Correndo incontro al destino

di Delirious Rose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Dialoghi della Bambina e la Serva ***
Capitolo 3: *** L'ultimo volo dell'acquilone ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo





La sabbia era umida sotto le suole delle scarpe e la marea, ritirandosi, aveva lasciato delle pozze d’acqua in cui i granchi si rifugiavano. Il vento che veniva dal mare profumava di iodo e d’alghe e gonfiava le vesti della donna come vele di galea.

«Emeraude, non ti allontanare: lo sai che è pericoloso!»

La bambina si voltò ridendo, i ricci biondi si gonfiarono come un’aureola d’oro.

«Faccio tanta, tanta attenzione!» rispose saltando a piè pari in una pozzanghera.

La donna roteò gli occhi e lanciò un’occhiataccia all’uomo che camminava al suo fianco. «Voglio sperare che non siate stato voi, Fiero, ad incitare nostra figlia a comportarsi in codesta maniera… indecorosa.»

L’uomo fece saltare il bimbo fra le braccia, tenendolo ben alto.

«La capitale è lontana, mia cara Azure: ad Austina non abbiamo certo bisogno di quel noiosissimo cerimoniale di corte.»

La principessa Azure sospirò, in fin dei conti suo marito aveva ragione: Austina era una delle contee più piccole di Cephiro, non abbastanza ricca da attirare le attenzioni della corte e troppo lontana dalla capitale per subirne l’influenza. Erano trascorsi quasi dieci anni da quando lei, principessa reale e sorella minore di re Gallardo, era stata data a Fiero Xepphirine di Austina, un aristocratico incapace di vivere a corte e che non si interessava né degli intrighi di palazzo e né di ottenere favori. Si poteva azzardare che re Gallardo gli avesse concesso Azure più per disperazione che per avere un nuovo alleato: in fondo, all’epoca, la principessa incominciava ad essere troppo anziana per avere dei pretendenti.

Azure fissò lungamente sua figlia maggiore che correva davanti a loro, come se volesse acchiappare i gabbiani: i primi anni che aveva trascorso ad Austina erano stati difficili, così come era stato difficoltoso, per lei, avvezzarsi ad uno stile di vita più frugale rispetto a quello della capitale. Senza contare l’esser stata allontanata dalla sua famiglia, la sensazione d’esser stata tradita da suo fratello, ma soprattutto la mancanza della persona che amava (e l’idea che Gallardo l’avesse confinata ad Austina per evitare uno scandalo era un sospetto che a volte le tornava in mente), ma poi Emeraude era nata e lei aveva imparato ad apprezzare i pregi del principe Fiero.

«La marea sta iniziando a salire,» mormorò Fiero guardando accigliato l’orizzonte, mentre sosteneva con cura il piccolo Ferio che accennava i suoi primi passi. «Emi-hime, si torna a casa!»

Con una piroetta, Emeraude si voltò verso i suoi genitori, correndo loro incontro con un sorriso gioioso e le guance arrossate: strinse con affetto le ginocchia di sua madre, che si chinò su di lei per rimetterle in ordine il vestito e prenderla per mano, poi tutti e quattro s’incamminarono verso il monte che dominava la baia con il suo castello. Il vento iniziò a farsi un po’ più violento e dei nuvoloni grigi iniziarono a addensarsi all’orizzonte: ci sarebbe stata una tempesta, quella notte. Non che fosse un evento straordinario: il Pilastro non riusciva a controllare completamente il tempo atmosferico, pur garantendo pace e prosperità a Cephiro. Che Sua Eccellenza Ginko fosse malata da tempo, non era un mistero per nessuno, ma quello che più preoccupava i saggi di Cephiro era cosa sarebbe potuto accadere alla sua morte: il re Gallardo era un sovrano giusto e rispettoso dell’autorità del Pilastro, ma sarebbe riuscito a tenere a bada gli animi cupidi fino alla nomina della nuova Colonna?

«Sta arrivando qualcuno dalla capitale,» mormorò Fiero, stringendo con un gesto protettivo ed istintivo suo figlio.

Era un messaggero reale, lo stendardo portato a mezz’asta e bordato di porpora non faceva presagire nulla di buono: raggiunta la coppia, l’uomo s’inchinò profondamente davanti ad Azure.

«Vostra Altezza Reale, è con gran tristezza che…»

Un gesto della principessa lo fece zittire.

Azure lanciò un’occhiata al suo compagno, che annuì e prese la mano d’Emeraude: la bambina non disse nulla, si limitò a guardare incuriosita sia la madre che il messaggero.

«Non amo ricevere cattive notizie alla presenza dei miei figli.» Riuscì ad udire Emeraude, camminando accanto a suo padre: mentre attraversava il portone del muro di cinta, si volse di nuovo verso sua madre e la vide chinare il capo ed invitare il messaggero al castello.

Solo il mattino seguente seppe che suo zio, il re Gallardo, era morto e che sarebbe partita per la capitale quel giorno stesso.

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Capitolo 2
*** 1. Dialoghi della Bambina e la Serva ***


ATTENZIONE! : In questo capitolo si tratta di una tematica delicata.




1. Dialoghi della Bambina e la Serva

 

Emeraude sbuffò, guardando corrucciata la sua immagine riflessa nello specchio: il vestito che la balia le aveva infilato con la forza, fra piagnistei e piedini sbattuti sul pavimento, non le piaceva per niente. Prima di tutto c’era il colore, un viola purpureo talmente scuro da sembrare nero (e a lei i vestitini piacevano bianchi, così facili da sporcare di rena e di fango), e poi era così scomodo, ma così scomodo che a malapena riusciva a camminare pian pianino ( e per una bambina che era come l’acqua del mare, sempre in movimento, si trattava di una vera tortura). Certo, sapeva che suo zio, il re, era morto e che non poteva giocare con suo cugino Payze come le sarebbe piaciuto, ma non capiva perché dovesse mettere un vestito così brutto se non sarebbe stata presente alla cerimonia funebre.

 

«Sei pur sempre una principessa reale, Emeraude, anche se non abitiamo a Adamantina,» le aveva detto sua madre, «e questo ti impone dei doveri: per cui smettila di fare i capricci, metti quel vestito e poi vai a fare compagnia al Principe Teijo di Fahren.»

«Azure, spero che questa vostra idea non abbia secondi fini…» aveva sibilato Fiero, guardando la donna di tralice.

«Voi avete un’idea strana della Ragion di Stato: vi siete sempre opposto all’intenzione di mio fratello di rinsaldare l’alleanza fra Cephiro e Fahren.»

«Con tutto il rispetto dovuto ad un defunto, vostro fratello poteva concludere tutte le alleanze che voleva, ma senza barattare la felicità di mia figlia con un pezzo di carta!»

«Avete detto barattare? Gallardo aveva offerto a mia figlia il trono di Fahren, e voi, con le vostre assurde idee, avete sempre creato dei problemi! Per fortuna l’Imperatore è della medesima idea di Gallardo e non è troppo tardi per concludere questo… matrimonio, come lo chiamano su Fahren.»

«Emeraude è ancora una bambina, non ha neppure otto anni.»

«Meglio, avrebbe più tempo per imparare l’etichetta di corte e di apprezzare il Principe Teijo.

Emeraude, esigo che tu trascorra più tempo possibile con il principe di Fahren e che ti comporti come si confà ad una futura imperatrice,» aveva concluso Azure con tono autoritario, prima di ritirarsi nelle sue stanze.

Fiero aveva seguito la donna con lo sguardo e, dopo aver ordinato alla balia di occuparsi anche di Ferio, s’era inginocchiato davanti a sua figlia, i loro occhi allo stesso livello.
«Non badare a quello che dice la mamma, Emi-hime: non sei obbligata a giocare con quel Teijo se non vuoi e, soprattutto, se non ti piace. Ma questo non significa che puoi fargli i dispetti, capito?»

La bambina aveva annuito con vigore, ma poi aveva guardato incuriosita suo padre e l’espressione stranamente seria e pensosa sul suo volto.

«Emi-hime, c’è un’altra cosa…»

«Se vuoi che non mi metto a correre e a saltare per i corridoi, non ti preoccupare: lo so che non sta bene, perché lo zio è morto.»

Fiero aveva sorriso a quella risposta giudiziosa, e aveva arruffato i ricci biondi della bambina.
«So che quando vuoi sai essere una brava bambina, ma non si tratta di questo. Ascoltami bene, Emeraude: per nessuna ragione al mondo devi restare da sola con zio Alfgang e, se per caso ciò dovesse accadere, devi immediatamente raggiungere Chota. Me lo prometti?»

Emeraude aveva aggrottato le sopracciglia.
«Perché non vuoi che resto da sola con lo zio? È gentile e mi regala sempre una caramella.»

Fiero aveva stretto le labbra.
«Dicono… dicono che Alfgang ami molto i bambini, soprattutto le bambine carine come te: di solito sono tranquillo, perché so che non sei da sola, ma in questi giorni tutti hanno la testa un po’ altrove e non vorrei che quel… Emi-hime, promettimelo e quando torneremo ad Austina andremo a pescare i gamberi!»

«Promessa solenne!» aveva risposto la bambina con solennità.

 

«Ma se allo zio Alfgang piacciono tanto le bambine carine come me, perché papà non vuole che resto da sola con lui?»

«Che cosa avete detto, altezza?» chiese la balia, spostando sull’altro braccio Ferio.

«Niente, Chota, pensavo solo ad alta voce. Oh! Ecco Velie!» esclamò, facendo qualche passo di corsa e poi camminando normalmente dandosi un pugno leggero alla testa.

Velie di Cizeta era l’altra cugina del principe ereditario di Cephiro: era un poco più grande di Emeraude, i capelli castani raccolti in una lunga treccia e l’incarnato olivastro. Ad Emeraude piaceva tanto, era una bambina molto divertente e allegra con cui era facile andare d’accordo: certo, le volte che s’erano incontrate si potevano contare sulla punta delle dita, ma per entrambe era sempre una gioia trascorrere qualche ora a giocare insieme.

Appena la vide, Velie corse incontro ad Emeraude, nonostante i rimproveri della sua governante, e coinvolse l’altra bambina in un breve girotondo.

«Emi-hime, come ti avevo promesso, ti ho portato una bambola di Cizeta!» esclamò Velie, tirando fuori da una borsa un pacchetto. «Pensa, le ho fatto fare apposta dei vestitini uguali e spiccicati a quelli della zia Supra che ti piacciono tanto.»

Emeraude strinse il pacchetto con gioia, iniziando a saltare come una cavalletta, ma un’occhiataccia di Chota la bloccò.
«Ops, è vero: ho promesso che non avrei né corso né saltato e né gridato perché… come ha detto la mamma? … perché siamo in lutto,» disse, un po’ a se stessa e un po’ all’altra bambina, poi sedette sul bordo della fontana e prese a scartare il regalo. «Grazie tante, Velie, quando verrai a trovarmi ad Austina, ti farò vedere tutte le mie bambole e poi andremo a giocare nella baia… wow! È BELLISSIMA!»

«E guarda, ha anche gli occhi che si chiudono e le gambe che si piegano, così resta seduta tutta da sola,» spiegò l’altra.

«Non c’è bisogno di parlare così forte, Vostra Altezza,» la rimproverò la governante, «qui a Cephiro non si usa fare festa quando qualcuno muore.»

Velie fece spallucce. «Perché? Forse non sono contenti che una persona va nei Campi dei Beati, dove si fa sempre festa e si possono mangiare tutti i dolci che si vuole senza farsi venire il mal di pancia?»

«Ma cosa dici! Quando una persona muore, il suo spirito vola via e i vermi gli mangiano la faccia, le mani, la pancia… pure i piedi, anche se sono puzzolenti,» ribatté Emeraude, con aria da sapientona, «e tutti sono tristi perché quella persona non c’è più e se il suo spirito non è volato via diventa un fantasma che fa i dispetti.»

«No, i fantasmi sono gli spiriti delle persone cattive che i Guardiani non fanno entrare nei Campi dei Beati: è per questo che fanno i dispetti.»

«Principessa Velie, se aveste studiato gli usi ed i costumi degli altri paesi, sareste a conoscenza di tali differenze fra Cephiro e Cizeta!» la rimproverò nuovamente la governante, con un sibilo, e poi aggiunse, facendo un cenno verso un sentiero. «E spero che non vogliate fare sfoggio di tanta ignoranza dinanzi al Principe Ereditario di Fahren!»

Velie roteò gli occhi e poi diede una gomitata a Emeraude, sorridendo maliziosamente. «La zia Supra ha detto che sposerai il principe Teijo…»

La bambina fece spallucce, lanciando un’occhiata furtiva al bambino che avanzava verso di loro. «Anche la mamma ha detto la stessa cosa, però non mi ha mai spiegato che cosa significa…»

«Non lo sai?!» Velie sgranò gli occhi nocciola, e poi scoppiò a ridere. «Significa che andrai a vivere nel suo castello, che vi darete i baci sulla bocca e che poi avrete tanti bambini!»

«I baci sulla bocca?! Che schifo!»

Emeraude fece un’espressione disgustata e cercò di allontanare Velie, che le si era gettata addosso e non finiva di far schioccare le labbra: alla fine, la governante e Chota dovettero intervenire per riportare all’ordine le due bambine.

Emeraude e Velie aggiustarono le pieghe dei loro vestiti, l’una facendo un’espressione offesa e l’altra cercando di non ridere e dando delle gomitate alla prima. La governante si schiarì la gola, guardando entrambe di tralice: le due bambine si scambiarono un’occhiata, dandosi un cenno d’intesa e ricambiando l’inchino del giovane principe.

Teijo di Fahren guardò le due bambine con l’aria altezzosa di chi vuol sentirsi già grande: Emeraude non sapeva dire se gli piaceva o no, le dava l’impressione di essere un bambino un po’ antipatico, ma lei sapeva bene che a volte la prima impressione è sbagliata. Ricordandosi le raccomandazioni dei suoi genitori (essere gentile con lui e, soprattutto, niente dispetti), la principessina di Austina fece un altro, profondo inchino e ripeté la frase che sua madre le aveva fatto imparare a memoria.

«Il Principe Payze, mio cugino germano, non può, date le circostanze, adempiere ai suoi doveri di ospite e ha chiesto a me, Emeraude Xepphirine di Austina, di farlo in sua vece.»

Teijo la guardò dall’alto in basso, fece altrettanto con Velie e lanciò un’occhiata a Ferio, che seduto sul prato, aveva strappato dei ciuffi d’erba e li aveva portati alla bocca.

«Due femmine e un poppante: ci sarà da annoiarsi,» borbottò rivolto a se stesso.

Velie sbuffò, incrociando le braccia.

«Se non vuoi giocare con noi, sei libero di non farlo: Emi-hime, Ferio ed io ci divertiremo alla faccia tua.»

E gli fece una linguaccia.

«Velie, con un maschio non possiamo di certo giocare con le bambole o a truccarci, ma noi siamo femmine e di certo non giochiamo ai guerrieri,» ammise Emeraude, «però ci sono tanti altri giochi che possiamo fare! Che so, palla prigioniera, nascondino…»

«Nascondino mi sta bene, ma non voglio essere il primo a cercare,» rispose Teijo, annuendo.

«Non sei tu che decide, signorino Mi-do-tante-arie-da-grande-ma-sono-un-bambino: faremo una conta come si deve!»

 

Emeraude ridacchiò, coprendosi la bocca con le mani: lei e Velie avevano fatto apposta la conta, in modo che fosse proprio Teijo il primo a contare; inoltre, loro due conoscevano molto bene quel giardino, avendone esplorato gli angoli più segreti nei lunghi pomeriggi trascorsi a giocare insieme.

La bambina si guardò intorno, e dopo essersi assicurata che la via fosse libera per fare tana, si avviò di soppiatto verso la fontana facendosi largo fra i cespugli: ad un certo punto si fermò e si tolse le scarpe, ritenendo che in questo modo avrebbe fatto meno rumore. L’erba era morbida e fresca, le dava una sensazione piacevole fra le dita e sotto le palme dei piedi, ma preferiva di gran lunga la rena e le diverse percezioni che le dava a seconda della sua grana più o meno fine e della sua distanza dalla battigia. Proprio come suo padre, Emeraude non amava molto la capitale, tanto che, se non fosse stato per la prospettiva di giocare con Payze e Velie, avrebbe fatto tutto il possibile per restare ad Austina ogni volta che la sua famiglia doveva andarci.

Prese le scarpe e sollevò le gonne con ambo le mani, quindi riprese ad avanzare attraverso i cespugli: doveva solo attraversare un sentiero ed un’altra macchia d’arbusti prima di raggiungere la fontana e fare tana libera tutti (sempre che Velie non l’avesse preceduta) e ridacchiò pensando alla faccia di Teijo quando avrebbe saputo che gli toccava contare di nuovo.

Emeraude trattenne a stento un gridolino, vedendo che c’erano due persone sul sentiero: erano Glaspac e Alfgang, i fratellastri di sua madre. Parlavano a bassa voce, il primo non smetteva di guardarsi intorno come se avesse paura che qualcuno saltasse fuori all’improvviso, mentre il secondo stringeva spasmodicamente l’impugnatura della sua spada: avevano gli stessi lineamenti, Glaspac e Alfgang, ma se il primo era pingue -e le sue rotondità erano quasi accentuate dalla lunga tunica - il secondo era ben più atletico e sembrava più alto del fratello grazie alla particolare foggia della sua armatura.

Qualcosa nella testa di Emeraude la spronò ad avvicinarsi, che doveva sentire quello che i suoi zii si stavamo dicendo.

“Ma non è buona educazione origliare.”

Suo padre le aveva sempre raccomandato di fare quello che le diceva il cuore, perché su Cephiro era questo a comandare, e così Emeraude si avvicinò di qualche passo.

«… ah, gliela farò pagare a quella puttana cizietana di Supra! Sarà pure la madre dell’erede al trono, ma di qui a volersi accaparrare la reggenza…»

«È una madre che si preoccupa di suo figlio, Glaspac, è la debolezza di ogni donna, ma fossi in te agirei in modo più sottile e cercherei di usare questa sua debolezza a nostro vantaggio.»

«Che cosa vuoi dire?» borbottò Glaspac guardando l’altro di tralice.

«Vuoi infilare uno schiavo muto nelle sue stanze? Fai pure. Vuoi accusarla di adulterio per togliercela dai piedi? Perfetto! Ma pensaci e dimmi se sbaglio: non sarebbe meglio convincerla a partire per Cizeta con la scusa di evitare uno scandalo (quale colpo per un figlio, scoprire che sua madre non è migliore della più volgare delle meretrici!) e poi, durante il viaggio…» Alfgang si passò l’indice sulla gola. «I viaggi fra due pianeti non sono esenti di pericoli.»

L’altro batté le mani, sorridendo, quindi aggiunse con voce falsamente addolorata.

«La regina Supra perita in un incidente, lasciando come unica guida di suo figlio il Gran Consigliere Glaspac! E il Generale Alfgang.»

«Ti lascio tutto il merito, mio amato fratello, sai che in fondo tutto quello che voglio è…»

Un cenno dell’altro lo zittì: Emeraude sapeva che Glaspac aveva percepito la sua presenza: trattenendo il respiro e cercando di non fare alcun rumore, fece per riaddentrarsi nella macchia.

Con un gesto insolitamente agile per la sua stazza, il Gran Consigliere s’avventò su di lei, afferrandola per un braccio e strattonandola in malo modo la portò sul sentiero.

«Ah, piccola peste che non sei altro, che ci facevi lì? Non te lo ha insegnato tua madre che non è buona educazione origliare la gente?!»

«Lasciami, lasciami! Mi fai male!» esclamò la bambina, cercando di liberarsi dalla presa. «E poi non spiavo!»

«Ah, non ci stavi spiando, eh? E allora che ci facevi lì, nascosta fra i cespugli?»

Usando tutta la sua forza, Emeraude riuscì a tirare il braccio in modo da potersi liberare, e rispose come se fosse la cosa più ovvia.

«Che domanda stupida, zio Glaspac: giocavo a nascondino. E se il principe Teijo mi trova per colpa tua, non ti parlerò più!»

Il viso di Glaspac divenne rosso di rabbia: fece per alzare la mano, ma l’altro lo fermò. «Fratello, non è che una bambina… una bambina che sa che le bugie hanno il naso lungo: non è vero, mia piccola Emeraude?» concluse Alfgang, sorridendole.

Emeraude strinse le labbra e involontariamente fece un passo indietro. Non le piaceva il modo in cui Alfgang la stava guardando, come se la volesse mangiare in un boccone, né tanto meno il suo sorriso: non sapeva perché, ma le sembrava che avesse lo stesso sorriso del grande squalo impagliato esposto nella sala dei trofei di suo padre. Uno squalo famoso per aver divorato tanti pescatori e catturato molti anni prima della sua nascita, e che ancora le madri di Austina usavano come spauracchio con i bambini disubbidienti.

«Le bugie hanno anche le gambe corte, zio Alfgang,» disse infine, con un fil di voce.

L’uomo inarcò un sopracciglio.

«Una risposta saggia, mia piccola Emeraude, ti meriti un premio: ho sempre un po’ del tuo dolce preferito in tasca.»

Uno scambio di sguardi e Glaspac s’eclissò con una scusa, lasciando suo fratello da solo con la bambina.

Emeraude sapeva di aver paura, sapeva anche che doveva scappare via, sapeva che doveva correre da Chota, lo aveva promesso a suo padre. E più il tempo passava più Emeraude aveva l’impressione di trovarsi davanti al sorriso dello squalo impagliato, e che suo padre le aveva detto una bugia e che una persona che sorrideva in quel modo non poteva amare i bambini.

Alfgang s’era chinato verso di lei e le aveva porto la mano.

«E così stai giocando a nascondino, nevvero? Sai, mia piccola Emeraude, conosco un posto segreto dove, ne sono certo, il principe Teijo non potrà trovarti: vieni con me, te lo mostro.»

La bambina fece un altro passo indietro, cercando di non far vedere la sua paura.

“Chota, perché non sei qui con me? Un grande, uno qualsiasi!”

Come se si fosse scottato, Alfgang s’allontanò da lei, la mano destra scattò istintivamente all’elsa della sua spada: un animale che Emeraude non aveva mai visto, una specie di coniglio dal pelo candido e soffice e con una gemma rossa sulla fronte, era piombato fra loro ed aveva preso a saltellare intorno alla bambina.

«Generale, non dovreste essere nella camera ardente in questo momento?»

La voce del Pilastro era severa ed autoritaria, ma una vena di stanchezza tradiva la sua malattia.

Alfgang fece un profondo inchino verso di lei.

«Vostra Eccellenza sa bene che la regina Supra non ha molta simpatia per me: m’era parso irrispettoso…»

«È del vostro defunto fratello, che dovete aver rispetto, non della sua Prima Concubina.» Alfgang strinse le labbra in quello che voleva essere un sorriso cortese e con un altro profondo inchino ed uno svolazzo del mantello, andò via. il Pilastro lo seguì con lo sguardo, e quando quegli fu abbastanza lontano, i suoi lineamenti si rilassarono appena.

«Stai bene…?» Ma le parole le morirono in gola.

Emeraude la guardava con gli occhi pieni di lacrime, mordendosi il labbro inferiore.

«Ho… ho… ho avuto tanta paura…» balbettò infine, scoppiando a piangere. «E papà mi ha detto una bugia!»

Ginko sorrise dolcemente, inginocchiandosi davanti alla bambina e facendo comparire un fazzoletto con un gesto della mano.

«Perché tuo padre sarebbe un bugiardo?» chiese, mentre le asciugava le lacrime e le faceva soffiare il naso.

«Perché mi ha detto che lo zio Alfgang ama i bambini: non è vero, perché un grande che ama i bambini non ti guarda come se ti vuole mangiare in un boccone.»

La donna tacque a quelle parole: strinse le labbra, poi si rivolse allo strano animale.

«Mokona, potresti dare qualcosa a questa bambina per riconfortarla, per cortesia?»

Con un gioioso puuh la gemma sulla fronte di Mokona emise un bagliore, e dopo un istante davanti Emeraude era comparso un tavolino ricolmo di dolci e con una tazza fumante: la bambina singhiozzò un po’ prima di prendere la bevanda, quindi ringraziò con un sussurro il Pilastro e bevve un gran sorso. Ginko sorrise incoraggiante, invitandola con un gesto della mano a prendere anche dei dolci, e sedette sulla sedia che Mokona aveva fatto comparire per lei.

«Il Principe Fiero non ti ha detto una bugia,» cominciò Ginko una volta che Emeraude s’era tranquillizzata, «ti ha detto che il Generale Alfgang ama i bambini perché è un modo convenzionale per descrivere ciò che fa.»

«E che cosa è che fa lo zio?» chiese Emeraude, sedendosi sul selciato e stringendo Mokona a sé.

Ginko esitò un attimo per cercare le parole migliori per esprimere il concetto ad una bambina di quell’età.

«Fa coi bambini quel che fanno una mamma ed un papà quando vogliono avere un figlio.»

Emeraude spalancò occhi e bocca, poi esclamò severa.

«Non va bene! Papà mi dice sempre che certe cose le fanno solo i grandi. E mi ha detto pure che si fanno con la persona cui si vuole di più bene e che se per caso scopre che una persona ad Austina fa così, la manda a largo su una barca piiiccola piiiccola con un pezzo di pane secco ed una borraccia d’acqua, ecco!»

«È un crimine punito con la prigione, su Autozam. Non qui su Cephiro.»

«Ma non è giusto!»

«Lo so, e fino a qualche decennio fa avrei potuto imporre la mia decisione al Gran Consiglio, ma allora non c’era questa necessità: gli abitanti di Cephiro non avevano bisogno che il Pilastro o una legge dicessero loro cosa fosse giusto e cosa sbagliato.»

La bambina guardò la donna silenziosa: Sua Eccellenza Ginko mostrava la stessa età di sua zia Murciel, ma Emeraude sapeva che il Pilastro era molto, molto più anziano. E molto malato: ogni due o tre anni Sua Eccellenza Ginko ed il suo seguito andavano ad Austina per qualche settimana, poiché pareva che l’aria di mare e l’amore degli abitanti della contea la aiutassero a combattere contro il suo male.

«È perché sei ammalata, vero, che non puoi dire allo zio di smettere di fare certe cose e di metterlo in punizione?»

Ginko sorrise all’intelligenza della domanda e all’ingenuità fanciullesca con cui era stata espressa.

«Vero, perché devo pregare per il benessere di Cephiro e al tempo stesso combattere contro il mio male: è per questo che, quando divenni la Colonna Portante di Cephiro, decisi di scegliere un re che mi avrebbe rappresentato presso il Gran Consiglio.»

«Ma non fai prima a dire alla malattia di andare via per sempre? Chota dice che non si può pensare a due cose insieme.»

«La tua Chota ha ragione, sai?

«Avrei potuto pregare per la mia guarigione, vero, ma avrei trascurato Cephiro per chissà quanto tempo e sarebbe stato il primo di altri desideri egoisti.

«Questo mondo ed i suoi abitanti sono la cosa più importante per il Pilastro: può decidere di delegare alcune cose ad altri, come ho fatto io, oppure prendere sulle proprie spalle tutto il peso di Cephiro ed essere certo che il suo popolo sia felice e giusto, che la terra dia i suoi frutti in abbondanza e senza troppa fatica e che l’acqua più pura scorra nei fiumi, che non ci siano terremoti e tempeste, né troppi mostri che mettano in pericolo i villaggi.

«Ogni volta che mi dicono che da qualche parte c’è un mostro o che c’è stato qualche problema, mi rattristo: so che è colpa mia perché non ho pregato abbastanza forte, e questo succede ogni volta che sto male. Come per la morte di re Gallardo: se in quei giorni non avessi avuto la febbre alta, quei mostri non si sarebbero avvicinati troppo al castello e tuo zio non sarebbe andato a scacciarli assieme alle guardie.»

Emeraude strinse le labbra, la fronte un po’ corrucciata.

«Devi pregare forte forte così siamo tutti felici e non ci sono mostri cattivi, è questo che vuoi dire? Perché se non è così allora significa che non ho capito bene, forse perché sono ancora piccola e non riesco a capire tutto tutto quello che dicono i grandi. Anche se papà dice che sono taaanto intelligente.»

Ginko sorrise, arruffandole i capelli.

«Beh, il succo del discorso è questo, non preoccuparti. E adesso, torna pure a giocare, e se il principe di Fahren passasse di qui, gli dirò che non ti ho vista,» concluse con tono complice.

Emeraude ricambiò con un largo sorriso: fece per addentrarsi nuovamente fra i cespugli, poi si voltò e abbracciò di slancio la donna.

«Grazie tante,» mormorò, «e la prossima volta che vieni ad Austina ti farò giocare con il mio aquilone.»




AN: Ed ovviamente sono aperte le iscrizioni all'Alfgang Hate Club

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Capitolo 3
*** L'ultimo volo dell'acquilone ***


Gli aquiloni multicolori volteggiavano nel vento, quasi volessero competere con i gabbiani per il dominio di quel cielo grigio d’autunno: gli stridii degli uccelli marini suonavano come beffarde risate rivolte a quegli insiemi di canne e tela, alla loro impossibilità di librarsi oltre l’orizzonte. Sembrava anche che gli aquiloni lottassero contro quelle corde sottili di iuta che li tenevano legati a terra: facevano improvvise virate ed evoluzioni violente, inutili tentativi di spezzare quei legami. E seguendo gli spaghi che limitavano quelle evoluzioni aeree, si giungeva ad una vecchia barca, più simile ad un relitto, presso la quale s’era adunato un gruppo di bambini: fra essi spiccava un giovanotto di circa diciannove anni, i piedi nudi sulla rena umida, la casacca troppo piccola ed i calzoni troppo corti, che si dava grandi arie e rivolgeva agli altri un sorriso vanesio.

«Ammettetelo, sono proprio bello,» disse passando una mano fra i corti capelli biondi.
Una delle bambine lo scrutò dalla testa ai piedi, quindi fece spallucce sbuffando.
«Sì, non sei poi tanto male, solo che Rafaga ce li ha davvero diciannove anni!»
«Giusto! E poi tu non sai neanche tenere un coltello in mano, Lafarga, mentre tuo fratello…» sospirò un’altra bambina con aria sognante.
Lafarga fece spallucce, sedendosi a gambe incrociate, mentre il suo aspetto ritornò pian piano ad essere quello di un dodicenne.
«Non è vero, perché sono io quello che adesso sviscera i pesci a casa!» esclamò offeso. «E poi è normale che Rafaga sia più bravo di me con la spada: il Capitano delle Guardie ha detto che, ancora un anno o due, diventerà il miglior spadaccino di tutta Cephiro! E pure io diventerò una guardia, quando compirò sedici anni!»
«Su, non te la prendere… e poi solo perché Rafaga piace a Xiera e Passie, non significa che piaccia anche alle altre bambine,» lo consolò Emeraude con tono serio.
Lafarga la guardò arrossendo, sbattendo le palpebre un paio di volte balbettando.
«Lo pensi davvero Emi-hime?»
Ma prima che lei potesse rispondere, un altro bambino prese a canticchiare.
«A Lafarga piace Emi-hime! A Lafarga piace Emi-hime!» e tutti scoppiarono a ridere, tranne i due interessati.
Emeraude sbuffò, guardando gli altri di tralice.
«Smettetela di fare gli scemi, e in ogni caso adesso tocca a voi diventare grandi.»
Passie fece spallucce.
«Lo trovo un gioco stupido, questo qui: a che ci serve diventare grandi se poi gli adulti non ci lasciano lo stesso andare alle feste e mangiare tutte le torte ed i biscotti che vogliamo?»
«Dici così solo perché tu non ci riesci!»
«Non è vero! E per tua informazione, Aston, non ci riesco solo perché con le tue chiacchiere non mi fai concentrare abbastanza!»
«Sì sì, come no,» rispose il bambino ironico.
Passie fece per saltargli addosso e graffiargli la faccia ma Aston la schivò facendo qualche passo sulla sabbia e delle smorfie: Xiera ed Emeraude tirarono indietro la loro amica, mentre Lafarga e Ferio le sbeffeggiavano. Lo scambio di sfottò continuò per qualche minuto e terminarono dopo che Emeraude aveva invitato le sue compagne di giochi a non raccogliere oltre le provocazioni.
«Hai ragione Emi-hime, inoltre non ha senso avere un aspetto di grande se la testa resta quella di un moccioso di cinque anni,» convenne Xiera con fare altezzoso e sedendosi su un’asse di legno del relitto. «Bene, a chi tocca adesso diventare grande?»
«Io! Io!»
Esclamò Ferio saltando e agitando le braccia, quindi strinse gli occhi e i pugni, il viso contratto in un’espressione di grande sforzo: rimase in quella posizione per qualche minuto, ma quando riaprì gli occhi e vedendo che nulla era mutato nel suo aspetto, sbuffò arrabbiato. Passie lanciò un’occhiata soddisfatta ad Aston, come a dirgli chi è che non riesce a crescere? mentre Emeraude diede delle pacche leggere sulla testa del suo fratellino.
«Non te la prendere, Féfé, sei ancora un po’ piccolo, ma vedrai che piano piano e allenando la tua forza di volontà, ci riuscirai.»
«Ma non è giusto!» piagnucolò quello, non disdegnando le coccole di sua sorella. «Perché tu riesci a diventare grande come Giulietta ed io no?!»
Sentendo quelle parole gli altri quattro bambini guardarono Emeraude allibiti: Giulietta era una delle dame di compagnia della principessa Azure. Vedendosi tutti quegli occhi addosso, Emeraude avvampò e lanciò un’occhiataccia a suo fratello, ricordandogli che aveva promesso di mantenere quel segreto: ma ormai il danno era fatto e di fronte alle accuse di menzogna rivolte a Ferio e le insistenze degli altri, la bambina si vide costretta a dar prova della sua forza di volontà.
Chiuse gli occhi, concentrandosi, e dopo un poco il suo aspetto di bambina era mutato in quello di una giovane donna.
«Mi dovete promettere di non dirlo a nessuno, altrimenti mi offendo di brutto: è un segreto superiperultrastrasegretissimo!» disse con fare severo, e solo dopo essersi ripresi dal loro stupore i bambini annuirono, seppur con una certa invidia.
«E per quanto tempo riesci a restare così?» chiese infine Lafarga, con malcelato interesse.
Emeraude fece spallucce.
«Dipende, perché lo faccio quando sono sola o con Féfé.»
E con quelle parole il suo aspetto tornò ad essere quello di una bambina.
Aston si alzò e cominciò ad armeggiare con le spolette degli aquiloni.
«Questo gioco è solo una perdita di tempo e mi fa sempre venire tanta fame: andiamo a far merenda?»
La proposta fu accolta con entusiasmo, quindi ognuno riprese i propri giochi e si diressero verso la rocca su cui s’ergeva il castello di Austina, nel bel mezzo della baia: la marea era ancora bassa, per cui non era necessario passare per il terrapieno che collegava la roccaforte alla terraferma, bisognava solo stare attenti alle sabbie mobili, ma ogni abitante di Austina imparava fin dalla più tenera età a conoscere quei luoghi. Erano giunti ai piedi delle mura e già i soldati di guardia all’ingresso fecero loro un cenno di saluto, quando un’improvvisa agitazione colse le guardie in alto fra le merlature ed il suono di un corno risuonò nella baia.
«Un caravanserraglio dalla capitale!»
Urlò qualcuno più volte, attraversando la piazza d’armi e dirigendosi verso l’ingresso del castello vero e proprio.
Emeraude trattenne il fiato e strinse involontariamente la mano di suo fratello: negli ultimi anni, dalla capitale erano giunte solo brutte notizie. La regina Supra era morta qualche anno prima durante un viaggio verso Cizeta, il suo pianeta natale: secondo i pochi superstiti, l’incidente era stato causato da un malfunzionamento del motore della nave. Quanto al giovane re Payze, la perdita della madre lo aveva portato in uno stato di depressione tale da consumargli lentamente la salute: la principessa di Austina pregò in cuor suo che non fosse accaduto nulla di grave a suo cugino.
La principessa Azure si appoggiò allo stipite del portone, riprendendo fiato, e notati i suoi figli venire verso di lei e scrutatoli dalla testa ai piedi, esclamò con cipiglio severo
«Emeraude, Ferio! Come vi siete conciati?!» quindi si rivolse all’ancella che la seguiva. «Giulietta, portali immediatamente nelle loro stanze e di’ alla balia di renderli presentabili il più rapidamente possibile: li voglio nella sala del trono prima che il caravanserraglio arrivi!»
Come alla battuta d’entrata di un’opera teatrale, Fiero giunse trafelato con giusto un paio di pantaloni, una vecchia camicia ed un grembiule di cuoio sporco di sangue e scaglie grandi come noci a cingergli i lombi: Azure lo guardò inorridita, e lo accusò di dare un pessimo esempio ai loro figli e lo spronò a mettersi qualcosa di più decente. L’uomo sbuffò, ricambiando l’occhiataccia della principessa reale: erano ad Austina, non nella Capitale, per cui l’etichetta e la forma potevano pure farsi friggere. Emeraude e Ferio si scambiarono un’occhiata divertita, mentre Giulietta li spingeva verso le scale: la loro mamma era così buffa ogni volta che si arrabbiava perché loro o il papà facevano qualcosa di plebeo, come diceva lei, tanto che a volte lo facevano apposta!
Chota roteò gli occhi quando le furono comunicati gli ordini della principessa Azure, gesto che ripeté non appena il suo sguardo si posò sui due bambini e i loro abiti: sospirò, spingendo Emeraude e Ferio verso la stanza da bagno e invitando la prima a fare la propria toeletta da sola, mentre la balia si occupava del bambino.


Il caravanserraglio non era molto grande, e Azure fu sorpresa di veder scendere dal carro più ricco sua sorella maggiore, la Principessa Murciel: le due donne si salutarono affettuosamente, scambiandosi notizie sulla famiglia e sugli amici.
«Zia Murciel!»
Le voci di Emeraude e Ferio interruppero quella conversazione, mentre i due bambini correvano loro incontro.
Murciel si volse verso di loro con un gran sorriso e si chinò per abbracciarli: Ferio saltò subito al suo collo, chiedendole regali e dolciumi, mentre Emeraude le espresse la sua gioia di saperla ad Austina per il suo compleanno.
«Però è un peccato che tu sia venuta da sola: è da tanto tempo che Payze non viene a trovarci!» concluse la bambina con una punta di delusione.
«Sua Maestà non è in condizioni di viaggiare, Vostra Altezza, ma mi ha personalmente chiesto di porgervi le sue scuse e di esprimervi il suo desiderio di rincontrarvi al più presto a Adamantina.»
A parlare era stato un uomo riccamente vestito, che aveva approfittato di quell’intervento per farsi avanti: Emeraude lo aveva visto varie volte durante i suoi soggiorni a corte, sempre in compagnia del Generale Alfgang, e a quel pensiero, la bambina risentì una strana morsa allo stomaco e il ricordo di un pomeriggio di qualche anno prima la fece impallidire.
«Lord Èlanion!» esclamò Azure, con la voce stranamente emozionata.
L’uomo fece un inchino verso di lei, rivolgendole un sorriso galante.
«Vostra Altezza, è sempre un piacere rivedervi.»
«È insolito ricevere la visita di un cortigiano vostro pari: anche io, al pari della mia compagna, sono stupito di vedervi qui ad Austina,» rispose Fiero, ed Emeraude si chiese perché suo padre era intervenuto in quel modo e con un atteggiamento leggermente difensivo.
Lord Èlanion, fece un altro inchino verso di lui.
«Il Generale Alfgang non desiderava che Sua Altezza Murciel viaggiasse da sola, e mi sono offerto di farle da scorta fino al Tempio di Tormalina: come ben sapete, signore, bisogna costeggiare la Foresta del Silenzio e che una dama e le sue ancelle sarebbero in grande pericolo senza una scorta di guerrieri a proteggerle.»
«Ma… allora non sei venuta per festeggiare il mio compleanno!» esclamò Emeraude con una punta di delusione.
Murciel si chinò su sua nipote, rassicurandola: aveva anticipato la sua partenza dalla Capitale, proprio per poter arrivare in tempo ad Austina per i festeggiamenti. La bambina parve contenta di quella spiegazione, e Fiero poté infine dare ordini sulle sistemazioni dei viaggiatori, che furono invitati a partecipare ai festeggiamenti per il dodicesimo compleanno di Emeraude, che sarebbero iniziati quella sera stessa.


La corte principale della fortezza di Austina era un brulicare di musici, di venditori di cibi e bevande, di cantastorie, giocolieri e sputafuoco che con la loro abilità scatenavano lo stupore negli adulti, così come il teatrino di marionette incantava i bambini con le sue storie di prodi cavalieri magici e principesse rinchiuse nelle loro torri di cristallo.
Al contrario del suo compagno e dei suoi figli, Azure aveva preferito restare nelle sue stanze e osservare i festeggiamenti dalla terrazza: oltre al suo naturale desiderio di non confondersi troppo con la popolazione, quella sua scelta era stata dettata dal bisogno di tranquillità e di trovare delle risposte all’inquietudine che non l’abbandonava dall’arrivo del caravanserraglio. Perché Lord Èlanion aveva accompagnato sua sorella Murciel? In fondo c’erano tanti altri cavalieri che avrebbero potuto farlo… strinse le labbra, quando l’ipotesi di una relazione fra i due le attraversò la mente: che sua sorella avesse scoperto di non essere una vedova così inconsolabile come pensava, e d’essere ancora capace di amare dopo la dipartita del suo compagno?
«Sciocchezze,» si disse, scuotendo la mano come a voler cacciare quel pensiero malevolo.
Murciel era una donna troppo seria per comportarsi in quel modo, e la sua stagione dei piaceri era terminata già da tanto tempo. Azure si rilassò sul divano, masticando degli acini d’uva, mentre alcuni acrobati si esibivano in complicate evoluzioni.
«Al fine eccovi sola, Vostra Altezza.»
La donna trasalì, rovesciando la ciotola: Lord Èlanion la osservava dalla porta, un sorriso divertito sulle labbra, poi le si avvicinò e prese a raccogliere ciotola e frutta.
«Non volevo spaventarvi,» aggiunse poi con un filo di voce, a mo’ di scusa.
Lei lo ringraziò con un sorriso un po’ impacciato.
«Non avete alcuna colpa, ero io ad essere soprappensiero…»
E per un attimo i loro occhi s’incontrarono.
Lord Èlanion non era per niente cambiato e il suo fascino e la sua bellezza erano gli stessi di diciasette anni prima: i capelli color miele scendevano ancora in morbide onde sulle sue spalle, il suo sorriso era ancora fresco e galante, ed i suoi occhi d’argento erano ancora franchi e sinceri. Azure aveva l’impressione di rivivere il suo primo incontro con quel giovane nato su chissà quale remoto pianeta, solo che lei non era più un’adolescente che iniziava ad aprirsi alla vita.
«Mi sembrate un po’ pallida…» Sempre gentile, sempre premuroso: nessuno prima di lui aveva prestato troppa attenzione alla cadetta delle principesse reali.
«È solo un po’ di stanchezza.» Non era una bugia, ma neanche la completa verità.
«C’è qualcosa che vi preoccupa?» La voce di lui era calda e serica, come un filo di seta che le si avvolgeva al cuore.
«Solo il tempo che passa troppo in fretta: mi sembra solo ieri di stringere fra le mie braccia Emeraude in fasce…» Mi sembra solo ieri che mi stringevi fra le tue braccia…
«Cephiro è un posto governato dalla volontà: se vogliamo il tempo può non trascorrere e… perfino tornare indietro.»
Azure arrossì, scostando lo sguardo. Tornare indietro, rivoltarsi contro l’imposizione di Gallardo, attendere il ritorno di Èlanion da Autozam e divenire sua a tutti gli effetti… «Tornare indietro richiederebbe un immenso sforzo di volontà.»
«E voi temete di non averne abbastanza?»
Azure strinse le labbra, tornando a guardare i festeggiamenti. Un cantastorie aveva adunato attorno a lui un nutrito gruppo d’uomini e donne, semplicemente narrando di un’antica colonna: la sua voce riusciva ad arrivare fino alla terrazza, certamente non chiara e limpida, ma sufficientemente comprensibile. Azure non aveva molta fiducia nella sua forza di volontà, ogni volta s’era lasciata trascinare dagli eventi, come un fiore in balia delle correnti: a volte aveva cercato di opporsi al volere degli altri, ma tutto quello che aveva ottenuto era stato solo tristezza e sofferenza. Alla fine aveva dovuto accontentarsi di riuscire il meno peggio possibile, ad aggrapparsi con le unghie e con i denti alla sua condizione di Principessa Reale e di riprodurre il più fedelmente possibile quella che era stata la sua vita ad Adamantina, un’esistenza perfettamente e rigidamente regolata dall’etichetta. Peccato che Fiero e i suoi figli non potevano o non volevano comprendere questo suo bisogno quasi viscerale.
«Perché avete accettato di accompagnare Murciel? Ci sono tanti altri che avrebbero potuto…» Le parole uscirono dalla sua bocca prima che lei potesse fermarle. Un lungo silenzio, durante il quale si sentì arrossire di vergogna e rabbia.
«Non è ovvio, Azure?» rispose Lord Èlanion con un filo di voce, e lei si sentì come se avesse le farfalle nello stomaco, udendolo pronunciare il suo nome. «Tutti a corte sapevano che Sua Altezza avrebbe fatto una deviazione ad Austina prima di raggiungere il Tempio di Tormalina, ed io volevo… dovevo rivederti e parlarti.»
Azure si voltò verso di lui, i suoi occhi spalancati per lo stupore, poi distolse lo sguardo e sospirò dolorosamente. «Parlarmi? Rivedermi? E di grazia, perché? Per vedere con i vostri occhi quanto mi hanno fatto cadere in basso? Per deridermi?»
Lord Èlanion posò una mano sulla sua guancia, obbligandola a guardarlo negli occhi. «Per chiederti di tornare ad Adamantina, perché quello è il tuo posto: so che hai delle ambizioni per i tuoi figli, ma non potranno mai realizzarle se restano qui ad Austina… e dove potranno ricevere l’educazione cui hanno bisogno se non nella capitale? Inoltre a corte abbiamo bisogno di te, Azure, perché nessuna balia o governante potrà mai essere veramente una figura materna per Sua Maestà: tu sei la sola persona in tutta Cephiro che possa sostituire la compianta regina Supra nella vita di re Payze. Non hai idea di quante volte quel povero bambino chiede di sua zia e dei suoi cugini, soprattutto adesso che la sua malattia si sta aggravando più rapidamente di quanto pensassero gli archiatri.»
Nell’udire quelle parole, lei si sentì un groppo in gola: tornare alla capitale, dare ai suoi figli un’educazione adeguata, vedere infine riconosciuto il suo ruolo e la sua posizione di membro della famiglia reale… ma Fiero, che cosa avrebbe detto? Non si sarebbe mai e poi mai separato da Emeraude e Ferio e lasciare Austina era l’ultimo dei suoi desideri. Strinse le labbra, pensosa, e lui prese il suo silenzio come un invito a continuare.
«E poi… e poi io ho bisogno di te, perché in questi anni non ho fatto altro che prendermela con me stesso per non essere tornato in tempo ed impedire la tua partenza… perché per quanto ci abbia provato non sono riuscito a dimenticarti…» mormorò infine, avvicinando le proprie labbra alle sue.
Azure socchiuse gli occhi, lasciandosi guidare da lui, sentendo uno spasmo al basso ventre quando l’altra mano si posò sul suo ginocchio, riportandole alla mente il ricordo di quando quella stessa mano s’avventurava in territori ben più intimi, e si rese conto che nonostante gli anni, i figli e il rispetto che nutriva per Fiero, i suoi sentimenti non erano cambiati, e le infinite prospettive che sarebbero conseguite se lei avesse accettato quella proposta, divennero chiare nella sua mente.
«Mia signora?»
Con in movimento improvviso, Azure e Lord Èlanion s’allontanarono l’una dall’altro: Chota li osservava dallo stipite della porta inarcando un sopracciglio, un’espressione fra il rimprovero ed il disgusto contraeva i lineamenti del suo viso. «Mia signora, il Principe desidera parlarvi e mi ha pregato di farvi una certa fretta,» disse infine la balia, il cui sguardo dardeggiava da uno all’altra.
Azure si levò dal divano, rivolgendo un sorriso amabile all’uomo. «Vogliate scusarmi, Lord Èlanion, ma sono costretta ad interrompere la… ehm… nostra conversazione: nell’attesa, potete osservare gli spettacoli o partecipare ai festeggiamenti, come più vi aggrada. Mi raccomando solo di prestare attenzione al nostro vino: è dolce ma traditore.»

Fiero era davanti alla finestra, lo sguardo perso nel cielo illuminato dai fuochi d’artificio, quando Azure arrivò, e con sua grande sorpresa, anche la principessa Murciel era lì: era visibilmente preoccupata e le chiare vesti fluide ed i capelli precocemente imbiancati la rendevano simile ad uno spirito in pena.
«Mi… mi era stato detto che volevate parlarmi, Fiero…» mormorò Azure, attirando su di lei i loro sguardi.
«A dire il vero, sono io che ho delle notizie da comunicare ad entrambi, sorella. Siamo certi che nessuno ci stia ascoltando?» chiese poi Murciel, rivolgendo uno sguardo inquieto a Fiero, che rispose con un cenno della testa. La donna attese ancora un momento, tormentando fra le mani un lembo della sua veste, poi puntò gli occhi su sua sorella ed esordì: «Payze è stato avvelenato, Azure. Non che sia morto, o meglio, non ancora.» Respirò profondamente una, due, tre volte. «L’ho scoperto per caso qualche giorno prima della mia partenza, quando una delle mie ancelle mi ha portato Dietta agonizzante: il veterinario mi ha detto che qualcuno doveva avergli somministrato del succo di cantabria, ed infatti è morto in poche ore. Ho subito voluto sapere chi aveva fatto una cosa tanto crudele, e mi hanno raccontato che la povera bestia aveva iniziato a star male dopo aver mangiato uno dei confetti che Payze ama tanto: ho dovuto impiegare tutti i miei mezzi per poter venire a capo di questa faccenda.» Si fermò un attimo, poi si chinò verso Azure e bisbigliò: «Ho saputo da fonte certa che dietro c’è Glaspac. L’unica cosa che posso fare è avvertirvi, perché se avessi annullato il mio viaggio proprio all’ultimo momento, avrei destato sospetti.»
Un silenzio glaciale cadde nella stanza, interrotto solo dagli scoppi dei fuochi d’artificio, poi Azure mormorò: «Perché non avete avvertito il Pilastro? In una situazione del genere…»
«Ho provato ad avere un’udienza, ma è come se Sua Eccellenza fosse sparita,» sibilò Murciel scuotendo la testa.
«Sua Eccellenza...» iniziò Fiero, come se volesse riflettere su ogni parola che usciva dalla sua bocca, «Sua Eccellenza Ginko ha deciso di invocare i Cavalieri Magici. Me lo ha detto lei stessa l'ultima volta che mi ha convocato.»
E chiudendo gli occhi, ripensò a quell'incontro.


~ Flashback ~
Le volte che il Principe Fiero di Austina era stato convocato personalmente dal Pilastro si potevano contare sulla punta delle dita, ed ogni volta era per metterlo a parte di qualcosa di importante o di grave. E qualcosa diceva al sire di Austina che in quel caso si trattasse di ambo le cose: come spiegare altrimenti la segreghezza che gli era stata esplicitata nel messaggio, oppure l’ora o il fatto che lei volesse parlargli nei propri appartamenti privati? O anche che ad accoglierlo e accompagnarlo fosse uno dei nipoti del Gran Sacerdote? Il giovane si fermò davanti ad una immensa porta in legno scolpito e, dopo aver bussato, si congedò; l’uomo lo seguì un attimo con lo sguardo, prese un profondo respiro ed entrò.
Sua Eccellenza Ginko era seduta su una poltrona presso la finestra, le vesti ufficiali avevano lasciato il posto ad un abito semplice, decorato lungo gli orli da un gallone ricamato a fiori rossi e blu, e a scaldarle le spalle un enorme, vecchio scialle di lana lavorato a maglia, retaggio di quel tempo in cui era una comune popolana. La donna gli sorrise e lo invitò a sedersi su un canapé di fronte a lei, quindi ritornò a guardare fuori dalla finestra: la luce infuocata del tramonto faceva sembrare meno pallido il suo incarnato, ma non bastava a celare la stanchezza ed i segni di una malattia protattasi per tanto, troppo tempo.
«Come stanno i tuoi figli?» chiese Ginko con un sussurro talmente lieve che Fiero si chiese per un attimo se non fosse altro che frutto della propria immaginazione.
«Bene, Vostra Eccellenza: Ferio è vivace come al solito ed Emeraude compirà dodici anni il prossimo mese,» rispose lui. «Ma non credo che mi abbiate convocato solo per questo.»
Lei rise, scuotendo la testa e volgendo gli occhi nocciola su di lui. «Fiero, Fiero... che cosa sono questi convenevoli? Non sei forse tu il mio unico parente, il pronipote di mio fratello? E non basta questo a giustificare il mio interesse nei tuoi marmocchi?» Quell’ultima parola sembrava talmente fuoriluogo nella bocca del Pilastro e detta con tanto affetto che l’uomo non poté fare a meno di ridere anche lui, tuttavia le risate morirono in fretta e lei assunse un’aria seria e pensosa. «Però hai ragione, non ti ho chiamato solo per questo.»
Come ad una battuta di uno spettacolo teatrale, bussarono: erano il Gran Sacerdote ed il Sommo Mago, entrambi stupiti di trovare il Principe di Austina presente a quell’incontro. Sol Ales era un uomo di mezz’età in apparenza dai capelli brizzolati e gli occhi indaco, il fisico era appena appesantito dagli anni, ma un tempo doveva esser stato agile e snello: era vestito in modo informale, con una veste di tessuto pesante violaceo stretta in vita da una cintura incrostata di ametiste, che lasciava intravedere la camicia di seta bianca ed i pantaloni di lana leggera e lo faceva sembrare meno imponente. Clef, invece, portava la solita tunica bianca e l’unico pezzo mancante della sua panoplia era il compricapo: mostrava la stessa età di Sua Eccellenza Ginko, ma Fiero sapeva che era una delle pochissime persone ancora in vita ad aver conosciuto il precedente Pilastro. Anche loro si accomodarono presso la donna, che con un lieve gesto della mano fece comparire quattro tazze di un brodo chiaro e fumante, dal profumo leggermente speziato, e Fiero sorrise fra sé e sé riconoscendo la ricetta di sua nonna.
«Cosa comanda, Vostra Eccellenza?» chiese Ales quando ebbero finito di bere il brodo, dando voce ai pensieri non solo suoi, ma anche degli altri due uomini.
Ginko non rispose, non subito. «Sono stanca, amici miei, molto stanca, e mi rendo conto che tutti i problemi che abbiamo qui a Cephiro sono frutto di questa stanchezza. E no, Fiero, non trovo la mia malattia una giustificazione valida al pessimo lavoro che sto facendo: il nostro paese abbisogna di un Pilastro migliore di me.» Sorrise amaramente mentre iniziava a coccolare Mokona, saltato chissà da dove sul suo grembo. «Sono sopravvissuta ai miei cari, ai miei amici, il semplice fatto di essere il Pilastro mi ha permesso di vivere oltre i limiti del mio corpo malato, ma come questo cancro infesta e s’insinua dentro di me, così la corruzione si sta diffondendo fra la nostra gente.» Quindi levò gli occhi suoi tre uomini e mormorò con voce lapidaria: «È per questo motivo che ho deciso di invocare i Legendari Cavaglieri Magici.»
Né Fiero, né Ales né tanto meno Clef riuscirono a dire una parola in risposta a tale rivelazione: si guardarono, l’uno leggendo negli occhi degli altri il medesimo sgomento. E che potevano poi rispondere?
Ma poi, deglutendo, il Mago riuscì a mormorare: «Suppongo che sia inutile chiedervi se avete riflettuto abbastanza: invocare i Cavalieri della leggenda, non é una decisione che si prende così alla leggera.»
Ed Ales incalzò: «Tuttavia morire, non é...»
«Morire?» esclamò Fiero, «Cosa intendete dire con morire?!»
Ginko sorrise amaramente, mentre con voce stanca rivelava al suo ultimo parente quale fosse la vera missione dei Cavalieri Magici, concludendo con: «È normale che la gente creda che loro siano invocati per altre ragioni: tutti penseranno che li ho chiamati per soffocare sul nascere la guerra di successione al trono che si sta per abbattere su Cephiro e non ci si dovrà stupire se, sentendosi minacciati, il Gran Consigliere ed il Generale cercheranno di impedir loro di svolgere la loro missione. Per questo motivo,» e guardò Fiero dritto negli occhi, «per questo semplice motivo la loro venuta deve restare segreta il più a lungo possibile: non dovrete farne parola a nessuno, neanche a coloro cui affidereste la vostra stessa vita.»
~ Fine Flashback ~


«Dunque Sua Eccellenza ha finalmente deciso di agire contro Glaspac e Alfgang!» sussultò Murciel stupita.
«Lei non... non si è dilungata sui dettagli,» aggiunse poi l'uomo, «ma mi ha ingiunto di non parlarne a chicchessia.»
«Mi sembra giusto: la notizia potrebbe spingere il Gran Consigliere ed il Generale ad affrettare i loro piani, che suppongo siano già ad uno stadio avanzato. Per esempio, sospetto che Lord Èlanion abbia voluto accompagnarmi per tastare il terreno ad Austina e poi potermi uccidere durante il viaggio.»
Azure sollevò la testa di scatto, fissando lo sguardo basito su sua sorella. «Che cosa?» No, non era possibile che Èlanion potesse fare una cosa simile, lei lo conosceva bene, sapeva quanto era buono e gentile e sincero… «Che cosa?» Di sicuro Murciel parlava così perché vedeva nemici dappertutto.
«Vuoi che ti ripeta di quel Lord Èlanion?» Murciel aveva pronunciato quell’ultimo nome con disgusto.
Azure chinò il capo, stringendo le mani, sentendosi in colpa per non sentirsi in colpa. «Io non… non…»
«Tu cosa? Ti vergogni perché non sai dare a ciascuno la giusta importanza? O perché alla tua età ti lasci ancora abbindolare da due parole dolci come una ragazzina?»
«Non è affatto così! E vi sbagliate, entrambi, su di me e su di lui! Come… come potete pensare, sorella, che Lord Èlanion voglia uccidervi? Un uomo come lui…»
«Un uomo come lui sarebbe capace di vendere la propria madre, pur di ottenere quello che desidera.» La voce di Fiero non era stata che un sussurro, ma fredda e tagliente come una lama. «Un uomo come lui non si fa scrupolo di approfittare dell’ingenuità e dell’inesperienza di una fanciulla per i propri comodi, e per il quale i sentimenti non sono altro che belle ed utili parole, pronto a mutare l’oggetto del proprio interesse se ne trova uno più conveniente. Un uomo come lui non merita la fiducia di nessuno.»
Azure strinse i pugni, chinando il capo per la rabbia e la vergogna, sentendosi inspiegabilmente punta dalle parole di Fiero.
«Voi parlate così solo perché vi siete fatto un’idea errata, basata sulle malevolenze, ma se conosceste Lord Èlanion tanto bene come lo conosco io…»
«Volete che sia crudele, Azure? È quello che desiderate davvero? Perché, ve lo assicuro, per entrambi sarebbe un’esperienza più che spiacevole.» Non ricevendo alcuna risposta, Fiero sospirò scuotendo il capo e s’inginocchiò davanti a lei, costringendola a guardarlo. «Vogliate riflettete un attimo e rispondetemi: se lui vi avesse amato come pensate, se ne sarebbe rimasto a Adamantina per quindici anni o sarebbe corso il prima possibile ad Austina per reclamarvi per sé?» Tacque, nell’attesa di una risposta che non giunse. «Vedete? Se io mi fossi trovato in quella situazione, non avrei esitato un solo istante.»
«Ma era già troppo tardi quando…»
«Volete che utilizzi le maniere forti, presumo.» Detto questo, Fiero si diresse verso la porta e, apertala, ordinò ad una guardia di chiamare il Capitano.
Murciel lo osservava, preoccupata soprattutto dall’espressione spaurita dipinta sul viso di Azure; solo dopo qualche tempo trovò la voce per chiedere: «Che cosa avete intenzione di fare?» Ma non ottenne risposta.
Il Capitano non si fece attendere troppo, anzi, dal suo atteggiamento si intuiva che si dirigeva proprio verso lo studio quando aveva ricevuto l’ordine.
«Dove si trovano Lord Èlanion ed i suoi uomini in questo momento?» chiese Fiero con voce fredda, scrivendo qualcosa su un frammento di pergamena.
«Nella locanda, mio signore.» Esitò un attimo, prima di continuare. «Mi sono giunte… delle lamentele sul loro conto…»
«Dì a Pletore di servire loro il suo vino migliore e di non preoccuparsi del conto.» A quelle parole, il Capitano fece per protestare, ma lui lo zittì con un gesto e gli porse il frammento di pergamena. «E digli di aggiungere della bile di garrus, per aiutare il vino a sciogliere per bene le loro lingue. Queste sono le informazioni che desidero da loro: voglio una confessione accurata e fatta a regola d'arte. E avvertitemi, quando sarà il turno di Lord Èlanion.»

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