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Angeli armati si nascondono nei
coni d'ombra dei vicoli, stringendo le labbra dure e i pugnali nelle mani.
Sono giovani, ragazzini
addormentati. Sognano un mondo diverso, dove si possa vivere. E non vogliono
svegliarsi.
La figura vestita di nero resta
appoggiata al muro, li contempla in silenzio. Aspetta il momento giusto per
sorprenderli. Ma non chiama i suoi.
Preferisce aspettare ancora, e
cercare di capirli.
Non li conosce, né vuole
conoscerli. I sentimenti sarebbero di intralcio nel suo lavoro.
Ma non può evitare di ammirarli,
e rispettarli anche, nella loro folle ribellione.
C'è un rumore alle sue spalle. I
suoi l'hanno raggiunto.
E in quell'attimo un angelo si
volta, e lo guarda negli occhi.
Ha nome di fiore, l'angelo, e
iridi di azzurra trasparenza.
Giuliano sorride, e avanza di un
passo.
Iris con un gesto misurato
avverte i compagni, stringe tra le dita il coltello e ricambia lo sguardo del
soldato.
Non c'è più tempo per i dubbi,
per i pensieri.
I due si sono scelti, e il loro
duello pare una danza sensuale, scandita dall'incrocio delle lame. Sembrano
ballerini, la distanza è scordata, sono complici nel disegnare la vita.
Intorno il mondo è sparito,
restano soltanto loro due, e i loro pugnali.
Iris segue l'arcana sequenza
insegnata dai suoi padri, e per un attimo sembrerebbe impossibile una svolta,
le mosse tendono all'infinito, alla perfezione.
Ma Iris senza cambiare
espressione muta il verso della stoccata, e la mano di Giuliano, così saggia e
equilibrata, cede, mentre il ragazzo cade in ginocchio, la bocca spalancata.
Giuliano sente il freddo del
terreno sotto la schiena, e i capelli morbidi solleticano la sua guancia mentre
Iris gli sta disteso sopra, tenero angelo vendicatore, marmoreo, il respiro affannoso
che si mischia con il suo e quella corrente di attrazione che scorre tra loro,
così violenta, così detestata.
La rabbia per la sconfitta rende
lucidi i pensieri, e Giuliano osserva il ragazzino magro che lo schiaccia
contro il pavimento, e non lo trova più angelico e perfetto, diventa
semplicemente un nemico da distruggere e umiliare, un bambino troppo bello che
gioca a fare il grande.
Vorrebbe alzarsi e mostrargli la
realtà, ma non può muoversi.
Così sorride, provocante, con
disprezzo, cattivo, e mormora amabile:
-Uccidimi, dolcezza, perché se
non lo fai, troverò il modo di vendicarmi.
Iris indurisce la mascella, e
Giuliano vede la paura nei suoi occhi mischiarsi alla rabbia per gli insulti
che indovina nella voce. Lo sguardo del soldato è un arma potente, che rivela i
pensieri più nascosti. Iris preme più forte il coltello contro il collo di
Giuliano, sente la vena pulsare frenetica, ma non si decide a affondare il
colpo.
Spia negli occhi neri qualcosa
che lo convinca definitivamente, ma sotto la corazza di rabbia e disprezzo
scopre tenerezza e amore, attrazione, la stessa attrazione che lui cerca di
nascondere.
E il fischio di Libertà rende
frenetica ogni scelta.
Con un ultimo sguardo glaciale
scivola via, nel buio.
Giuliano resta disteso a terra,
ascoltando il silenzio di morte che aleggia intorno a lui, incapace di
comprendere la vita regalata.
Gli angeli corrono silenziosi
nelle vie della città.
Conoscono ogni sua strada,
saprebbero orientarsi bendati nel dedalo dei suoi labirinti, non ne temono il
buio.
Una bussola invisibile guida i
loro passi, sembrano fiocchi di neve, gelidi e bianchi.
I volti levigati non cambiano
l'espressione di distaccata concentrazione fino a quando non raggiungono il
quartiere dei ribelli, l'angolo più orientale della città, periferia di sogni.
Allora ridiventano umani,
ragazzi stanchi e spaventati.
Iris è taciturno e non ha ancora
detto una parola.
I compagni sanno quello che ha
fatto, e non approvano.
Pensano che sia rischioso
lasciare in vita un nemico, uno che li ha visti in faccia e saprebbe
riconoscerli. Pensano che sia sbagliato cambiare l'opinione che hanno i soldati
di loro, angelici figli della morte.
Ma Iris non ha mai sopportato di
uccidere a meno che ce ne fosse bisogno. Non è mai riuscito a farlo, anche se
era dovere.
Libertà gli cammina di fianco e
sorride. Lo ama per questo, per questo suo tenero bisogno di certezze, di
sentirsi migliore degli avversari, più giusto.
Quella notte dormiranno tutti
sonni agitati, ricordando l'espressione dei loro morti.
Penseranno tutti a come sarebbe
stato diverso se quegli uomini fossero nati tra loro, al posto che in quella
città, se fossero stati bambini in mezzo alla brughiera, e non in una tetra
megalopoli prigioniera.
E tutti cercheranno di scacciare
l'umanità scorta in fondo agli occhi dei soldati. Quell'umanità tranciata dai
loro pugnali, umanità ossidata dall'aria, seccata sulle gole.
Tutti tranne uno.
Iris sognerà Giuliano, sognerà
loro due a camminare sulla sabbia, sognerà le labbra del ragazzo sorridere, e
non mormorare maledizioni.
Sognerà Giuliano e si sveglierà
rabbioso, e piangerà lacrime incandescenti stretto al corpo vibrante di
Libertà. Abbraccerà l'amico e morderà le labbra per non urlare la frustrazione.
Anche Giuliano sognerà Iris,
sognerà di amarlo e accarezzarlo, e al risveglio il disprezzo provato sotto la
sua lama sarà svanitò, avrà lasciato il posto a un agghiacciante vuoto di
certezze, a un vento freddo che spazzerà la sua vita, preparandosi a cambiarla.
I morti trascorreranno la notte
su tavoli di acciaio nell'obitorio, in attesa di essere seppelliti.
Si accorgeranno troppo tardi di
aver sbagliato strada, ricorderanno gli occhi glaciali dei loro assassini e
dentro la tristezza di quei lineamenti leggeranno il dolore di mille vite
morte.
E torneranno nella loro mente i
racconti sanguinanti dei soldati reduci dalle campagne d'oriente, e
rimpiangeranno le loro risate, la loro incapacità di capire.
Poi abbandoneranno quel mondo,
annegando nel buio di un universo distratto.
E la luna continuerà il percorso
nel cielo scuro, bianco occhio di dio distante, e tramonterà all'alba per
cedere il posto al sole, al giorno, alla luce.
Capitolo 3 *** 3- l'angelo è crocifisso al muro ***
l'angelo è crocifisso al muro
L'angelo è crocifisso al muro.
Tiene gli occhi chiusi, e
respira lieve.
I polsi diafani sono segnati
dalle corde che lo trattengono in quella posizione grottesca.
Le dita si aprono, sembrano
afferrare l'aria, si sgranchiscono.
Da quante ore ormai sta fermo in
quella posizione? Giuliano non può saperlo.
Ha rimandato l'incontro finchè
gli è stato possibile: quando quella mattina è giunta la notizia che una retata
aveva dato buoni frutti, e che una banda era ospite degli uffici del
commissariato -finalmente, dopo giorni, settimane di ricerca- aveva avuto un
capogiro.
Pallido sotto la pelle bruna,
aveva domandato, trattenendo il respiro.
-Sembra proprio che siano loro, quelli che vi hanno
assaliti. Dovrai poi identificarli tu, ma è una formalità.
Sudore gelido lungo la schiena.
Voglia di vomitare.
Due ore dopo era nella stanza di
vetro.
Lì dentro l'aria sapeva di
chiuso, e di dolore.
I ragazzi erano accasciati a
terra, pesti. Non sembravano più le bianche statue che due settimane prima
l'avevano affascinato.
Uno di loro alzò gli occhi a
guardarlo. Iridi grige e nebbiose, sprezzanti.
Lo riconosceva. Era stato
l'avversario di Flavio.
Giuliano si voltò intorno,
cercando Iris. Non lo trovava. Si somigliavano tutti, quei giovinetti stesi a
terra, ma lui non c'era.
In fondo, avrebbe potuto
benissimo denunciarli. L'unico a cui dovesse qualcosa sembrava essere scampato
al rastrellamento, non era tra loro.
Poteva dire la verità.
Scosse il capo.-No, non sono
loro.
Sbigottimento.-Come no?
-No, non sono loro. Avete preso
le persone sbagliate, ne sono sicuro.
-Giuliano…
-Non hanno confessato, no?
Sbuffi.-Figurarsi se questi
confessano.
-Bè, stavolta hanno detto la
verità.
Incertezza. E poi un commento
casuale.-Allora bisognerà rilasciarli. E anche il ragazzino, di là.
Giuliano non aveva ricambiato lo
sguardo luminoso di Libertà.
Non gli interessava la loro
riconoscenza, e nemmeno il loro stupore.
Perché adesso aveva capito dove
stava Iris. Ma avrebbe preferito non saperlo.
Giuliano ripensa a tutto questo
mentre esita sulla porta della stanza, rassicurante confine tra il mondo vero e
quella sua appendice di incubo.
Iris non si è ancora accorto che
lui è li, così può osservarlo senza fretta, la pelle bianca macchiata dal
sangue, i lividi sullo zigomo. Le palpebre chiuse.
Il ragazzo apre gli occhi.
Le iridi chiare sono sbarrate,
lo sguardo incredulo.
Giuliano sa cosa pensa. Ha
paura.
Ricorda la minaccia con cui l'ha
lasciato. Iris di certo non l'ha dimenticata.
E adesso è legato a un muro,
dentro il commissariato, totalmente nelle sue mani.
Prigioniero di una stanza
insonorizzata, prigioniero accusato di omicidio e sedizione ed eresia.
Iris guarda quegli occhi neri,
insondabili, e crede di sapere cosa leggervi.
Giuliano avanza lento, vorrebbe
non spaventarlo ma non sa come fare, anche la sua andatura tranquilla pare
presagio di furia e dolore, per la mente stremata del ragazzo.
Gli si ferma davanti.
Iris non abbassa gli occhi. E
non mostra la paura.
Non trema, mentre Giuliano alza
una mano. Non trema e non piange, solo lo guarda con fierezza.
E Giuliano posa il palmo sul
viso ferito, ne accarezza la guancia e la bocca.
Torna a incrociare lo sguardo di
Iris. E si spaventa.
Interrompe il contatto e fugge,
fugge senza voltarsi, fugge e si nasconde dentro il bagno, in un angolo, per
calmare il respiro.
Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe
voluto baciare quelle labbra rotte, piangere calde lacrime per il dolore
condiviso, slegarlo, pulire il suo corpo, renderlo di nuovo bianco.
Avrebbe voluto abbracciarlo,
stringerlo forte, parlargli.
Celato dagli altri ufficiali,
assiste al rilascio dei prigionieri.
Li osserva andare via, malconci
e barcollanti sotto il sole ritrovato, cerca i riccioli rossi di Iris tra
quelle masse di capelli chiari.
Lo individua, cammina sostenuto
da un ragazzo biondo, è più minuto ancora dei suoi compagni.
Giuliano sente una grande
tenerezza per lui. E ammirazione.
Ascolta gli scambi di battute,
gli apprezzamenti volgari, ma anche i commenti ammirati sulla loro resistenza.
E sorride di nascosto, assurdamente orgoglioso, come se parte della loro forza
fosse dovuta a lui.
Iris non pesa niente, sembra una
creatura d'aria.
Libertà vorrebbe portarlo a casa
in braccio, alleviare in qualche modo il dolore che lo scuote ad ogni passo, ma
sa che lui non lo permetterebbe mai. Così si limita a sostenerlo, e a guidare
la loro scarna carovana con lentezza.
Gli altri capiscono. Vorrebbero
correre come l'altra sera, tuffarsi nel buio delle loro stanze, che è buio vivo
di suoni, non vuoto come quello del commissariato. Vorrebbero dimenticare le
botte prese, ma immaginano cosa ha passato Iris e adeguano il loro passo
impaziente a quello di Libertà.
La periferia si rovescia in
strada al loro passaggio, gruppi di donne anziane trattengono le lacrime e
uomini stringono i pugni, bambini si affiancano e li consolano.
Alcuni più grandicelli mostrano
arie colpevoli, e occhi gonfi dal pianto.
Uno di loro si scusa -Avremmo
dovuto fare più in fretta, avvisarvi prima.
Ormai è successo. È inutile
recriminare, sorridono i reduci, se fossimo scappati oggi ci avrebbero presi
domani, e comunque siamo di nuovo qui, no? È questo che conta.
Sì. È questo.
E anche le ragazze che li
aspettano davanti alla casa sembrano voler dire lo stesso.
Adesso bisogna curare le ferite,
e costringere i guerrieri a riposarsi, e preparare le bende e chiamare un
medico, perché Iris non può restare così.
Libertà rovescia il suo tenero
fardello sul letto, scosta uno dei riccioli ribelli.
Iris gli sorride mentre il
medico ricuce i tagli sul viso, non storce neanche la bocca sotto i punti. Non
parla, ma è presente, ancora tra loro.
Libertà si abbandona contro lo
schienale della sedia, lo guarda preoccupato.
Deve sempre fare così, Iris, non
sta mai zitto.
Sembrano passati secoli da
quando c'era stato lui al posto suo, bambino in una banda di angeli guerrieri,
a ridere in faccia all'ufficiale e finire incatenato al muro della stanza
insonorizzata.
Libertà scuote la testa, sa che
quella è un'esperienza che non si può condividere. E sa anche che non gli ha
insegnato niente, se non a tacere ancora di meno, a urlare di nuovo, e ridere,
e provocare…
La gente se n'è ormai andata.
Sono loro da soli, finalmente possono parlarsi, confrontarsi.
-Che strano, però, che ci
abbiano liberati.
-Merito di quel soldato, quello
che ha mentito dicendo che non eravamo noi.
Libertà sta osservando ancora
Iris, solleva le sopraciglia. -È il tipo che Iris ha risparmiato.
Il ragazzo volta in fretta lo
sguardo su di loro, pare sul punto di dire qualcosa ma si trattiene.
Non può raccontare della visita
di Giuliano nella sua cella, della paura che aveva di una violenza, di una
vendetta, e del gesto invece dolce con cui l'ha salutato.
Non può raccontarlo perché la
lingua si imbriglia nel nominare quella stanza, e perché sa che c'è un tabù su
quel che vi accade dentro.
Lo ha letto nei gesti di
Libertà, e nelle sue labbra che non si sono aperte, neanche per chiedere
"come stai?", nell'ombra che per un attimo ha offuscato il suo
sguardo.
E l'ha indovinato nelle mute
cicatrici che solcano la sua schiena, quelle cicatrici profonde e quasi
scordate, che la notte ricopre di carezze tremanti.
Ha colore rosso e arancione,
dipinge il cielo con sbuffi di nuvole.
Fuori dalla finestra ragazzi
fumano, seduti nella strada.
Iris dorme.
Sogna leggero boschi incantati,
il suo spirito cavalca libero nelle pianure.
Ricorda con la gola chiusa i
fratelli, i genitori. Ricorda il suo cavallo, bianco puledro impaziente.
La camera intorno a lui è
avvolta dalle ombre. Il sole non riesce a sfuggire alle persiane, anche se
cerca di penetrarle, vorrebbe scivolare sul viso immobile di Iris e baciarlo,
carezzarlo.
Il sole lo ama. Da sempre.
Iris apre gli occhi. Sorride.
Aurora di vita, nuovo giorno che
si annuncia uguale agli altri, altrettanto doloroso.
La loro esistenza è un
susseguirsi di mattine luminose e pomeriggi assorti, e notti gelide, candide,
accecanti. Ormai non riesce a immaginare un'altra realtà.
Sono passati giorni dal
soggiorno in carcere, giorni dall'esperienza della stanza insonorizzata, e
Libertà non gli ha ancora detto niente.
Lo lasciano in pace, tutti, lo
ascoltano quando vuole parlare e rispettano il suo silenzio quando gli occhi
gli si fanno bui. Lo abbracciano se ha bisogno di conforto, lo stringono forte
e aciugano le sue lacrime con i baci.
Iris si sente bambino, in mezzo
a loro.
Si sente ragazzino immaturo,
fragile fiore di campo cresciuto tra querce e pioppi maestosi.
Gli occhi grigi di Libertà
sottolineano questa impressione. La sua tenerezza è speciale, preziosa come
l'aria.
Non si è ancora ripreso, lo sa
bene. La sensazione improvvisa di essere niente, soltanto una delicata
composizione di sangue e ricordi e sogni, la consapevolezza di essere in bilico
su un filo invisibile, di essere del tutto indifferente al mondo, e così
debole, così di passaggio… tutti i pensieri turbinosi di quei momenti di
solitudine arrossata hanno scavato la sua mente e si sono annidati nella carne,
per maturare.
Nell'altra stanza, dietro la
parete sottile, si indovinano suoni ed esclamazioni soffocate.
C'è una voce conosciuta che non
appartiene ai suoi compagni, che si mischia ai mormorii tanto rassicuranti. Le
proteste diffidenti di Libertà, a volume appena udibile.
E Iris capisce a chi appartiene
la voce, ma troppo tardi, perché la resistenza dei fratelli ha ormai ceduto e
la porta si sta aprendo. Iris resta seduto sul letto, rassegnato, osservando
Giuliano entrare nella camera con l'arroganza di ogni militare, e guardarlo
soddisfatto, dritto negli occhi.
Giuliano deglutisce per prendere
tempo. Non sa come cominciare.
Non si era immaginato questo, di
trovarlo raggomitolato sopra il letto, come un gatto, così giovane, con le
cicatrici che si incrociano sulle scapole e cominciano a rimarginarsi ma paiono
urlare l'assurdità di quella guerra.
Non pensava di restare di nuovo
senza parole davanti al suo sguardo trasparente.
Adesso camminano per strada.
Iris è silenzioso, remoto,
sembra perso in pensieri lontani.
I ragazzi che vivono con lui
l'hanno guardato andare via con l'aria di temere per il suo ritorno.
Ha dovuto faticare, per vederlo.
Ha dovuto convincere coscienze di marmo, diffidenti e protettive.
Il giovane con gli occhi grigi
non li avrebbe lasciati partire. Ma Iris ha sorriso triste, e sussurrato parole
in una lingua sconosciuta. L'altro ha chinato la testa, rabbioso.
Giuliano è rimasto affascinato
dal loro cameratismo. È un sentimento che profuma di notti passate a parlare,
di conoscenza profonda e dolori comuni. È diverso dalla complicità estranea che
lo lega ai suoi colleghi, più commovente.
Vorrebbe chiedere tante cose a
Iris, domandargli perché stanno rischiando tutto questo, domandargli chi sono
quei ragazzi, cosa rappresentano per lui, quali sono le loro storie, i percorsi
tortuosi che li hanno portati lì, in quella città estranea, in quelle notti
limpide e fredde, a giocare con le lame.
Vorrebbe chiedergli cosa
nasconde dietro gli zigomi candidi, dietro quegli occhi azzurri e remoti,
chiedere cosa gli permette di resistere muto sotto le botte sapienti della
milizia, chiedergli se è vero, come continua a pensare, che le cicatrici
intraviste sulla sua schiena non sono le più dolorose.
Vorrebbe sapere, capire il
perché della loro lotta accanita e feroce, il perché di tutto quel sangue
versato e della loro tristezza, vorrebbe chiedere quale passato scorre nelle
loro vene, quali antenati hanno portano ai loro visi quella bellezza incantevole
e gelida, quali sono quegli dèi misteriosi e distaccati che loro amano nei
rituali notturni, sotto la luna vergine.
Giuliano ha troppe domande nella
testa, e aspetta le risposte da troppo tempo per non averne paura. Ricorda la
prima volta che ha sentito parlare di quei guerrieri.
Aveva quattordici anni, era
appena finita la guerra, e lui pranzava con i genitori e la sorella. Suo padre
raccontava dell'ultimo attentato di quelli che venivano chiamati "gli
angeli della morte".
Era caduto loro zio, in quello
scontro, e Giuliano aveva imparato a odiarne gli assassini, aveva imparato a
temere la parte orientale della città, dove vivevano i ribelli, i criminali.
Era entrato nella milizia con
queste idee limpide davanti agli occhi. Sapeva dove stava il bene e dove stava
il male, il bianco e il nero erano due colori distinti e immiscibili.
Ma il grigio non si può ignorare
per tutta la vita, non se hai una personalità vivace e fantasiosa come quella
di Giuliano. E presto i dubbi avevano cominciato a tormentarlo, mentre sempre
più amici morivano sotto le lame affilate di quei demoni e le strade al mattino
si scoprivano insanguinate da altre battaglie.
La rivoluzione nei pensieri di
Giuliano era scoppiata davanti al cadavere di uno dei ribelli.
Era uscito disteso da una porta
misteriosa, un blocco di acciaio al quale era vietato l'ingresso.
Lui non si era mai chiesto cosa
succedesse dietro quel portale, la mente aveva troppa paura della risposta.
Ma quel giorno tutto era
luminoso, e freddo, e i dottori avevano abbandonato il lettino in mezzo al
corridoio, per andare a riempire i documenti.
Giuliano si era avvicinato,
mosso da un maledetto bisogno di sapere, e aveva sollevato il lenzuolo.
Il volto era pallido, non per la
morte ma per il candore della pelle.
I lineamenti erano puri, ed
eterni. Pareva un angelo.
Giuliano aveva capito perché li
nominassero così.
Ma la morte non era loro madre,
si capiva chiaramente dalla fissità di quelle labbra.
Loro erano animali selvatici:
uccidevano perché costretti.
Non c'era crudeltà, in quel
sorriso. Solo, pace e tristezza.
Giuliano aveva sfiorato gli
zigomi pesti, il sangue che sgorgava dalla bocca aveva macchiato il suo viso.
Aveva lo stesso sapore del
sangue dei suoi amici, lo stesso colore, la stessa consistenza.
Giuliano si era chiesto cosa
fosse successo al giovane, in quel locale, per ucciderlo.
Non si era mai risposto.
E adesso ha di fianco Iris, Iris
che ne è uscito vivo, e vorrebbe domandarlo a lui, ma sa di non poterlo fare.
C'è troppo dolore da condensare in poche parole, e esperienze oniriche, e
sensazioni estreme. C'è la sapienza accumulata nelle cellule ribelli, c'è il
piatto deserto dell'incoscienza.
E c'è quel viso pallido, così
bello, così fragile, quel viso immoto, angelico.
Giuliano non dice una parola.
Solo lo guarda, e ascolta il
silenzio tra loro vibrare di note non suonate.
Giuliano lo riaccompagna a casa,
sempre muti.
Quando vedono la strada dove
Iris vive, vedono la gente che lo conosce e che lavora, i bambini che giocano e
le ragazze che ogni tanto lanciano loro sguardi perplessi, incerti, entrambi si
fermano.
Si guardano negli occhi, per la
prima volta pari, per la prima volta sotto il sole.
Giuliano sorride, per nascondere
la paura.
-Posso tornare di nuovo?
Iris sorride, e il volto si
illumina come un cristallo. Poi annuisce, e i loro occhi sembrano perdersi in
quello sguardo.
Saranno ancora nemici, la notte,
se si incontreranno si sfideranno di nuovo con il pugnale, e danzeranno di
nuovo quella danza coronata dalla morte.
Ma di giorno, sotto quel sole
che li bagna entrambi, possono cercare un'altra strada, una nuova soluzione.
Di giorno possono vivere, e
sognare.
Fiona…. Mi fa un piacere immenso
leggere i tuoi commenti! Sono contenta che la storia ti piaccia… la maggior
parte dei capitoli l’ho già scritta, però sono arrivata a un punto morto. Non so
come andare avanti, boh, si vedrà.
Comunque… grazie ancora dei
complimenti, sai, avevo paura che questa storia non piacesse, che lo stile
fosse troppo lento, pesante. Anche perché credo sia un po’ diverso dai miei
soliti lavori. Sono contenta che, ad almeno una, vada invece a genio! Kiss Roh
Iris dorme con fili d'erba tra i
capelli, il sorriso imbronciato e la fronte distesa.
Sembra un bambino, riflette
Giuliano, accarezzandolo distratto.
È stanco. Giuliano immagina con
un brivido le sue avventure notturne.
Se chiude gli occhi può pensarlo,
minuto e fragile sotto la luce spietata della luna, talmente delicato, talmente
giovane… Giuliano ogni sera si addormenta con l'angoscia di non rivederlo il
giorno dopo.
E sì che sa quanto è abile con
il coltello, dal momento che ha battuto addirittura lui, in quel primo duello.
Ma non riesce a convincersi, teme sempre che un pugnale più veloce lo inchiodi
al suolo, che un soldato crudele non mostri compassione per quelle gote
morbide.
È un ragazzino, pensa triste, ha
appena sedici anni.
Ma nei tempi di guerra ogni
giorno vale una stagione, Giuliano stesso è solo un ventenne indeciso, che
trascina sulle spalle il peso di mille anni, tutte le vite stroncate.
E Iris porta negli occhi chiari
ricordi dolorosi, che invecchiano di un colpo.
Iris si muove tra le braccia di
Giuliano. Lui sorride, e lo stringe per un attimo a sé.
A volte vorrebbe gridare al
mondo il suo amore, vorrebbe che tutti sapessero, che tutti conoscessero… che
tutti capissero.
E invece sono soli, persi in
mezzo a gente ignara e tranquilla, che non conosce la fatica di un continuo
fingere, negare l'esistenza.
Iris è sveglio, ma non apre gli
occhi.
Ascolta il respiro di Giuliano,
e sospira silenzioso. I raggi del sole lo accarezzano, e lui assorbe il suo
calore come scorta per i momenti bui.
Teme la notte, teme la luna e
gli scontri con le milizie. Teme, un giorno, di trovarsi davanti Giuliano, e di
doverlo combattere, di nuovo, perché la loro guerra è più importante di tutto,
anche della loro stessa vita. Teme di scoprirlo morto, ucciso da una delle loro
lame argentate.
Vorrebbe dirglielo, che se sarà
il caso dovrà sacrificarlo, perché il loro malvagio destino ha voluto così e
nessuno può opporsi al suo volere, neanche un ragazzino pallido come lui.
Vorrebbe dirglielo, che si
sarebbe ucciso nello stesso momento, e che forse si sarebbero ritrovati
nell'altro mondo, se le loro due diverse fedi fossero riuscite ad accordarsi su
un aldilà comune.
Vorrebbe dirglielo, e non l'ha
mai fatto, neanche durante l'amore, che si sente legato a lui da invisibili
fili, gli stessi fili che lo legano al mondo, e che lui è diventato la cosa più
preziosa che ha, più ancora degli occhi di Libertà, del ricordo dolente di un
passato rubato.
E invece resta muto, come quasi
sempre fa, perché teme il momento in cui schiude le labbra per parlare, sa che
non comanda la lingua e che questa non si lascia frenare, e Iris spesso
pronuncia parole troppo vere, troppo brucianti.
Si volta e lo guarda negli
occhi. Sorridono teneri, ed è strano vedere quella luce negli specchi di
ossidiana che sono le iridi di Giuliano.
Si baciano, sempre silenziosi,
perché il loro legame è nato nel silenzio, e al silenzio tornerà.
Il fiume scorre sotto di loro,
mormora ninna nanne e racconta storie di annegati.
Iris le ascolta incantato, anche
se le conosce da quando è nato, dai giorni nitidi in cui il vento spettinava i
capelli e gli zoccoli dei cavalli battevano sulla dura terra della prateria. Le
ascolta incantato perché ogni volta si stupisce del miracolo dell'acqua che
scorre, trasparente nastro di cielo che si snoda nelle valli, nelle pianure, e
porta vita e morte, come le loro dita, rifugio di dolci carezze e nascondiglio
di accecanti lampi d'acciaio.
Giuliano invece non riesce a
comprenderle. La città non ha insegnato ai suoi figli a conoscere le voci
sussurranti della polvere, della pioggia sulle strade, delle volte che si
scrostano. Non l'ha insegnato, o forse loro sono sordi alle sue parole, esseri
duri e inanimati, già come gli adulti.
Iris non lo sa. Ma non riesce a
trovare il modo per spalancare quell'universo al ragazzo bruno che gli cammina
di fianco, non sa come potrebbe reagire alla scoperta di quella ragnatela di
storie sussurranti. Può portare alla pazzia, questo mondo diverso, Iris lo sa
bene, ricorda tanti ragazzi perduti nel richiamo della neve, perduti in quel
dedalo di strade mai percorse, segreti troppo pericolosi. Ricorda bianchi
angeli folli, arrampicati sopra un albero a parlare con gli uccelli, ma
incapaci di riconoscere il suono delle voci umane.
Non dirà nulla finchè Giuliano
non farà domande. Ha ancora tempo per studiare le risposte, poco, perché il suo
amico ha indole impaziente, e non tratterrà a lungo i dubbi dentro la bocca.
Iris cammina e pare un saggio,
gli occhi chiari sono labirinti di pensieri annodati stretti a un passato
comune, e lui è un bambino levigato, con riflessioni troppo grosse e ricordi
troppo intensi, e un futuro troppo incerto. Pure non ha perso la capacità di
tacere e guardare il mondo, quella caratteristica propria del suo popolo, che
dipinge sui visi candidi espressioni di assorta distrazione.
Giuliano vorrebbe fermarlo,
stringerlo forte e baciare la sua bocca come quella prima volta, una vita fa,
quando cedette all'impulso dopo giorni di silenzi inespressi.
Vorrebbe sedere con lui sui
bordi della strada, abbandonandosi al flusso inesauribile di parole
miracolosamente uscito da quelle labbra sempre ferme, abbandonarsi alla canzone
misteriosa di quella voce ardente e impaziente, tenera ed eterna.
Vorrebbe fare domande, soprattutto.
E non temere più le risposte.
-Questa notte vi hanno quasi
presi, è vero?
La prima preoccupazione, la più
vicina ma, in qualche modo, la meno importante. Perché Giuliano già lo sa, che
Iris sorriderà, leggero e malizioso, e mormorerà.-Come è possibile fermare il
vento?
Giuliano non dubita di questo.
Conosce poco quelle genti, ma ha percorso i mille profili di Iris troppe volte,
con le dita, per ignorare quanti segreti racchiudano quelle membra. Sente la
sua affinità con il mondo ogni volta che lo bacia, stringe tra le mani una
forza della natura, impossibile da imbrigliare.
-Iris, tu sei davvero convinto
che serva a qualcosa continuare così?
Iris non risponde. Pensa. Non è
una domanda semplice, non è semplice perché Giuliano non capisce, non sa.
Vorrebbe potergli trasmettere i suoi ricordi, vorrebbe che conoscesse la sua
terra, la terribile libertà che respiravano ogni giorno. Vorrebbe insegnargli a
vivere la vita dei gitani…
Ma Giuliano nemmeno riesce ad
ascoltare le storie del fiume.
-La guerra non è una soluzione.
La vittoria sarà amara, quando verrà, perché non potrà riportarci quel che
abbiamo perso.
L'innocenza, Giuliano,
l'innocenza che ci abitava, che ci illuminava lo sguardo come bambini,
l'abbiamo persa per sempre.
Guarda me, Giuliano. Ho sedici
anni, ma lo sguardo di un vecchio guerriero, un predatore che ha dispensato
morte troppe volte. La mia anima è volata via con quella del primo nemico che
ho ucciso, e non si può lavare l'odore e il gusto del sangue che è stato
versato.
I miei genitori sono morti, e la
vendetta non li riporterà in vita. I miei fratelli sono persi nelle strade
d'occidente, e non so se con la vittoria riusciremo a ricongiungerci. E ho
paura di ritrovarli. Ho paura che non mi riconoscano, perché sono troppo
cambiato, sono troppo lontano dal bambino che ero. Il dolore, la schiavitù, la
polvere di queste città hanno mutato il colore dei miei occhi, hanno indurito i
miei lineamenti. Tu non conosci il bambino che ero, e nessuno conoscerà mai il
ragazzo, l'uomo, il vecchio che sarei diventato. Il saggio cavaliere dai
capelli bianchi e gli occhi sereni non vedrà mai la luce, perché anche tra
sessantanni le ombre saranno ancora lì, a oscurare le mie pupille. E i miei
sogni, non saranno più colmi di farfalle e cieli azzurri, ma risplenderanno
dell'argento dei pugnali, del sangue che ricopriva le lame.
Tu non puoi sentire il suono
della mia voce di bambino, quella purezza cristallina che si è incrinata quando
ho urlato, per la prima volta, il nome di mia madre morta a terra.
Tu non puoi sapere… io non so
che ragazzo era Libertà, non conosco l'eco della sua risata.
Siamo un popolo di morti… e la
vittoria non ci riporterà in vita.
Ma non possiamo fare altro,
Giuliano, non possiamo. Perché sta scritto nelle stelle che vinceremo questa
guerra, in un futuro oscuro, o che la combatteremo fino a non aver più forze. È
scritto sulle foglie che non resteremo immobili a farci uccidere giorno per
giorno, ma alzeremo la testa e ci rivolteremo, ognuno con i suoi modi, che sono
diversi per ogni uomo. Credi che soltanto noi sette resistiamo? La resistenza è
ovunque. Nei bambini che ridono, e negli uomini che fanno l'amore. Nelle donne
che danzano, e nelle ragazze che sorridono. Negli acrobati, nella compagnia di
acrobati che attraversa le praterie e tiene vive le piste abbandonate dai
gitani, che collega le città e mantiene unite le famiglie disperse. Nelle loro
canzoni vive, nei loro occhi lucenti. La resistenza è in me, che ti sto
parlando, e in te che non mi hai ucciso quando ero nelle tue mani, in te che
capisci di non avere ragione, in te che mi ascolti, e mi stringi, in te che mi
baci… la resistenza è resistenza. Ogni giorno strappato al vuoto, alla
schiavitù è resistenza. E lo sarà per sempre.
Dopo qualche secolo torno a
postare…
Volevo ringraziarti, Tifawow, per
il commento e per i complimenti… spero che anche questo capitolo ti saprà,
almeno un po’, coinvolgere. Quando l’ho scritto… beh, ricordo che sorridevo,
alla fine. Ero stata bene.
Giuliano tace. Piange senza riuscire a staccare gli occhi
da Iris. Vedere il suo gelido angelo guerriero infiammarsi di passione e
vibrare di dolore l'ha sconvolto, vorrebbe prendergli le mani e cullarlo,
bambino che ha sofferto troppo, troppo…
Ma Iris è duro, sa convivere con
i ricordi, e tiene lo sguardo basso, non incontra quello di Giuliano. –Scusami.
Mi succede sempre. Ogni volta che inizio a parlare non riesco a fermarmi, la
lingua va da sola… non volevo turbarti.
Giuliano è senza parole. Lo
abbraccia.-Iris, io non sapevo… non immaginavo…
Ricorda le feste nella sua città
natale, alla vittoria contro i popoli orientali. Ricorda le danze e le risa, i
bagagli preparati in fretta, bambini a giocare sui carri, per il primo, l'unico
viaggio della loro vita, quello verso una delle nuove metropoli fantasma, nate
dal fango dove si rotolavano i nemici per ospitare la civiltà. Ricorda se
stesso ragazzino attraversare la periferia, i volti magri e lontani, esistenze
taciute dalle parole, racchiuse negli occhi.
Adesso spiega il dolore senza
tempo intravisto tra quelle mani, il pianto ghiacciato sulle guance delle
donne, l'angoscia dei bambini soli… e spiega anche la limpida furia di quei
terroristi nemici, di quegli angeli guerrieri che arrivavano di notte e uccidevano,
e sabotavano, e spaventavano le famiglie… spiega tutto. Eppure niente. Lo sa.
La compassione può fare molto, ma non basta. Deve vivere queste emozioni.
Vederle.
Dovrà ascoltare piangere Iris
altre volte, per poter iniziare a capire.
Iris ha lo sguardo lontano,
ascolta assorto voci attutite.
Giuliano si scosta. -Iris, cosa
sono?
-Gli acrobati… sono
arrivati…-pensieri veloci, desiderio di andare.
Giuliano vorrebbe accompagnarlo,
ma nessuno dei due sa se gli è consentito.
Libertà ha gli occhi luminosi e sorride.-Penso
che non ci siano problemi. Può assistere. Magari imparerà qualcosa.
Giuliano ha il respiro
intrappolato nella gola, il filo sottile dondola sopra la sua testa e lui è
convinto che attraversarlo sia impossibile.
Il ragazzino che sta in piedi
sulla piattaforma indossa una sottile calzamaglia verde, e tiene i capelli
sciolti. Ha lunghi riccioli rossi, somiglia a Iris, somiglia a uno spirito.
Non riuscirà ad attraversare il
filo. No, è troppo sottile. Cadrà prima.
La voce di Iris nella testa: com'è
possibile fermare il vento?
L'equilibrista percorre
l'invisibile filo e danza. Non esita nemmeno un istante, tiene gli occhi fissi
nel cielo, e sorride, remoto. A Giuliano sembra di sentirlo ridere.
E poi la festa comincia, e la
corda si piega, rimbalza, mentre l'equilibrista salta e balla, si butta,
raccolto dalle mani salde di un acrobata bruno.
E canti, e musica, e colori.
E gioia. Un solo istante, goccia
persa nell'oceano di lacrime.
Giuliano e Iris camminano per la
strada ed è sera, le strade sono illuminate dallo spettacolo e c'è intorno
gente che ride, gente che corre. Loro sono tranquilli, Iris pare placato e
distratto, per una notte non verserà sangue. E Giuliano non avrà paura per la
sua vita.
È strano, come una festa possa
cambiare le persone. Gli angeli sono mischiati al loro popolo, e i loro nemici
pattuglieranno inutilmente le vie, aspettando di incontrarli e tremando per
ogni ombra che taglierà la strada. Alcuni di loro guadagneranno un giorno di
vita, e non sapranno di dover ringraziare per questo una manciata di acrobati
giramondo.
Osserva il carnevale di quei
volti misteriosamente simili che sfilano davanti sui suoi occhi.
Iris si è fermato, sembra
aspettare qualcuno.
Entrambi hanno capelli rossi,
incarnato di madreperla. Ma lei ha occhi azzurri, e dolci, mentre il sorriso
del ragazzo è felice.
Iris prende la mano della
ragazza e si lascia baciare.
Giuliano e l'equilibrista si
guardano negli occhi, mentre gli altri due spariscono.
-Tu sei l'amante di Iris,
vero?-domanda con un sorriso, riprendendo a camminare.
Ha denti bianchi, e sorriso
divino. È più bello di ogni altra creatura Giuliano abbia mai visto, non pare
quasi umano. –Le notizie volano.
-Me l'ha detto Libertà. Mi ha
anche detto che sei un miliziano, e che Iris ti ha risparmiato in un duello. E
che tu hai salvato loro mentendo davanti al tuo capo, quando sono stati
arrestati.
Giuliano non replica, ma
vorrebbe conoscere il nome dell'essere che gli sta parlando.
-Chiamami Fortunato. Il mio vero
nome è tabù.- la solita ombra negli occhi, il solito dolore sulla lingua.
Fortunato fissa gli occhi nel
cielo.-Lo capisco Iris, sai? Anche io amo un nemico. È il principe di una città
lontana. Ma non so se mi sta ancora aspettando.
È un personaggio di favola,
Fortunato, ma Giuliano sospetta che la fiaba possa tingersi di nero molto in
fretta.
-Posso farti una domanda?
Sorriso. –Sei sempre stato un
acrobata?
Tenebre negli occhi.-Nessuno di
noi è rimasto lo stesso. Devi impararlo, se vuoi starci vicino.
Fortunato sembra non considerare
importante la diversità di Giuliano. Lui ne è stupito.
Ma quel ragazzo è simile a un
sogno riflesso nel buio, sfugge, illumina. Lui non ha perso l'innocenza, pensa
Giuliano, e improvvisamente capisce cosa intendesse Iris col suo discorso. Ma
Fortunato scuote la testa. –Non pensarlo. Sono profondamente mutato anche io,
lo siamo tutti. Quando perdi la famiglia, l'amore, quando perdi te stesso, sei
costretto a cambiare.
-Vorrei chiederti spiegazioni,
ma ho paura di farti male.
Tristezza. -Parlarne non è un
dolore, non più che tacere. Avevo un fratello, un gemello. Eravamo due metà.
Silenzio, pieno di fantasmi.
Voce intenerita, Fortunato è di nuovo una creatura estranea, troppo perfetta
per questo mondo.-Adesso lui è in occidente, vive in un incubo. Oppure è morto.
A volte lo spero. Altre non riesco a crederci. E del resto, Zita dice che è
ancora vivo.
Iris e Zita sono seduti sul
muschio, a gambe incrociate. Lei gli accarezza le mani, le percorre con le
dita. Non è abituata a toccare pelli così morbide, Fortunato e gli altri
acrobati hanno mani da equilibristi, nodose e dure. Ma quelle di Iris hanno la
delicatezza degli uccelli, e Zita si perde nelle storie che narrano le loro
linee.
Intanto parla. Racconta i mesi
che li hanno separati, racconta dell'amore di Fortunato per un principe
chiamato Ludovico. Racconta dei loro spettacoli, dei suoi sogni e dei suoi
incubi.
Iris ascolta e non fa domande.
Non è ancora arrivato il momento.
Zita spiega la pelle, segue le
strade con dita leggere. –Sei innamorato, ma so già di chi.
Si coricano sull'erba, gli occhi
nel cielo.-Libertà dice che ha un grande cuore.
Iris rotola su un fianco per
guardarla. Zita lo attira a sé e lo bacia dolce. Lui posa la testa sul suo
petto. –Vorrebbe sapere, ma ha paura di chiedere.
-E puoi dargli torto? Ricordare
è doloroso, ma lo è ancora di più scoprire. Fortunato non ha raccontato niente
a Ludovico di suo fratello, ha taciuto la parte più importante di se per non
recargli danno. Ludovico non avrebbe sopportato di condividere l'incubo di
Fortunato, è un principe, abituato alle cose facili, lineari. Fortunato lo sa,
e non ha voluto turbarlo. Ma Giuliano è diverso, e tu già sai come può reagire
alla verità. Qualunque risposta è dentro di te, io posso solo aiutarti a
trovarla.
-Ho paura che quando saprà tutto
mi rifiuterà. Si allontanerà. Preferirà tornare a ignorare.- sussurra Iris
senza guardarla.
Zita accarezza i suoi capelli.
Aspetta che Iris sia abbastanza forte per parlarle della stanza insonorizzata.
Di quello che ha visto. Aspetta che esprima i suoi incubi per poterli
illuminare.
-Libertà l'ha fatto?
Zita annuisce. L'ha fatto. Ma
lui non deve sentirsi obbligato. Non c'è fretta. Hanno tutta la notte per
parlare, e anche quella successiva, e quella dopo ancora.
Iris trema, e racconta del
niente, del male, del nulla. Racconta del vuoto e della loro vanità, degli
spettri e degli dei che danzavano intorno a lui. Racconta del buio e della
luce, della danza coi coltelli. Racconta di come tutto sia inutile. Di come la
loro guerra sia sbagliata.
-Sai che questi sono solo i tuoi
pensieri, che nulla di quel che hai visto è vero. Sai che non siete diventati
dei mostri, anche se lo pensate. Lo sai, vero?
-Saperlo e crederlo non sono la
stessa cosa.
Zita lo culla mentre piange.
Iris è una statua di cristallo
colma di lacrime, e deve riuscire a liberarle, o queste si seccheranno,
legheranno i suoi movimenti e lo renderanno simile a un fragile involucro,
vuoto di sogni. Zita ricorda la vecchia leggenda che raccontavano gli anziani
attorno al fuoco, e avverte come sempre la fitta lancinante che le ripete che
quei momenti sono passati.
Ma non dice niente. Perché Iris
lo sa bene quanto lei, e la voce lo rende soltanto più vero.
Dal momento che il mio computer
è praticamente defunto, posto questo capitolo, giusto per non far aspettare
troppo. Stiamo arrivando alla parte di storia che preferisco… Fortunato è
entrato in scena, e io l’ho sempre amato. Se voleste leggere di lui, in questa
stessa sezione c’è Il ricamo di lacrime, che racconta la storia del suo
gemello, e quindi la sua. Per me… per me quella è davvero importante. Credo di
aver lasciato una parte del mio cuore, a quei personaggi.
Tifawow, spero ti sia piaciuto
anche questo capitolo. E spero che l’altro ti abbia portato delle buone
vacanze… peccato siano finite! Io ho ricominciato la scuola e… inutile far
commenti. Tanto, è lo stesso per tutti, credo.
Kisses, mi auguro di poter
tornare presto con un computer rinato… ciao a tutti! Roh
L'uomo barbuto che chiamano Gregorio ha voce pacata e dolce, che placa gli animi
L'uomo barbuto che chiamano Gregorio ha voce pacata e dolce, che placa gli animi.
Cinque degli angeli guerrieri sorridono, pericolosi, e cercano di convincerlo a cominciare la rivolta in quella città. Sono preparati, dicono. Sanno combattere, affermano.
Gregorio li accarezza, e loro si siedono. Lui spiega come la violenza non permetta una piena vittoria, rendendo gli oppressi simili agli oppressori, avvelenando gli ideali.
Loro piegano la testa, queste cose le sanno da sempre, dalla prima battaglia, da quella prima notte in cui celebrarono la morte.
Gregorio continua e asciuga le loro lacrime, dice che niente ha senso, non devono soffrire per questo. Non avevano scelta. La colpa non è loro.
Libertà non partecipa alla discussione, preferisce osservare Giuliano. Il ragazzo se n'è accorto, e a volte ricambia lo sguardo.
Gli occhi grigi sono ridenti e benevoli, sereni. Libertà somiglia a Gregorio, hanno la stessa sicurezza. Sono nati per guidare.
Fortunato è raggomitolato nelle braccia di uno dei trapezisti, e sembra dormire.
Aureliano giocherella con i suoi capelli, e ascolta. È diverso dai pallidi fantasmi che lo circondano, diverso per i capelli neri e gli occhi bui, la pelle scura. Fortunato si è abbandonato alle sue braccia come un neonato a quelle della madre.
Giuliano è stupito della confidenza con cui lo trattano.
Non ha scorto traccia di odio negli occhi degli acrobati, e sì che tutti sanno del suo presente di miliziano. Nemmeno gli angeli guerrieri sono ostili, si limitano a guardarlo freddi, a volte incuriositi. Libertà invece mostra simpatia.
E parlano della rivolta in sua presenza, lui è disarmato di fronte a questa fiducia. Sono tutti certi che non li tradirà.
Sarà per via della menzogna che li ha scarcerati, o dell'amore di Iris? Giuliano non lo sa.
Iris e Zita entrano mentre Gregorio delinea il futuro che li aspetta. Fortunato sorride a occhi chiusi, sembra sognare. In realtà è sveglio, e ascolta.
A Iris non servono domande per capire il ruolo a loro destinato, e come Libertà non ha niente da ridire, accetta il piano di Gregorio. Gli altri rimangono perplessi, ma non protestano più.
Iris chiama Giuliano con un cenno, e quasi a malincuore il ragazzo abbandona la sua posizione rannicchiata sopra un tavolo per raggiungerlo. Gli pare impossibile ritrovare altrove quel calore.
Iris è silenzioso e cammina nel buio.
Saranno le due, le tre di notte, l'ora in cui di solito i guerrieri combattono, o scivolano nelle strade. Ma adesso niente turba la pace della periferia, niente se non il suono dei loro passi.
Iris parla, racconta storie senza nome. Tuttavia Giuliano riconosce i protagonisti. Le storie sono attirate verso gli uomini che le abitano, e anche l'ascoltatore avverte questo legame.
-Erano i bambini più belli della tribù. Avevano nomi acquatici, di gocce e pioggia. Avevano nomi di dei. Ma non lo sapevano. Vedi, Giuliano, c'è una leggenda, tra la nostra gente, che ci porta a vedere nei gemelli una presenza divina. E quei ragazzi erano identici, due raggi di sole. Ma venne il momento del dolore, delle ombre, della guerra. Il momento in cui l'odio del dio per la nostra disubbidienza si mostrò nuovamente. E quei due fratelli vennero catturati. Li portarono in una cella umida, ma loro non temevano le tenebre, perché erano insieme. E così li separarono. Uno dei due fu liberato, affidato a mani paterne e sagge. L'altro rimase prigioniero di quell'inferno, per espiare la colpa di un intero popolo. Rimase prigioniero dello stesso incubo di mille altri bambini. Ma neanche il gemello libero è felice. Ha scordato tutto, della vita passata, tranne il fratello. E lo porta dentro il cuore come un morto che gli soffoca il fiato, che lega ogni suo passo, gli impedisce di ridere. Lui è amato da tutti, e non può amare nessuno. Questa è la sua maledizione. Vedi, Giuliano, come nessuno di noi sia intero. Tutti, tutti hanno un dolore da nascondere. Tutti hanno una maschera sul viso.
-Parli di Fortunato, vero? È lui il ragazzo della storia.
Iris sorride al cielo.-Fortunato è bellissimo, vero? È perfetto. Lui meriterebbe di essere felice. Lo meriterebbe più di chiunque altro.
-Iris…
-Non vuoi sentire le altre storie? C'è quella della bambina strega che leggeva il domani dentro il cielo. Lei aveva previsto tutto, e la notte piangeva perché conosceva il futuro. La sua gente non sapeva come considerare questo suo dono, non sapeva se credere alle sue profezie. Ma quando le albe cominciarono a sanguinare, e il mare si ingrossò, fino a sembrare esplodere dal dolore, non rimasero immobili, attoniti, come le altre tribù. Non tentarono la fuga a nord, perché sapevano che tutto era inutile. Presero in mano le armi, quelle armi mai usate, e si incamminarono verso l'ovest. Furono i primi a morire. Da soli. Le altre tribù sentirono l'eco di quel massacro, e interruppero l'esodo, si radunarono, mandarono messaggeri a chiamare le famiglie lontane. Riunirono l'antico popolo, quel popolo smembrato, diviso. Ma fu tutto inutile. E la strega bambina, dalla cella in cui era rinchiusa, vide la guerra senza poter chiudere gli occhi, e quasi impazzì dal dolore. Ma le stesse mani affettuose che separarono i gemelli la salvarono da quella follia, le restituirono la vista limpida, le permisero di guardare avanti.
-Zita…
Iris annuisce. -Adesso è una ragazza strega, che incanta con lo sguardo e legge le strade che attraversano le mani. In quelle strade ha letto il nostro trionfo, e noi tutti le crediamo. E Gregorio? Sai cosa nasconde dietro il viso sereno? Sangue, e sofferenza. Tutti i figli uccisi. Tutti. È l'unico superstite della sua tribù.
Giuliano vede le parole di Iris danzare davanti a lui, intrappolandolo in quella triste magia.
Vorrebbe fermarlo, farlo tacere, ma la sua voce non smette di tratteggiare storie, incubi.
-Accadde tutto una primavera gelata. L'inverno non voleva abbandonarci, e i fiori non potevano sopportare di vedere quell'orrore. Così non sbocciarono. A maggio c'era ancora la neve. Il freddo era nostro alleato, come il mare e come il vento, la natura intera parteggiava per noi, ma niente servì, niente bastò, voi eravate troppo forti, e vinceste. Gli alberi cessarono di parlare, gli spiriti silvestri che li abitano chiusero gli occhi per non guardare, si nascosero nei tronchi, e rifiutano di uscire. Solo a volte accettano di danzare ancora con noi, quando accendiamo i fuochi in mezzo al bosco per chiamarli. Allora escono, e sorridono, e piangono quando ce ne andiamo. Ma promettiamo loro di tornare, e lo facciamo sempre.
Giuliano lo guarda.
Apre la bocca, e ha paura, la voce trema e sembra rifiutarsi di uscire.
È rauca, incerta.
-Iris… raccontami la tua storia.
Iris tace, respira. Ha paura.
Ha cominciato a parlare di Fortunato e Zita aspettando che Giuliano raccogliesse il coraggio necessario per porre quella domanda, inevitabile domanda, che rigirava nella bocca dalla prima volta che si sono visti.
Giuliano ha sempre avuto desiderio di conoscere, di capire quel loro popolo strano, Iris lo sa bene. Eppure la sua storia lo spaventa.
Non perché sia più triste delle altre: la matrice che le ha intagliate è la stessa, sono come sculture nate dalle mani dello stesso artista. Le loro vite sono simili quanto i visi: la libertà, le pianure ghiacciate, i fuochi, la distruzione.
Non è più triste delle altre, ma Giuliano ama Iris, e sa che il dolore bruciante che avvertirà sulla sua lingua andrà a contagiarlo, piegando le sue difese. Hanno maturato una sensibilità comune, in tanti pomeriggi passati ad amarsi, una parte di spirito appartenente ad entrambi, perché solo così si dividono il piacere, i brividi, le sensazioni.
Ma questo significa anche dividere gli incubi, i ricordi tormentosi, e se Giuliano è certo di resistere sotto il peso dell'infelicità di Iris, questi non sopporta l'idea di ferirlo.
È un pensiero tremante, nascosto dallo sguardo duro, determinato.
Si volta a guardarlo.
-Per raccontarti la mia storia non posso stare qua. Devo portarti lontano, in mezzo alla prateria. È una strada pericolosa, se i soldati ci sorprendono verremo giustiziati. Ma io conosco passaggi segreti attraverso il bosco, se non temi il buio.
-Tu non ne hai paura?
-Io nel buio ci sono nato.- mormora Iris guardandolo fisso. Poi sorride, e il cielo si volta a contemplarlo.
Obsession, grazie per il commento… sono contenta che la storia ti piaccia. Purtroppo, il tempo per aggiornare è sempre più scarso… prometto che farò il possibile, però, per non far passare secoli! Kisses a tutti, a presto,
Il cavallo corre veloce, la pianura scivola sotto i suoi zoccoli simile
a una tavola oscura
Il cavallo corre veloce, la
pianura scivola sotto i suoi zoccoli simile a una tavola oscura.
Giuliano, aggrappato alle
redini, ha paura.
I capelli rossi di Iris sono una
nuvola nel buio, ma i suoi occhi sono distanti, remoti. Non stanno guardando la
prateria, e neanche il cielo o le stelle: ripercorrono i giorni perduti, il
vento sulla pelle. Non è lo stesso vento, quello che ora gli solletica il viso,
anche lui è morto, come loro. E l'erba non è la stessa che ha calpestato mille
volte, così come quell'animale irrequieto che vibra sotto il suo peso non è il
suo puledro.
I gitani credevano che si
formasse un legame particolare, indissolubile, tra un ragazzo e il primo
cavallo che aiutava a nascere. Iris ricorda l'emozione di specchiarsi per la
prima volta negli occhi neri del cucciolo, di accarezzare il suo pelo serico…
ricorda la sua risata di bambino salutare il compagno di avventura. Adesso lui
vivrà in una mandria selvatica, sorride Iris, abitato dallo spirito di un dio.
Dormono in ogni cavallo, dicono i vecchi. Stringe i denti e lancia uno sguardo
a Giuliano. L'amico non è abituato alla notte, la teme. Iris vorrebbe allungare
una mano e stringergli la spalla, confortarlo, ma la velocità rende impossibile
qualunque movimento.
Svolta nel bosco. La foresta sembra
volerli inghiottire, e neanche lui riesce a trattenere un sospiro di paura. Da
piccolo inventava storie di spettri per divertire gli amici, e adesso tornano
tutte alla mente, insieme ai volti, agli abbracci.
Giuliano ha rallentato e
procedono affiancati.
-Siamo ancora molto lontani?- la
voce trema, anche se si sforza di mantenerla ferma.
Iris riflette su come l'oscurità
e il mistero spaventino anche le persone più coraggiose. Sarà il buio a
inquietare Giuliano, o piuttosto la prospettiva della verità, di un dolore
sconosciuto?
-Non ti preoccupare, conosco la
strada. Non ci perderemo. Ma devi aver pazienza.
Libertà è sempre stato al suo
fianco, su quel sentiero. Sempre loro due, in quel complice silenzio, nel
respiro di quelle fronde. Sempre loro due, solo loro due.
È strano come lui e Libertà
abbiano condiviso ogni attimo, anche il più intimo.
Ricorda una notte, abbracciati
nel letto, lui sembrava addormentato. E invece aveva sussurrato, incerto.
-Iris? Fino a quanto ci sei dentro?
Iris sapeva che parlava di
Giuliano senza neanche guardarlo in faccia. Aveva risposto a voce altrettanto
bassa. -Oggi abbiamo fatto l'amore per la prima volta.
Libertà non aveva più detto
niente, solo l'aveva stretto forte, come per proteggerlo da tutto il male.
Adesso starà bevendo con
Fortunato, annegando nei suoi occhi verdi, talmente belli da lasciare senza
fiato. Iris vorrebbe essere con loro, voltare il cavallo e riportare Giuliano a
casa, tornare dai suoi acrobati, dai suoi fratelli.
E invece vanno avanti. Il bosco
sparisce, si dirada, mentre una nuova sterminata prateria si srotola davanti ai
loro occhi quasi ciechi.
Iris riprende a cavalcare
veloce, la radura è all'orizzonte, sempre più vicina…
Ferma il cavallo e smonta.
Giuliano lo segue, i movimenti impacciati.
-Ecco. Siamo arrivati.
Camminano, reggono le briglie
fino a che i cavalli non si rifiutano di proseguire. Il dolore segna la terra,
ferisce i loro cuori. Iris accarezza il suo e lo lega ad un albero,
mormorandogli parole dolci, mentre Giuliano lo imita perplesso. C'è un odore
strano nell'aria, di mare e di pioggia, ma non si sa da dove provenga.
Iris sorride e respira
profondamente.
-Iris, perché siamo venuti qui?
-Perché qui finisce la storia di
quel bambino, e inizia la mia.
Si ferma in mezzo alla radura.
Gli alberi sembrano dei guardiani, ricurvi e dolenti. Iris è traslucido nella
nebbia, fantasma. -Qui sono morto.
Giuliano accusa il colpo, e non
riesce a parlare. Iris ha lo sguardo freddo e lontano, o forse è vero il
contrario, è ardente e troppo vicino, in ogni caso Giuliano non riesce a
incontrarlo. Stanno contemplando due luoghi diversi. Si china e carezza la
terra, amorevole. Le dita giocano con l'erba, mentre continua. -Sono seppelliti
qui, tutti quanti. Ognuno di loro, ogni loro sogno è qua sepolto. Ognuno di
questi fiori nasce sul loro corpo.
Giuliano ha la nausea, vorrebbe
allontanarsi, fuggire da quel cimitero inquietante, ma il posto sprigiona una
strana magia che lo incanta e lo tiene legato a quella terra, a Iris che
continua a carezzarla e abbracciarla.
-Iris, cosa vuoi dire?
-Qui ebbe luogo la battaglia,
Giuliano. Questi alberi piangevano nel vento, e tremavano, mentre i vostri
soldati avanzavano sicuri. I nostri guerrieri erano fermi, rassegnati, non
tentarono nemmeno di difendersi. Erano gente pura, nata nelle grotte marine,
simili a perle, a conchiglie rosate. Amavano il buio, e non temevano la morte.
Ma quel massacro, Giuliano, tu
non puoi immaginarlo. Mio padre aveva detto a noi ragazzi di fuggire, e io mi
ero allontanato col mio puledro, ma non obbedii al suo ordine, e mi voltai. Li
vidi morire, uno ad uno. Ricordo ancora adesso la loro posizione, il mio dolce
fratello sorridere distratto, l'erba accarezzare il suo corpo, ricordo mia
madre poggiarsi ad un albero, e lo sguardo rassegnato di mio padre… svenni,
credo, perché quando mi risvegliai era sceso il buio, e il mio cavallo
aspettava quieto… la morte, forse, che ci stava tanto vicina.
Mi alzai e percorsi i metri che
mi separavano da loro. Mi aggirai tra i cadaveri a lungo, e poi tornai sulla
collina, solo per scoprire altri corpi, poco più lontani, di alcuni dei ragazzi
che erano fuggiti con me. Gli altri erano stati portati via, nei bordelli
d'occidente, ma questo lo seppi solo dopo. In quel momento compresi invece di
essere solo, e allora piansi, fino a consumarmi dalle lacrime.
Quella notte, cavalcai per molte
miglia, senza nemmeno cercare di vedere nel buio come mi avevano insegnato,
semplicemente lasciandomi guidare dal cavallo. Mi portò a un accampamento
vicino, e quando gli uomini mi videro arrivare non ritennero importante
interrogarmi, mi costrinsero a dormire subito. Sapevano che era l'unico modo
per non cedere alla pazzia, abbandonarsi ai sogni. La mattina dopo tornammo
alla radura, e seppellimmo i morti. Vengo qui periodicamente, è un
pellegrinaggio che devo compiere, per ricordare sempre a me stesso cosa ha
portato alla mia nascita.
Io credo di essere morto con
loro, quel giorno, per lungo tempo ho fantasticato di essere un fantasma,
visibile ai vivi per uno strano miracolo. Ancora adesso mi riesce impossibile
credere di essere scampato alla loro cieca furia, unico fra tutti a non essere
ucciso, né rapito. E reputo altrettanto improbabile che un soldato mi abbia
visto, e, mosso da pietà, abbia taciuto la mia presenza al suo capitano.
Avevo dieci anni, a quel tempo,
e la mia pelle era dello stesso colore dell'avorio, le iridi dell'acquamarina.
Il mio viso si mutò in marmo, e gli occhi divennero pozzi profondi, che
catturavano la luce. Crebbi in una città distante da qua, e quando compii
tredici anni Gregorio, l'acrobata, si accorse della mia abilità con il pugnale,
e mi condusse con sè. Avrebbe voluto farmi diventare un lanciatore di coltelli,
e non era il talento che mi mancava, eppure non fu quella la mia strada. Ma
ricordo i mesi passati accanto a Zita e Fortunato e Aureliano e tutti gli altri
come una parentesi di serenità. Che si chiuse quando arrivammo qui.
Iris tace, perso per un attimo
nei pensieri. Giuliano aspetta, poi domanda dolce: -Hai conosciuto allora gli
altri?
Iris sorride e annuisce.
-Incontrai Libertà. Gli sguardi si incrociarono al nostro spettacolo, i cuori
si compresero. Aveva diciassette anni, allora, era il più giovane del suo
gruppo, e i suoi capelli sapevano di vento, gli occhi dei cieli nuvolosi delle
nostre terre. Lui dice di avermi amato dal primo istante, ma non può capire la
mia vertigine. Sentivo di aver trovato finalmente qualcuno di uguale a me. Lui
e i suoi compagni, che adesso sono anche i miei, mi osservarono giocare con i
coltelli, e mi chiesero di unirmi a loro. Accettai senza esitare.
Cominciò così la mia vita
notturna, da giocoliere della morte.
Cambiai il mio nome in Iris
perché quelli furono gli unici fiori che tentarono di sbocciare, nonostante
l'inverno e l'invasione. Li sentivo vicini. Del resto, ognuno compie la scelta
secondo il suo umore. Libertà è semplicemente la traduzione del vero nome del
mio amico, una parola che nella nostra lingua è potente e melodiosa, eterna, e
che non posso rivelare, neanche a te, neanche in questo luogo.
Trascorsi tre anni con loro, e
non ho mai rimpianto il momento in cui accettai la loro proposta, perché so che
fu proprio questo a salvarmi, a restituirmi alla vita. Combattevo per il nostro
passato. E anche se c'erano giorni disperati, in cui tutti avremmo voluto
soltanto piangere e nasconderci, odiando quel che eravamo diventati, siamo
sempre stati coscienti che eravamo dalla parte giusta.
Giuliano si sente
improvvisamente minuscolo davanti a quel passato, davanti ai mille spiriti che
abitano il corpo del suo amante. Scorge una nuova densità nelle ombre che
velano gli occhi di Iris, e vorrebbe conoscerle tutto, una per una, poterle
chiamare per nome.
Sa che non è possibile.
Ma conoscere la sua storia,
forse, è sufficiente.
Avevo scordato di avere ancora
questa storia in sospeso. Penso che non mi ci vorrà molto per postare gli altri
capitoli – ancora tre, poi non mi è più riuscito di proseguire. Chiedo scusa a
chi legge di Iris, e magari lo ama.
Volevo anche ringraziare chi mi
ha lasciato un commento l'ultima volta, dicendo che questa è la prima yaoi che
gli (o le) è piaciuta… mi ha fatto davvero molto piacere saperlo. Stavo per
aggiornare subito dopo aver letto il commento, ma poi altre cose si sono messe
di mezzo e il pensiero si è accantonato. Grazie ancora. Spero che ti piaccia
anche questo.
La leggenda che sto per raccontarti, amore, è antica, oscura come le
grotte in cui sono nato, come il mare notturno che cullav
La
leggenda che sto per raccontarti, amore, è antica, oscura come le grotte in cui
sono nato, come il mare notturno che cullava i miei giorni.
È una
storia vecchia quanto il mondo, quanto l'aria che stai respirando. Una storia
che ha mille versioni, che è passata su infinite bocche, arricchendosi di voci
e di sogni. Si è trasformata in poesia, in canzoni e in ballate, in melodie, in
racconti da narrare intorno al fuoco. In fiabe sussurrate dalle madri al
silenzio dei loro bambini. Ha abitato le voci giovani di ragazzini che
scherzavano con gli amici, e quelle senza tempo dei vecchi saggi.
Esistono
tragedie costruite su essa, che le compagnie di acrobati, un tempo numerose,
rappresentavano ad ogni spettacolo.
Ma
adesso è stata bandita, chiunque la racconti viene incarcerato. Neanche voi
siete sordi al suo potere.
Ne avete
paura. I tuoi governanti, Giuliano, conoscono soltanto la versione più sciocca,
che quasi niente conserva delle antiche rivelazioni, e nonostante questo la
considerano più pericolosa di una rivolta armata.
Io l'ho
cantata alle guardie, il giorno che sono stato arrestato, e per questo mi hanno
preso e rinchiuso e…
Scusami
Giuliano, non posso ripensare a nulla di quel giorno. Neanche le tenebre che ci
circondano sono abbastanza fitte per ripararmi, neanche il respiro degli dei
silvestri che ci guardano dalle chiome degli alberi basta a rassicurarmi.
Nulla
può proteggerti dagli incubi, Giuliano, questo ho imparato nella mia vita.
Le parole che sto per dire, tranquillizzati, amore, non
mantengono la magia. Se raccontassi questa storia nella nostra lingua, sarebbe
un sortilegio incontrollabile, non saprei gestirlo. Ma la traduzione è docile,
si lascia facilmente imbrigliare. Tutto in voi è così. Da noi, invece, ogni
suono è ribelle, decide se lasciarsi pronunciare o meno, e quando scivola sulla
voce non si spegne subito, no, resta per un attimo a vibrare, come a ricordarti
che niente è in tuo potere, ma segue un disegno nascosto, un disordine iniziale
che ti permette di perdere la strada, quando cammini nei boschi come quando
parli, per ritrovarti in un altro luogo, per scoprirne i segreti.
A me
capita sempre, ogni volta che apro bocca, ed è per questo che spesso preferisco
tacere, ho visto troppo, inizio a temere il mistero, a temere questo sangue che
infiamma le mie vene e mi sospinge verso altro, verso di te quella notte in cui
duellammo, verso questa radura il giorno in cui morimmo…
Giuliano
fermami quando vedi che ho imboccato una strada troppo impervia. Quando vedi
che i miei occhi sono bui, e le ombre danzano al ritmo delle mie parole, fammi
tacere, baciami, stringimi forte, picchiami. Non voglio smarrirmi, non posso
farlo qui, ora, non saprei tornare indietro.
Vedi,
Giuliano, loro sono lì. Nell'aria. Che aspettano di ascoltare la loro storia e
ridono del mio turbamento, acqua cielo, mi accarezzano teneri e sorridono, e io
li amo, Giuliano, li ho sempre amati. La loro storia è la nostra, in un certo
senso, solo che loro conobbero la libertà prima di tutti, e prima di tutti la
persero.
Erano
due gemelli. Vivevano nei giorni in cui non esisteva ancora nulla, non il male
non il bene non la guerra, vivevano e si amavano, amavano tutto perché tutto
non esisteva, camminavano per le strade che si intravedono a volte nelle notti
serene, camminavano e attraversavano quelle vie celesti illuminando il buio con
la loro bellezza.
Perché
erano bellissimi Giuliano e questa era la prima cosa che si capiva guardandoli.
Non potevi pensare ad altro perché erano bellissimi, erano la perfezione fatta
carne, avevano lo splendore di un'aurora boreale, la gelida geometria dei
cristalli di neve e il caloroso disordine del fuoco danzavano sui loro visi.
Qual è
la creatura più bella che hai mai visto? Quando ti è capitato di tacere e
contemplare, così, senza pensieri, per il puro piacere di osservare,
dissetandoti di quel che vedi come fai con acqua fresca dopo giorni di deserto?
Neanche
la bellezza di Fortunato è paragonabile alla loro, perché lui è terreno, e
ferito, mentre loro erano aria e luce, erano spiriti.
E se
insisto così tanto sul loro aspetto è perché fu esso a scrivere il destino, fu
proprio la loro bellezza a maledirli, a dannarli.
Non
posso dirti i nomi, Giuliano, sono formule magiche troppo potenti. E loro sono
troppo vicini…
Tradurli
del resto è impossibile, ma sappi che nella nostra lingua significano mare e
cielo. Sono formule arcaiche, certo, non di uso comune: ma quello è il loro
significato originario, e capirai perché.
Erano
bellissimi, e liberi.
Liberi,
amore. Liberi.
E questa
era la seconda cosa che notavi, l'indisciplinatezza, non vi era nulla di docile
in loro, nulla, potevano essere amabili e teneri come giunchi ma restavano
dritti, non si piegavano.
Erano
nati dal vento, capisci, dal vento che nessuno può fermare, e il sole aveva
temprato i loro cuori per renderli caldi e aperti al confronto, per renderli
duri come diamante.
La
libertà li vestiva, mentre camminavano in quel loro Eden siderale, e danzava al
loro fianco, si stringeva a loro negli abbracci ebbri di gioia.
L'ordine
ben tollera la bellezza, purché questa diventi un oggetto, sottomesso ai suoi
comandi. Ma la libertà gli è del tutto intollerabile, lo sai, perché essa è
caos, è disordine, è assoluta negazione di ogni punto fermo, di ogni potere, è
la più alta forma di felicità, e la felicità non è mai sensata. La felicità è
folle, indescrivibile, non accetta confini.
Gli dei
traevano piacere dal contemplarli, anche se era loro vietato sfiorarli. Non
importava, perché erano talmente luminosi che bastava guardarli per star bene.
Ma la
scivolosa linea del tempo non si interruppe, non smise di segnare cambiamenti,
e mentre le polveri dell'universo si raggrumavano, si radunavano in ammassi di
terra, in giganteschi pianeti che orbitavano nello spazio e che pulsavano a
ritmo col cuore di lava, qualcuno decise che era giunto il momento di porre
fine a questa danza.
Non c'è
una certezza su chi fosse quel dio, in tutti questi anni non siamo mai riusciti
a tratteggiarne un ritratto soddisfacente. Era bello, come tutti gli dei, e
adulto, perché la rigidità fa parte della crescita, e l'ordine mal si addice a
un viso imberbe. Aveva l'aspetto di un bell'uomo maturo, probabilmente, con la
barba e i baffi, e gli occhi di metallo.
Somiglia
al vostro dio, in parte, e non è così strano pensare che siano la stessa persona,
e che questo che ti sto narrando sia lo stesso vostro mito visto da una diversa
angolazione. Soprattutto, non è strano considerando la vostra convinzione nel
crederci seguaci del diavolo, un diavolo maledetto e splendente, che deve la
sua caduta proprio a un gesto ribelle.
Ma non
voglio spingermi troppo in là nelle supposizioni, Giuliano, perché non è
importante questo, non cambia la storia, semplicemente allarga l'orizzonte,
permette di vedere altro in questa nostra guerra, di leggervi un significato più
recondito, di nuova replica di tragedia antica.
Quel
dio, comunque, che è soltanto uno tra i nostri, il dio dell'ordine e del
metallo, del duro che non da figli e che resta rigido, quel dio costrinse i
gemelli a una scelta vergognosa, che infiammò le loro candide gote.
Nessuno
conosce con certezza quali furono i termini della sua proposta, il pudore
impedì ai primi cantori di spiegarlo in dettaglio, la tenerezza impose loro di
passare oltre.
Posso
solo immaginare una profferta sessuale, nonostante il cuore si ribelli al
pensiero e sanguini per il dolore del sacrilegio, sacrilegio ripetuto, lo so,
su di noi, sui miei fratelli.
Arrossisco
immaginando la mano protesa verso le loro carni perfette, arrossisco per la
vergogna di quell'essere che osò violare una tale purezza, e mi figuro i loro
visi imporporati e sdegnosi, e le loro voci cristalline giurare che mai, mai e
poi mai avrebbero ceduto.
Solitamente
si tralascia questo oscuro passaggio, si preferisce concentrarsi sul rifiuto,
fiero e doloroso.
Loro arretrarono,
scossero il capo, piansero e urlarono nello scoprirsi prigionieri tra le mura.
Il dio
rimase muto, tacque guardandoli disperarsi, attese di vederli stremati prima di
parlare.
E ai
loro occhi rossi, alle loro lacrime, ripeté la proposta.
Poi la
rabbia accecò il suo sguardo, e loro conobbero il dolore, conobbero la violenza
e la sopraffazione, quel giorno, nella loro prima prigionia.
Quando
tutto finì loro restarono fermi fianco a fianco, spezzati, piangenti, rabbiosi.
E poi
uno dei due alzò gli occhi, e l'altro non poté impedirgli di parlare, non fece
in tempo, le labbra si erano già aperte e la voce, non più cristallina, ma
bassa, profonda come il mare, sibilò odio indicibile, e veleno, e maledizioni.
Il dio
sorrise, metallico, e decise la pena.
Per
punirlo della sua insolenza, e per punire l'altro della fierezza, li condannò
alla separazione. Deliberò che quello che aveva parlato fosse scaraventato su
uno dei pianeti appena nati, e che l'altro rimanesse nel cielo, a guardarlo,
essendo la sua colpa meno grave.
Gli
ordini furono eseguiti, Giuliano, in maniera esemplare.
Uno dei
due gemelli cadde sulla terra arsa, e a quel tempo non c'era ancora
vegetazione, non c'era ancora niente. Cadde morto, Giuliano, morto, lui, quella
divina stella.
L'universo
intero venne scosso da questo fatto. Il pianeta respirò più profondamente,
avvolse quel corpo in dolci nubi di fiato. Pianse, e le sue acque andarono a
mischiarsi con le lacrime del gemello, che dall'alto del cielo, incatenato al
firmamento, piangeva disperato.
I
ruscelli cominciarono a segnare il terreno, a bagnare la polvere, impastarla,
darle forma.
Minuscoli
esseri striscianti presero a percorrere le immense distese, e nei secoli
crebbero e mutarono. Alcuni scesero ad abitare gli abissi dei mari appena nati,
altri si innalzarono per scoprire i cieli. Le praterie si ritrovarono percorse
da animali strani, veloci e minuti, feroci e intelligenti. Cominciò il lungo
ciclo della vita, una vita nata dal pianto, e per questo dolente.
Il
gemello disubbidì quasi subito al monito che gli vietava di avvicinarsi al
fratello. Riuscì a liberarsi delle catene, e raggiunse la terra, dove poté dare
libero sfogo al suo dolore. Con infinita tenerezza, raccolse il sangue del
morto nelle mani, e rise tra le lacrime. Di fronte a quel sorriso il sangue
stesso si commosse, e tentando di consolarlo, cambiò di forma, e di colore,
ghiacciò il suo corso in vellutati petali, e in esili steli verdeggianti. Il
pianeta scoprì, per la prima volta, esseri che nella loro dolcezza eguagliavano
lo splendore degli dei. I fiori crebbero nelle praterie, fieri, portando
ovunque testimonianza dell'amore dei gemelli.
Ma
questo miracolo non fu il solo, a seguire quella drammatica morte.
Del
tutto irrilevante di fronte alla vita del pianeta, ma fondamentale per me, per
noi, è l'incontro tra il gemello e un fanciullo, figlio degli uomini.
Si dice
che quel giorno il vento soffiasse attraverso il sole, e avesse guidato
quell'intrepido elfo oltre le strade solitamente percorse dai nomadi cavalieri,
fino ad un angolo nascosto, privato, a pochi passi dal mare. I gemelli
giacevano in quel luogo da secoli, celati al resto del mondo.
Il vivo
alzò lo sguardo stremato, alzò quegli occhi arrossati dal pianto, infiniti, e
vide il bambino candido immobile sotto la luce, con il vento a spettinare i
riccioli rossi, del colore del sangue e del fuoco, che lo guardava, con la
testa inclinata su una spalla e l'aria triste. Lento tese una mano, e lo
condusse più vicino. Gli permise di guardare il morto, scostò addirittura i capelli
neri che ne velavano il viso perché il bambino potesse contemplare a piacimento
gli occhi sbarrati. Il gemello amava quegli occhi, perché da vivi lo avevano
amato, ma il bambino scoprì in essi tenebre eterne, e un dolce buio, che
scivolò nel suo animo come aria salmastra, come oscuro amore. Nello stesso
istante sentì qualcosa rompersi, e avvertì lo sciogliersi di un nodo, di una
catena, conobbe per la prima volta l'inquietudine gitana, quell'inquietudine
che ci spinge a odiare la prigionia, odiare l'ordine, le imposizioni. Vedi,
Giuliano, il buio di quegli occhi morti abita il nostro cuore, da quel giorno,
è la nostra dolce maledizione.
Il
bambino si rialzò e guardò il gemello vivo. Questo sorrise, per un attimo
placato, lo baciò sulla bocca e poi lo spinse via.
Il
bambino tornò nella sua tribù e raccontò di aver visto un giovane bellissimo
piangere sul corpo di un morto, e di avere scorto nei suoi occhi pianeti remoti
e insondabili abissi. Disse di conoscere la sua storia, di averla appresa dalle
sue labbra con un bacio.
I
cavalieri nomadi, mossi da curiosità, desiderarono conoscere il mistero di una
tale bellezza, e seguirono quel loro figlio ribelle attraverso le praterie,
fino al luogo nascosto che lui ricordava tanto bene. Ma non trovarono niente,
solo uno scoglio a picco sul mare, e un fiore rosso di sangue. Dei due giovani
non c'era traccia, non del vivo, non del morto.
I
cavalieri rimasero fermi sulla spiaggia, ad ascoltare il vento. Intuivano che
cantava segreti, ma non sapevano ancora comprenderli. Impararono la sua lingua
scivolosa, infine, e seppero che gli dei, incapaci di sopportare il dolore del
gemello sopravvissuto, avevano deciso di contravvenire agli ordini di loro
fratello, e di liberare i due giovani dal tormento. Li tramutarono entrambi in
spiriti. Uno, il morto, divenne acqua, l'altro, il vivo, aria.
In
questo modo erano liberi di guardarsi, di specchiarsi l'uno nell'altro come
sempre avevano fatto, riflessi imperfetti.
I
cavalieri nomadi presero a venerare il mare e il cielo, venerarli come
incarnazione dei due fratelli, e da allora, tra noi gitani, i gemelli vengono
guardati con rispetto e tenerezza, perché si pensa che portino nei loro occhi
il ricordo obliato della prima coppia divina che tutto originò.
Quanto a
quel bambino, quell'essere puro al quale era stata confidata per primo la
storia, crebbe, divenne ragazzo e poi uomo. I suoi figli portavano nel petto il
suo stesso buio, il suo stesso nodo sciolto. Di generazione in generazione
quest'inquietudine si fece più forte, più radicata, e mentre gli altri uomini
edificavano città, costruivano palazzi e strade, i suoi discendenti
continuarono a viaggiare, a percorrere e abitare quelle praterie che avevano
visto l'inizio di tutto, assaporando la libertà che il gemello, con quel bacio
dolce e disperato, aveva insegnato al loro progenitore.
Tuttavia,
Giuliano, c'è anche una versione più oscura, di cui non si conosce l'origine,
che narra come il dio, adirato per la disubbidienza del gemello che aveva
risparmiato, lo abbia costretto a incarnarsi in un uomo, di carne e sangue,
marchiando la sua pelle con questo neo, Giuliano, questo neo di cui tu tanto ti
sei stupito, e che sai essere comune a tutta la mia gente. Il dio maledisse il
gemello, e tutti i suoi discendenti, condannandoli alla perpetua fuga e al
dolore, alla distruzione, profetizzando loro un futuro infausto.
Secondo
questa versione verrà un giorno in cui il nostro popolo sarà sterminato, e c'è
chi crede che quel giorno sia giunto, che voi siate lo strumento del dio, la
vostra invasione la sua vendetta.
Forse
hanno ragione, Giuliano, forse questo è il momento del dolore, della guerra.
Della morte.
Ma noi
non staremo zitti, amor mio, così come non stettero zitti i gemelli dopo
l'oltraggio.
Noi ci
ribelleremo, e pagheremo le conseguenze del nostro gesto avventato, perché è il
nostro sangue che lo esige, sono le nostre cellule che lo impongono, memori di
una sconfitta antica, di una lotta mai conclusa. E noi non potremmo sottrarci,
né lo vorremmo.
Siamo
pronti ad affrontare il futuro, e lo faremo con gli occhi sgombri, limpidi come
quelli dei gemelli.
Capitolo 10 *** 10 - Il silenzio ha gusto di miele ***
Il silenzio ha gusto di miele
Il
silenzio ha gusto di miele.
Giuliano
passa le dita tra i capelli di Iris e pensa.
Quella
storia lo spaventa, racconta un popolo antico e sfuggente, anarchico, senza
legami e senza catene. Vorrebbe chiedere a Iris quanto di vero ci sia, nelle
sue parole, ma sa che il ragazzo non capirebbe, si limiterebbe a guardarlo con
gli occhi turchesi e immensi, senza rispondere.
Vorrebbe
poter liquidare la leggenda come credenza ingenua, come mito cosmologico, ma
non può negare il fascino arcano che irradiava lo sguardo di Iris mentre
parlava; non può scordare la bellezza ultraterrena dell'acrobata conosciuto
quella sera, Fortunato, candida incarnazione divina; non può ignorare il potere
che avvertiva aleggiare intorno a loro, come destato dalla melodiosa voce amata.
Non può mentire, cancellando la folle impressione che occhi scuri, bui, li
spiassero dal cielo, e li proteggessero teneri.
Divini
difensori della libertà di un popolo, dov'eravate quando i vostri figli
venivano massacrati, cosa facevate mentre la vostra tragedia, la vostra
disubbidienza li invischiava nel sangue?
E adesso
dove siete, perché non alleviate le loro pene, perché non li prendete per mano
e li guidate sulla difficile strada, non insegnate loro di nuovo a vivere, come
avete insegnato a viaggiare, ad amare, perché non li aiutate adesso?
Siete
troppo lontani, superbi, come il nostro gelido dio, oppure siete incatenati al
cielo, all'aria, siete incatenati al firmamento da una corda di stelle, e
potete solo piangere questa pioggia gentile, che arriccia i suoi splendidi
capelli, potete solo gemere e lottare vanamente per liberarvi, ascoltando il
loro dolore?
Giuliano
ha la testa china e singhiozza sotto le gocce, sotto quel temporale
improvvisamente scoppiato, che oscura il cielo e gli occhi che Iris rivolge
alle nubi.
I
cavalli camminano e la città è ormai vicina, il racconto ha impegnato le ore e
sono tornati a casa, accompagnati da una nebulosa alba.
Il
terreno pare respirare, l'erba è bagnata e profuma di polvere, profuma di
muschio.
Giuliano
ha sempre amato questo momento, quando la tempesta è ormai calmata, e l'aria
sembra piena di eccitazione, di speranza.
È una
sensazione che minaccia di inghiottire il resto, troppo importante e quasi
pericolosa, quasi incomprensibile. Giuliano sente le emozioni attraversare il
suo corpo come le correnti il mare, e ricorda un pomeriggio ombroso, disteso
accanto al corpo addormentato di Iris, dopo l'amore. Ricorda l'odore della sua
pelle, quell'essenza selvatica e misteriosa, sfuggente, ricorda il colore dei
suoi capelli che gli scivolavano dalle dita. Era rimasto a guardarlo incantato
per qualche tempo, poi, rispondendo a un bisogno arcano, aveva poggiato
l'orecchio sul suo petto. Prigioniero di una fragile gabbia d'osso, il cuore
pompava il sangue verso le arterie, verso la periferia di carne. Ascoltando
quel battere ritmico, ipnotico, Giuliano aveva afferrato, per un attimo, la
vita.
Adesso
prova qualcosa di molto simile. Ha la certezza che presto qualcosa succederà,
che presto un evento imprevisto giungerà a cambiare quel mondo, a regalare una
nuova scintilla di verità.
Non
parla con Iris di questa sua percezione. Sa che l'amico conosce il futuro
meglio di lui, e legge i segni e le profezie rivelate dall'aria con miglior
abilità, forte di un'infanzia trascorsa tra mari e leggende.
Non
parlano.
Iris
guarda i muri colorati delle case che dipingono la periferia, guarda le
finestre addormentate e ascolta le risate soffocate che provengono dalle porte
chiuse.
I suoi
occhi sono stranamente scuri.
-Quando
ci vedremo?
Gli
angeli guerrieri non si sono ancora arresi, e sperano di strappare a Gregorio
almeno la promessa di un rapido ritorno. Libertà sorride e non parla, ascolta
la quieta risposta dell'uomo barbuto.
Dovranno
passare i giorni, forse anche i mesi. Gregorio non può saperlo di preciso. Ma
il momento arriverà, e ci sarà bisogno della forza di tutti, e dell'amore.
-Come
riconosceremo il momento?- chiedono ancora. Sembrano stanchi per la notte
insonne, stremati dall'attesa che si prospetta. Gregorio carezza loro i capelli
e mormora che la brughiera risuonerà di canti, e che i sogni si tingeranno di
azzurro. Allora verrà il momento che aspettano.
I
guerrieri non sembrano placati da quelle immagini poetiche, e non dissimulano
l'incertezza dei loro volti. Ma dovranno aspettare. Del resto, sono anni che
aspettano.
Iris e
Fortunato si guardano negli occhi, e tacciono.
Le loro
mani, le dita che si stringono con forza parlano per loro, le labbra che si
incontrano nei sorrisi baciati raccontano il desiderio di stare vicini, il
bisogno di ritrovarsi. Non servono le parole, per spiegare i cuori.
Giuliano
li osserva dalla sua posizione estranea, e sorride. È intenerito dall'amore che
lega i due ragazzi, entrambi troppo giovani per quei ricordi, entrambi troppo
fragili per quel dolore.
Sa che
Iris soffre nel lasciare l'amico, ma ha scorto negli occhi di Fortunato
l'agitarsi del vento, mulinelli di emozioni trascinati lontano da quelle
correnti violente, e sa che l'equilibrista ha bisogno di rimettersi in cammino.
L'essenza del gitano non è stata soffocata nei cuori di quegli acrobati, nulla
hanno potuto la guerra e la prigionia contro il loro bisogno di libertà.
La
partenza della carovana ha qualcosa dell'addio alla primavera, perché chi resta
sente il desiderio di inseguire quei carrozzoni, di unirsi a quegli spiriti che
proseguono le tradizioni scritte nel loro sangue.
Ed è
strana l'atmosfera che resta nella periferia.
Come di
una precarietà appena accennata, mascherata nel solito quotidiano per impedire
agli occupanti di scorgere la verità, dentro i movimenti limpidi.
Capitolo 11 *** 11- Lo spettro ha capelli biondi ***
Lo spettro ha capelli biondi e un candido sorriso
Lo
spettro ha capelli biondi e un candido sorriso.
Avanza
con dolce eleganza, in movenze danzate, sciolte.
È alto,
e bello, di una bellezza estranea e luminosa.
Appesi
al suo collo, le bocche identiche e disordinate dei gemelli.
Giuliano
resta fermo, incerto, guardandosi intorno. Nessuno avanza per dare il
bentornato a Fortunato l'equilibrista, né per salutare i suoi straordinari
accompagnatori.
Infine
Iris si stacca dal gruppo e avanza. Scuote la testa, senza capire.
Fortunato
resta avvinghiato al bianco spettro, come se temesse di perderlo. Poi
timidamente allunga una mano e scivola nelle braccia del vecchio amico.
Sussurri
di risate e ruscelli di tenerezza si rovesciano nelle loro orecchie.
Quello
che pare il suo riflesso lo osserva con indulgenza, posa un bacio sul collo
dello spettro.
Appoggia
la guancia sulla sua spalla e resta così, felice, sorridendo alla sua gente
ritrovata.
Fortunato
siede sul tavolo e ride scuotendo i capelli.
Suo
fratello è accucciato ai suoi piedi e tiene gli occhi socchiusi, ma non smette
di vigilare sul loro spettrale compagno.
Desiderio,
questo è il suo nome, resta un po’ in disparte, occupando il solito posto di
Giuliano.
Questo
esita nel raggiungerlo, poi lo fa simulando disinvoltura.
Il
sorriso del giovane albino è accecante.
-È
incredibile vederli ridere, vederli cantare. Non smetterò mai di stupirmi, di
ringraziare il cielo per questo miracolo.
Giuliano
risponde al sorriso senza capire. Desiderio annuisce e torna a volgere lo
sguardo sui suoi amati fanciulli. –Conosco Dalj da due anni e non l'ho mai
visto sereno. Certo, Elje deve sempre aver dato un'impressione diversa, eppure
se lo si guarda a lungo negli occhi non si possono ignorare le ombre.
Giuliano
ascolta, rassegnato a una nuova storia di dolore. Sa che il dolce compagno di
Iris è differente dalla creatura che credevano di conoscere. Sa che addirittura
il suo nome era falso, Fortunato, semplice maschera ingannatrice. Quello
spirito libero è nato come Elje, e si è riappropriato del vero nome nello
stesso momento in cui riabbracciava il gemello.
Giuliano ricorda la voce di Iris librarsi, raccontare la
storia dell'equilibrista, del suo lutto profondo come l'urlo rimasto cacciato
in gola. Desiderio ha ragione: le ombre negli occhi sono troppo oscure per
permettere alla luce di filtrare.
-Come
hai conosciuto suo fratello?
-Dalj è
un regalo di mio padre. L'ha comprato in un bordello per festeggiare il mio
diciottesimo compleanno. Non puoi immaginare la mia emozione nel vederlo.
Coperto dall'ambra della lanterna, era la creatura più bella che avessi mai
contemplato. Nonché la più ferita. Era come prigioniero dei suoi occhi, non
permetteva più al suo spirito di uscire allo scoperto. Stava annegando nel
dolore. Non è stato facile aiutarlo. Troppe volte l'ho odiato per il suo caparbio
desiderio si soffrire, di perdersi nei labirinti della mente. L'ho odiato con
una tenerezza pari solo a quella che ho provato nell'amarlo. Lui ha ripercorso
negli incubi tutta la sua vita, i suoi dieci anni di libertà. Ma non ricordava
niente di Elje. Il suo gemello era un'ombra indistinguibile, confusa agli abusi
patiti. Io stesso, con tutta la mia abilità nel leggere le menti, non avevo mai
percepito la sua esistenza. Quando riconobbe il proprio nome, credetti che il
calvario fosse finito. Eppure lui sentiva il peso di questo tremendo vuoto, era
come un coltello che rigirava nelle sue carni in continuazione.
Desiderio
chiude gli occhi, quegli occhi incredibilmente candidi, e si agita sulla sedia.
Prosegue senza guardare nulla. –La notte in cui ha riscoperto se stesso ho
commesso un peccato imperdonabile. L'ho amato. L'ho preso tra le braccia per
soffocare il suo dolore, il suo pianto, e l'ho baciato… come può tanta felicità
nascondersi dentro un errore? Avevo giurato, quando l'avevo visto la prima volta,
che non l'avrei mai toccato. L'ho fatto per rassicurarlo, per scongiurare il
suo timore di uno stupro, ma sono sempre stato cosciente del fatto che, in quel
momento, una divinità dura e intransigente era al mio fianco. E se io col
passare dei giorni scordai il mio voto, lei di certo non lo dimenticò.
Giuliano
rabbrividisce per il dolore di quella voce. Ma Desiderio sorride amaro, come un
condannato a morte. –Ti stai chiedendo come possa essere tanto ingenuo da
credere alle mie stesse parole? Eppure tu, Giuliano, conosci le maledizioni dei
gitani. So che Iris ti ha raccontato di come secondo la leggenda sia stato
originato questo mondo che occupiamo, di come l'oscurità sia scesa ad abitare
quei corpi perfetti che tanto amiamo. Chi, vedendo danzare Elje, Dalj, Iris,
potrebbe negare l'esistenza di sentieri non percorribili, perduti nelle loro
iridi paurosamente immense? Chi, Giuliano? Tu non sei tanto sciocco, anche se
come me sei nato tra i ciechi e come cieco hai vissuto, fino all'incontro con
quell'angelo guerriero che siede appollaiato sul bordo della notte.
Desiderio
tace, e osserva intensamente il suo minuscolo amante accucciato tra le gambe
del fratello. Giuliano indovina tra i due un gioco di sguardi da cui il mondo
intero sarà per sempre escluso.
Desiderio
riprende a parlare, lentamente, senza staccare gli occhi da Dalj. –Inoltre,
Giuliano, ho taciuto una parte della storia. Prima di abbandonare la mia casa
per correre a sposare il mondo zingaro, ho ucciso mio padre. L'ho fatto per
difendere Dalj, per non permettere a un gesto brutale di incrinare il delicato
equilibrio da poco ritrovato, o alla lama gelida di un coltello di recidere la
sua gola di fiore bianco. E anche forse per liberare quell'uomo estraneo dalla
follia che lentamente lo divorava. Non ho dovuto muovere un dito: il dio
testimone di quell'oscura promessa ha esaudito i miei voleri. Non ho dovuto
muovere un dito, eppure ancora adesso sento il sapore del suo sangue marcio
invischiare le mie mani di parricida. E da quella notte, un altro filo
invisibile mi lega a quel demone servizievole: sarà questo a impedirmi di
ignorare il suo richiamo, quando risuonerà nei cieli senza luna.
-Dalj sa
di questa cosa?
Desiderio
scuote la testa. –Dalj sa e non sa, la sua mente è un gioco di incastri incredibilmente
sofisticato. La pazzia abita i suoi gesti, li riempie di languore. Chi lo
avvicina non se ne accorge, resta affascinato dalla sua bellezza. Ma la
sofferenza non può essere cancellata, né estirpata: ci ho provato, ma è una
lotta impari, che io non posso vincere. Mi accontento quindi di vederlo
allegro, felice, sereno, innamorato, cercando di ignorare l'oscurità che cova
dentro, pronta a liberarsi come una tempesta. E non credere che il suo dolce
fratello sia diverso: troppi incubi li avvicinano, troppi sogni li incatenano.
Ad Elje è stato risparmiato l'incubo dello stupro; tuttavia la notte, quando le
palpebre si abbassano a celare ombre e luci, i gemelli volano nello stesso
luogo, e prigionieri di un solo affrontano le stesse esperienze. Se durante il
sonno scuoti Elje, se lo desti e gli poni una domanda sulla vita di Dalj, su un
frammento oscuro di quella vita che lui non può conoscere, ti risponderà senza
esitare. Ma sotto i raggi del sole, con la mente sveglia a vigilare sulla porta
che separa le loro menti troppo simili, neanche capirà di cosa stai parlando.
Lo so perché l'ho fatto, ho provato: e in quel momento erano gli occhi del mio
Dalj a sorridermi dal viso di suo fratello.
-Come
fai a riconoscerli? Non ho mai visto creature più simili.
-Hai
ragione, sono identici, e ogni giorno lo diventano di più. È come se i loro
corpi si affannassero per tornare specchi perfetti. Ma io riesco a vedere nelle
loro menti, so distinguere gli incubi di Dalj dalle ombre che popolano gli
occhi di Elje. Gli amori che mi portano sono come due fuochi che bruciano
diversi colori. La mia passione per Dalj è un sortilegio troppo potente per
essere ingannato da questa somiglianza.
Dalj si
alza in piedi e cammina verso di loro.
È
piccolo, minuto, bellissimo. Le ombre lo attraversano, ma lui pare non farci
caso.
Siede
sulle ginocchia di Desiderio. –Mi porti a letto?
È un
bambino, si sorprende a pensare Giuliano, un bambino con gli occhi da gatto.
-Elje
resterà tutta la notte qui. Deve danzare, e bere, stordirsi di vino. Domani ci
sarà battaglia, e lui aspetterà Zita e Aureliano.
-Tu non
vuoi aspettarli?
-Io devo
dormire- mormora il ragazzo, rifugiandosi nell'ampio petto di Desiderio. Questi
lo solleva come se stringesse un fascio di orchidee. Quel corpo di uccellino
pare avere lo stesso peso.
-Quando cala la notte, torna come bambino- spiega
Desiderio a Giuliano, immobile con il bicchiere tra le mani.
Dall'altra
parte della stanza, suo fratello si prepara ad accogliere l'alba.
***
Nota dell'autrice
Bene.
Questa non è la fine, eppure non credo che scriverò altro.
In
realtà sono quasi due anni che non prendo in mano Iris. Questo capitolo
– che per via del mostruoso ritardo negli aggiornamenti giunge così tardi
-risale all'ottobre 2005.
Io nel
frattempo sono cresciuta, cambiata, e ho perso questi personaggi. Mi dispiace
perché li amerò sempre, ma così è.
Se
qualcuno di voi fosse interessato, i personaggi che appaiono in questo capitolo
– Desiderio, Dalj ed Elje – sono protagonisti di un'altra mia storia, Il Ricamo
di Lacrime. Quel che qui racconto in poche righe, traverso le parole di
Desiderio, è narrato in quelle pagine più diffusamente, e con molta più
chiarezza.
Per il
resto, non ho altro da dire.
Vi
ringrazio di essere arrivati fino a qui. Mi scuso per non aver concluso la
storia, senza averne nemmeno segnalato l'incompiutezza con l'apposito warning.
Ma che volete farci: la speranza di un ritorno d'ispirazione non muore mai.