Breeze Of Nuka

di JeremySpoken
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Paradise Vault ***
Capitolo 2: *** Megaton. Pt.1 ***



Capitolo 1
*** Paradise Vault ***


-BREEZE OF NUKA-

Chapter One.

Paradise Vault.

 

 

 

 

Il mio nome è Jeremy, vengo dal Vault 101. Sì, sono uno del Vault, io, un civile come si deve. E' lì dove sono nato e cresciuto, ed è lì che sarei dovuto morire, felice di aver condotto una vita del tutto nella norma, da essere umano tra gli esseri umani. Lì nel Vault, lo ricordo bene, si mangia cibo vero, si beve acqua pulita, si hanno cure mediche vere, si conduce una vita vera.

Ogni anno nascono bambini e muoiono vecchi, ogni anno ci sono esami scolastici e feste di compleanno, ogni anno si curano malattie, ogni anno quel posto diventa più magnifico, un paradiso. Ancora ricordo il mio decimo compleanno, quando papà e quel suo collega mi regalarono il mio Pip-Boy 3000, quello che indosso ancora oggi, sebbene ora sia così rovinato, così sporco, così malandato. Ma funziona ancora bene, nonostante tutto, perchè la nostra non è una semplice tecnologia, no: la nostra è la Vault-Tec, e nessun uomo qui, nella zona contaminata, può lontanamente immaginare dove essa possa arrivare.

Mio padre era uno scienziato, lì, ma non ne sono sicuro, a malapena ricordo la sua faccia, la sua voce... E' passato fin troppo tempo, nemmeno so più perchè io sia scappato da quell' Eden, cosa diavolo mi fosse saltato in testa. Ricordo solo Amata che mi mostra la strada, le guardie, gli scarafaggi radioattivi, le sirene,.. E poi la luce. Ecco, se c'è una cosa che ricordo alla perfezione, quella cosa è senz'altro il pallido bagliore emesso dalle stelle in quella notte in cui lasciai il Vault 101; era notte fonda, anche se -ora che ci penso- io, la notte, non l'avevo mai vista. Qualcuno mi aveva parlato di quel posto fuori dalle porte blindate, dei ratti-talpa che ti mangiano la carne, di una certa “Megaton”, di qualcosa chiamato “Enclave”, ma mai nessuno mi aveva parlato della bellezza del mondo esterno in piena notte, della luce bianca che sudano le stelle in piena estate, dell'odore di polvere e libertà che galleggia nell'aria. Il cielo, quel giorno, aveva lo stesso colore della mia tuta del Vault: un cielo indaco, sporco più della stoffa in cui risiedevo, e la luna gialla, gialla come la scritta “101” che sormontava la mia schiena.
E fu da lì che iniziai a capire, capire che in quel mondo feroce senza pareti di metallo e senza cabine blindate dove dormire la notte, non avrei mai più rivisto Amata, non avrei mai più bevuto Nuka-Cola, non avrei mai più incrociato il soprintendente per i corridoi, grigi come la nebbia. Iniziavo a capire che la mia vita di perfetto comfort era ormai terminata, che la minaccia -che ai tempi mi pareva enorme- dei Serpenti Del Tunnel era ormai solo un lontano ricordo. Avevo lasciato morire la madre di Butch, l'avevo lasciata in balia degli scarafaggi radioattivi, ora che mi ricordo. Avevo rimosso questo pensiero ormai da tempo. Ai tempi, in effetti, gli scarafaggi radioattivi mi terrorizzavano. Ero solo un ragazzino con la paura degli insetti, come lo era anche Butch, ne sono sicuro. Ma sua madre, sua madre era lì, e Dio solo sa quanto possa essere doloroso un morso di quei cosi. Sua madre non disponeva di fucili laser, di fucili da cecchino, di sparachiodi, e neanche di una mazza da baseball. Aveva solo le sue mani nude, le sue mani da donna che mai avrebbero immaginato di doversi scontrare con una bestia come quelle. Dicono che quegli animali inizino a divorarti dalle guance, e che dalle guance passino alla lingua, il tutto mentre tu sei ancora vivo e cosciente, cosciente del fatto che a breve morirai dissanguato, divorato dalla disgustosa bocca di un disgustoso scarafaggio radioattivo. Puoi sentire le loro zampe viscide schiacciarti il petto, e i loro denti aguzzi conficcarsi nella tua stessa carne. Di te dicono non rimangano neppure le ossa.

Ma tutto questo un civile dentro al Vault non può saperlo, ovviamente. Periodicamente avvengono disinfestazioni, e quelle bestie vengono ammazzate a colpi di fucile, uno ad uno, dagli addetti. Una morte prematura non è ammessa nel bunker, tantomeno se a preocurartela è uno schifoso insetto radioattivo.

Ma che senso ha parlarvene adesso, adesso che sono qui a respirare polvere e radiazioni nella zona contaminata, con gli anfibi distrutti dal caldo e dai migliaia di passi, adesso che, in preda alla fame, divoro carne di scarafaggio radioattivo come un bambino davanti alla sua torta di compleanno.

Ma sono ancora vivo, e quindi non posso lamentarmi. Lontano da Paradise Vault, è così che ormai lo ricordo, ma ancora libero di respirare. Solo qualche ferita qua e là ed una dozzina di stimpax in tasca. La gamba sinistra mi fa male, me l'hanno ferita quei bastardi predatori qualche ora fa, ma ora sono là a terra, dove è giusto che siano, con un paio di pallottole nel cranio. Non voglio usare nessuno dei miei stimpax per una stupida gamba, ma qui intorno non credo ci siano città abitate con dottori o qualche letto dove riposarmi. Forse ritornerò a Megaton e andrò alla clinica, di certo non userò uno dei miei medicinali per un graffietto del genere. Eppure questa dannata gamba continua a pulsare, a bruciare, a tremare; sembra essere stata immersa nel fuoco ardente, fa male. Penso che sia anche causa delle radiazioni, e pensare che nel Vault bastava un “toc toc”, ed un medico sorridente ti veniva incontro con qualche siringa, e in un attimo eri come nuovo. Non che lì ci fossero gravi malattie o combattimenti, nessun predatore con coltelli da combattimento, solo quei “Serpenti del Tunnel”, anche loro dei bambocci, tutto sommato.

 

Il mio nome è Jeremy dal Vault 101, sto cercando mio padre. Hai per caso sentito parlare di un certo James?

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Capitolo 2
*** Megaton. Pt.1 ***


         

 

-BREEZE OF NUKA-

Chapter Two.

Megaton. Pt.1

 

 

 

 

La zona contaminata non era niente male, non proprio come me l'aspettavo, in effetti. Non che la polvere per aria non mi desse fastidio, ragazzi, la odiavo, ma fino a quel momento non avevo trovato neanche uno di quei mutanti di cui tanto si parlava nel Vault. Lì, ora che ci penso, Amata mi aveva detto qualcosa riguardo enormi creature verdognole, brute, che sarebbero state capaci di freddarti con due colpi di fucile. Fino a quel giorno, ad ogni modo, incontrai solo cani feroci e ratti-talpa, e questo non sarebbe un problema se avessi saputo maneggiare una pistola come si deve. Mi resi conto solo a breve di quanto quelle cose fossero difficili da usare, per Dio. Forse papà avrebbe dovuto addestrarmi con vera 10mm, e non con un cazzo di fucile a pressione. Non ci uccidi neanche le mosche con un fucile a pressione.

Il mio primo colpo l'ho sparato ad un ratto-talpa, per il quale ebbi a lungo il braccio sinistro menomato. Era arrivato di fretta, quello schifo di animale, con gli occhi iniettati di sangue. Era di un color roseo, come un se a venirmi incontro fosse stato un feto mutante, ancora imbrattato di liquido amniotico biancastro e sangue ormai rappreso, che creava una solida crosta sulla maggior parte del corpo; il sangue delle creature che uccideva brutalmente costituiva la sua corazza. Li uccideva a morsi e a graffi, e dopo averli ammazzati come si deve, quando ormai l'altro era disteso in una pozza cremisi, si prendeva ciò che era suo, come un bottino di guerra, la giusta ricompensa per un ottimo omicidio; da lontano potevo veder affondare gli artigli nelle corazze dei predatori e, dopo aver loro strappato gli abiti di dosso, avventarsi sui loro petti straziati dalle ferite, sudati e lerci, ricoperti da uno strato di polvere e fango, e avvinghiarsi ad essi coi denti, lacerando quella stessa carne, sradicandola letteralmente dai muscoli tesi. E poi masticavano, masticavano per interi minuti: enormi bocconi di deliziosa carne umana impregnata di sangue denso e scuro, che rimaneva impigliata, tra un morso e l'altro, nei giganteschi canini della bestia, che oramai grondavano, anch'essi, sangue.

Da lontano, per la prima volta, vidi il primo di una lunga serie di corpi morti e squarciati. Il torace aperto in due, come una sacca, con un taglio impreciso, come se da quella sacca avessero distrattamente tolto una toppa. Potevo vedere muscoli, carne e costole giacere sotto lo sguardo feroce di un ratto-talpa radioattivo, e brandelli di organi vitali a terra, senza vita, inutili, in vaste pozze di sangue pronto a coagularsi da un momento all'altro.
Vomitai. Non piansi, vomitai. Da lì a poco avrei ignorato le decine di busti aperti in due sulla mia strada, dando loro solo un'occhiata distratta, per poi derubarli altrettanto distrattamente. Ne avrei guadagnato poco, tutto sommato. Una dozzina di munizioni, un paio di tappi, di volta in volta qualche coltello, niente di interessante, ma pur sempre qualcosa di utile.

Comunque, quel giorno faceva particolarmente caldo, giravo a vuoto da qualcosa come due giorni, o tre (non che tenessi il conto del tempo, che fosse stato sabato o mercoledì, non sarebbe cambiato un accidenti), ed in borsa non avevo assolutamente nulla, eccetto qualche boccone di carne radioattiva di cane, o di ratto-talpa. Una cena da signori, insomma. Avevo anche una dozzina di tappi, li avevo trovati da quelle parti, sfilati furtivamente dalle tasche di cadaveri qua e là. Solo una 10mm in mano, ancora un paio di ricariche. Ero un uomo morto, un cadavere che camminava per le vie distrutte della zona contaminata, l'odore della morte giungeva denso e reale alle mie narici, le infestava, mi faceva assaporare giorno dopo giorno l'acre sapore del mio decesso. Non ci sarebbero stati funerali, per me, il mio corpo non sarebbe stato né bruciato né tanto meno sepolto. Sarebbe stato lasciato a terra, divorato dalla polvere, costellato di morsi di strane bestie radioattive, decine di predatori avrebbero frugato nelle mie tasche in cerca di tappi, ami o munizioni, e a nessuno sarebbe importato di innalzare una lapide alle mie spalle, costruire una croce con miseri rametti di cespugli semi-bruciati.

Pregustavo già le conseguenze del mio errore, la giusta punizione per aver lasciato il Vault. Sì, era così, me lo meritavo, mi meritavo la fame e la sete, mi meritavo l'odore della putrefazione nelle narici, mi meritavo i sassi negli anfibi che mi tagliavano e graffiavano le piante dei piedi. Ero stato solo un idiota, in realtà. “Eroe della zona contaminata” un cazzo, ero solo un profugo fuggiasco, che aspettava solo il giusto momento per venire ammazzato da chissà chi, con solo una 10mm e un pezzo insanguinato di carne di cane strappato dalla carcassa con le mie stesse mani ed avvolto in un brandello di stoffa color indaco dalla mia tuta del Vault.

Quando vidi da lontano quel cartello di metallo arrugginito su cui era stato scritto qualcosa, a caratteri rossi e imprecisi, ero al culmine della spossatezza. Sentivo i muscoli pulsare tesi sotto la pelle, e la gola non era certo meno asciutta di quella terra arrida su cui ora camminavo. Avevo dormito sì e no tre ore in due giorni, ed il mio braccio sinistro , quasi insensibile, era gravemente ferito. Non avevo nulla di dolce con me, e se avessi avuto un calo di zuccheri -o peggio, se fossi svenuto- sarei diventato la cena di qualche cane feroce. Mi avvicinai a quel cartello con passo stanco, e lessi l'insegna: “MEGATON”. Mai sentito in vita mia, in realtà. Un nome in codice, forse? Accanto al cartello giaceva immobile una carcassa definitivamente decomposta di un animale che a colpo d'occhio non avrei saputo riconoscere, ma avvicinandomi allo scheletro -da cui pendeva ancora qualche striscia di carne grigiastra e qualche brandello di abito- misi a fuoco che quello non era né un cane, né un ratto-talpa, niente del genere: le proporzioni tra le ossa rimanenti della vittima fecero emergere i miei più lontani ricordi da studente del Vault, qualcosa che aveva a che fare con l'anatomia, evidentemente; quella cosa era un uomo, o almeno lo era stato, un tempo. Posai lo sguardo sulla scritta, le cui lettere erano state scritte ad inchiostro rosso, che andava via via sbiadendosi. Improvvisamente capii che neanche quello era inchiostro, ma semplicemente sangue. Sangue che probabilmente proveniva dal corpo dell'uomo (o della donna) ai piedi dell'insegna. Un brivido mi percosse la schiena, ed ebbi come l'istinto di impugnare la pistola tra le mie dita tremanti. Quindi era così che sarei diventato, pensai. Potrei essere io tra qualche mese. Sarò io, tra qualche mese.

Mi avvicinai per la seconda volta al cartello, e deglutii. Sotto la scritta “MEGATON” v'era un secondo simbolo quasi del tutto sbiadito, una freccia che mi avrebbe condotto a sud-ovest. Potevo rischiare o starmene là, aspettando di essere ammazzato da una qualsiasi creatura. “Un proiettile fa meno male di uno squarcio sullo sterno”, pensai subito. E poi, lì avrei potuto almeno sapere qualcosa riguardo papà. Forse era una città, e non un covo di predatori. Forse, però, “Megaton” potrebbe essere qualche nome in codice, potrebbe significare qualcosa come “Stai alla larga da qui”, o “Pericolo”. Tanto valeva tentare.
Iniziai a camminare in quella direzione, e in una dozzina di minuti mi ritrovai in cima all'ennesimo pendio; da lì potevo vedere qualcosa, e quella cosa assomigliava vagamente a un recinto metallico, come un campo di concentramento, come un covo di schiavisti, o chissà che altro. Impugnai saldamente la pistola, e furtivamente mi avvicinai ancora e ancora.
disse una voce alle mie spalle. Mi voltai puntando la pistola a quello che -nella mia testa- era un predatore, uno schiavista, un assassino, un pazzo criminale pronto a farmi saltare la testa con un colpo di fucile a doppia canna, o a spezzarmi tutte le ossa con una mazza da baseball. Ma alle mie spalle non c'era niente. Un gemito attirò la mia attenzione, ed abbassai al testa verso il luogo da dove provenivano i versi. Appoggiato a una roccia, vestito di cenci e con una folta barba grigiastra incrostata di sangue e fango, un uomo ricoperto di ferite, croste e graffi, magro e pallido, le cui palpebre sembravano più pesanti della mia borsa, quando la riempivo di carne radioattiva.
fu l'unica risposta che riuscii a dare, sudando, sempre tenendo ben salda la pistola, puntandola ora verso la fronte del vecchio, ora verso ovest, dove sorgeva il recinto metallico.
La sua voce usciva con rancore da un paio di labbra sottili e screpolate, secche più di una duna di sabbia in pieno deserto. Ebbi pietà, per un istante, e gli credetti, eccome se gli credetti. Non sembrava certo uno pronto a sfoderare un'arma ad energia e farti fuori, tutt'altro.
Abbassai la pistola, ma non dissi nulla.



tutte le mie bottiglie vuote di Nuka-Cola, da cui era stato sottratto ogni singolo tappo. Scongiurai Simms di farmi restare da lui, o per lo meno nella Common House, eravamo grandi amici, e lui sarebbe stato consenziente, se solo Moriarty non lo avesse convinto che tutto quello avrebbe portato scompiglio, che per aiutare un misero stronzo come me avrebbe mandato a repentaglio la salvezza di tutta la città: lo persuase che se mi avesse lasciato stare gratuitamente alla Common House, o peggio in casa sua, tutti i suoi clienti avrebbero lasciato le proprie stanze, e avrebbero preteso lo stesso trattamento, ovvero vitto e alloggio senza sborsare un tappo. Simms sapeva che Moriarty era un bastardo, eccome se lo sapeva, ma la salute della sua amata cittadina gli stava a cuore più di qualsiasi altra cosa. “Meglio non rischiare”, pensò, e mi cacciò da Megaton. ..Ed eccomi qua.>

Alla sua storia seguì un momento di incessante ed imbarazzante silenzio. Avrei voluto dire qualcosa di appropriato, un “mi dispiace” o “vorrei poterti aiutare”,ma non dissi niente. Forse per vergogna, forse per pietà.

chiesi d'un tratto, poiché dalle vicende avevo appreso solo che quest'uomo era il proprietario di un Saloon, ed affittava stanze ai cittadini.

A quel racconto seguì l'ennesima imbarazzante pausa silenziosa, interrotta solo dal tintinnio di quella dozzina di tappi che tenevo in tasca. Ancora più imbarazzante, dal momento che innanzi a me c'era un nullatenente, ed io non avevo certo l'intenzione di lasciare una mancia per le sue storielle.
conclusi infine
domandò lui appena interessato, allungando il collo come per sentirmi meglio
Annuii sinceramente grato, e agitai automaticamente la mano, dicendo “ciao”.
mi interruppe lui
Sorrisi meccanicamente. L'informazione non mi avrebbe fruttato niente, solo tempo perso, pensai. mi limitai a rispondere. .
Neanche un paio di minuti, e mi ritrovai davanti alle due grandi porte di metallo arrugginito, che cigolavano solo a sfiorarle. Feci per bussare inutilmente, ed abbastanza scioccamente, quando un robot d'acciaio con una luce viola in cima al capo si avvicinò, iniziando a borbottare qualcosa come “Puoi bere”, “Moriarty”, “Armeria”. ordinai seccato, tentato dallo sprecare i miei ultimi colpi per trasformare quel robot in uno scolapasta.

Un cigolio prolungato ed acutissimo anticipò l'apertura dell'enorme cancello.

Mi addentrai lentamente nella città, nella quale aleggiava un acre odore di acqua sporca e carne putrefatta. A primo impatto quel paesaggio mi ricordò quello delle antiche palafitte, ove le case erano collegate da sistemi di ponti e sentieri metallici che mi parevano assai precari rispetto all'avanzata tecnologia vault-tec. Per le strade vedevo tante, forse troppe persone per un posto così piccolo. Scesi lentamente la discesa ripidissima ai piedi del cancello, che portava al centro di Megaton. Un uomo di colore abbastanza maturo, con un enorme cappello da cow-boy in testa mi si avvicinò radiante, quasi euforico, e, quando fummo a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro , mi porse la mano.
cominciò

dovuto lasciarlo subito dopo di lui, perchè il sovrintendente mi stava, ecco, dando la caccia. Non ho che una decina di tappi e un paio di pezzi semi putrefatti di carne radioattiva delle bestie che ho trovato qui fuori. Non chiedo una fissa dimora, solo di poter essere curato. Sono disposto a vendere tutto ciò che ho pur di racimolare qualche tappo.>


lo interruppi subito avrei continuato per interi minuti, se qualcosa non mi avesse distratto. Scostai la testa, osservando ciò che c'era dietro l'enorme cappello di Lucas Simms: un'enorme bomba nucleare al centro della città, dentro a un fosso di uno o due metri al massimo, completamente pieno d'acqua, ed un uomo vestito di cenci ai piedi dell'ordigno, intento a.. inginocchiarsi, e dire cose che al momento non capii, qualcosa come “Chiesa dell'atomo”, “Bambini”, “Splendente”. Nulla di riconducibile alla bomba, comunque.
mi domandò confuso il cow-boy, voltandosi anch'egli verso la bomba. Eppure lui non pareva né particolarmente sorpreso, né tanto meno spaventato.


accennò ad una risata sinceramente divertita, mentre io lo guardavo sconcertato: come poteva tutto quello sembrargli normale? continuò


Si interruppe di colpo, e deglutii. Si fece avanti, avvicinandosi ulteriormente a me, per poi poggiarmi una mano sulla spalla, con fare da padre apprensivo.
Non fidarti, per nessunissima ragione al mondo devi fidarti di quella carogna. Potrai vedere tu stesso come quel pazzo ubriacone tratta i suoi dipendenti, Nova e Gob. Povere anime, soffro solo a pensare che due abitanti della mia città possano patire certi dolori. Ma non posso fare nulla a riguardo: Moriartry è seriamente convinto di avere il potere, qui, solo per il suo giro di armi, puttane e droghe. Lo lascerò nella sua convinzione fino a che non me ne stancherò, perchè se c'è un capo, qui a Megaton, quel capo sono io, lo Sceriffo Lucas Simms.> Concluse con un sorriso radiante, da vero leader, e mi diede un'altra pacca sulla spalla, come per incoraggiarmi. Ci salutammo a dovere, con una stretta di mano ed un “ci vediamo”, quindi mi incamminai verso i piedi della discesa. Avevo le gambe a pezzi, e l'unica cosa che desideravo era sedermi o coricarmi in un vero letto. Se ben ricordavo, per scopare con quella Nova ci volevano 120 tappi. Assaporai piano con l'immaginazione la prospettiva di una serata con la donna: sesso e sonno, tutto per 120 tappi, un affare, se solo li avessi avuti, tutti quei soldi. Mi ripromisi di andare da lei, non appena avessi guadagnato abbastanza. Mentre nella mia testa figuravo la donna -che immaginai con lunghi capelli rossi ed una divisa da mercenario strappata, utile a coprire solo il minimo indispensabile-sbottonarsi la camicetta color cachi e slacciarsi la cintura di cuoio, arrivai ai pendii di quella che ormai, alle mie spalle, era diventata una salita, e scorsi subito l'insegna “La Lanterna D' Ottone”, ed il bramino rossastro dall'altro lato della piazzetta, ai piedi di una piccola baracca metallica ornata di un cartello: “Clinica”.

 

 

Lentamente, superate le due casupole, mi avvicinai ad una rampa d'acciaio, che mi avrebbe -secondo le indicazioni di un colono- portato al “Saloon di Moriartry”.

 

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