il biscotto mangiucchiato e lo addentò, dopo essersi assicurato che non lo avrei colpito. «Ecco…» masticò con calma, lo sguardo assottigliato, non c’era bisogno di una psicologa per capire che stava cercando di inventare una bugia credibile. «C’era una finestra aperta.» concluse.
    «No, non è vero.»
    Mi fissò. «Si, invece.»
    «Quale?»
    Rise, senza provare nemmeno a fingersi serio. «L’ho chiusa.»
    Sollevai le sopracciglia scettica.
    «Temevo che potessi prendere freddo!»
    Sbuffai esasperata e mi sedetti, tenendo la mazza con me, non si poteva mai sapere.
    Mi osservò attento. «Rilassati. Mangio e me ne vado, promesso!»
    Non risposi, non mi mossi e di certo non mi rilassai.
    Allungò una mano in mia direzione, io indietreggiai di botto, ma lui: «Mi chiamo Nick.» disse soltanto.
    Incerta gliela strinsi. «Io Maggie.»
    Rimasi a guardarlo mangiare, non ero del tutto convinta che fosse entrato per quello, ma nel caso avesse avuto cattive intenzioni sembrava averle abbandonate; se l’unica cosa che intendeva rubarmi erano dei biscotti, non mi sentivo di negarglieli.
    Ora che ci ripenso da parte mia fu stupidamente irresponsabile.
    «Quindi tuo padre non torna fino a domani mattina?» mi domandò dopo aver bevuto un sorso di latte.
    Lo guardai sospettosa senza rispondere, certa che rassicurare uno sconosciuto sul fatto che nessuno adulto sarebbe rientrato fino al giorno dopo, non fosse saggio.
    Mise le braccia conserte sul tavolo e ci si appoggiò con il mento, guardandomi da sotto in su. «Di solito le ragazze della tua età fanno venire il proprio fidanzato per farsi fare compagnia.»   
    «Cos’è stai facendo un sondaggio?» sbottai arrossendo.
    Scosse la testa tranquillo. «No, sono curioso.»
    Sospirai. «Non ho un fidanzato.» ammisi.
    «Perché?» chiese tanto incredulo da sembrare dispiaciuto.
    «Ma la smetti!» lo rimproverai.
    Lui si tirò su dispiaciuto. «Scusa, è che sei bella e di solito le ragazze belle hanno un fidanzato.»
    «Di solito le ragazze ti parlano della loro vita, dopo che ti sei infilato abusivamente in casa loro a mangiare biscotti.»
    Si leccò le labbra, appena imbarazzato anche lui. «Touché.» mormorò divertito, si tirò indietro sullo schienale della sedia. Rimanemmo a studiarci per un po’, poi lui prese a guardarsi intorno. «Non hai l’albero di Natale.» notò.
    Non risposi.
    «E Babbo Natale dove ti lascia i regali?»
    Sbattei le palpebre perplessa. «Ho diciassette anni.» gli feci notare.
    «E allora?» mi domandò tornando a guardarmi sinceramente curioso.
    Mi strinsi nelle spalle. «Non credo più a Babbo Natale.»
    Per alcuni secondi mi fissò e basta, mettendomi anche abbastanza a disagio, poi si chinò in avanti ed avvicinò la propria sedia alla mia. Così vicino che se avesse chiuso le ginocchia si sarebbe scontrato con le mie. Lanciai un’occhiata alla mazza da baseball che avevo finito per appoggiare sul piano della cucina, ma non la recuperai; non so esattamente come, ma avevo finito per fidarmi di lui.
    «Quanta magia riesce a vedere in giro, Meg?»
    «Poca.» risposi piano. «Ma che c’entra?»
    «C’entra.» annuì. «Ce n’è poca e di solito non la vediamo. Passiamo una vita immersi nella realtà più spietata e diventiamo cinici, scorbutici e…»
    «Tristi.» terminai per lui.
    Allungò una mano esitante e, quando realizzò che non mi sarei allontanata, mi sfiorò appena la guancia. Le sue dita erano calde e morbide. Credo di aver iniziato ad amarlo in quel momento, perché in quel momento realizzai che non avrei mai voluto che smettesse di accarezzarmi.
    «Già, tristi.» convenne. «Credere a qualcosa di magico, anche se si tratta di qualcosa palesemente irreale, rende più felici.»
    Assottigliai lo sguardo. «Chi diavolo sei tu?»
    Sgranò gli occhi con enfasi, ridendo. «Babbo Natale.»
    Risi anche io. «Ti immaginavo leggermente più anziano.»
    Lui sorrise intimo. «Io non ti immaginavo più bella.»
    Continuammo a parlare, gli raccontai la mia vita e lui seguì ogni mia parola con la stessa attenzione che un bambino avrebbe dedicato ad una favola meravigliosa. Anche lui mi parlò di sé, del suo lavoro con i piccoli malati, di quanto era difficile a volte giocare e ridere con loro, sapendo che alcuni il giorno dopo non ci sarebbero stati più. Mi chiese, ancora, perché non avessi un fidanzato e questa volta risposi.
    «Ho paura che muoia.» confessai, era la prima volta che lo ammettevo ad alta voce e… dio, lo stavo raccontando ad uno sconosciuto.
    Lui mi studiò senza dire niente, nei suoi occhi non c’era traccia di rimprovero, solo una leggera e incredibilmente rispettosa curiosità. «Spiegami.»
    «Quando mia madre è morta, mio padre è morto con lei. Ho visto il suo dolore, lo vedo ancora.» scossi la testa. «Non riuscirei a sopportare una sofferenza tanto profonda. Non voglio sopportare una sofferenza tanto profonda.» risi amara, cercando di evitare il più possibile il suo sguardo. «Ti sembrerò pazza.»
    Nick mi fissò serio e dispiaciuto, poi scosse la testa e cercò la mia mano, non il mio viso, rispettò il mio volermi celare. «No, non mi sembri pazza neanche un po’.» si voltò e guardò la finestra, era ancora notte, ma c’era un grado di oscurità minore rispetto a quando avevamo iniziato a parlare. «Dovrei andare, non credo che tuo padre sarebbe contento di trovarmi qui.»
    Si alzò in piedi ed io con lui. Lo accompagnai alla porta, come se fosse stato un ospite super gradito e non un potenziale ladro che si era intrufolato in casa mia.
    Quando gli sbloccai il portone e lo dischiusi mi prese una strana ansia. Lo guardai preoccupata, parlare con lui era stato così bello, e se non lo avessi visto mai più?
    «Tu non sei di qui.» dissi piano.
    Sorrise e scosse la testa.
    «Io vorrei rivederti.»
    «Anche io.» rispose semplicemente.
    Deglutii. «Per parlare.»
    Fece una passo verso di me, piano per non farmi spaventare. Staccò le mie dita dal pomello della porta e lo chiuse con delicatezza. Mi prese anche l’altra mano e le congiunse dietro il suo collo, poi mi abbracciò per la vita; era dell’altezza giusta, perché, con quella vicinanza, fossi costretta a sollevare lo sguardo per fissarlo negli occhi.
    «Parlare?» mi domandò, sollevando un sopracciglio.
    Arrossii e slacciai le mani per spingerlo via per il petto. «Se non vuoi rivedermi per parlare, non vuoi rivedermi.» sbottai offesa.
    Nick non mi lasciò andare. «Meg.» mi chiamò. «Parlare è perfetto.»
    Lui era perfetto, avrei voluto dirglielo ce l’avevo sulla punta della lingua. Chinò il viso su di me, stringendomi forte; io spostai le mie mani sulla sua schiena, scivolando sulla leggera infossatura della spina dorsale. Mi lasciò un bacio tra i capelli, un bacio dolcissimo e intimo.
    «Tu sei perfetta.» mi disse prima di andarsene.
    Si, lo amavo già.


come vedete la storia si snocciolerà attraverso i ricordi di Maggie.
dunque, lo so, che ancora non è molto natalizia - non c'è nemmeno l'albero di Natale - ma datemi tempo per farvi capire di cosa stiamo parlando!
spero che vi piaccia...
baci

ps. stavo per dimenticarmi Lamponella - l'amministatrice della mia Fan Page, per chi non lo sapesse - chi la sente poi!



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Capitolo 3
*** III parte ***


profumo di neve
fragolottina's time
AHHHH! ma siamo in ritardo!
oh, mio dio così non ce la faremo mai per Natale!
il che è un problema che si presenta un po' in tutti i racconti di Natale quindi ben venga...
cmq, no, in realtà sono pochi capitoli, quindi se mi metto sotto ce la dovremmo fare... è un grande 'se', non vi assicuro niente!
prometto, però, di farcela per la fine delle vacanze!



PROFUMO DI NEVE

III parte

La tavola calda dove lavoro era dei genitori di Nick, lui non l’ha mai toccata. Ha lasciato che Mrs. Durden, la capo cameriera, la gestisse come ritenesse più opportuno. Solo quando io sono venuta a vivere da lui ed avevo bisogno di un lavoro, ha chiesto che venissi assunta.
    Il mio impiego mi piace, mi fa sentire utile anche se gli avventori non sono molti ed io servo solo caffè. Ho imparato che vivere qui è una scelta coraggiosa, per tutto l’inverno la neve isola il paese da tutto il resto del mondo e bisogna essere forti per superarlo. La proprietà privata viene quasi considerata un delitto, c’è la comunità ed è giusto condividere per aiutare tutti.
    Tutti sanno chi è Nick, perciò nessuno si sorprende che, nonostante l’ospedale dove lavora sia a centocinquanta chilometri da qui, lui riesca comunque a venire a pranzo da me ed ad arrivare in tempo per il turno pomeridiano. La limousine di Nick corre veloce.
    I miei concittadini mi vogliono bene. Dal primo giorno che sono venuta qui. Hanno assimilato solo tre cose di me: primo, che sono la fidanzata di Nick; secondo, che mi chiamo Maggie; terzo, che vengo da fuori città.
    Tutto il resto non li ha mai interessati.
    Ed anche il terzo punto, per loro si tratta solo di un’indicazione per suggerire che devono spiegarmi alcune cose.
    «Secondo me dovrebbe lavorare qui anche lui visto che ha te.»
    Il signor Jackson è sempre un po’ scorbutico, ma so che è solo una posa. Nick mi ha raccontato che quando i suoi genitori se ne sono andati è stato proprio lui ad aiutarlo ad organizzare tutto quanto. A quanto pare lui e suo padre erano molto amici.
    «Se ai miei tempi ci fosse stata una cameriera tanto carina, di certo non mi sarei fatto problemi per il suo ragazzo. Soprattutto se non c’era mai.»
    «Oh, smettila Tom!» sbotta Mrs. Durden, servendogli la sua omelette. «Il ragazzo fa un lavoro di cui tutti dovremmo essere fieri. Ed è un bel giovanotto, se anche ai tuoi tempi Maggie ci fosse stata, di certo non si sarebbe fatta rubare da te.»
    «La lascia sola per Natale.»
    Mrs. Durden lo fissa omicida. «Oh, questa poi.» sbotta indignata, scappando a sfogare il dispetto nella cucina, dove suo marito prepara i cibi. «Scordati che ti serva qualcos’altro.» la sentiamo gridare.
    «Mi lascia sola soltanto per la Vigilia, signor Jackson.» lo correggo.
    «Non va bene comunque.»
    «Oh, su Mr. Jackson! Mi dia un po’ di tregua.» lo supplica Nick entrando nella tavola calda.
    Ci guardiamo e riesco quasi a vedere una specie di aura luminosa intorno a lui: non so se sia perché è lui o se i miei occhi innamorati lo rendano più luccicante. Mi sorride e fa alcuni passi nella mia direzione, come se non vedesse altro. Mi raggiunge dietro il bancone e mi abbraccia prima di darmi un bacio. Tra i suoi dreads sono rimasti intrappolati dei fiocchi di neve, che si sciolgono a contatto delle mie dita; ne ha uno anche sulla guancia, che gli cola sul viso come una lacrima, ma i suoi occhi luccicano: se fosse una lacrima, sarebbe di gioia.
    Mi stringe forte, sovraeccitato come un bambino con troppo zucchero in corpo.
    «Sei bella.» mi sussurra ad un orecchio, sfiorandolo con il naso gelato. Le sue labbra però sono calde.
    Lo abbraccio a mia volta. «Anche tu.»
    «Non è tutto più bello quando c’è la neve?» chiede un po’ a tutti sorridendo.
    «Dio, come lo odio quando entra nella parte.» borbotta il signor Jackson.
    Ma la felicità di Nick è molto, molto dura da scalfire, non basta certo un po’ di cinismo. «Vedrà Mr. Jackson, anche lei sarà contento per Natale.» prognostica e si siede accanto a lui.
    «Se lo dici tu.»
    «Che mangi?» gli domando.
    Io suoi occhi dicono “Te” e sento un brivido caldo scivolarmi sulla schiena. «Pancake, con tanto zucchero a velo, tanto sciroppo d’acero, mirtilli ed una spruzzata di cioccolata.»
    Il signor Jackson lo studia aggrottando le sopracciglia. «Che mi venga un colpo! Morirei di diabete solo a pronunciare una roba del genere e questo qui, invece, è magro come un chiodo!»
    «Faccio tanto attività fisica.» spiega tranquillo.
    «Ma non prendermi per il…»
    «Signor Jackson!» lo interrompe Mrs. Durden rientrando attivamente in servizio prima dell’inevitabile.
    Io rido, perché questo è il mio posto.

La seconda volta che ci incontrammo fu in un caffè, di pomeriggio.

Trovai un mazzetto di vischio fuori la porta, con attaccato un cartoncino. Mio padre mi prese in giro, elogiando le mie conquiste amorose, mentre io rimasi a fissare la grafia ordinata e tonda che diceva: “Ti aspetto allo Sugar Smell alle 17:30. Nick C.”
    Conoscevo il locale, era una caffetteria molto carina a pochi minuti di cammino da casa mia.
    Portai in camera con me il mazzetto ed il cartoncino e mi sedetti sul letto, di fronte all’armadio. Era passata una settimana da quando si era intrufolato in casa ed io non ero ancora riuscita a sbrogliare la mia mente ed il mio cuore. Una cosa era stata certa, però: dopo di lui, nessun ragazzo aveva toccato la mia anima o, molto meno poeticamente, il mio interesse.
    Riportai, ancora, alla mente ogni dettaglio che ero riuscita ad immagazzinare di lui. Piccoli frammenti di bellezza ognuno diverso dall’altro ed ognuno unico ed irripetibile, come i fiocchi di neve. Nessuno parlava, si muoveva, sorrideva come lui. Nick, se poi quello era davvero il suo nome, sapeva di speranza, di cose buone e belle, di futuri rosei e radiosi. Di vita.
    Ed io non sapevo cosa indossare.
    Alla fine mi decisi per una gonna di jeans lunga fino al ginocchio, un paio di stivali, calze lunghe a righe sui toni del marrone ed un maglione color panna. Mi tirai indietro i capelli con un fermaglio e completai tutto con cappello, guanti e sciarpa, sempre bianco panna.
    Quando scesi in soggiorno, mio padre non commentò il mio abbigliamento più curato del solito, si limitò solo ad augurarmi “Buona Fortuna” prima che uscissi.
    Nick era già lì quando arrivai, nascosto sotto un giaccone pesante. Non appena mi vide i suoi occhi si illuminarono così tanto, da farmi arrossire e sorridere, e sentire prepotente la voglia di abbracciarlo.
    «Credevo non venissi.» le sue parole si condensarono in nuvolette, mentre parlava. Faceva freddo, nonostante le strade pulite, sui marciapiedi c’era neve accumulata.
    Strinsi i pugni guantati dentro la mia giacca. «Perché?»
    Si strinse nelle spalle. «Non lo so.» sorrise ancora e, se è possibile, di più. «Però sono contento che sei qui.»
    Non dissi niente, perché non sapevo cosa dire.
    Lui mi guardò per qualche secondo con le mani in tasca, poi si morse il labbro e lanciò un’occhiata dietro di sé. «Entriamo?»
    Annuii.
    Lo “Sugar Smell” era un locale carino e dolce. Caldo e speziato per tutti i tè o le cioccolate profumate che venivano servite. La cameriera – Viola diceva la targhetta appuntata al suo petto – ci mostrò un tavolo libero per due, proprio di fronte alla vetrina.
    «Posso portarvi qualcosa?» ci domandò cortese.
    Nick mi guardò in attesa.
    «Un tè all’arancia, per favore.»
    «Per me uno alla cannella e…» assottigliò lo sguardo per studiare la vetrina di dolci anche da quella distanza. «Biscotti al pan di zenzero?»
    Viola annuì con un sorriso. «Arrivano.» ci assicurò.
    Mi accomodai su una sedia e lui davanti a me.
    «Cannella e pan di zenzero?» chiesi divertita.
    «È Natale.» si limitò a rispondere lui con una scrollata di spalle.
    «La prendi molto sul serio questa festa.»
    «Il Natale è bello. Le persone cercano di essere migliori, i bambini pregano e sperano di essere abbastanza buoni davanti alle vetrine dei giocattoli, le città sono illuminate. Non ti fa sentire calda?»
    Sbattei le palpebre e mi sfilai cappello e guanti. «Sono appena tre gradi. Nessuno può sentirsi caldo!» la mia voleva essere una battuta, ma lui mi fissò per qualche secondo, poi allungò una mano a palmo in su. La guardai incerta, poi ci posai sopra la mia: era bollente. «Wow.» commentai.
    Non avevo il coraggio di alzare gli occhi su di lui, perché sentivo di arrossire.
    «Meg, che hai fatto in questi giorni?»
    «Come?» gli lanciai appena un’occhiata, poi presi a guardare la vetrina, il suo riflesso non quello che c’era fuori.
    Nick sollevò il gomito sul tavolo e ci si appoggiò con il mento. «Raccontami della tua vita.»
    Mi strinsi nelle spalle. «Ho diciassette anni, vado al liceo. Non…» lo guardai incerta, preoccupata del suo giudizio. «Non ho molti amici, mi sembra di essere sempre fuori posto. Anche se forse è colpa mia.»
    «Le sensazioni non sono mai una colpa.»
    Non risposi. «E tu che hai fatto in questi giorni?»
    Viola la cameriera ci portò le nostre ordinazioni, i biscotti di Nick erano a forma di albero di Natale. Presi una bustina di zucchero e la versai nel mio tè.
    «Ho lavorato un sacco, è un brutto periodo.» rise e scosse la testa. «Cioè, è un periodo bello, ma ho un sacco da fare e neanche un po’ di tempo per me. E ti ho pensata, sempre.» mi sorpresi di come non si facesse remore a dirmelo, sincero in modo totalizzante.
    Lo fissai. «Hai preso un giorno di ferie per me?»
    «Qualcosa del genere.» rispose tranquillo, come me, anche lui scelse lo zucchero, due bustine. «Mi sono innamorato di te e penso che tu ti possa innamorare di me. Quindi, ho intenzione di starti dietro finché non sarà troppo pazzo portarti a vivere da me.»
    Sgranai gli occhi stupita. «Oh, beh…» scossi la testa. «Ma non mi conosci!» obbiettai.
    «Si, ma certe cose si capiscono subito.» afferrò un biscotto e lo addentò sempre guardandomi, sfidandomi a dire il contrario.
    «Hai una visione particolare dell’amore.» commentai.
    «L’amore è semplice, sono le persone a complicarlo.»
    Bevvi il mo tè all’arancia più per nascondere il viso che per effettiva necessità. Avevo sentito alcune ragazze, con le quali pranzavo a scuola, lamentarsi di fidanzati troppo silenziosi e pragmatici, ma anche avere a che fare con un ragazzo così loquace non era semplice.
    «Ti va di fare qualcosa insieme dopo?» mi chiese, passando ad un altro biscotto.
    Posai la mia tazza e lui spinse il piattino verso di me per offrirmene uno. Scelsi il più piccolo. «Tipo?»
    Sorrise nei miei occhi. «Ti ho portato un regalo.»

Fuori dal locale lo aspettava una limousine nera con i vetri scuri.
    «Rudolph, mi apri il bagagliaio.»
    Rudolph, un uomo di circa sessant’anni che era sceso dal posto del guidatore non appena ci eravamo avvicinati, recuperò le chiavi e raggiunse il retro dell’auto. «Subito, sir.» quando mi passò davanti mi fece un leggero inchino. «Miss, è un piacere conoscerla.»
    Io arrossii perché, dacché ricordassi, nessuno si era mai inchinato davanti a me.
    Diedi una leggere gomitata a Nick che mi lanciò un’occhiata. «Oh, lui è Rudolph. È l’autista della famiglia.»
    Chiusi gli occhi poi li sgranai. «Tu hai un autista che ti scarrozza in limousine?!» domandai incredula.
    Nick annuì, semplicemente.
    «Quindi, sei ricco.» dedussi.
    Ancora un cenno del capo.
    Gli afferrai un braccio e lo scrollai. «E vieni a rubare i biscotti a casa mia?!»
    Scoppiò a ridere e mi prese il viso tra le mani per lasciarmi un bacio sul naso. «Non sono cose di cui si può parlare prima del terzo appuntamento.»
    Recuperò una scatola dal bagagliaio, mentre io ero tutta intenta ad arrossire ed imbarazzarmi, e la aprì sotto i miei occhi. Dentro c’erano un paio di pattini da ghiaccio a fiori blu e rosa. «Ti piacciono?»
    «Mi porti a pattinare?» domandai contenta, troppo contenta per mantenere lo stesso livello di disagio di poco prima. «Io sono sempre voluta andare a pattinare.» li sfiorai piano e ritirai la mano, quasi potessero sparire sotto i miei occhi. Non ero mai andata a pattinare, anche se ricordavo mia madre ripetermi che da grande mi avrebbe insegnato.
    Nick rise divertito e bellissimo. «Lo so.»
    «Lo sai?» scossi la testa e gli afferrai un braccio. «No, ti prego, non dirmi cose che non voglio sapere.»
    Mi avvolse le spalle. «Non prima del terzo appuntamento, tranquilla.» mi guidò piano verso lo sportello della limousine, mentre Rudolph riprendeva il suo posto.
    «Non sono capace, però.»
    Una volta, anni dopo che era morta, avevo chiesto a mio padre e lui mi aveva guardato così addolorato che mi sarei rimangiata tutto quanto: “Mi dispiace, Maggie, io non so pattinare.”
    «Ti insegno.» promise.
    Lo spazio all’interno dell’auto era grande circa quanto la mia cameretta. Niente a che vedere con il fuoristrada da mio padre, che, ad ogni modo, era una macchina molto spaziosa.
    «Ma qui in paese non c’è una pista da pattinaggio.» riuscii a fargli notare, quando la meraviglia per tutto quello che mi circondava fu passata.
    Lui mi lanciò un’occhiata carica di sottintesi. «Sai dove c’è una straordinaria pista di pattinaggio?»
    Lo studiai timorosa, senza capire esattamente dove andasse a parare. «Dove?» finii per chiedere.
    «A Mosca.»


cioè vi prego, ma la limousine guidata dall'autista Rudolph è o non è una genialata?!
non posso dire altro.
cmq, probabilmente nel prossimo capitolo Nick farà outing, d'altronde sarà il terzo appuntamento, no?
fatemi sapere che ne pensate!
baci

ps. as always Lamponella...

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