Amami ancora, fallo dolcemente, un anno, un mese, un'ora. Perdutamente

di Nina Ninetta
(/viewuser.php?uid=2426)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


Amami ancora, fallo dolcemente, un anno, un mese, un'ora. Perdutamente.

Prima parte

 
Spense il motore dell'auto e rimase per qualche altro minuto nel buio dell'abitacolo.
Sapeva ancora di nuovo, la tappezzeria odorava di concessionario. Non che la precedente macchina fosse stata una carcassa così vecchia e malandata da doverla rottamare, ma i soldi che il suo ex marito le versava ogni inizio mese sul suo personalissimo conto in banca - cielo, così tanti per una persona sola! - doveva pur spenderli in qualche modo. E quel SUV nero e splendente che le aveva ammiccato nel concessionario BMW solo qualche settimana prima le era sembrato un pretesto più che buono per comprarla. Per farla sua.
Perché di suo non aveva nulla: né un uomo da amare, né un figlio da coccolare.
Si accese una sigaretta e spirò fuori il fumo della prima boccata. Era un peccato fumare in quell'ambiente immacolato che costava quasi quanto un appartamento in periferia, ma era di sua proprietà: poteva anche prendere a martellate la carrozzeria luccicante, non sarebbe dovuto importare a nessuno!
Una foglia ingiallita scivolò lungo il parabrezza bagnato dalla pioggia, la fissò mestamente, ricordandole la metafora della sua vita. L'autunno era ormai giunto da un pezzo, i colori avevano smesso di arricchire il paesaggio. Inspirò ancora e sentì il fumo acre bruciarle infondo alla gola. Lei era un dottore, sapeva meglio di chiunque altro che quelle dannate Winston l'avrebbero uccisa, eppure troppo spesso una boccata di fumo era tutto ciò che le era rimasto per tirarsi su di morale. L'unica compagna con cui condividere pensieri e timori.
Lì, al riparo nella sua cabina profumata, osservò per diversi minuti la casa dei suoi ormai anziani genitori, persone brave - sicuramente - ma che da lei avevano sempre preteso troppo: una laurea a pieni voti, un buon lavoro, un ottimo partito da sposare e… tanti nipotini.
Qualche macchina era già nello spazio antistante la casa, segno che alcuni degli invitati erano dentro a consumare l'aperitivo.
Odiava il Giorno del Ringraziamento come un bambino può detestare le punture.
Odiava rincontrare sempre le stesse persone e anno dopo anno ritrovarsi a rispondere alle solite domande invadenti.
Odiava i suoi cugini che le lanciavano sguardi languidi e non scordavano mai di complimentarsi con lei per ciò che si "portava appresso" nonostante i suoi vicinissimi quarant'anni.
In verità le zie avevano iniziato a dire che era vicina agli “anta” da cinque o sei anni, figuriamoci adesso che ne aveva trentanove.
Cosa le avrebbero detto quest'anno? Che era ormai vicina ai cinquanta?
Della cenere scivolò sul sedile in pelle chiara e lei vi soffiò sopra, tirando un'altra rigenerante boccata di fumo grigio.
Odiava la moglie di suo fratello che non mancava mai di prenderla sotto braccio, trascinandola con lei in un angolo appartato della casa per chiederle se avesse conosciuto un nuovo amore, fingendo di esserle amica semplicemente per impicciarsi della sua vita privata. Forse temeva che un giorno si sarebbe dovuta prendere cura di una vecchia e scorbutica cognata che dopo il divorzio non era riuscita ad andare avanti? Probabile.
In ogni caso no, non aveva conosciuto un nuovo amore e non aveva intenzione di farlo!
Con Miguel, il suo ex marito, non si era cotta: si era bruciata. E viva. Quando quella mattina alle cinque, di ritorno da un turno in ospedale - dove tra l'altro a breve sarebbe stata promossa primario di cardiochirurgia - lo aveva trovato beatamente addormentato a letto, nel loro letto, con una puttana nuda al suo fianco. Aveva creduto di poter morire di infarto. O di ictus. Ovviamente non era accaduto nulla di tutto ciò, per questo motivo più di una volta nei mesi successivi pensò che sarebbe stato meglio essere schiattata lì per lì, su due piedi. Il divorzio si era rivelato un travaglio lungo mesi e mesi, alla fine dei quali le erano spettati diversi soldi, grazie a quello che i giudici chiamano adulterio e che per lei altro non è che tradimento da parte dello stronzo e imbecillità da parte del cornuto.
Presentando le dimissioni con effetto immediato - facendo quasi morire di crepa cuore il suo vecchio - aveva preso a girare il mondo: Europa, Asia, Africa. Quando era tornata a casa (un'enorme villa affacciata direttamente sul mare) l'aveva trovata vuota e desolante, con il fruscio delle onde a farle compagnia e foglie rinsecchite sparse per la terrazza. Priva di lavoro si era mantenuta per interi mesi grazie ai soldi che lo stronzo le versava puntualmente ogni otto del mese. E guai a sgarrare di un giorno, era subito pronta a farlo contattare dal suo legale.
Una lunga e datata macchina grigia si fermò accanto alle altre, da lontano riconobbe le figure dei suoi cugini deficienti che mai - da che aveva memoria - avevano saltato uno solo di quei vistosi ed elaborati pranzi preparati da sua madre per l'evento.
Inspirò l'ultimo tiro dalla sigaretta e la tenne ferma fra le labbra mentre apriva lo sportello per scendere, quindi la gettò sul cemento e la schiacciò sotto un tacco.
Era pronta ad affrontare il Giorno del Ringraziamento e tutto ciò che ne sarebbe conseguito: famiglia, domande, pranzo. Non necessariamente in quest'ordine.
 
Era bella Victoria. Alta, con un bel seno prosperoso e i fianchi sinuosi, agile nei movimenti, con grandi occhi castani e morbidi capelli ramati che spesso teneva sciolti e ondulati lungo la schiena.
Uno dei suoi cugini la riconobbe da lontano e alzò un braccio per richiamare la sua attenzione, no che ce ne fosse l'esigenza in verità.
«Victoria!» urlò mentre lei si avvicinava a passi lenti e ponderati per il vialetto di casa Gonzales, muovendosi con disinvoltura su alti tacchi sottili.
«Hey, Mauricio!» questi gli si accostò per passarle una mano dietro la schiena e posarle un bacio sulla guancia. Detestava il suo toccarla ogni volta che ne aveva l'occasione: ora il braccio, ora il viso, ora i capelli, ora la schiena. Con un passo laterale si liberò ben presto della sua stretta, senza dimenticare di sorridere. Peccato che quello pericoloso non fosse Mauricio: era suo fratello Alexis, immobile sulla porta d'ingresso, con un ghigno sul volto e gli occhi che la scrutavano come se potesse spiarne la biancheria intima. Gli passò davanti, udendo la sua voce bassa (l'alito sapeva già di alcool) salutarla senza troppi complimenti.
«Ciao bellezza!»
«Alexis» gli rispose solo, sobbalzando quando avvertì un buffetto sulla chiappa destra.
«Come fai ad essere così bella anche alla tua età?»
Victoria si limitò a lanciargli un'occhiataccia, quindi si affrettò ad entrare in casa, dove si sarebbe potuta mischiare alla folla e sviare i loro attacchi insistenti.
E pensare che era solo all'inizio della giornata.
Sua madre le andò incontro a braccia aperte, gli occhi rossi di commozione come ogni benedetto anno. Si abbracciarono e strinse anche suo padre quando le si accostò. Amava i suoi genitori, avrebbero venduto l'anima per la loro figlia e il solo pensiero di averli delusi la logorava lentamente - ma inesorabilmente - giorno dopo giorno.
Sua madre era una donna alquanto tozza e con un cuore grosso così. Lei possedeva tutto ciò che sua figlia a trentanove anni suonati si era ritrova a desiderare come l'acqua nel deserto. La rivelazione vera e propria si era manifestata durante una sera d'estate, quando si era imbambolata di fronte ad un tramonto tanto bello da emozionarla. Peccato che in quel momento avesse realizzato che non aveva neanche uno straccio di persona con cui condividerlo. Né un cane o un gatto.
La mamma non glielo aveva mai detto espressamente, tuttavia Victoria sapeva che il fatto di essere fuori età massima per avere un figlio l'aveva delusa, sfiduciata. Avvilita. Nonostante sua madre fosse stata la mamma più affettuosa del mondo, era una donna di una certa età e all'antica che viveva l'utero arido di sua figlia come una vergogna personale. Di questo Victoria se ne dispiaceva non poco, per sé stessa certo, ma anche per il nipotino che non era stata in grado di regalare alla sua adorata madre.
L'altolocato della casa era sicuramente suo padre, in giacca e cravatta in qualsiasi occasione della vita, impeccabile perfino quando andava a letto la sera con pigiama e giacca da camera abbinata. Era alto suo padre, sfiorava il metro e novanta e Victoria doveva sicuramente a lui i suoi centimetri d'altezza. Il signor Gonzales era un ex detective di ottant'anni oramai in pensione, che aveva passato la maggior parte della vita alla ricerca di un ipotetico killer, perennemente rinchiuso in una stanzina buia, chino su fascicoli e mappe topografiche della città per l'ennesimo caso di omicidio. Nel taschino della camicia sbucava sempre una biro nera - abitudine che tutt'ora non aveva perso - perché diceva che la vera arma di un detective non è la pistola, bensì la penna poiché è attraverso gli indizi che si giunge alla verità.
«Victoria! Quando sei arrivata?»
Lei si voltò sciogliendo l'abbraccio con i genitori per finire fra le braccia di Alonso: il suo fratellino adorato che aveva amato da bambina e che nonostante tutto, nonostante l'arpia che aveva sposato, sentiva ancora di essergli particolarmente affezionata. Questo la guidò tenendola per mano lungo il corridoio, fino alla sala da pranzo dove incontrò il resto della comitiva. Sua cognata era accomodata sul divano a sorseggiare un drink analcolico - cosa che la meravigliò molto - intenta in una conversazione con sua zia, madre di Alexis e Mauricio. Entrambe la scrutarono da capo a piedi prima di sorriderle in maniera così penosamente falsa da farle venire il voltastomaco.
«Tesoro, ma tu non mangi?» era evidente che Angela, sua cognata, si riferisse al fisico asciutto e snello che Victoria aveva sempre vantato «Con tutti i soldi che ti versa quel poverino!» sghignazzò insieme alla signora che le era accomodata di fianco.
L'arpia non aveva perso tempo a sfoderare i suoi artigli affilati e la lingua biforcuta. Victoria abbozzò un sorrisetto, fece per risponderle a tono quando qualcuno chiuse la sua mano intorno a quella propria. Chinò lo sguardo e vide il sorriso dolcissimo di sua madre che correva sui visi di tutti e due i suoi adorati figli: Victoria e Alonso.
«Potreste venire un attimo? Voglio presentarvi delle persone»
«Ce-certo» Victoria la seguì interdetta, inviando occhiate alle spalle per captare suo fratello che silenzioso la seguiva a ruota facendo spallucce, come a dire "io non so niente".
«In realtà li conoscete già. Abitavano vicino a noi tanto tempo fa, poi si sono trasferiti quando lui ha trovato lavoro in... ah! Eccoli, eccoli!»
Una donna e un uomo, decisamente più giovani dei loro genitori ottuagenari, chiacchieravano amichevolmente con il padrone di casa Gonzales. Quando li videro giungere dal corridoio smisero di ciarlare e si voltarono a guadarli.
«Loro sono i miei bambini: Victoria e Alonso» lei notò come sua madre pronunciasse fieramente i loro nomi e il cuore le si riempì di nostalgia per un passato che non sarebbe mai più tornato. In quel preciso istante si rese conto che troppo spesso si danno per scontate le cose che più meritano la nostra gratitudine. Un pensiero fulmineo che attraversò la mente di Victoria lasciandola così frastornata da farle perdere la cognizione di ciò che la circondava. Poi la donna sessantenne nella hall la strinse talmente forte, stampandole due sonori baci sulla guancia, da farla rinvenire subitaneo, manco l'avesse schiaffeggiata.
«Stento a credere che sia tu! Quando andammo via dal quartiere eri un bocciolo e adesso...» la tenne per le mani «Oh cielo, sei una bellissima donna!»
Si ricordava di loro, una famiglia abbastanza numerosa con tre o forse quattro figli, costretti a cambiare casa quando il loro papà era stato trasferito per motivi di lavoro in una lontana città sulla West Coast, che tuttavia adesso faticava a ricordare.
A quei tempi Victoria aveva solo ventiquattro anni e una vita piena di sogni e desideri da avverare. Piena di aspettative. Quindici anni sembrano tanti, ma in realtà passano veloci e un giorno sarà troppo tardi per poter rimediare agli errori compiuti, alle scelte sbagliate.
Anche il marito della donna le strinse la mano e le schioccò due baci sulla guancia. Sembravano tutti commossi, le domande di rito si accavallavano e si fondevano fino a rispondere ad una cosa per un'altra, quando un toc-toc sulla porta d'ingresso richiamò la loro attenzione.
Sull'uscio di casa comparve un ragazzo che sicuramente non sarebbe passato inosservato con quell' orecchino luccicante e i capelli con il taglio militare, in jeans e camicia chiara che spiccavano contro una pelle naturalmente ambrata. Da sotto le maniche appena attorcigliate spiccavano alcuni tatuaggi. Il primo pensiero di Victoria su di lui fu se ne avesse degli altri in parti del corpo meno visibili. Si vergognò all'istante di quella domanda poco pudica che la sua mente aveva posto e si sforzò di tornare in sé.
«Ecco mio figlio!» esordì la signora che pocanzi l'aveva abbracciata «Arthur, ti ricordi di loro?» lui sorrise, così vero, così genuino, senza ambiguità.
«Vagamente» e la guardò. Per la prima volta gli occhi adulti di Victoria e di Arthur si incrociarono.
 
Era ancora più bella di quanto ricordasse. Quel tubino nero, dentro al quale il suo corpo era celato, non faceva che stimolare la sua fantasia. Poteva non ricordare il resto della famiglia Gonzales, ma lei, Victoria, la ricordava più che bene. Benissimo.
Era solo un bambino delle elementari quando l'aspettava affacciato alla finestra della sua camera ogni pomeriggio solo per vederla rincasare da scuola; o la sera, quando rientrava accompagnata dal fidanzato del momento, avvertendo un morso di invidia per quel ragazzo ventenne, con la moto e i capelli pieni di brillantina, grande abbastanza da prendere la sua amata Victoria e stringerla contro di sé, mentre la baciava con ardore. In una limpida notte d'autunno, aggrappato al davanzale della sua cameretta, con le foglie che cadevano dai rami come lacrime dagli occhi, si era ripromesso che un giorno - quando anche lui si sarebbe potuto permettere una moto e i capelli con la gelatina - avrebbe afferrato Victoria e l'avrebbe baciata con più passione di quell'imbusto con il giubbotto di pelle e senza cervello.
Le voci gioiose di Mauricio e Alexis irruppero simili a un tuono che sferza il cielo. Arthur avvertì lo sguardo di lei cedere sotto al proprio, eppure non smise di osservarla neanche per un attimo, fin quando Victoria si allontanò silenziosa e la sua figura sinuosa svanì lungo il corridoio illuminato dalle abatjour a muro.
Come ogni anno il suo posto a tavola nel Giorno del Ringraziamento era tra suo padre e suo fratello e a lei non dispiaceva: la faceva tornar bambina e infondo, tra loro due, si sentiva protetta, sembrava che ogni cosa potesse tornare identica a tanti anni fa.
Da consuetudine il taglio del tacchino spettava al padrone di casa e suo padre - in completo blu e cravatta bianca - lo eseguì con invidiosa maestria, intanto che ricordava con il suo vecchio vicino di casa dell'omicidio che per anni aveva tenuto sulle spine l'intero quartiere. Quando suo padre era giunto alla conclusione che l'assassino della giovane vittima appena maggiorenne non era altri che un insospettabile insegnante di pianoforte, Victoria aveva appena compiuto 17 anni. Non conosceva di persona la povera disgraziata ritrovata in un canale di scolo senza occhi, né lingua, e bestialmente seviziata; però l'aveva incontrata spesso nei luoghi che frequentava essendo loro coetanee. Al contrario, sapeva bene chi fosse il maestro di piano che una volta a settimana si recava nella sua scuola per dare lezioni gratis ai ragazzi disabili.
In un certo senso questo l'aveva scossa più dell'omicidio in sé.
Ormai le voci facevano da sottofondo, ogni santo anno le domande che rivolgevano all'ex detective erano più o meno sempre le stesse, le risposte identiche, i complimenti si sprecavano e si ripetevano. Ciò nonostante Victoria era distratta, completamente immersa nei suoi più intimi pensieri, sebbene si fosse rimproverata più volte di smetterla di fissare Arthur, il suo ex vicino di casa che ricordava con le fattezze di un ragazzino. Questo era praticamente all'altro capo del tavolo, bombardato dalle idiozie pronunciate dai cugini Gonzales, tuttavia lui sembrava divertirsi, rispondendo e ridendo alle loro sciocchezze.
O era troppo educato, o li stava prendendo per il culo e loro non se ne erano resi conto.
Aveva qualcosa che l'attraeva. Il suo modo di vestire forse? Così diverso dai canoni di buona famiglia a cui era stata abituata e nei quali aveva guizzato fra l'università prima, l'ospedale con tutti quei dottori importanti poi e infine la famiglia aristocratica del suo ex marito. Arthur era una sorta di marziano per Victoria, una specie di abitante del mondo proibito, tutto tattoo e muscoli, così diverso dalle braccia mingherline di Miguel - lo stronzo - che l'avevano stretta per anni e che lei, nonostante tutto, aveva amato profondamente. Si chiese come dovesse sentirsi una donna a stare tra quelle braccia dominanti, magari poggiare la testa sul suo addome, passargli una mano tra i capelli radi, sfiorare con le dita quell'orecchino impertinente e magari… chissà...
Suo fratello Alonso le strinse la mano, distogliendola dai suoi pensieri tutt'altro che casti, quindi le fece l'occhiolino. Victoria lo guardò stralunata, confusa.
Cosa diamine gli prendeva adesso?
Lui ticchettò una forchetta contro un bicchiere di cristallo, richiamando così l'attenzione dei presenti. Di nuovo Arthur la guardò, bevendo un sorso di vino bianco. A Victoria sembrò che quel bicchiere stesse in realtà celando un sorrisetto ambiguo, ma forse era solo la sua immaginazione che le faceva un brutto scherzo.
«Ho una cosa da annunciare» esclamò Alonso alla sua sinistra, lasciandole la mano per prendere quella di sua moglie Angela «Noi aspettiamo un bambino» siglarono l'annunciò con un fugace bacio sulle labbra.
Un boato di congratulazioni riempì l'ampia sala da pranzo. I signori Gonzales si fiondarono ad abbracciare entrambi gli sposi. Victoria non poté fare a meno di notare la commozione mal trattenuta dalla madre mentre stringeva più che poteva la nuora, tra gli schiamazzi generali le parve di udire un "grazie" appena sussurrato.
Si sentì mancare.
Angela è incinta, pensò.
Zii e cugini si riversarono sulla coppia a suon di pacche sulla spalla a lui e baci a lei, in particolare le donne sembravano impazzite, manco avessero annunciato l'arrivo del Messia.
Victoria rimase impassibile sulla sua sedia, come gelata, impietrita, gli occhi puntati nel piatto quasi vuoto che aveva davanti. Sentiva il cuore pulsarle nelle tempie e lo stomaco contrarsi dalla rabbia, i pensieri si mischiavano simili a cianfrusaglie in un vortice.
Angela è incinta.
Sarebbe dovuta essere lei la prima a dare un nipote ai suoi genitori, non quell'arpia, non Angela. Non Alonso. Lei e solo lei. La primogenita, la figlia laureata che salvava vite umane effettuando operazioni a cuore aperto; non il diplomato in ragioneria che si era accontentato di un lavoretto qualunque in banca e si era sposato la prima donna che aveva conosciuto sulla faccia della terra!
Angela è incinta.
Ma Victoria non aveva più un marito, né un lavoro. Era solo una sporca mantenuta, un relitto senza un futuro, una nullafacente di cui la famiglia oramai si vergognava (e per ovvi motivi, pensò).
Angela è incinta.
Con uno sforzo smisurato alzò lo sguardo, duro e freddo, e lo vide fissarla, senza sosta, senza pudore, neppure quando i loro occhi si scontrarono a metà della lunga tavolata imbandita. E questa volta non ebbe dubbi: le stava sorridendo con malizia.
Braccia conosciute le si chiusero intorno alle spalle: era suo fratello. Non poté fare a meno di ricambiare la stretta. Alonso era al settimo cielo, chissà da quanto tempo aveva voglia di confessarglielo, ma aveva preferito dirlo proprio durante il pranzo del Ringraziamento. Per quanto si sforzasse di provare gioia per lui e per il nipotino che stava per arrivare, Victoria continuava a provare un certo disagio, un egoismo cieco che neanche pensava di possedere. Suo padre propose di brindare a suo figlio e a sua nuora. I calici si alzarono all'unisono. Tra quei bagliori di cristallo e i tintinnii, gli occhi di Arthur cercarono e trovarono quelli di Victoria. Lui bevve tutto d'un sorso il suo vino, lei non brindò insieme al resto della compagnia, però non distolse lo sguardo. Neanche per un attimo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Seconda parte

 
Consultò l'orologio inchiodato alla parete alle sue spalle. Un quarto alle tre del pomeriggio.
Fuori la pioggia continuava a venir giù come se non piovesse da mesi, nonostante il riscaldamento un brivido di freddo la percorse tutta.
Proprio un bel Giorno del Ringraziamento di merda!
Victoria ingollò il terzo bicchierino di whisky e strizzò le palpebre in una smorfia, mentre l'alcol le bruciava lungo la gola, fin giù nello stomaco.
C'era solo un'altra festa che detestava quasi quanto il Ringraziamento, ed era ovviamente il Natale. Un tempo aveva avuto tutto ciò che una donna può desiderare dalla vita: un marito invidiabile, un lavoro di rilievo, una casa lussuosa. Poi un giorno si era risvegliata come da un sogno a occhi aperti, tutto ciò che l'aveva circondata fino a quel momento aveva smesso di esistere, il suo mondo perfetto le era crollato addosso sgretolandosi, simile ad un castello di sabbia inghiottito da uno tsunami.
Attraverso la finestrella sul lavabo, sul quale era china con i capelli che le ricadevano oltre il seno, vide il SUV parcheggiato in giardino. Iniziava a detestare anche quello. In un moto di rabbia si disse che non lo voleva più, che l'avrebbe dato via l'indomani stesso. Magari avrebbe comprato una Ferrari o una Porche, chi glielo impediva?
Afferrò il pacchetto di Wiston e ne tirò fuori una sigaretta a mo' di sciabola. Se la lasciò rigirare fra le dita mentre meditava sulla prossima auto che avrebbe potuto acquistare (una Jaguar magari?), distrattamente se la portò alle labbra e fece per accenderla, ma l'accendino pareva deciso a tradirla.
«Fottuto accendino!» esclamò gettandolo sul pavimento, quindi si passò una mano sul viso e poi fra i capelli, chiudendo gli occhi per un attimo. Li riaprì di scatto, quasi sobbalzando, quando si accorse che qualcuno si era chinato ai suoi piedi per raccogliere l'oggetto che lei aveva lanciato.
Arthur si rialzò, sovrastandola di qualche centimetro appena, nonostante fosse molto alta. Con un gesto repentino accese fiamma come per magia, illuminando i volti di entrambi. Attraverso il fuoco il volto di Arthur le sembrò ancora più affascinante e misterioso. Possibile che fosse davvero quel bambino che giocava per ore e ore nel cortile di casa con un pallone da calcio?
Era diventato un ragazzo grande. Anzi no, era diventato un uomo.
Per diversi secondi nessuno dei due parlò. I loro occhi di studiarono mediante la fiamma proprio come avevano fatto dal momento in cui si erano incrociati all'ingresso di casa Gonzales. Fu guardando il viso di Victoria, sul quale danzavano vivide fiamme, che Arthur decise: avrebbe esaudito il suo desiderio di bambino innamorato che ancora albergava in lui.
Victoria si accese la sigaretta e ringraziò, adagiandosi con il busto ai mobili della cucina, inspirando del fumo. In quel momento si maledisse per aver bevuto troppi bicchieri di whisky, non era astemia, ma sentiva le palpebre pesanti e la mente iniziare ad offuscarsi, come sepolta sotto una densa nebbiolina.
Oppure erano i pensieri leggermente scabrosi che continuava a fare su di lui, ora più che mai avendolo a qualche centimetro di distanza, ad ottenebrarle la mente?
«Mi spiace che tu e la tua famiglia abbiate dovuto assistere alla scena patetica di pocanzi» gli disse sperando di spezzare quell'atmosfera imbarazzante che si era instaurata fra loro due. Quando l'ex detective Gonzales si era accorto che Victoria era l'unica persona a non essersi congratulata e a non aver brindato per la splendida notizia che Alonso aveva appena rivelato, non aveva esitato a farlo notare. Non solo a sua figlia, ma anche al resto dei commensali. Ne era scaturita una vivida diatriba, degenerata con l'assurda spiegazione di Victoria al suo comportamento.
«Mi congratulerò con i futuri genitori solo quando nascerà il bambino.»
Se a suo padre quelle parole avevano dato fastidio era stato bravo a nasconderlo, poiché aveva risposto con la solita frase di rito che sempre sigillava gli incontri in famiglia.
«E poi ti chiedi perché Miguel ti abbia lasciata!»
La moglie l'aveva fulminato con un'occhiata, mentre la sua primogenita era scattata in piedi, rovesciando la sedia sul pavimento e battendo i palmi sul tavolo. Dai bicchieri pieni era zampillato del vino.
«Quello stronzo non mi ha lasciata papà, mi ha tradita!» Victoria era uscita dalla stanza di gran carriera, ignorando le suppliche di sua madre, gli inviti a calmarsi di Alonso, gli sguardi di scherno di Angela e - soprattutto - l'ordine di suo padre di restare esattamente dove si trovava, altrimenti...
Victoria non era riuscita a sentire le ultime parole, ma non le era difficile immaginare cosa avesse potuto dire. Si era così rifugiata in cucina, talmente arrabbiata da non riuscire neppure a piangere, sebbene avesse i nervi a fior di pelle. O probabilmente perché aveva esaurito tutte le lacrime a disposizione dopo quella maledetta mattina di marzo di due anni prima.
Arthur sorrise, sembrava divertito, e Victoria si chiese se avesse mai incontrato qualcuno con un sorriso bello e sincero come quello lì.
«È stato uno spasso invece, mi stavo proprio annoiando» questa volta fu lei a sorridere.
«Allora, quanti anni hai adesso? Ventidue? Ventitre?» il tono di Victoria era quasi irrisorio, come se avesse voluto farsi beffe di lui: un ragazzino che si sforzava di comportarsi da uomo.
«Che importanza ha?» Arthur avanzò di un passo e gli parve che lei si schiacciasse ancor di più contro il lavabo della cucina. In effetti ci aveva visto bene. La fantasia di Victoria pareva non voler arrestare la sua corsa, perciò si prese del tempo inspirando dalla sigaretta, inconsapevole che le sue labbra rosse chiuse su quel filtro color ocra trasmettevano al ragazzo una scarica di pura adrenalina lungo la schiena.
«Io ho trentanove anni» gli annunciò subitaneo e rimase in attesa di una risposta che non giunse mai, la sua età sembrava non turbarlo affatto «Trentanove anni buttati nel cesso!» sbottò d'improvviso senza rifletterci su, senza che lei potesse fermarle quelle parole erano saltate fuori d'impeto «Non ho un figlio, non ho un marito, non ho un lavoro!» si riempì un altro bicchierino di whisky e lo bevve tutto d'un fiato con la mano che stringeva la sigaretta, quindi si pulì le labbra con il dorso. Bruciava. Le delusioni bruciavano. Le soddisfazioni degli altri bruciavano.
Arthur in tutta risposta alzò un sopracciglio, quasi aspettandosi una spiegazione. Victoria abbassò le palpebre massaggiandosi le tempie con entrambi gli indici.
«Non so per quale motivo ti abbia detto queste cose. Scusami, è stato solo uno sfogo personale» ingerì l'ultimo tiro dalla cicca, quindi si voltò e fece scorrere l'acqua dal rubinetto, ove vi lasciò morire il mozzicone inzuppato. Afferrò con le mani il lavabo e strinse fino a farsi diventare le nocche esangui.
Arthur la scrutò impassibile, studiando il suo corpo di schiena: le spalle strette e la linea sottile della vita, il bacino sinuoso, l'ombra velata dei glutei. Il desiderio di lei spingeva e spingeva per emergere dalle tenebre degli anni, dai tempi in cui era solo un piccolo sogno quello di poter stringere fra le braccia quella ragazza che abitava nella casa accanto alla propria. Una fantasia che era stata ingenua, direttamente proporzionale all'età certo, ma che adesso era cresciuta e maturata con lui, fino ad evolversi in una voglia vera e propria che gli aveva popolato la mente dall'attimo in cui i suoi occhi l'avevano guardata.
«Sono patetica, lo so.»
Lui si mosse e adagiò i palmi delle mani sui suoi dorsi. La sentì irrigidirsi, tuttavia le mani dicevano il contrario, rilassandosi e diminuendo la pressione sul mobile. Intrecciò le dita alle sue e incrociò le loro braccia sul seno di Victoria, circondando in un abbraccio il suo corpo da troppi mesi privo di amore, privo di affetto, privo del calore di un uomo. La voce era un fruscio tiepido che le fece accapponare la pelle, più di quanto avesse fatto il tocco delle mani, grandi ma delicate.
«Non sei patetica. Sei bellissima» e prima che lei potesse replicare, prese a baciarle il collo scendendo fino alla spalla nuda.
Victoria socchiuse gli occhi.
Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Lui era solo un ragazzino e lei una donna matura, con un passato tutt'altro che facile. Come poteva accettare di farsi consolare da Arthur, una persona che l'ultima volta che aveva visto aveva le ginocchia sbucciate e giocava ancora con le macchinine?
E se qualcuno li avesse beccati?
Ma quella nebbia diventava sempre più fitta nella sua mente e ogni pensiero razionale parve abbandonarla quando intuì che le labbra del ragazzo cercavano le proprie. Le bastò voltarsi appena un po' per permettere che quella lingua pretenziosa incontrasse la propria.
 
Arthur era il primo uomo che baciava dopo aver divorziato da suo marito. Anzi, non ricordava nemmeno più l'ultima volta che Miguel l'aveva baciata in quel modo. Un bacio vero, di quelli passionali che sembrano voler risucchiare via l'anima dal corpo, sospinti da un vortice di sensazioni forti e inarrestabili.
«No! È sbagliato!» esclamò poi Victoria, allora lo scostò da sé e si allontanò di qualche passo, ma Arthur le fu di nuovo accanto, per nulla intimidito o scoraggiato, aveva la voce bassa e tranquilla.
«Perché è sbagliato?» le bocche si sfioravano di nuovo e la voglia di assaporarsi ancora era pericolosamente tangibile.
«Perché io sono molto più grande di te e-»
«E poi?» Arthur le passò un braccio dietro la schiena e, in una sorta di valzer impacciato, la guidò verso la parete vuota.
«E poi potrebbero vederci» le labbra così vicine da toccarsi, i respiri mischiati, la sua mano salda sui reni.
«E poi?» quella voce calda e sfrontata da ragazzo poco più che ventenne pronto a far fronte ad ogni sfida che la vita gli avrebbe messo davanti, senza paure, con coraggio.
«E poi…» toccò il muro con le spalle, lo guardò e notò che stava sorridendo compiaciuto.
Era così bella che avrebbe potuto prenderla anche lì, rischiando di farsi cogliere sul fatto da tutti gli altri invitati. Victoria era a pochi millimetri di distanza e sapeva benissimo che un'occasione come quella non gli sarebbe capitata mai più.
Calò la bocca sulla sua, prendendo a divorarla e a gustare il suo sapore di donna. Sentì le mani carezzargli la nuca, allora le fece scivolare le dita lungo la curva dei seni e l'incavo della vita, poi giù sui fianchi e le cosce. E questa volta non lo fermò. Era chiaro che gli argini di razionalità avevano ceduto.
«Non qui» biascicò Victoria con il fiato corto per l'eccitazione «A casa mia. Dista solo qualche chilometro» riprese fiato e notò che i suoi occhi così dannatamente vicini erano scuri e profondi. E gentili.
«I tuoi non saranno contenti di sapere che hai marinato il Giorno del Ringraziamento»
«Non sarebbero comunque contenti di me» Victoria lo allontanò con garbo «Prendiamo la mia macchina» disse mentre si dava una sistemata all'abito e ai capelli scompigliati.
 
Più volte fu tentata di ascoltare quella vocina in fondo alla mente che le diceva di invertire la rotta di marcia e tornare all'abitazione dei suoi genitori. Di smetterla di comportarsi come una ragazzina invaghita di un bel ragazzo a cui non riesce a dire di no. Di non lasciarsi sopraffare da quelle sensazioni piacevoli ed eccitanti che l'avevano sconvolta poco fa, con la sua lingua infilata dentro la propria bocca e le mani che correvano dappertutto.
Più volte fu sul punto di arrestare la macchina e dirgli che non poteva farlo, non era giusto. Era sbagliato. Immorale. Ma lui era lì e le sorrideva e le raccontava cose assurde che gli erano accadute quella sera al tavolo con Mauricio e Alexis e - alla fine - avevano riso insieme. Addirittura era riuscito a farla sorridere del fatto che fra qualche mese quell'arpia di sua cognata avrebbe avuto un bambino.
«Ma te lo immagini povero bimbo con una mamma così? Per fortuna avrà una zia su cui fare affidamento» già, un'eventualità alla quale Victoria non aveva pensato.
Il SUV BMW si fermò lungo un viale inalberato, le strade erano deserte e coperte da vecchie foglie ingiallite. La pioggia aveva smesso di venir giù, ma si stava alzando un leggero vento gelido e in ogni caso le nubi non sembravano intenzionate ad allontanarsi più del dovuto. Arthur la seguì lungo gli scalini d'ingresso, guardandosi attorno con curiosità. Nonostante fosse andato via da quella città da diversi anni e questa fosse cambiata radicalmente, non gli fu difficile riconoscere il quartiere della gente per bene, quella coi soldi che manda i figli in college prestigiosi e abiti firmati. Attese sull'uscio della porta che Victoria illuminasse l'entrata della casa prima di entrarvi. Un fischio d'apprezzamento gli uscì spontaneo e lei non riuscì a trattenere un risolino.
«Lo so, è una bella casa.»
Victoria aveva comprato quell'appartamento in contanti dopo aver venduto la villa sul mare. Alonso e suo padre avevano provato a dissuaderla in tutti i modi, ma sebbene lei sapesse che svendere una casa di oltre 220 mq per comprarsi un appartamento piccolo più della metà fosse da pazzi, aveva deciso che non vi sarebbe rimasta un minuto di più in quelle quattro mura dove suo marito l'aveva tradita. E poi adorava quell'appartamento, sembrava fatto su misura per lei, così come il viale alberato le donava un senso di appagamento, soprattutto quando dopo la bella stagione gli alberi iniziavano a spogliarsi delle foglie che, cadendo sulla strada, formavano un tappeto scricchiolante.
Arthur sorrise a sua volta chiudendosi la porta d'ingresso alle spalle.
«Alla faccia della modestia» disse con ironia e la osservò mentre gli dava le spalle per liberarsi della giacca (che gettò sul divano ad L), quindi si avvicinò ai fornelli e prese ad armeggiare con la macchina per il caffè che si avviò borbottando.
«Ti va un caffè?» gli chiese e senza attendere una risposta preparò due tazze, intanto che lui sbirciava la biblioteca ricolma di libri di medicina e in particolare la collezione di dischi anni '50. Victoria si accostò, porgendogli la tazza fumante.
«Non farci caso, sono una patita di musica vintage. Zucchero?»
«No, va bene così» Arthur scostò le tende per guardare il panorama fuori. Aveva ripreso a piovere, alcune foglie smorte e fradice si erano posate sul davanzale del balcone. Bevve un sorso di caffè muovendosi nell'ambiente con circospezione; Victoria lo seguiva con lo sguardo, in silenzio.
Nell'angolo in alto a sinistra alcune braci proseguivano a fumare nel camino fatto di mattoni, qui alcune foto ritraevano una Victoria più giovane in camice bianco e capelli legati sul capo, mentre riceveva alcuni premi. Il ragazzo le studiò a fondo, abbozzando un sorrisetto quando riconobbe tra questi personaggi illustri Barack Obama, il Presidente degli Stati Uniti d'America.
«Sai cosa mi ricordi?» le chiese d'un tratto e lei fu presa così alla sprovvista da non riuscire neanche a rispondere «Un albero» Arthur adagiò la tazza sul camino - tra una foto e l'altra - e fece lo stesso con quella di Victoria che continuava a fissarlo inebetita.
Le si accostò sfiorandole i capelli che ricadevano morbidi sul viso, lei provò a dire qualcosa - qualsiasi cosa - ma lui non glielo permise, posando le labbra sulle sue. Un tocco delicato, lieve, appena percettibile, ma che accese un desiderio apparentemente assopito, di nuovo quella fitta nebbiolina le offuscò la ragione. Questa volta fu lei a spingersi oltre, a chiedere di più, e Arthur non si lasciò attendere troppo. Si accarezzarono e si cercarono bramosi e impazienti, come se quel momento fosse stato rimandato per troppo tempo. E in un certo senso era vero, sebbene per ragioni diverse. Finalmente lui aveva realizzato il sogno di averla per sé, finalmente anche lui poteva abbracciarla proprio come faceva quel bell'imbusto anni fa, quando era solo un ragazzino invaghito della bella ventenne che gli abitava accanto.
Per Victoria era diverso. Arthur era il primo uomo che aveva avuto dopo Miguel - non che ne avesse avuti così tanti prima di sposarsi a essere sinceri. E mentre lui si muoveva sopra e dentro di lei, in una maniera così amabile e perciò inaspettata, si ritrovò a desiderare di avere venti anni in meno, per amarlo e lasciarsi amare senza vergogna, né paure, né incertezze.
Se avessero potuto avere una vita insieme? Chissà. Forse.
 
Adesso il fuoco alle sue spalle scoppiettava allegro, a ritmo con il suo spirito rinvigorito. Era seduta su di una vecchia coperta lisa, con la schiena contro il camino e le gambe distese. Arthur aveva adagiato il capo sul suo ventre e teneva le palpebre abbassate mentre lei gli accarezzava i capelli radi. I loro corpi ancora nudi erano nascosti da un morbido plaid a quadri verdi e blu. Victoria si accese una sigaretta, quindi riprese a carezzargli la testa. Aveva sempre adorato fumare dopo aver fatto l'amore, ma Miguel s'indispettiva e a poco a poco aveva smesso di farlo.
L'autunno improvvisamente le pareva essere la stagione più romantica delle quattro.
«Prima hai detto che somiglio ad un albero» disse godendosi un altro tiro dalla Wiston.
La bocca di Arthur s'increspò all'insù, senza tuttavia aprire gli occhi rispose che si, le ricordava uno di quegli alberi che in autunno perdono le foglie e sembrano morti.
«Invece sono solo in attesa della primavera per rinascere e ogni volta tutti si meravigliano e si chiedono come abbia fatto a sopravvivere alle intemperie e al gelo» sollevò le palpebre accorgendosi che lo stava fissando come se le avesse rivelato un segreto capitale «Tu sei un albero che quando rifiorirà lascerà tutti di stucco!»
Victoria si chinò a baciarlo sorridendogli felice. Era il primo sorriso vero e sincero che gli rivolgeva, tutti quegli abbozzi e sorrisetti sarcastici erano spariti ed era ancora più bella.
«Allora, me lo vuoi dire quanti anni hai?»
«Questa sera una parte di me ne aveva dieci» lei non comprese appieno quelle parole e onestamente poco le importava. Perché rovinare il momento?
La suoneria del suo cellulare prese a trillare come un'ossessa. Victoria si alzò e spiò il nome sul display lampeggiante: Alonso.
«Non rispondi?» le chiese Arthur
«No» Victoria aprì il frigo e sbirciò al suo interno «Ti va della pizza?»
«Altroché!» rise il ragazzo sfiorandosi l'addome che da un po' si contraeva dalla fame.
Victoria lasciò la pizza a riscaldare nel microonde, mentre indossava velocemente il tubino nero. Arthur s'infilò i jeans e la raggiunse al tavolo. Qui un piccolo block notes attirò la sua attenzione, benché i fogli fossero ancora tutti immacolati.
«In California ci sono ospedali e cliniche che farebbero a gara per accaparrarsi un cardiochirurgo» Victoria lo guardò aggrottando la fronte, non capiva, lo vide solo scarabocchiare qualcosa su un foglio con la penna dall'inchiostro blu che teneva sempre a portata di mano. In tutta la sua vita aveva sempre scritto con l'inchiostro blu, perché il nero proprio non le piaceva, le ricordava i numerosi taccuini di suo padre pieni di parole scure e incomprensibili per lei. Arthur le porse il foglietto con sopra un numero di telefono e un indirizzo.
«Se mai decidessi di fare un salto sulla West Coast» le fece l'occhiolino e Victoria sorrise, accomodandosi al suo fianco e adagiando sul tavolo la pizza riscaldata e una birra da discount.
«Felice Giorno del Ringraziamento.»
«Felice Giorno del Ringraziamento, Arthur.»
Victoria addentò la sua parte di pizza tenuta con le mani. Se l'avessero vista i suoi genitori mangiare quello schifo nel giorno più importante dell'anno per gli americani sarebbe venuto loro un infarto. E questo lo rendeva ancora più speciale.
Lesse l'indirizzo sul foglio. La California. Guardò di sottecchi Arthur alla sua destra. La pelle naturalmente ambrata, gli occhi color cioccolato, il taglio militare, i tatuaggi tribali che correvano sulle braccia, il sorriso sornione di chi la sa lunga. Di chi sa che la giornata non è ancora finita, che la vita è lunga e imprevedibile, ma non per forza in senso negativo. Victoria ricambiò quel sorrisetto insolente, mentre la voglia di lui rifioriva nel basso ventre, finalmente libera dalla vergogna e da ogni inibizione morale.
Tutto sommato, non era stato un così brutto Giorno del Ringraziamento.

Fine



 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1528535