Images and Words.

di Annika Mitchell
(/viewuser.php?uid=92090)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Outro: imprescindibile. ***
Capitolo 2: *** Montecristo, O'Malley Inn, il Jimny di Jimmy. ***
Capitolo 3: *** Non dire 'Ci scommetto' se non lo sa Michelle DiBenedetto (lode alla merda). ***
Capitolo 4: *** L'eleganza della caffettiera. ***



Capitolo 1
*** Outro: imprescindibile. ***


Attenzione: Jimmy Sullivan non mi appartiene, così come non mi appartengono gli Avenged Sevenfold, anche se io un po' appartengo a loro. Meredith Adler è un personaggio puramente inventato, così come tutta la fanfiction. Non credete a quello che leggete, credete a ciò che provate leggendolo.
 
 
 
"E' l'unico modo che Jimmy ha di vivere ancora. 
Fossi in te proverei."


 
Entrò nella mia stanza da letto come una furia, gli occhi lucidi forse per qualche birra di troppo, il petto coperto unicamente dai tatuaggi. 
Mi guardò con disprezzo, letteralmente.
Non c’era più alcuna traccia dello sguardo affettuoso e trasparente che mi rivolgeva di solito, con quegli occhi blu dalla saggezza millenaria, che, pur essendo in buona parte miopi, riuscivano a leggere le persone, i loro stati d’animo e le loro sfumature. 
«Meredith Adler» pronunciò distaccato, come una sentenza, aggiungendo poi, senza mezzi termini: «Vaffanculo.»
Colpevole.
Non dissi nulla e rimasi lì, immobile, gli occhi fissi sul tatuaggio che rappresentava tutta la sua esistenza. Tutta lì, in una scritta rossa: fiction.
Una fiction in cui il mio nome era comparso un paio di volte per poi venire dimenticato, irrilevante. Una semplice comparsa.
Se ne andò, così come era arrivato. Irremovibile ed ineccepibile. 
Lui, l’unica persona che ritenevo davvero imprescindibile, decise di risolvere tutto con un vaffanculo. Diretto, conciso, senza alcun rischio di fraintendimenti. 
E tutto crollò. La mia vita crollò, io feci giusto un passo protendendomi verso di lui, ma crollai letteralmente sul pavimento e, per chissà quale legge scientifica gravitazionale, crollarono in terra tutti i miei dischi preferiti, accuratamente ordinati in modo apparentemente casuale.
Ma scoprii da tempo che niente era casuale: tutto si spezzò. Banalmente il mio cuore, meno banalmente il mio cd preferito. 
Guardai la copertina di Images and Words dei Dream Theater, rigata proprio, destino infame volle, sul cuore rosso in fiamme. 
Me lo regalò il giorno che compii ventidue anni. Mi disse che non era riuscito a trovare nulla adatto a me, e che perciò si era deciso ad affidarmi uno dei suoi album preferiti. Gli ribadii per l'ennesima volta, con un sorriso, che non doveva disturbarsi ma all’interno c’era un post-it, scritto in stampatello, che diceva solamente: “Trattalo come un figlio. Jimmy”.
Non doveva davvero disturbarsi.
Fu in quel momento che scoppiai e, senza preoccuparmi, lasciai che le lacrime mi rigassero il viso.
Piansi come si piange ai funerali, in silenzio, senza lottare contro le lacrime, piansi per la perdita di un figlio e di un amore, piansi perché quello era esattamente il luogo ed il momento per farlo. Piansi per me stessa e per il mio essere patetica. Piansi ricordando di quando mi disse che ero la donna più bella del mondo, piansi per una vita passata aggrappata ad un uomo troppo alto, troppo tatuato e troppo intelligente per me, piansi tutte le energie, tutte le mancanze, piansi per ciò che era e che non è. 
Ma, soprattutto, piansi per Jimmy Sullivan.






 
Note a pié pagina, si chiamano (?): 
Innanzitutto salve, come state? Io sto vedendo un film noioso e banale dal finale scontato, e non chiedetemi perché non cambio canale.
Ma torniamo a noi. So che è difficile giudicare con così poco, ma mi farebbe piacere avere una vostra recensione, sempre per quella storia del migliorarsi, perché non si è mai abbastanza. 
Jimmy, Jimmy e Jimmy. E' un'impresa scrivere di lui, perciò vi chiedo infinitamente perdono se questa non è altro che una pallida imitazione anche malriuscita. 
Vi avverto, proverò in tutti i modi di non scrivere del Jimmy stereotipato, il gigante buono e amico di tutti. Tenterò di renderlo più vivo e umano, in un certo senso. 
Ma questi sono i miei buoni propositi, non è detto che io riesca a mantenerli. 
Voglio ringraziare Nishe, per aver betato questa intro, che in realtà è un outro. 
Vorrei far ricredere la mia migliore amica, convinta (forse giustamente) che la mia sia una semplice ossessione.
Ringrazio Jimmy e le cose non dette. 
Prometto a me stessa di concluderla, perché dovrò pur concludere qualcosa, nella vita. 
Ann.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Montecristo, O'Malley Inn, il Jimny di Jimmy. ***


“Sono pienamente consapevole che tu ami Jimmy come si amano le cose sante, i CD preferiti e i libri belli regalati dalle persone giuste.”
- piuma_rosaEbianca




Qualche vita precedente.

Me ne stavo lì, stesa sotto la luna, gli occhi persi nel vuoto, a riflettere come uno specchio rotto.
A riflettere sulla vita, la morte e le sottili linee, quasi impercettibili, che le separavano dalla pura sopravvivenza.
Mi dondolavo goffamente sull’amaca che la zia Willow aveva fatto mettere in giardino, convinta che fosse un elemento indispensabile per la vita di ogni artista che si rispetti. Io mi limitavo a farla contenta scattando qualche fotografia random, che lei, prontamente, conservava con cura in un album infinito intitolato “Quand Meddie sera célèbre”, titolo che univa la sua passione per la poesia francese a quella per i soldi. Era convinta che un giorno sarebbe divenuta ricchissima, vendendole.
 Io stavo sempre lì, a dondolarmi, fotografandomi i lacci delle scarpe coi piedi all’aria, ridendo per ciò che avrebbe potuto pensare chicchessia assistendo alla scena, quando mi arrivò un messaggio.
Sorrisi come una bambina che sa già quale sarà il suo regalo di compleanno.

Jimmy, 05/08, 22:34
Sto arrivando, piccola.

e dopo pochi secondi

Jimmy, 05/08, 22:34
Stasera birra all’O’Malley Inn. Niente ma.

Sorrisi nuovamente, un po’ contrariata.
Andare all’O’ Malley Inn significava incontrare quella ragazzina sensibilmente più bassa di Johnny che aveva una cotta per Jimmy dai tempi  in cui si era messo in testa di diventare qualcuno, vale a dire da sempre. Si chiamava Leana, aveva i capelli biondi tinti e le extensions, gli occhioni languidi da cerbiatto in pericolo e il sorriso dolce di chi sa conquistarsi un uomo.
Non la sopportavo perché la temevo, principalmente, e perché non sarei mai stata come lei, secondariamente. Io non ero in grado né di conquistare un uomo, né di tenermelo stretto.
Anche se poi nessuno era in grado di conquistare Jimmy e di tenerselo stretto, perché lui  era una di quelle persone che non appartengono a nessuno, ma a cui tutti vorrebbero appartenere. Era fatto così.

Scesi dall’amaca barcollando, rischiando di cadere in terra e di rompermi sia la noce del collo, che la mia bellissima Canon eos 40d.
Mentre valutavo l’idea di rientrare a sistemarmi un attimo, dati i capelli neri scarmigliati dopo la lotta corpo a corpo con l’amaca assassina,  un Jimny nero con tanto di teschi mi abbagliò, sgommando nel vialetto.
Andai incontro alla ridicola accoppiata Jimmy-Jimny, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
«Che cazzo ti sei messo in testa?» lo salutai, indicando la bandana con i teschi, che faceva pendent con la macchina sulla quale ero appena salita.
«L’ho fottuta a Syn. Perché, non ti piace?» mi rispose, facendo retromarcia.
«Credevo che le bandane si mettessero quando il sole è troppo forte e si rischia un’insolazione.» precisai.
«Eh, credevi male.» concluse con un sorrisetto, mentre fumava uno di quegli schifosissimi sigari Montecristo, che già il nome la dice lunga.
Mi accesi una Lucky Strike rossa, ammirando il lungo mare californiano.

Feci per parlare, ma Mister Plague mi batté sul tempo, con quel suo timbro di voce irriproducibile che nessun altro al mondo aveva: «Andiamo all’O’ Malley punto, lo sai che lì ti regalano un’Heineken ogni tre cocktail che prendi, e io ho intenzione di prenderne decisamente di più.».
Gli sorrisi scuotendo la testa e lui mi rispose con un occhiolino malizioso.
«Hai intenzione di darmelo, un bacio, visto che dopo non potremo più?» mi chiese poi.
«Ci sono anche gli altri?» sbuffai, gettando dal finestrino il filtro dell’ormai non più sigaretta.
«Ovvio.» chiarì.
«E non hai ancora intenzione di dirglielo?»
«Ma di dire cosa, esattamente?» mi ammutolì.

Il punto era che gli altri non sapevano niente della nostra relazione, che, di fatto, relazione non era.
Io ero semplicemente la fotografa degli Avenged Sevenfold, per uno scherzo del destino, il quale volle che, quella mattinata di luglio del 2001, la mia datrice di lavoro - Alicia Harris - si ammalasse di qualcosa di talmente imbarazzante da rimanere tutt’oggi un punto interrogativo. Così, anziché ritrovarsi davanti quella burbera e grassottella fotografa dai capelli cotonati di Alicia, si ritrovarono me: una ragazzina impacciata e timida, dalla maglietta troppo larga e dai capelli troppo lunghi sul viso, con un sorriso troppo timido, alle prese con il primo servizio fotografico della sua vita.
Fu così che li incontrai: cinque satanisti megalomani, pronti a partire per il loro primo tour negli Stati Uniti.
Uno, che si chiamava Ash, come il protagonista dei Pokèmon – ma che non avrei più rivisto, dopo quella volta – e un altro, alto sicuramente due metri e mezzo, dai capelli e dal pizzetto improponibili, con gli occhi più belli che avessi mai visto in un intera esistenza passata e futura,  che mi disse di chiamarsi James, Jimbo, The Rev, Mr. Plague e Rathead e che io decisi di chiamare semplicemente Jimmy, mi chiesero di uscire, quella sera, per una birra.
«A stasera, Londra.» mi sorrise James, alludendo alle mie origini inglesi e al mio accento britannico.
«Porta un’amica!» si preoccupò, poi, di salutarmi Ash.
Io un’amica gliela portai, ma la poveretta dovette chiamare un taxi e tornarsene a Fountain Valley, un paese non troppo lontano da Huntington Beach, perché del suo cavaliere non si vide nemmeno l’ombra.
Quello fu il nostro primo appuntamento e, per la prima volta in vita mia, mi sentii davvero speciale. Era quello il suo più grande dono, più grande del talento che aveva, della sua simpatia sarcastica e pungente, della sua risata contagiosa, del suo essere essenzialmente un coglione con un gran cuore: far sentire uniche, speciali e amate le persone che lo circondavano. Una dote assolutamente naturale, unica nel suo genere.

«A che pensi?» mi chiese, interrompendo il flusso di ricordi.
«A tutto e a niente.» risposi sinceramente, perché non potevo definire in altro modo l’assoluto, ovvero tutto ciò che, nella mia vita, aveva a che fare con lui.
Rimase in silenzio, lo sguardo assorto e fisso sulla strada costeggiata da palme e villette a schiera.
Aveva lo sguardo di chi, per disgrazia o per fortuna, in questa vita ci vede poco e nulla, ma ha gli occhi per vedere lontano, là dove nessuno ha mai pensato di guardare.
Io, invece, rimasi a guardarmi le unghie mangiucchiate, con lo stesso sguardo un po’ deluso da sé che è proprio di un fumatore, in quell’attimo in cui si rende conto che potrebbe morire da un giorno o l’altro, a causa di quella piccola compagna di una vita, che comunque non abbandonerebbe mai. Non mi ricordai, però, che sarebbe stato meglio smettere. Pensai, anzi, di accendermi una sigaretta, ma dovetti rinunciarvi, perché eravamo ormai arrivati al bar irlandese che, da sempre, era lo sfondo delle nostre serate.

«Med.» disse, dopo che ebbi sbattuto la portiera.
«Sì?» chiesi senza guardarlo, sistemandomi la canotta degli Iron Maiden stropicciata e gli short che forse erano un po’ troppo short.
Mi guardò, soppesando il da farsi, poi scosse la testa e mi sorrise in un modo che, chiunque conoscesse Jimmy Sullivan, avrebbe definito sospetto.
Entrammo nel locale, che poteva definirsi un’osteria medievale dei giorni nostri, con tanto di tavoli in legno, lampade in ferro battuto, archi ovunque e finestre gotiche. Un bijou.
Avvistammo i ragazzi al nostro solito tavolo, abbastanza vicino al bancone per un servizio più rapido, ma sufficientemente appartato e lontano dal resto della clientela, soprattutto da quelle ragazzine moleste delle loro fan.

Feci per salutare tutti con quella che era la nostra stretta di mano da tempi ormai immemorabili, quando successe l’inimmaginabile, ma ciò per cui ero pronta da praticamente sempre, forse l’utopia che avevo covato morbosamente per tutti quegli anni. Un’utopia che si realizzò.
In quel momento Jimmy mi accarezzò una spalla e mi baciò, appassionato come sempre e delicato come non mai, sotto gli occhi di tutti: Zacky, che ci guardava ammirato, avrebbe volentieri fatto partire un applauso generale con tanto di urla e schiamazzi eccitati, Brian, che se ne stava con la bocca aperta farfugliando nulla di fatto, aveva appena disimparato a parlare, Matthew ci sorrideva gongolante dietro i suoi occhiali a specchio che no, non levava nemmeno per andare a dormire, e Leana, che aveva appena fracassato in terra almeno cinque boccali di birra, ci fissava con una faccia disgustata e smarrita al tempo stesso. L’unico che rimase impassibile fu Johnny, che parve addirittura non accorgersi della nostra esistenza, assorto com’era a bersi il suo gin lemon in grazia di Dio.

Tutto in pieno stile Sullivan, in linea con il suo essere costantemente agli estremi delle cose, senza vie di mezzo e sfumature. O tutti o nessuno, punto. Sceglieva sempre il modo più plateale possibile per rendere partecipi gli altri della sua vita, e se così non poteva essere, allora preferiva semplicemente tenersi tutto per sé.
Jimmy era il risultato stesso della passione dalla quale si era lasciato guidare per tutte le decisioni della sua vita, da quelle più irrilevanti a quelle che l’avrebbero drasticamente cambiata, quella stessa passione che l’aveva portato a farsi arrestare più di dieci volte in diversi stati del mondo, quasi sempre per rissa, e che ora l’aveva spinto a rendermi una donna un po’ più speciale rispetto alle tante altre che avevano fatto, e facevano, parte della sua realtà. 



Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Non dire 'Ci scommetto' se non lo sa Michelle DiBenedetto (lode alla merda). ***


"Se non scrivi ti stacco i capelli, giuro."
- piuma_rosaEbianca

 



Alla mia migliore amica, 
ai suoi sogni e
al nostro futuro assieme.


Mi resi conto che avevano oltrepassato il limite nel momento in cui Synyster decise di scommettere con Zacky se avrebbe avuto, o meno, le palle di fargli un pompino. Testuali parole, spinte da un carico di alcool impressionante. La cosa ancora più impressionante fu che Zacky accettò la scommessa, assicurando all’amico che sarebbe stato il pompino migliore della sua vita. Testuali parole.
Mi alzai di scatto, perché non volevo saperne né vederne oltre, e mi trascinai dietro Rev, non messo meglio dei suoi compari.
Lo portai fuori, sul terrazzo del locale, che si affacciava sulle meravigliose coste del Pacifico.
«Punto primo: sei ubriaco. Punto secondo: sarò io a guidare, non mi interessano le tue teorie sulla guida femminile e sul fatto che il tuo Jimny è un bene più unico che raro, perché tanto tu, conciato così, faresti più danni di una qualsiasi donna al volante intenta a truccarsi e a guardare un cartellone pubblicitario dell’Abercrombie allo stesso tempo. Punto terzo: ti rendi conto che Zacky in questo momento sta facendo un pompino a Brian e che io sono l’unica sobria, quindi l’unica che si ricorderà di una scena raccapricciante come questa?» gli dissi, sottolineando l’ultima frase con un tono tra lo sconvolto e il divertito.
Lui sollevò un sopracciglio e mi squadrò con l’aria di chi sta per fare la rivelazione del secolo, barcollò leggermente, per poi lasciarsi cadere sulla sedia più vicina, che per poco non mancò, e dichiarò, quasi solenne: «Non usare quest’aria da supponente con me, perché lo sanno tutti, da che mondo è mondo, che le supposizioni non sono altro che dubbi fondati nei pregiudizi.».
Alzai gli occhi al cielo, sospirando, non potendo dargli torto e non volendolo assecondare.
Poi Jimmy, facendo gesti eloquenti con il braccio sinistro, come per chiarire che non avevo diritto di replica, aggiunse: « Comunque sentimi bene, io non sono ubriaco: sono irlandese e si dà il caso che gli irlandesi, per quanto bevano, non sono mai ubriachi, a differenza di voi inglesi con i vostri dannati tè pomeridiani.»
«Devo ricordarti, forse, di tuo cugino Ryan, irlandese purosangue, che, quando è venuto a festeggiare con noi per san Patrizio, ha bevuto tanta di quella birra da finire per convincersi di essere un folletto e di dover proteggere una pentola d’oro dalle grinfie degli avidi?» sorrisi trionfante.
«Ma Ryan è un caso a parte, è talmente deficiente che anche all’anagrafe hanno fatto storie per mettergli la residenza a Drogheda.» sbuffò lui, accendendosi una Marlboro rossa, perché aveva finito i sigari.
Ignorai la sua precisazione, continuando imperterrita a raccontare: «Senza tralasciare il fatto che credeva che il secchiello del ghiaccio fosse la pentola ed io e Zacky gli avidi. Le risate più belle, quando cominciò a tempestare Zacky di ghiaccio, urlandogli contro che non sarebbe riuscito a portargli via il quadrifoglio, perché l’avrebbe protetto a costo della vita, mentre l’altro continuava a dire che gliel’avrebbe fatta vedere, che di secondo nome faceva Vengeance, e che uno squilibrato così non poteva che essere tuo parente.»
Al che Jimmy si mise a ridere, con la sua risata fragorosa e indescrivibilmente contagiosa; non importa quale tema si stesse trattando: se rideva lui, ridevano tutti, a effetto domino.
Decisi così di immortalare il momento. Bastò un clic, un flash, e rubai l’anima di quella risata, con la Canon che portavo sempre con me, appesa al collo, come porterebbe il crocifisso un credente e come portava gli occhiali Shadows: una protezione. La mia, oltre ad essere una protezione dietro cui nascondere lo sguardo e i pensieri, era un’arma attraverso la quale rubare l’immagine delle cose belle, catturarla egoisticamente, perché il ricordo ne rimanesse intatto, incancellabile, eterno.

«Bimba.» mi appellò teneramente, con un sorrisetto machiavellico, conscio del fatto che detestavo con tutto il cuore dei miei peccati quel nomignolo sgraziato. Mi imbronciai, guardandolo truce e maledicendo il giorno in cui il Padreterno, o chi per lui, decise di farmi innamorare di un uomo come Jimmy Sullivan, uno di quegli uomini che sanno trattarti come Hendrix trattava le sue chitarre, ma a cui non ti riesce mai dire di no, anche se lo sai - perché lo sai - che prima o poi ti ritroverai sola, abbandonata, a cullarti nei ricordi di un amore tanto bello quanto impossibile e forse meno amore di quanto tu abbia mai creduto. Il punto è che Jimmy, come tanti prima di lui, si era innamorato solo una volta in vita sua, di un’amante che non avrebbe mai abbandonato, neppure per tutte le donne e la birra del mondo: la musica.

Come suo solito, senza smentirsi mai, Jimmy confuse quel po’ di cervello rimastomi rendendo i miei pensieri un semplice ammasso di nulla, proprio perché il nulla ha quella caratteristica tutta sua di essere troppo complesso da concepire e assolutamente impossibile da esprimere.
Mi cinse i fianchi, impacciato in una tenerezza mai mostrata, frettoloso in un movimento inaspettato, troppo adulto in un bacio innocente - che poi dove diamine abitasse l’innocenza, nessuno sapeva dirlo - serpente ammaliatore, il suo sorriso appena accennato sulle mie labbra, la sua lingua e il mio fiato corto, le sue mani grandi ad accarezzarmi, il mio labbro inferiore tra i suoi denti, le mie mani tra i suoi capelli, un bacio sul collo e i brividi sulla schiena, i suoi occhi blu nei miei incantati e imploranti, e le sue mani,  la sua bocca, il suo respiro sul collo, e di nuovo così, chissà per quante lune e quanti solstizi, io persa completamente in lui, millantatore di verità scomode.

«Bri, sei qui, tesoro?» ci interruppe una voce femminile, fastidiosa quanto il ronzio di una zanzara di notte e inopportuna come lo sarebbe stata la mia vicina di casa se fosse andata in giro con indosso i boxer del suo defunto marito; cosa che, per inciso, aveva fatto, ma bisogna capire che l’età, a ottant’anni e rotti, gioca brutti scherzi.
Se c’era una persona, in tutta Huntington Beach, di cui realmente non mi spiegavo l’esistenza, che sopportavo addirittura meno di Leana McFadden, be’, quella era Michelle DiBenedetto, con i suoi capelli castani mechati ed i suoi mini abiti semi trasparenti.
Non la digerivo, non la tolleravo, mi recava fastidio anche solo condividere la stessa stanza con lei, per motivazioni apparentemente stupide e insensate, ma fondate, in realtà, nelle innumerevoli osservazioni dei comportamenti sempre più irriconoscibili di Brian.
«Scusate!» aggiunse poi, fingendosi imbarazzata per aver, evidentemente, interrotto qualcosa. Ci guardò con occhi timorosi, valutando il da farsi.
«Non è qui.» ruppe il suo silenzio Jimmy, tenendomi ancora stretta tra le sue braccia.
Michelle sorrise un po’ contrariata, avvicinandosi a noi a cavallo dei suoi tacchi da equilibrista.
«Lo vedo, grazie. Ma sai dov’è, Jim caro?» disse, facendomi rabbrividire per il tono stucchevolmente falso che gli aveva rivolto.
Jimmy si irrigidì e la guardò con un’aria di sufficienza che mai gli avevo visto prima, fece per dirle qualcosa, ma lo precedetti repentina: «È da Jason.». Improvvisai, con una voce forse un po’ troppo sicura e con un’espressione che non ammetteva che venisse messo in dubbio ciò che avevo appena detto.
Jimmy non mi tradì e rimase impassibile; l’unico gesto che fece fu un mezzo sorriso di ringraziamento: in fondo stavo salvando il culo del suo migliore amico, che probabilmente era ancora chiuso nel gabinetto del pub a fare chissà che cosa con Zacky.
«Strano» cominciò meditabonda la gemella, con un’espressione da pesce lesso stampata in faccia che avrei dovuto immortalare seduta stante, tant’era esilarante. Aggiunse poi, con un’aria di scettica incredulità: «Mi aveva detto che sarebbe venuto qui con tutti gli altri, non cambia mai programma senza avvertirmi.»
«Questa volta l’ha fatto.» le rispose Rev, con aria di sfida.
Michelle, ancora titubante, si accigliò e scrollò le spalle, ci fece un cenno con la testa, per poi alzare i tacchi e andarsene.

Tirai un sospiro di sollievo non appena varcò la soglia e sorrisi ammiccando a Jimmy.
Lui, tutt’altro che sollevato, tolse le mani dai miei fianchi e disse secco: «Vai a chiamare Syn, quella testa di cazzo.».
Lo guardai come se si fosse appena bevuto il cervello in una bottiglia di vino italiano, strabuzzai gli occhi facendo di no con la testa, boccheggiai per qualche minuto ed infine pronunciai smarrita, se non imbarazzata, senza riuscire a comporre una frase di senso compiuto: «No, no, no, no … Metti che, insomma … Lui e Zacky …! Me li trovo lì, e poi, cioè …?», infine sbottai: «Chiamatelo te!».
Lui alzò gli occhi al cielo, scostandosi distrattamente i capelli dal viso, con un gesto che era solito fare Zacky. Scosse la testa, con la stessa disapprovazione nello sguardo di un insegnante che spiega cose semplici ad un branco di capre, quando in realtà le capre non stanno in branco: «Sono ubriaco, ricordi?!» concluse, quasi spiritato.
Lo guardai, senza vederlo davvero, assorta nel trovare un nesso logico tra la situazione in cui ci trovavamo e la sua scusa campata per aria. Mi ci volle un attimo, su per giù, per accertarmi che non ve ne era nessuno.
«E con ciò?» chiesi, scrutandolo attentamente, le labbra strette tra i denti, curiosa di sapere cosa si sarebbe inventato.
Jimmy sospirò indispettito, appellandosi a chissà quale santo per trovare la pazienza di spiegarmi cose così ovvie e banali. Quando la trovò, mi rispose lentamente, come se fossi rincoglionita quanto la sua povera nonna: «Andare alla ricerca dei propri amici ubriachi, probabilmente nudi, chiusi nel cesso di un pub, solo Gesù Cristo sa in quale stato e posizione, a scommettere chissà che cos’altro, rientra nelle cose vietate per legge a chi ha bevuto, assieme alla guida e all’uccisione per legittima difesa di quegli schifosissimi e orripilanti piccioni.»
«Quindi guido io!» lo guardai, vittoriosa.
Mi fece un occhiolino furbesco: «Alcune leggi sono fatte per essere infrante.»
E aggiunse: «Specie se si parla di piccioni.», rabbrividendo infine, schifato dal Creato.
Gli sorrisi comprensiva, un po’ madre, un po’ figlia com’ero.
Mi strinse la mano sinistra e mi fece segno con il capo di rientrare, in silenzio. Così facemmo, entrambi convinti che sarebbe toccato all’altro compiere l’ingrato gesto, ovvero richiamare quei due alla realtà, una realtà in cui entrambi erano chitarristi famosi, fidanzati e, soprattutto, etero.

«Dove eravate?» ci salutarono Shadows e Val all’unisono, non appena ci videro arrivare mano nella mano.
Valary, mia grande amica dai tempi in cui era l’unica manager dei ragazzi, sorrise, felice di notare che io e Jimmy vivevamo finalmente la nostra storia alla luce del sole, e che non ci nascondevamo più per evitare gossip e malelingue.  
«A fumare.» rispose con un occhiolino Jimmy.
«Dov’è Johnny?» chiesi, notando che il piccoletto non era dove l’avevamo lasciato poco prima.
«Bella domanda.» rispose Valary, portandosi una mano accanto alla bocca, meditabonda.
«Ci starà provando con una bella ragazza, sicuramente troppo alta per lui. Mi piacerebbe sapere che morte pietosa hanno fatto Syn e Zacky, invece.» disse Matt, levandosi gli occhiali a specchio, per tentare di vederci chiaro in quella faccenda.
Io e Jimmy ci guardammo così intensamente che quell’attimo sembrò durare un minuto, poi deglutii e presi un respiro profondo, per spiegare l’accaduto senza rischiare di essere fraintesa.
«Il fatto è che ci troviamo in una situazione di …» cominciai, prendendomi tempo, con una calma innaturale nella voce che, di fatto, non mi apparteneva.
«Merda.» concluse per me Jimmy.
«Esatto.» dissi estasiata dal rapporto di sinergia che si era instaurato.
«No, no. Merda.» ripeté, guardando l’ingresso del locale con occhi sgranati.
Al che voltammo tutti lo sguardo in quella direzione.
Io spalancai la bocca e rimasi tanto immobile che nemmeno un baccalà sarebbe riuscito ad imitarmi; Matt si rimise gli occhiali, proprio perché non ci stava capendo nulla; mentre gli occhi di Val vagavano alla ricerca di risposte, posandosi prima su di me, poi su Jimmy, nuovamente su di me ed infine sulla gemella, che, disgraziatamente, le somigliava solo fisicamente.
Michelle DiBenedetto varcò la soglia del locale, nera di rabbia, gli occhi fuori dalle orbite, i pugni stretti lungo i fianchi, il labbro inferiore tra i denti e le sembianze di un rottweiler impazzito; Gena Paulhus accanto a lei, invece, sembrava non sapere neppure perché si trovasse lì, ignara di tutto, addirittura un po’ impaurita per l’atteggiamento della ragazza che aveva di fianco. A finire il corteo c’era Jason Berry in pigiama, assonnato, adirato per essere stato svegliato alle tre di notte da una schizzata come Michelle e in attesa di una spiegazione valida per non mollare tutto e tutti seduta stante.
Per tutta risposta, alla scenetta da sitcom spicciola, si aggiunse Johnny, che camminava a braccetto con una bionda alta due volte lui, un sorriso che andava da orecchio a orecchio, noncurante di ciò che stava per accadere.
«Merda.» ripetei.




Note a pié pagina:
Chiedo scusa per il ritardo, in caso qualcuno aspettasse di leggere il nuovo capitolo, ma sono andata al mare, poi ho cominciato a lavorare e quindi non ho avuto nemmeno un attimo per sistemarlo. 
No, non sono una slasher, quindi sappiate fin da subito che questa non è una slash, nonostante il capitolo dica l'esatto contrario. 
Sì, sono stronza, perché è finito "sul più bello" (a seconda dei concetti che si hanno del bello, chiaramente).
Nulla, mi piacerebbe avere una vostra opinione, visto che è una settimana che rimango alzata la notte per scriverlo. 
Non mi offendo se mi dite che dovrei fare altro nella vita, anzi! 
Vi saluto, c'è la cena che mi aspetta.
Baci, abbracci e carinerie, alla prossima. 

Ann.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** L'eleganza della caffettiera. ***


A Matt Bellamy, che disturba i miei sogni
sorseggiando del caffè con mio padre.



Era esilarante.
Il fatto che Zacky avesse due occhi ed una bocca, separati da un nasone enorme.
E che si trovasse in piedi, in un vespasiano, a guardarmi austero dall’alto del suo su-cesso.
«Syn, mettiti sdraiato di schiena, poi alza le gambe all’aria, tira su il culo, mantieni la posizione e fai la candela.» mi spiegò, mortalmente serio.
Feci come mi disse, o così mi parve, senza sapere neppure il perché delle mie azioni.
«Non ci siamo, sembri un’anguilla morente! Queste sono le basi per una rockstar che si rispetti, dovresti saperlo!».
Lo guardai, dal basso di quella posizione tutt’altro che comoda, probabilmente mi insaccai il collo, e dissi, o forse gridai, biascicando: «Solo per fartelo sapere… Solo per fartelo sapere, non si suona la chitarra con il collo, fratello. Si suona con il bum bum!»*


«Ricordo solo che poi mi ritrovai la macchina fotografica di Maddie davanti al naso, con una cazzo di lucina rossa lampeggiante che non riuscivo a smettere di fissare, e che la risata di Jimmy fu tanto forte da essermi risuonata nella testa fino a quando non ho smaltito la sbronza.» concluse di raccontare Syn, con quel sorrisetto strafottente che da sempre gli apparteneva, e per sempre gli sarebbe appartenuto.
«Io ricordo anche che Michelle venne a svegliarmi alle tre del mattino, sbraitandomi qualcosa come: “Brian sei venuto qui senza avvertirmi come hai potuto io no tu cioè ehi! Jason, blabla, Brian?! JASON DOV’E’ BRIAN CAZZO SVEGLIATI DOV’E’ QUESTA ME LA PAGANO TUTTI BLABLA!”.» disse Jason, storcendo il naso e producendo una vocina stridula, per imitare al meglio l’isteria della ragazza.
Si misero tutti a ridere di gusto, tranne la diretta interessata, che abbassò lo sguardo contrariata, e la gemella, che accennò un semplice sorriso. 
«So solo che vi avrei ammazzati tutti, giuro, se a Val non fosse venuta l’idea di far vedere quel video a tutti i fans, mettendolo nel dvd. Mi era sembrata una punizione più che sufficiente, così ho deciso di non infierire oltre sulle vostre infime vite.» aggiunse poi, facendo un occhiolino a Val, che rispose con un’espressione descrivibile come consapevolmente modesta.
«Io però non ho ancora capito una cosa.»
«Ci sono tante cose che non hai la possibilità di comprendere, Brian, ma non ti biasimo. Avessi io un quoziente intellettivo come il tuo, probabilmente non saprei nemmeno scrivere. Aspetta, tu sai scrivere, vero?» rispose repentina Gena, la quintessenza del sarcasmo. Zacky la abbracciò, cingendole i fianchi, come per chiarire all’intero cosmo che una donna così non poteva che appartenergli.
«Spiritosa.» le fece una smorfia il chitarrista, per poi continuare: «Perché nel dvd ci sono solo io, e Zacky, in piedi nel cesso, non è stato ripreso? È ingiusto.»
«Syn, non dare nulla per scontato. Ero nella tua stessa situazione, lo sai bene.» cominciò a raccontare Baker, con quell’espressione compiaciuta che nessuno riusciva mai a levargli dal volto, quando si trattava dei suoi monologhi interminabilmente noiosi.
«Devi sapere che io, al contrario tuo, non appena ho scoperto l’accaduto, mi sono fiondato da Val – e Matt può confermare – perché io sono sempre stato un ragazzo di sani principi, così come mia madre mi ha insegnato, perché sarò anche un po’ miscredente, ma giuro su Dio che da che mondo è mondo – e Gena può confermare – non permetto si muovano accuse infondate, soprattutto se … »
«Jimbo, per l’amore di Gesù Cristo, vieni a darmi una mano!» interruppi i racconti di Zacky, gridando dall’altra stanza, con del caffè steso sulla faccia come fosse fondotinta, e dei chicchi ancora da macinare sparsi per tutta la cucina.
«Ehi Rev, ti sta chiedendo una mano come solo tu sai fare, ma mi raccomando: mano per mano, come dice il detto.», io non potei vederlo in faccia mentre lo disse, siccome vi erano un corridoio spoglio e una camera da letto a separarci, ma so di per certo che gli fece l’occhiolino.
«Haner, non so se fai più schifo tu, o quelli che stanno ridendo per ciò che hai detto. Voglio sperare che stiano ridendo solo della tua stupidità. Mi faresti quasi pena, se non ti conoscessi davvero.» risposi alla sua battuta di cattivo gusto, affacciandomi alla porta del salotto col caffè sul naso, gli occhi verdi ricolmi di sfida mista a supplica, e un grembiule verde acido ricavato da un vecchio vestitino regalatomi da Michelle.
Lo sguardo supplichevole scomparve, non appena Jimmy rivolse un sorriso comprensivo e pacato al mio naso marrone ed al mio grembiule verde (che chiamai in seguito Rancid, sia per il colore imbarazzante, che per la canzone punk che mi balzò in mente in quel momento).
«Bimba.» cominciò a dire lui «Non puoi definire qualcuno come “stupido”, con del caffè sulla faccia, non credi?» concluse, con una voce così dolce da rendere ancora più palese la presa in giro.
«Ho chiesto aiuto, non pareri.» tergiversai io, dirigendomi nuovamente verso la cucina, consapevole che Jimmy mi stesse seguendo.
Per un attimo mi balenò in mente l’idea di fermarmi nella camera da letto lì vicino, e di fargli passare le pene dell’inferno – senza risparmiare quelle del purgatorio – desiderosa di appartenergli, in quell’istante, e di arrivare fino in paradiso, assieme a lui. Poi, gettando uno sguardo su Rancid, mi ricordai del vero motivo per cui avevo bisogno delle mani di un batterista – pseudo-pianista – che tutto sapevano maneggiare con appassionata, ma al contempo cauta, determinazione.
«Devo fare il caffè.» gli dissi rassegnata.
«E tu per fare il caffè fai scoppiare la terza guerra mondiale?!» mi chiese sconvolto, alla vista della caffettiera esplosa, del macina-caffè pieno fino all’orlo e della quantità esorbitante di caffè sparso ovunque, che avrebbe tenuto sveglio un intero esercito per almeno un mese; per non parlare degli aborti di biscotti disseminati ovunque, in teglie troppo piccole per contenerli.
«È che noi in Inghilterra il caffè non lo sappiamo fare.» mi giustificai, guardandomi i piedi.
«Nemmeno in Irlanda siamo capaci, per non parlare della California, ma è proprio per questo che esiste la tecnologia.» mi rispose, con ragionevole sicurezza nella voce.
«Ma poi perché ti saresti messa in testa di fare il caffè, se sono anni che lo prendiamo da Vincent?» aggiunse poi, alludendo alla caffetteria che stava a circa 20 km da Huntington Beach, ma dove andavamo tutti praticamente ogni giorno per fare rifornimento di energia: chi indaffarato con i preparativi per il tour, chi per suonare al meglio, chi per fotografare alle ore più improponibili, e chi, come Syn, per farsi fotografare al meglio mentre suonava alle luci dell’alba preparandosi per il tour.
«Arriva Bells dall’Italia.» gli sorrisi, semplicemente.

Berenice Shylock, amica di infanzia dai tempi in cui eravamo vicine di casa nella periferia di Londra, era diventata un’architetto noto in tutto il mondo, grazie al suo incommensurabile amore per l’arte italiana e alla sua dedizione nello studio. Un po’ megalomane, amava tingersi i capelli di rosso, collezionare vinili e andare ai concerti di tutti i generi; aveva una vera e propria passione per un certo Brunelleschi, da cui venne fuori il suo disgraziato soprannome. Successe, infatti, che un giorno lo chiamai Bellsky, per una di quelle strane circostanze che solo ad un’inglese possono capitare. Lei rise così tanto e così forte che presi a chiamarla così, per il puro gusto di indispettirla. Perdemmo le ultime due lettere per strada, chissà in che modo, e da quel momento in poi fu per tutti Bells.

«Ma chi, Campanellino?»
Per tutti, eccetto che per Jimmy.
«Sì, proprio lei. Non la vedo da due anni, dall’ultima volta che avete fatto tappa in Italia con il tour.» dissi, con gioia, ricordando i tempi passati.
«Ai tempi frequentavo ancora Milla, ti ricordi?»
« Come dimenticarsi.» sospirai, con una nota di gelosia nella voce. Ai tempi Jimmy frequentava me, una certa Emily Lawton del Texas, e mille altre groupies; l’unica che da sempre, e per sempre, si era meritata eterna fedeltà, non era che la sua batteria.
«Pulce.» mi appellò, baciandomi il naso sporco di caffè.
«Vai a prenderla in aeroporto e portati dietro Syn. Io metto a posto questo casino.» gli sorrisi prudente, dandogli un rapido bacio a fior di labbra.
«Non far girare troppo il cervellino.» concluse il discorso, prendendo la Canon dal mobile su cui l’avevo riposta, e stonandomi con il flash.

***
«Johnny Christ, Cristo.» mi rivolsi al piccoletto che, con il panno per la polvere in mano, si era incantato a guardare il calendario di donne nude che stava lì appeso dall’anno precedente.
«Muovi il culo e portami quella roba.» aggiunsi, con tono autoritario. Tutte le donnine allegre finirono tristemente nel tritarifiuti.
«Signora Adler, signora, se mi è concesso…»
«Ti è concesso, Baker. Che vuoi, di grazia?»
«Perché diavolo non ci hai detto prima che stava per arrivare Bells?!» mi domandò, chino a lustrare il pavimento.
«Doveva essere una sorpresa per tutti voi. Ma poi mi sono resa conto che da sola non ce l’avrei mai fatta.» gli sorrisi sorniona. Poi, mi rabbuiai all’improvviso.
«Jason che cazzo stai facendo a quei vetri? Non vedi che così lasci gli aloni?! Dio santo.» mi diressi verso il malcapitato, con un’espressione truce sul volto.
«Signora Adler, signora
«Cosa diamine vuoi, Shadows.»
«Mi chiedevo, no: ma da che parte devo metterlo quest’affare?» mi domandò, riferendosi alla vaporetto che aveva in mano, che sapevamo fosse un elettrodomestico solo perché era scritto nello scatolone in cui l’avevamo trovata.
«Che ne so. Chiedi a Val.» risposi esasperata.
«Ne so quanto voi.» dichiarò la ragazza, intenta a ritagliare della stoffa rossa.
Sbuffai indispettita.
«Qualcuno di voi sa niente di vaporetto?» dissi una prima volta, e gridai una seconda, per sovrastare il rumore della macchina da cucire di Gena e dell’aspirapolvere di Michelle.
Nessuna risposta.
«Vorrà dire che faremo a meno della vaporetto. Matt, vieni qui.» chiamai il ragazzo.
«Tu gonfia i palloncini, io mi occupo di fare in modo che stiano assieme come devono stare.»
«Sissignora.» assentì lui, portandosi la mano destra alla fronte, in un noto segno militare.
«Johnny, non sei buono a pulire, dai una mano a Val e Gena a unire le stoffe. Jason, molla tutto, controlla che non sia rimasto del caffè in giro, tira fuori la torta dal frigo e scrivici sopra qualcosa di carino; non chiedermi cosa, fai tu.» impartii le mansioni, sperando che l’aereo fosse in ritardo, dati i minuti contati che ci restavano.
«Zacky.» dissi.
«ZACHARY JAMES BAKER.» urlai.
«Sì padrona?» ghignò lui di rimando.
«Fai poco lo spiritoso. Vai di sopra con Michelle a preparare il letto per Bells. Ammazza eventuali ragni: è peggio di Jimmy in quanto aracnofobia. E i poster… Vabbe’ senti, lasciali, Frank Zappa piace anche a lei.» elencai, con le mani sui fianchi.
«Ma perché, dorme da Jimmy?» mi chiese sommessa Michelle, alzando il sopracciglio destro, gesto che riuscivano a sopportare solo Brian e, forse, sua madre.
«Sì. Non mi va di farle conoscere mia zia, pazza com’è. Da quando sono morti i miei, la famiglia, con lei, è diventata tabù. Preferisco non si crei imbarazzo tra noi, perciò staremo entrambe da Rev, per evitare il discorso.» spiegai, un po’ cupa.
«Ma scusa, non è la tua migliore amica?» mi domandò accigliato Zacky.
«E con ciò?»
«Se i ragazzi mi nascondessero ciò che davvero li turba, da migliore amico, mi incazzerei. E non poco.» mi rimbeccò saggiamente.
«Bene, grazie per la pedagogia, ora va’ a fare ciò che ti ho chiesto.» tagliai corto, chiudendo il discorso sul nascere.
«Che hai da guardare, Shadz? Torna ai tuoi palloncini.» ammonii il cantante.
Procedeva tutto a meraviglia.

***
«Campanellino, dovresti collaborare con noi. Screami meglio di Alissa White-Gluz.»
«Non sono troppo famosi i The Agonist. Io, personalmente, apprezzo più che altro i capelli di Alissa. Mi piace il blu cobalto.» spiegò la voce cristallina della mia migliore amica, che proveniva dall’ingresso. Aggiunse poi: «E comunque io canto in Chiesa, non posso screamare per una band di satanisti.».
Sentimmo la risata inconfondibile di Jimmy risuonare per tutta la casa.
«Johnny, spegni la luce.» sussurrai.
Il bassista fece come gli dissi, e Jason accese la candela sulla torta. Riuscì a non rovinare la scritta di smarties che diceva “Welcome back, Bells.”.
Gena accese lo stereo e fece partire Dust in the Wind dei Kansas. Era la nostra canzone, per motivi sentimentali e commuoventi, che riguardavano un educazione impartita da padri fissati con il rock e da madri che sognavano di fare le groupies.
Ci zittimmo tutti, in uno di quei silenzi che non spaventano, perché non sono sordi, ma semplicemente il modo esatto ed inequivocabile di esprimere la meraviglia. Quelle volte in cui è tutto così carico, di per sé, di una sorta di magia che solo l’emozione dell’attesa è in grado di creare, in cui né le parole né i gesti hanno alcun significato.
«Cosa cazzo fanno, giocano a nascondino?».
Synyster ha sempre avuto qualche problema a discernere i momenti meno opportuni dalle boiate che gli escono dalla bocca.
Jimmy fu il primo a mettere piede in soggiorno. Accese la luce e sorrise.
«Bentornata nella nostra piccola famiglia di satanisti, Bells!» esclamò Johnny, sorridendo.
«Ciao pel di carota!» disse Zacky, soffocando il suo metro e sessanta in un abbraccio spaccaossa.
«Ehi Bells, come andiamo?» fece cenno con la testa Jason.
«Berenice Shylock, ho sentito molto parlare di te.» cominciò a dire Gena, facendo un occhiolino verso la mia direzione, per poi continuare: «Io sono Gena, tanto piacere.». Si strinsero la mano.
«Ciao Bells, sempre bellissima.» le sorrise cordiale Val, ricordando i vecchi tempi. «Questa è mia sorella, Michelle.» aggiunse.
«Ciao piccoletta. Non cresci mai, eh?» le arruffò i capelli Matt, con un’espressione quasi paterna.
La mia migliore amica zittì tutti, con un gesto, per volgere lo sguardo attorno a sè. La sua espressione un po’ accigliata alla vista della torta, a cui rivolse un sorriso riconoscente, divenne meravigliata non appena spostò lo sguardo in alto, ad un grande drappo verde bianco e rosso appeso al soffitto, a cui erano attaccati un’infinità di palloncini bianchi, da cui pendevano tanti bigliettini scritti con l’aggraziata scrittura di Valary.
«Sono bigliettini di citazioni. Ne troverai tante tue.» chiarii, data la sua espressione incredula.
«Tu.» disse solo.
Io non dissi niente.
Ci guardammo negli occhi, in uno di quegli attimi che sembrano sempre durare un’eternità, per quella strana circostanza della vita che vede la realtà collidere con la sola immaginazione di un bel momento, con l’unica differenza che solamente nella realtà esiste la bellezza del vero, dove tutto è tangibile e non finisce per dissolversi in una flebile idea.
«Mitch.».
«Bells.».
Poi ci abbracciammo. In uno di quegli abbracci che hanno l’odore del viaggio, a causa dell’infinità di tempo che ci eravamo perse di noi, e della moltitudine di storie che avevamo entrambe addosso, pronte ad essere raccontate.
«Giuro solennemente…?» cominciai.
«Di non avere buone intenzioni.» concluse sorridente.
Ci ricordammo dell’esistenza degli altri, che ci guardavano straniti, felici e ignari, solo quando Synyster disse: «Ma perché Mitch?».
Tutti ci guardarono, con uno sguardo che esprimeva un tacito consenso alla domanda posta da Brian.
«Dovete tutti sapere che Meredith è stata segretamente innamorata di Mitchell Lucker.» dichiarò senza pudore Bells.
Arrossii.
«Ma chi, il cantante dei Suicide Silence?» domandò Matt.
«Proprio lui.».
«Ti piacciono i musicisti secchi, alti e tatuati, eh?» mi fece l’occhiolino Zacky.
«Infatti Baker, tu non corri rischi.» lo rassicurai, con uno dei sorrisi più sornioni che potessi fare.
«Lo conosco, se vuoi te lo presento.» disse Jimmy, posandomi una mano sulla spalla.
«Oh smettetela, è stato una vita fa, ancora non faceva parte di nessuna band.» soffiai imbarazzata.
«Non ci sarebbe niente di male. È un bel tipo, anche caratterialmente.» mi sorrise comprensiva Val.

«Cambiando discorso, visto che credo di aver combinato un guaio rivelandovi questo piccolo segreto innocente, volevo ringraziarvi. Tutti, dal primo all’ultimo. Ringrazio le vostre povere fidanzate, che vi sopportano Dio solo sa come, e lo dico non perché siete voi, ma perché siete più che altro musicisti, e sappiamo tutti cosa intendo dire.» iniziò la mia migliore amica, zittendoci. «Ringrazio la mia migliore amica, che mi è mancata neanche potete immaginare quanto; e infine ringrazio tutti voi ragazzi, la miglior band di satanisti mangiabambini dal nome biblico che la storia abbia mai visto.» concluse, scendendo dalla sedia sulla quale era salita per rendersi più visibile.
«Siamo canaglie matricolate, tutti quanti. Non devi credere a nessuno di noi.» citò saggiamente Zacky.
«Ma noi non siamo satanisti, io sono cattolico.» affermò con un broncio offeso Shadows.
Scoppiammo tutti a ridere di gusto, chi per l’affermazione che fece, chi per la faccia che aveva e chi per Jimmy che stampò a Johnny la torta in piena faccia. Cominciarono a rincorrersi, come facevano praticamente ogni giorno, e infine li perdemmo di vista.
«Ragazzi, non ho finito!» aggiunse Bells portandosi una mano alla fronte, come per ammonirsi di aver dimenticato una cosa estremamente importante.
«Dicci.» disse Jason un po’ dispiaciuto, riponendo nuovamente lo spumante sul tavolo.
«Andremo ad un concerto.» sorrise smagliante.
«Chi vuole venire, ovviamente.» concluse.
«Un concerto di chi? Noi siamo star, li facciamo i concerti.» disse Syn con aria snob, prima di prendersi una gomitata nel costato da Val.
«Dream Theater.».
Al ché, Dio solo sa come, Jimmy ricomparve, in tutto il suo metro e novantatre, e sorrise raggiante, come un bambino che ha appena ritrovato il suo giocattolo preferito.
«Scherzi?» chiese, quando ebbe rielaborato il tutto.
«Io scherzo molto poco, e non scherzo mai quando si parla di concerti.» affermò la mia migliore amica.
«Gesù Cristo. Ma dici seriamente? Santo cielo, non posso, cioè, sì però non lo so, mi conoscete, rischierei di avere una crisi di panico, sono grande e grosso ma ho il cuore delicato, tutta quella gente, poi non so, oddio santo, ma Mike Portnoy, Campanellino ma sei sicura, poi se ci riconoscono, magari, sai, insomma…» venne zittito Jimmy da un colpo dietro la testa piazzatogli da Brian.
«Ho dovuto, amico.» si scusò.
«Grazie.» riprese fiato Jimmy.
«Allora è fatta?» concluse Berenice splendente.

Era fatta. Chi, non saprei dirvelo, ma cosa invece... Be’, qualcosa di spettacolare, qualcosa che solo una pazza megalomane come la mia migliore amica avrebbe potuto organizzare, in una di quelle città che sono affascinanti solo a sentirle nominare, con lo sfondo di migliaia di persone unite per la stessa musica: un concerto di progressive metal a Los Angeles con tanto di after party incluso a cui avrebbe partecipato una band abbastanza famosa, ma comunque riconoscibilissima, come gli Avenged Sevenfold.
Nulla sarebbe potuto andare storto.





* “You don't play guitar with your neckbro, you play it with your bum bum.” cit.


Note a pié pagina:
Non mi ero dimenticata di questa storia, semplicemente sono una tipa scostante e un po’ troppo incoerente. Ma insomma, eccoci di nuovo qui.
Chiedo scusa a quel pazzo che ci teneva davvero a leggere il continuo per l’imperdonabile ritardo. Insomma, sono passati giusto sei mesi dall’ultimo capitolo, ecco.
Per farmi perdonare, al primo che recensisce regalo, udite udite… Uno straccio di risposta!
Sono simpaticissima, lo so.
Nulla, concludo col dirvi che comunque ho scelto il momento sbagliato, in sei mesi, per scrivere questo capitolo, perché non ho più un pc e mi sono dovuta arrangiare con quello di mio zio.
Un saluto a chi segue queste canaglie.

Ann.
PS: Avevo intenzione di pubblicare il capitolo il 28/12, perché vi ricordaste che i morti non si ricordano piangendo, ma sorridendo proprio per come erano in vita.


Come accade spesso ci misero un po' a ricordarsi che, quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui.” A. Baricco.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1064165