Rushing Life.

di Cornfield
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Why do you want him? ***
Capitolo 2: *** She's living in a disguise. ***
Capitolo 3: *** Gilman Street. ***
Capitolo 4: *** 1,000 hours. ***
Capitolo 6: *** My own closest enemy. ***
Capitolo 7: *** 80. ***
Capitolo 8: *** I've got a rock and roll band. ***
Capitolo 9: *** Why should my fun have to end? ***
Capitolo 10: *** A hug and a letdown. ***
Capitolo 11: *** Never let go. ***
Capitolo 12: *** No time to search the world around. ***
Capitolo 13: *** And so it begins. ***
Capitolo 14: *** She's a little pilot in my mind. ***
Capitolo 15: *** Self loathing freak and introverted deviot. ***
Capitolo 16: *** The Trial. ***
Capitolo 17: *** A cigarettes and a peculiar name. ***



Capitolo 1
*** Why do you want him? ***


Premessa: questa fan fiction racconta della vita di Billie Joe sin dal principio, dal lontano 1987 e vedrò di arrivare fino ad oggi, ma non so se avrei tutta questa costanza. E’ tutto strutturato in prima persona, ho immaginato tutti i suoi pensieri turbinati nella sua mente nel corso degli anni, niente di più, non è una cosa originale. E’ la mia prima fan fiction, non siate crudeli c: “Leggere è un’arte in via d’estinzione” quindi prima di chiamare il WWF, prendetevi  una bella tazza di cioccolata calda e mettevi comodi. Spero che la storia vi piaccia, buona lettura! (So che i primi capitoli non sono il massimo, ma dopo credo siano molto più "leggibili". Quindi vi chiedo di perseverare nella lettura anche se magari avrete subito storto il naso :'D)
 
Berkeley, 1987
Non avevo mai visto piovere cosi tanto a Berkeley, la pioggia aveva battuto su ogni angolo delle strade desolate, dei  marciapiedi rovinati dalle intemperie e perfino nei più piccoli e oscuri vicoletti della città di cui non si ricorda nessuno, se non le anime che un giorno avevano popolato quei posti e che sperano ancora che il loro vero corpo vada a riprenderseli. Ma i ricordi sono rimasti ancora li e nessuno sembra accorgersene.  Finalmente smise di piovere quella sera. Ne approfittai per uscire e prendere una boccata d’aria. I miei passi risuonavano nella mia mente come suoni sordi e si perdevano piano piano nell’infinità dei miei pensieri.  Non c’era nessuno a quell’ora se non me e la nebbia caduta all’improvviso sulla città, una perfetta coltre bianca che mi permetteva di stare lontano da tutti. Ma c’era qualcosa che continuava a tartassarmi. Cos’ero io? Non lo sapevo. Non avevo ideali, odiavo la scuola, andavo dietro ad una ragazza, era quasi un ossessione e questa ossessione stava cominciando a trasformarsi in pazzia. Non avevo niente, solo un cuore incerottato chissà quante volte. In qualche modo volevo dimostrare la mia rabbia, il mio amore,  ma come potevo, io, che non sapevo neanche allacciarmi le scarpe?  Cazzo, me ne stavo a ubriacarmi e a fumare canne ogni giorno, smascherando questi fottuti dubbi, creandomi un Billie Joe Armstrong fattone che illudeva se stesso. Credevo davvero di non avere nessun talento particolare se non quello di fumare tutto d’un fiato. Lo credevo. E passai la mia serata immerso nella nebbia e nei miei pensieri.
 
Quando arrivai a casa erano circa le due, avevo passato tutto quel tempo tra i rimorsi e le preoccupazioni, ultimamente erano le mie uniche cose sempre vicine a me. Entrai a casa in silenzio, sapevo che se mia madre mi avrebbe visto a quell’ora rientrare, si sarebbe davvero infuriata. Credevo fosse già a letto, invece era su una sedia consumata, in cucina, ad aspettarmi. Avrebbe voluto dire sicuramente molto, ma la sua rabbia gli scoppiò dentro e quando mi vide alla soglia della porta non articolò nulla. Sapevo che mi aveva visto, sapevo che stava nutrendo un profondo rimprovero nei miei confronti, conoscevo fin troppo bene mia madre. E’ la donna più buona che abbia mai conosciuto, una madre si ama e basta. Eppure non conoscevo me stesso, conoscevo un’altra persona e non me stesso.  Rimase un silenzio tombale nella casa. Mia madre continuava a fissare un punto fisso di qualsiasi parte della cucina, quasi come se volesse cercare delle parole che non trovava. Io rimanevo pietrificato ancora davanti all’uscio, indeciso sul da farsi. Alla fine entrai e stavo per accingermi a salire le scale. “Billie Joe, devo parlarti.” Fece un voce flebile alle mie spalle. Non era il solito vocione autoritario di mia madre quando si arrabbia, non sembrava lei. Era preoccupata. Mi sedetti accanto a lei in cucina. I suoi occhi continuavano a fissare un punto qualsiasi, non mi guardava negli occhi. Non voleva. O non ne aveva il coraggio? Era quasi diventata una situazione paradossale, quasi come si fosse macchiata lei di qualche colpa. Finalmente si risvegliò da quella posa ipnotica, ma abbassò gli occhi. “Non avevo visto l’orario, sono stato fuori con Mike per tutto il tempo, scusa”. Lei scosse la testa. Avevo paura che il silenzio ripiombasse in quella casa che ormai viveva solo di ricordi, ora quasi non vedevo l’ora che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa. Finalmente sembrò aprire bocca. “Ascolta Billie, non so come dirtelo…” Fece una pausa e si bagnò le labbra. “Io non posso continuare cosi. Non posso badare a tutti voi,o almeno non posso farlo da sola…” Deglutii. “Si chiama Charlie, non è pieno di soldi ma di certo non è nelle nostre condizioni. E lo amo Billie, lo amo.” In quel momento tutto il mondo mi cadde addosso. Quella non era mia madre, era un'altra voce, non era lei. Aveva sempre e solo amato Andy, solo lui. Aveva giurato amore eterno a mio padre. Non riuscivo a crederci, non era vero, era tutto un fottuto incubo.  Le mani cominciarono a sudare.  “No mamma, ti stai sbagliando…” Riusci a dire con un filo di voce, quasi cercando di dissuaderla da quell’uomo, ma era tutto inutile, il suo cuore ora apparteneva a qualcun altro. “Billie so che sei ancora legato a papà,ma lui è…” “FOTTUTA STRONZA, come cazzo ti permetti a rimpiazzare cosi papà? Te ne esci cosi , all’improvviso? Papà è qui, non è morto papà è qui, papà è QUI!” Gridai tantissimo per far uscire fuori la mia rabbia, la mia tristezza, il mio dolore, il mio tutto.  Mentre facevo questo il mio viso cominciò a essere solcato dalle lacrime e quello di mia madre era uguale, ora anche noi, non solo Berkeley, era stata bagnata, nei più minuscoli vicoletti della nostra mente e dei nostri ricordi. Presi Blue quasi con forza, mi misi il cappuccio e me ne andai da quell’inferno e le lacrime si confondevano con la pioggia. Mi sedetti su un gradino di una piccola casa abbandonata.Perché voleva lui? Perché? Fu allora che mi accorsi della chitarra che avevo portato con me, senza uno scopo preciso. La presi e cominciai a suonare alcuni accordi base. E mi placai. Mi resi conto che avevo ancora una possibilità per sfogarmi: la musica. Mi voltai a destra. Non proiettavo nessun ombra. E non mi meravigliavo. Mio padre non era con me, io non avevo un ombra.

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Capitolo 2
*** She's living in a disguise. ***


Le prime luci del mattino mi risvegliarono all'improvviso.
La turbinosa tempesta che aveva fatto inginocchiare Berkeley era finalmente cessata come la rabbia e il dolore provato ieri notte. Non riuscivo a spiegarmelo, ma mi sentivo bene. In cuor mio però sapevo che qualcosa era realmente cambiato, forse sei corde che vibravano erano la risposta. Fissai Blue, l'unica cosa che non mi ricordasse bugie e menzogne.
Ero rimasto tutta la notte sopra quello scomodo gradino a contemplare la chitarra, a convincermi che quel Charlie, sarebbe stato perfetto per mia madre, sarebbe stato l'ombra che mi avrebbe guidato, un ombra che non poteva competere con quella di mio padre, ma pur sempre un ombra.
No, nessuno poteva sostituire quella di Andy.
L'ombra di Charlie avrebbe fatto finta di seguirmi, ma alla minima distrazione le sue oscure braccia avrebbero preso la mia gola e e la mia anima. Ma tanto cosa importava. La mia anima era vuota. 
L'ombra di mia madre ha smesso di seguirla tanti anni fa, si sarà persa da qualche parte.
 
Non avevo il coraggio di ritornare in quel posto che ancora chiamavo casa dopo quella scenata, ma lo feci  comunque  perché quello stesso giorno Mike si sarebbe trasferito in una delle stanze da noi e mi sentivo in dovere di accoglierlo.
Quando arrivai, uno strano rumore perseverava in soggiorno. Singhiozzi. Mia madre aveva il volto triste Era stata tutta colpa mia. Ero io la causa delle lacrime, pensai. Mio Dio, ero accecato dalla gelosia, era questo il problema. Che cosa avevo fatto? Ero un inutile pezzo di merda.
Mia madre lentamente prese il telefono e fece un numero. Nessuno però rispose dall'altra parte. Riattaccò e il suo volto si trasformò in qualcosa che assomigliava alla rassegnazione. In quel momento capii. Volevo dirle qualcosa e rasserenarla ma non sapevo farlo neanche con me stesso, figuriamoci con lei. Allora mentii. "Mamma, mi piacerebbe conoscere Charlie."
"No, non lo puoi conoscere. Charlie è andato via, Charlie ora non c'è, mi ha lasciata. Ma io lo aspetterò. Lui mi chiamerà, so che mi chiamerà, lo farà, lo so."
Mia madre recitò quell'intruglio di illusioni tutto d'un fiato quasi come se volesse sfogarsi. Ma stava vivendo nell'inganno.
E io dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Dovevo farlo. E avevo trovato un modo.
In quel momento il campanello suonò quasi come se volesse distogliermi dai miei pensieri. "Ehy Billie, sono Mike!" 
Mi diressi alla porta e aprii al mio amico che non riuscivo neanche a vedere tra le scatole impilate. "Ciao Mike, vieni ti faccio vedere la tua stanza."
Avevo sempre detto tutto a lui, ma quella volta non avevo intenzione di farlo. Nessuno doveva sapere che cosa pensavo, NESSUNO. Anche perché neanche io lo sapevo realmente.
Notai che Mike tra tutte quelle cianfrusaglie aveva qualcos'altro: una chitarra.
"Mike da quando hai una chitarra?"
"Non ne ho idea e non mi interessa. Volevo regalartela, so che ne hai già una, però non so, sono coglione e voglio regalartela."
Sorrisi. Quella frase non aveva senso, come del resto i miei pensieri non avevano senso. Strano.
"Ho comprato un basso." Fece mentre prendeva una birra.
"Un basso?"
"Bhè si in qualche modo non volevo farti sentire solo, cosi ho preso qualcuno della tua taglia".
Risi di gusto. "Si sei proprio un coglione Mike!"
Ma nonostante tutto non riuscivo a togliermi il viso solcato dalle lacrime di mia madre e il suo telefono a cui non rispose nessuno, come se tutti si fossero dimenticati di lei.
Alcune parole cominciarono a legarsi nella mia testa. Rime? Parole insensate? "You call him on the phone,looks like he left you, without a trace"
Avevo bisogno di un foglio di carta, per scrivere, non so cosa, ma dovevo farlo.
"Hey Billlie tutto bene?"
Ignorai le parole di Mike, non riuscivo a sentirle dalle parole che invece nascevano dalla mia testa. "I saw you standing alone, with a sad look on your face.."
"Cazzo Billie oh, aiutami a portare queste fottute scatole!"
"His memory will always dwell..."
"Ci senti?"
No, in quel momento non sentivo proprio niente delle sue parole, sentivo qualcos'altro. Sentivo che qualcosa stava per cambiare. Sentivo che avevo trovato finalmente un'ombra. La musica.
Why do you want him la scrissi cosi, su fogli di carta della mia mente, tutto d'un botto. E non sarebbe stata la prima canzone. Non potrò mai di certo cambiare il mondo con la mia musica, ma la mia musica cambiò me stesso quel giorno.
 
 

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Capitolo 3
*** Gilman Street. ***


Al calar del sole mi inoltrai in quei vicoletti di Berkeley che puzzavano di pipi e alcool ma anche di sogni, speranze, delusioni e illusioni di ragazzi scappati di casa.
Cercavo una specie di vecchio locale che ormai non usava più nessuno, se non Steve, lo spacciatore di CD. Vendeva ogni CD delle  punk band emergenti nella città e dintorni e tra quei dischi unti che parlavano di ribellione e cazzeggio c'era il mio. Quasi nessuno sapeva di quella baracca, ma era un modo almeno per farsi conoscere da una piccola schiera di persone, dato che nessuno osava vendere cose del genere, se non lui.
Entrai nella baracca mentre fumava uno spinello e sistemava alcune carte.
Trovai subito il nostro EP, posto in prima fila.
 Toccai la scritta "Green Day" quasi con ammirazione e fierezza.
Li dentro avevo custodito tutti i miei pensieri, il mio amore folle, la mia ossessione, tutto, era parte di me, stavo vendendo me stesso. 
Qualcuno sicuramente ascoltandolo avrà storto il naso e lo avrà rifiutato, mi avrà rifiutato e mi avrà buttato nel cestino della spazzatura. Ma che importava?
Quando suonavo mi sentivo libero e le bugie, le sofferenze mi oltrepassavano senza nuocermi. Suonare mi rendeva libero.
Avevo capito che non c'era niente da preoccuparsi e che avrei parlato di me stesso al mondo intero e anche se nessuno avesse voluto ascoltarmi, potevo farlo sempre io stesso ed essere fiero del mio lavoro.
Quell'EP l'avevo fatto io, non qualcun'altro, io.
"Billie Joe cazzo lo vuoi pagare si o no?" Disse Steve con una punta di sarcasmo, risvegliandomi da tutto ciò.
"Si lo prendo questa band è davvero figa!" Risi di gusto.
"Già e sai cosa renderebbe questa band ancora più figa? Un fottuto concerto a Gilman Street! Si porca puttana vi ho trovato un posto e potrete suonare domani sera!"
Deglutii. Gilman Street? Oh cazzo. Non mi ero mai esibito live. Si certo avevo suonato davanti ai miei zii, al Rod's Hickory Pit dove lavorava mia madre, ma mai più di tanto. Gilman Street era qualcosa di meraviglioso e io non ero degno neanche di pensare di stare li. E poi mi muovevo cosi goffamente, alcune volte sbagliavo il giro d'accordi.
"Non so Steve, dovrei studiare" Mentii.
"Sei un musicista o un comico?"
"Sono un codardo" Pensai.
"Non ti ho mai visto studiare qualcosa in vita mia se non il culo delle belle signore" Fece lo spacciatore di CD sorridendo con 3 denti mancanti.
"Su ora togliti dai coglioni che devo chiudere questa merda e domani, niente scuse devo vederti li, è chiaro?"
"Cosa?"
"Domani suonerai al Gilman Street no?"
"Bhò"
"Si lo farai"
"Non lo so"
"Non lo sai?"
"Credo"
"E' l'occasione della tua vita!"
"Non rompermi le palle"
"Non ne hai di palle."
"Dovrai portarmi l'amplificatore tu però".
Uscii e me ne andai in tutta fretta senza neanche sapere perché avevo accettato, mentre un sorriso furbetto si stampava sulla faccia di Steve.
 
Ecco, ero davanti alla porta del Gilman Street ma avevo le gambe pietrificate. Gli altri passavano davanti a me incuranti della mia presenza ed entravano nel locale.
Non sapevano che tra poco sarei stato il loro oggetto di derisione.
Cosa ti accade Billie Joe? Dove sono finiti i tuoi discorsi celebri? Non hai le palle giusto? Hai paura giusto? 
"Sei ancora qui? Dai andiamo che stiamo per cominciare!" Non ero io o meglio non era stato il mio lato depresso a parlare ma Al sobrante, il nostro batterista nonché uomo stipite dei Green Day, o almeno era quello che pensava lui.
Non mi ci ero mai affezionato tanto a quel mucchio di capelli brizzolati, io e Mike lo avevamo quasi raccattato dal marciapiede giusto per farlo contento. Ci serviva solo un batterista e non badavamo molto al nostro rapporto di amicizia.
"Aspetto Mike"
"Mike è già dentro"
"Allora comincia ad entrare, vi raggiungo tra un minuto"
E poi un altro minuto. E un altro minuto ancora. Non sarei mai riuscito a varcare quella maledetta soglia.
"Va bene, ci sono anche Stephane e Amanda comunque"
Mi correggo. Non sarei mai riuscito a muovermi da quella posizione. Ora ero completamente pietrificato.
"Anche Amanda?"
"Si cazzo, ora sbrighiamoci!"
Al mi strattonò quasi con forza dentro il locale. Se avessi fallito come musicista, avrei potuto fare benissimo la statua, l'unica cosa che mi riusciva alla perfezione.
Mike accordava il basso mentre arrivammo dietro le quinte.
"Pronti?" Fece.
Risposi con il pollice alzato che in realtà non indicava l'ok, ma il "Si, Cesare vuole che Billie Joe sia impiccato" Tutto, pur di non esibirmi.
"Ora presenteremo  un gruppo che non è mai stato qui per suonare, i Green Day!" Disse non so chi dal palco. E non suonerà, pensai. No, non suonerà io me me la squaglio e basta. Si, sono un fallito, evviva.
Mike sembrò leggermi nel pensiero e mi spinse verso il palco.
Era crollato un silenzio improvviso nella sala.
Tutti sicuramente stavano ridendo nella loro mente  di me. Ogni cosa che facevo, ogni mio gesto poteva essere oggetto di burla.
Potevo ancora scappare, si sarebbero ricordati di quella fuga soltanto un paio di ore, tutti se ne sarebbero scordati.
Ma non pensavo a Mike? Non pensavo a papà? Papà non poteva essere fiero di suo figlio, neanche io ero fiero di me stesso.
Ero in preda alla confusione, alla mia confusione, che mi ero creata io stesso.
Impugnai la chitarra. Non lo feci per me, non lo feci per Mike, non lo feci per mia madre, non lo feci per Al, lo feci per mio padre.
Volevo renderti fiero, papà. Volevo darti almeno una cosa che potesse renderti felice.
Ho suonato. Ho cantato. La folla è andata in delirio.
I Green Day continuano la loro strada.
Grazie papà.
 
 
 
 
*Spazio all'autrice*
Come avrete notato ho cambiato qualcosina dalla realtà. Non esiste nessun Steve, ma volevo renderlo l'eroe della situazione (?) Ho cambiato altri piccoli dettagli, ma niente di che. Bene che dire? Spero vi sia piaciuto c: Recensite o vi spaccherò i culi <3

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Capitolo 4
*** 1,000 hours. ***


Accartocciai anche quel foglio e lo strappai con forza. Sarà stato il quinto, saranno state chissà quante parole buttate via.
 Why do you want him la scrissi di getto senza neanche aver il tempo di ragionare, ora invece mi stavo sforzando a scrivere qualsiasi cosa ma la mia mente era confusa.
Forse mi illudevo davvero di saper scrivere canzoni.
Forse avrei dovuto sciogliere la band dopo neanche una settimana di inizi. 
Gli Sweet Children sarebbero stati soltanto un sogno fugace in un cervello spoglio. No neanche la musica poteva essere il mio ideale.
Rassegnato, mi capacitai di tutto ciò e usci per prendere una boccata d'aria. Il mio prossimo obiettivo era almeno quello di sapermi allacciare le scarpe. Non lo sapevo fare, cadevo continuamente, cadevo e non mi rialzavo. Non reagivo. Mi ero fatto sottomettere dal destino. No, non potevo arrendermi cosi.
Andai in direzione di Christie Road dove a quell'ora sicuramente non c'era nessuno, e lo preferivo.
Mentre giravo l'angolo e guardavo a terra fissando le mie scarpe slacciate deglutii. C'erano altre scarpe alla fine della strada. Erano quelle di Amanda.
Camminai imperterrito come se niente fosse ma tutto succedeva dentro di me. Quando  l'avrei raggiunta l'avrei salutata con un segno e nient'altro. Ma la mia testa diceva di non farlo. La mia testa non mi ascoltava. Ero contro la mia volontà.
"Ehy Billie ciao!" Mi salutò come se mi avesse risvegliato da un sogno. Sorrisi nervosamente. "Ciao Amanda io ti amo da morire in realtà, vuoi sposarmi?" Credevo di aver detto quello, invece dalla mia bocca usci uno strascicante e languido "Ciao." e nient'altro.
"Dove andavi?" "Christie Road." "Bene andiamoci insieme ho le birre." "Oh cazzo mi hai reso il ragazzo più felice del mondo, vuoi sposarmi?" In realtà feci "Se ti va, ok".
Solo lei riusciva a farmi sentire in quel modo.
Passammo tutto il pomeriggio a fumare e a bere mentre io immaginavo il nostro futuro insieme. Nascondevo i miei sentimenti, mi ero costruito una maschera per non far tralasciare nessuno sguardo che potesse in qualche modo intralciare la nostra amicizia.
Non volevo che lei lo sapesse.
Quando tornai a casa era già tardi e tutti dormivano, mentre io non riuscivo che pensare all'oggetto dei miei desideri.
Fissai lo specchio. Quello ero davvero io? Perché non riuscivo a starle vicino? Perché non potevo toccare la sua pelle?
Lei era l'unica che volevo. Lei era la mia ispirazione.
Scrissi The one I want e 1,000 hours in una sola notte, con la fronte imperlata dal sudore e esattamente 1,000 pensieri e non furono le uniche canzoni per lei.
Il mio amore era diventato quasi un ossessione nei suoi confronti e cominciavo a sognarla la notte e non mi dispiaceva. 
A breve avremmo pubblicato il nostro primo EP.
Le persone avrebbero cominciato ad ascoltare le nostre canzoni, i miei pensieri. Non avevo condiviso i miei pensieri con nessuno, probabilmente mi avrebbero preso per uno sfigato.
Mancavano solo due giorni alla sua uscita. Avevo paura, sarebbe stato un fallimento, pensai. Billie Joe cosa pensi di fare?  Conosci a malapena due accordi! Eppure incisi anche l'ultima canzone dell'EP, forse per una forza misteriosa. Un ombra?

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Capitolo 6
*** My own closest enemy. ***


Per festeggiare il nostro fantomatico successo al Gilman Street ci riunimmo tutti a Christie Road, l'unico posto che ancora non mi aveva tradito.
Tutti avevano portato alcool e spinelli per perdersi in una nuvola di fumo, in un fondo di una bottiglia e per dimenticare un attimo ogni cosa.
Io, Mike e Al Sobrante ci sedemmo su una panchina consumata dove chissà quante persone li avevano perso la verginità. Volevamo anche noi inebriarci per pochi istanti, di illuderci che il mondo è un posto onesto e giusto, per poi vomitare tutto il giorno dopo.
Il batterista stappò le birre con violenza e ce le porse. Una volta che quel caldo liquido gli invase la bocca, già stravolto, articolò qualche frase tipo "Lo spread è basso come quello di Stephane" o "Mi dispiace che a te non piace il vaso, io lo amo e me ne faccio una ragione". Dopo le sue perle di saggezza finalmente sembrò dire qualcosa che non c'entrava con i cani, i telefoni e l'immondizia.
"Devo farvi conoscere una persona" strascicò quasi in preda alla pazzia.
"Tua madre?" fece Mike ubriaco fradicio.
"Quella dopo. E' nuova di qui e vorrebbe conoscere Christie Road e voi."
"E' una pedofila?" Continuò il bassista.
"Si è una pedofila che si chiama Adrienne, mi sembra, non lo so, non mi interessa." A stento Al Sobrante riusciva a parlare, praticamente posseduto dall'alcool.
"Adrienne? Una marca di lavastoviglie?" Mancavo solo io a quella conversazione totalmente senza senso.
"Si sono una marca di lavastoviglie, piacere" Parlò una voce alle mie spalle.
Mi girai. Era alta, la faccia paffuta, gli occhi di un celeste intenso e i capelli stile Bob Marley.
All'inizio non riuscivo neanche a riconoscerla bene visto che la mia vista era offuscata, cosi come lo era il mio intero cervello.
"Questa è Adrienne" Gridò al Sobrante come se volesse annunciarlo a tutti.
Riuscii ad alzarmi a malapena, intontito. Le porsi la mano, se non sbaglio, o forse non lo feci. Ho dei vaghi ricordi del nostro primo incontro, ma so solo che mi comportai come un perfetto idiota, ovvero insomma come mi comportavo tutte le altre volte in sintesi.
Mi ricordo che anche lei si ubriacò senza pudore e scherzava e rideva.
Tuttavia mi era quasi antipatica, forse perché ero solo stordito dall'alcool, o forse ero e sono soltanto un perfetto idiota, ecco tutto.
La rappresentavo quasi come una minaccia, come se io potessi soltanto parlare con Amanda. Non potevano esistere altre ragazze come Amanda.
E invece questa Adrienne era spensierata e fumava anche le canne.
Ero in preda ad una strana confusione, dovuto a due mali: l'alcool e l'amore.
 
Il giorno dopo ovviamente passai i miei 3/4 di ore in bagno, quasi come se fosse diventata la mia casa.
Vomitai tutto quello che avevo dentro, perfino le mie illusioni, e Mike mi faceva da spalla.
Quando finalmente ci riprendemmo, decidemmo di andare a provare a casa di Al. Eravamo ad un buon punto. Io avevo scritto altre 2 canzoni e a breve il nostro prossimo EP sarebbe uscito.
Mentre passavamo per St.James Street incontrammo Drew, uno dei tanti amici che ci eravamo fatti a Christie Road. Li eravamo tutti una famiglia, eravamo tutti emarginati e con gli stessi problemi, con gli stessi sogni e gli stessi occhi da bambini.
"Ragazzi devo farvi vedere una cosa incredibile!"
"E' la settimana delle sorprese?" Fece Mike.
"Basta che non sia una lavastoviglie" Dissi io.
"Meglio, seguitemi".
Lo facemmo per un buon quarto d'ora, finché non ci porto in una vecchia catapecchia in stile punk.
Drew cercò qualcosa tra delle scatole ammucchiate in fondo alla stanza finché finalmente non estrasse qualcosa.
Era una boccetta che conteneva, o almeno quello che mi sembrarono a prima vista, pillole.
"Cosa sono?"
Drew rise a crepapelle, come se avessi detto chissà cosa. Io e Mike ci guardammo straniti.
Dopo che smise con le lacrime a gli occhi fece: "E' una cosa meravigliosa, il dono degli Dei dell'olimpo, anfetamina."
Non avevo mai sentito quel nome. E non avrei mai dovuto sentirlo.
"Ma è droga?"
Il nostro caro amico rise di nuovo, in preda agli spasmi.
"Cos'è la droga? La droga può essere la TV, il letto o la musica come qualcuno sostiene. Ma l'anfetamina è qualcosa di più. E' vita."
Guardai Mike e lui fece lo stesso, mentre Drew era ormai posseduto dalle risate. Anche io volevo essere come lui. Anche io volevo sorridere veramente e non facendo battute squallide.
Anche io volevo cercare il modo per vivere la vita. E se l'anfetamina era la vita, perfetto.
Questo sporco mondo faceva schifo e non potevo rifugiarmi da nessuna parte. L'alcool e gli spinelli, una volta consumati non producevano niente.
Mi ritrovavo sempre li a vomitare in quel fottuto bagno.
Esitai a prendere la boccetta.
Un momento cosa stai per fare Armstrong? Vuoi drogarti? Cerchi conforto in questa schifezza?
Ma alla fine lo feci.
Drew sorrise furbamente.
Guardai ancora una volta Mike, ma cosa potevo sapere da lui se anch'egli era in preda alla confusione?
Aprii la boccetta.
Sei ancora in tempo per rifiutare Armstrong.
Presi una pillola.
Non farlo, ti rovinerai.
La misi in bocca.
Non capii più niente.
Cominciai a ridere goffamente e ad osservare Hot dog volanti che danzavano sulla testa di Drew,
E mentre sorridevo in quella beatitudine non sapevo che mi sarei rovinato.
La droga avrebbe cominciato a corrodermi piano piano,a mangiarmi tutto ciò che avevo dentro.
Non lo stomaco o i polmoni, ma la voglia di vivere la vita stessa.
Un passo verso l'autodistruzione.
Sono sempre stato il mio peggior nemico.
 

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Capitolo 7
*** 80. ***


 
 
 
Berkeley, 1990.
I Green Day procedevano bene per la loro strada. 
Avevamo pubblicato il nostro primo vero album 39/smooth, riscuotendo un discreto successo. La droga ancora non mi aveva divorato, ma lo stava progettando.
Ciò che non andava bene era la mia vita privata.
Da quando avevo conosciuto Adrienne tutte le carte in tavole si erano improvvisamente mischiate. Se sceglievo una di loro mi trovavo in mano sempre una regina di cuori, con una faccia che assomigliava ad Adrienne e un'altra ad Amanda per intenderci.
Credevo che ragazze simili a quest'ultima non ne esistevano.
Cominciavo davvero ad impazzire, completamente da solo.
Ero innamorato di Adrienne? O semplicemente credevo di esserlo?
Ci eravamo visti poche volte, ma per me è come se ci conoscessimo da un'eternità.
Quello che sapevo è che stavo letteralmente andando in pezzi.
C'è una cura per questa malattia che qualcuno ha chiamato amore?
Stavo perdendo la testa, la sbattevo contro il muro nella speranza che questi pensieri potessero uscire con una botta, ma non era possibile.
Non c'è una cura.
Ma in fondo è come se stessi parlando da solo.
Non sapevo se ero innamorato di lei.
Certe volte tutto ciò che desideravo era rinchiudermi in una stanza imbottita e stare da solo in modo da non creare nessun problema a me stesso e agli altri.
Ma anche cosi non avrei risolto nulla, ero io il problema. Confuso.
Lei mi avrebbe portato via da tutto ciò.
Eighty. Ottanta. Era misteriosa come un numero.
 
"Hey Billie, vado a prendere altra birra dal supermercato, è finita" Fece Al Sobrante.
Merda. Non era finita la birra, ero finito io. 
Eravamo nella sala prove, o meglio nello scantinato del batterista, quel fottuto batterista che adesso mi stava lasciando da solo, completamente da solo con Adrienne. Mike non era potuto venire a causa della punizione inflitta da un suo professore. Odiavo anche quel professore. Odiavo in quel momento  il destino per avermi fatto rimanere da solo con Adrienne.
Guardavo da un'altra parte della stanza pur di non incrociare i suoi occhi con i miei. Forse lei avrebbe potuto leggere tutto ciò che provavo.
Eravamo silenziosi. Intato Al non arrivava. Speravo da un momento all'altro sarebbe entrato dalla porta quel cespuglio di capelli brizzolati, mentre un lavandino gocciolava. Il tempo passava lentamente goccia a goccia.
Cominciai a perdere la pazienza.
Mi alzai dalla poltrona su cui mi ero seduto.
"Attento!" Disse Adrienne. Da cosa? Solo dopo alcuni secondi mi resi conto che ero impigliato nei cavi della chitarra. Sorrisi imbarazzato. Che cazzo avevo fatto. Impigliato nei cavi e nelle mie preoccupazioni.
"Ti aiuto a tirarti fuori da li?"
"No lascia stare, ci riesco da solo". Dopo varie imprecazioni il nostro eroe riusci a liberarsi da quel groviglio. Ma non da quello che sentiva nello stomaco che si era completamente ribaltato.
"Da quant'è che suonate?"
Perché non riuscivo neanche a parlare? Perché improvvisamente le parole mi morivano in bocca?
"3,4 anni". Riuscii finalmente a dire in preda all'ansia ma con tutta la naturalezza possibile. Adrienne rise.
"Cosa c'è?"
"No niente, sei simpatico"
"Quindi dovrei impigliarmi nei cavi più spesso"
"Oppure ubriacarti più spesso"
"Quello lo faccio già"
"Siamo in due allora"
Sorridemmo all'unisono. Adrienne si avvicinò di due o tre passi. Sudavo freddo.
"Le scrivi tutte tu quelle canzoni?"
"Si, si vede no?"
"Bhé direi di no. Appena ti ho incontrato sembravi uno di quei tipi ribelli che si fanno canne, come se fosse la loro unica ragione di vita. Invece leggendo i testi mi sono accorta che sei quasi un pezzo di pane."
"Almeno un pezzo di pane buono?"
"Non lo so ancora"
"Scopriamolo"
"E come?"
Si avvicinò di qualche altro passo, a mano a mano che lo faceva, il mio cuore batteva sempre più forte.
"Non saprei"
"Direi che questa conversazione non ha nessun senso"
"Come tutte del resto"
Ora mi sfiorava quasi il naso. Sorrideva.
Forse quello sarebbe stato il momento adatto per confessare tutto, ma ovviamente proprio in quello stesso istante Al spalancò la porta con cariche di birra. Ci guardò in cagnesco.
"Facevamo amicizia" Disse Adrienne.
Il batterista sembrò non dare tanto peso alle parole e stappò una bottiglia.
Si, stavamo facendo amicizia. Una semplice amicizia. Ma piano cominciammo a parlare sempre più spesso, di tutto di qualsiasi cosa, tanto che non diventò poi cosi tanto misteriosa.
Portami via, ottanta, portami via.

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Capitolo 8
*** I've got a rock and roll band. ***


Mi fiondai subito nella doccia una volta essere tornano a casa. Il getto di acqua calda che mi investiva mi faceva riflettere, faceva scivolare via tutto quanto, perdendomi in quella beatitudine improvvisa.
Stranamente mi sentivo effettivamente felice. Io e Adrienne avevamo parlato per quasi tutto il pomeriggio, mentre Al Sobrante non ci capiva niente e continuava a scolarsi litri e litri di birra.
Avevo capito che ero innamorato di lei, ora però mi aspettava una cosa, una cosa che ogni innamorato ha paura di fare: dichiararsi.
Suonarono al campanello e Mike, che era tornano dalla sua “punizione” (aveva dormito per tutta la sua durata) , si affrettò ad aprire. Sentii una voce famigliare che non riuscii ad identificare e imprecazioni da parte del mio migliore amico. Uscii dalla doccia mezzo bagnato con l'accappatoio addosso. "Mike che cazzo è successo?" Alla soglia della porta riconobbi Stephane con una strana espressione sulla faccia.
Il bassista sbuffò e si sedette sulla poltrona. "Quel pezzo di merda."
"Chi?"
"Quanti pezzi di merda conosciamo? E non c'è l'ha nemmeno detto in faccia"
Guardai Stephane come se si riferisse a lui ma questo negò scuotendo la testa. Finalmente si degnò di rispondere alla mia domanda. "Al Sobrante ha lasciato la band"
Le parole mi risuonarono nella mente per qualche secondo. Al... lasciato...band. Mi lasciai cadere sul divano. In quel momento sentii le stesse sensazioni provate la notte che litigai con mia madre. Ma sopratutto rabbia, tanta rabbia di spaccare tutto e quella fottuta faccia di Al Sobrante che non aveva neanche avuto il coraggio di dircelo di persona, ma da un amico. E pensare che lui stesso mi aveva fatto conoscere Adrienne. Ma ora non volevo pensare niente. Sbattei a terra il cuscino nella speranza di reprimere il mio istinto omicida.
"E perché cazzo l'ha fatto?" Feci a denti stretti.
"A quanto pare preferisce continuare la scuola" Disse Stephane.
La scuola, la cosa più inutile del mondo. La gente pretende che stando seduti su una sedia in una cella ad ascoltare qualcuno che pronuncia frasi incomprensibili possa incentivare la cultura. Mai cosa più sbagliata. Nessuno ascolta mai ciò che dicono, tutti sono in preda alla loro fantasia, immaginandosi posti sconfinati e campi da calcio, o concerti. La fantasia serve a qualcosa, la musica serve a qualcosa. Se fallisci nelle vita, la fantasia può pur sempre creare un altro posto dove le leggi non servono, la scuola non serve, serve solo la musica. Ti illuderai, ma almeno troverai qualcosa dove ti sentirai te stesso. Con un diploma puoi pulirtici solo il culo, non puoi fare niente in questo schifo di mondo. Fu cosi che in quello stesso istante decisi di lasciare il liceo, la schiavitù stessa.
Mike sospirò. "Va bene grazie Stephane di averci avvertito". Chiuse la porta e si risedette sulla poltrona. Esitò un attimo a parlare. "Bene, direi che siamo arrivati al capolinea."
"Mike spero tu stia fottutamente scherzando! Non possiamo arrenderci cosi!" Era strano come io cercassi di convincere il mio amico quando neanche io ne avevo la certezza.
Senza un batterista saremmo andati a puttane e riuscirne a trovarne uno era come cercare onestà tra i politici.
Mike sorrise amaramente.
"Invece possiamo farlo Billie. Tutti i batteristi hanno rifiutato la nostra richiesta di partecipare al gruppo, tranne quello stronzo che ora se ne andato."
"Continueremo la nostra ricerca."
"E dove?"
"Lo troveremo".
"Rispondi alla mia domanda prima"
"Non lo so".
"Ecco, non lo sai".
Silenzio.
Quanto odiavo il silenzio, le persone quando sono silenziose sono preoccupate, e ciò non è buono.
Mi alzai dal divano ed uscii senza neanche sapere dove andare.
 
Girovagai per qualche ora tra le strade di Berkeley incerto sul da farsi. Mi accorsi di essere vicino al Gilman Street e ci entrai  .
Suonavano i Lookouts, un gruppo che conoscevo bene visto che insieme avevamo fatto un concerto nel 1988. Quando finirono, ne approfittai per salutarli.
Larry, il chitarrista sembrò sorridermi a malapena quando mi riconobbe.
"Gran bel concerto!" Feci io nella speranza che uno dei membri della band mi degnasse almeno di un fottutissimo sguardo.
"Vai via Armstrong, siamo incazzati neri" Pronunciò Kain, il bassista. "Domani stesso ci scioglieremo" Continuò aspramente. Il batterista sembrò leggermi nel pensiero. "Larry deve partire con la sua famiglia per motivi che non ci interessano, faccia quello che cazzo vuole se ci tiene di più a sua madre" Quel tipo lo conoscevo a malapena, aveva i capelli verdi e magrolino, piuttosto basso. A quanto pare era il pagliaccio del gruppo, ma quel giorno sembrò anche lui essere piuttosto arrabbiato.
Solo dopo mi accorsi dell'incredibile opportunità. Il batterista poteva entrare nei Green Day.
Ma non sapevo neanche come si chiamava, se effettivamente era bravo e la sua voce era fastidiosa.
Poi ricordai che in un concerto si vesti da clown, non era ubriaco, lo aveva fatto spontaneamente.
Solo per quello decisi che sarebbe diventato il nostro futuro membro. Era un motivo stupido, lo so. Lui era stupido. E lo preferivo cosi.
Aspettai che Larry e Kain se ne fossero andati, tranne il mio futuro batterista che sistemava lo strumento. Mia avvicinai di qualche passo verso di lui.
E se mi avesse rifiutato? Se perfino un clown mi avesse rifiutato?
"Perché sei ancora qui? Vuoi provarci con me?" Parlò la voce fastidiosa.
"Può darsi"
"Sappi che sono impegnato con il latte a basso contenuto di soia"
"Buon per te"
"Tu se non sbaglio sei quel tipo che si ubriaca sempre a Christie Road?" Quest'affermazione mi irritò tantissimo, ero conosciuto come un ubriacone, fantastico.
"Credo di si. Tu sei un rompicoglioni?"
"Sono di tutto, puoi starne certo"
"Il tuo nome?"
"E' qualcosa di principesco credo, che implica tre numeri latini. Ma puoi chiamarmi sexy boy o Tré Cool"
"Tré Cool?"
"Si sono molto figo"
"Modesto il ragazzo"
"Brutta l'invidia"
Cominciavo ad essere parecchio confuso da quella conversazione, eppure non feci che ridere come un coglione.
Lui sarebbe stato il perfetto batterista dei Green Day. Quando sarei stato soppresso dalle preoccupazioni, mister Tré Cool mi avrebbe inevitabilmente alzato su di morale con una battutina squallida.
E poi era figo.
Mi avvicinai ancora di più.
"Ti ho appena trovato un posto come batterista dei Green Day"
Sembrò per dire qualcosa. Ecco, sicuramente avrà rifiutato, come tutti gli altri del resto. La mia carriera smielata finiva li.
"A patto che tu mi faccia pompini ogni giorno, gratis".
E’ sempre stato il coglione che gli manca.

 
Spazio autrice.
So che questo capitolo fa abbastanza schifo, ma dovevo pur presentare quel monopalla no? :’D Il prossimo (credo o meglio spero) è molto meglio c: Poi i capitoli sembrano abbastanza corti e mi chiedevo se a voi lettori (magari nessuno mi caga AHAH) vada bene cosi, altrimenti unisco due capitoli insieme per farcene uno. Fatemi sapere ribellix c:

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Capitolo 9
*** Why should my fun have to end? ***


Mentre mi incamminavo verso la scuola, buttai lo zaino nel cassonetto, buttai qui libri pieni di parole incomprensibili, buttai soltanto illusioni e feci dietro front.
Mia madre mi aveva visto uscire tutti i giorni e inoltrarmi nelle vie che poi portavano alla mia schiavitù. Ma ciò che facevo, puntualmente, era svoltare a destra e fumarmi spinelli a Christie Road.
Quel giorno però, dato che non avevo chiuso occhio la notte scorsa, decisi di rilassarmi sul letto leggendo "Il giovane Holden", forse le uniche pagine sfogliate in vita mia.
Ruppi il silenzio in casa aprendo la porta. Tutti i miei fratelli erano a lavoro o a fare commissioni, inclusa mia madre. C'ero solo io e i ricordi di cui la casa viveva.
Mi sistemai placidamente sulle sul divano ed aprii il libro, lasciandomi cullare da quelle parole. 
Quando ormai mi ero completamente immerso in quel mondo chiamato fantasia, sentii la porta chiudersi. Deglutii. Scesi le scale molto piano per vedere chi era entrato, nascosto dalla parete. Scorsi una figura bassina, con i capelli rossici: mia madre. Merda, merda, merda. Perché era tornata a casa prima? Maledissi il mio fottuto destino, se almeno ne avevo uno. La mia unica scelta era quella di scappare dalla finestra, ma mi sarai inevitabilmente schiantato per terra, forse l'unica fine che mi aspettava, dopo tutto quello che avevo combinato.
Decisi che sarebbe stato molto meglio semplicemente chiudermi in camera. Mia madre non avrebbe avuto nessun motivo di entrare proprio li.
Mentre risalivo le scale inciampai su un fottuto gradino e non potei evitare un "Cazzo!". Avevo le scarpe slacciate. Questo destino deve essere proprio burlone. Scarpe slacciate già. Non sapevo cavarmela, non sapevo allacciarmi le scarpe e cosi scappavo dai miei problemi. E che cosa ottenevo? Solo un livido e una delusione da parte di mia madre. .
"Perché cazzo sei qui?" La sua voce era ruvida, fredda come un pezzo di ferro. Di certo non prometteva bene. Qualsiasi scusa mi fossi inventato, lei l'avrebbe smascherata. Cominciai a rimpiangere la fuga dalla finestra.
Non riuscii ad articolare niente. "Perché non sei a scuola? Lo so perché non sei a scuola.." Fece un attimo di pausa e si bagnò le labbra. Credevo che le sue parole si sarebbero addolcite e il tutto si sarebbe concluso con un abbraccio. Ma ciò che speravo, non accadeva mai. "Perché sei un fottuto coglione, ecco perché. Perché tu preferisci fumarti canne piuttosto che crearti un futuro. Perché tu sei solo un egoista e non pensi a noi, studiando potresti lavorare e lavorare porta soldi. Ma tu sei un fottuto idiota. Tu pensi di avere ancora 10 anni. Tu ne dimostri 10 Billie Joe, dimostri 10 anni, anche di meno. Ora ti voglio fuori da questa casa, fuori dalla mia vita. Non voglio altre delusioni da nessun'altro. Vai via."
Non riuscivo a crederci. Non riuscivo a guardarla in faccia, non meritavo di guardarla in faccia, non sapevo suonare, non sapevo allacciarmi le scarpe, sapevo solo di non sapere. Ero un completo disastro.
E mia madre aveva ragione.
Scesi di corsa dalle scale e uscii da casa, mentre mia madre piangeva lacrime amare, mentre il cielo piangeva e la mia faccia che era completamente bagnata.
Dal sudore, dalla pioggia e da altre lacrime.
 
La testa mi stava scoppiando.
In quel momento avrei voluto soltanto uccidermi, avrei fatto felici tutti, persino me stesso. Presi la boccetta di anfetamina. Una pillola mi chiamava.
Tutti i miei amici andavano a scuola, certi che avrebbero intrapreso una brillante carriera. Che cosa sciocca. Il destino non pianifica mia niente, succede tutto per caso. Nessuno sapeva niente, il destino non sapeva niente e forse non l'ha mai saputo.
Svitai il tappo della boccetta.
Perché mi chiamano irresponsabile? Perché mi chiamano abituale? Perché non possono vivere la loro inutile vita senza pensare al futuro? 
Noi uomini non sappiamo assolutamente niente.
Questi però erano solo pensieri di un bambino di dieci anni. Probabilmente con il passare del tempo avrei avuto sempre le stesse imperturbabili opinioni. Io non volevo crescere.
Presi una pillola.
Ma cosa significa "crescere" esattamente?
Me la misi in bocca.
Crescere significa diventare più alto?
Presi un'altra pillola.
Crescere significa maturare dal punto di vista delle idee?
Mi misi in bocca anche quella.
O crescere significa saper mantenere i propri valori, anche se dimostri di essere un bambino di 10 anni?
A quel punto non riuscii a prendere altre pillole, perché gli hot dog volanti mi offuscarono la mente.

Spazio autrice.
 Il capitolo è corto, io vi avevo avvisato. L'altro credo sarà molto più lungo, ma non vi do nessuna certezza (?) Come forse avrete notato ho usato il testo di No one Knows e ho un pò abbozzato le idee di Android. Eh si ci stiamo avvicinando a quell'album che fa il rumore della cacca: Kerplunk! <3 Recensite caVi, fatelo per il bene degli hot tog volanti, grazie a voi potranno avere un futuro migliore di questo. Ok no.

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Capitolo 10
*** A hug and a letdown. ***


Mi risvegliai completamente intontito.
Gli occhi non si erano ancora abituati ai raggi penetranti e cosi ebbi fatica a riconoscere il posto in cui mi trovavo. Quando riuscii a distinguere due poster dei Sex Pistols e un divano rotto e unto, capii che ero a Christie Road.
Ieri sera, ormai sopraffatto alla droga, avrò parlottato da solo e cantato con gli hot dog volanti mentre mi trascinavo qui senza neanche sapere con quali forze e con quale volontà.
Quando l'anfetamina si impossessava di me, ero come se non ci fossi, se vivessi in un altro mondo, incosciente di tutto quello che girava intorno a me. La testa mi girava.
Non capivo niente. Vedevo solo macchie, hot dog che danzavano, cani che fumavano. Ma non riuscivo a vedere che la droga mi avrebbe rovinato.
Pensavo che in questo modo avrei risolto i miei problemi, sarei stato finalmente felice. In realtà me ne sarei creati di altri. Ma questo ancora non potevo, o non volevo capirlo.
Come mai, nonostante fossi drogato, ero andato proprio a Christie Road? Mi guardai intorno.
Panchine sporche e consumate, poster dei Sex Pistols, Ramones, Dead kennedys, Clash, odore di pipi, di alcool e spinelli, muri scrostati...
Molti avrebbero snobbato quel posto, molti avrebbero avuto perfino paura. "E' satanico, li ci vanno solo i grezzi."
No. Nessuno sapeva che tra quelle rovine c'erano i sogni, le speranze, le delusioni di ogni ragazzo accolto da Christie Road.
Chi non sapeva dove andare, chi non aveva parenti o amici, chi era perso, li aveva trovato una casa. Christie Road. Christie Road è casa, Christie Road è la cosa a cui ci tenevo di più. Non mi aveva deluso, forse l'unica cosa che ancora non mi aveva deluso. Mi aveva raccattato per strada ed ero diventato uno della famiglia.
Quei muri scrostati erano impregnati non solo di alcool, ma anche d'amore. Amore per Christie Road, la tua casa.
Sorrisi alla vista di quella meraviglia. Ero un grezzo e satanico a quanto pare, ma non me ne importava.
"Billie sei qui?" Sentii una voce alle mie spalle, Mike.
Quando mi vide, tirò quasi un sospiro di sollievo. Si avvicinò a passo svelto e si sedette vicino a me.
"So che è successo con tua madre" Fece in tono pacato.
"E quindi? Ci tenevi a farmelo sapere?" Dopo che l'effetto inebriante dell'anfetamina finiva, ritornavo al noioso mondo di sempre, più inacidito di sempre.
Mike sospirò. "Cazzo Billie, sta ancora piangendo." Questa volta lo disse in tono di rimprovero. Se fossi stato completamente lucido sarei corso subito verso mia madre, ma non lo ero.
"Non me ne fotte un cazzo"
Mike mi prese la testa infuriato e l'avvicino alla sua. Non riuscivo a fissarlo negli occhi.
Era arrabbiato, arrabbiatissimo con me, ma cercò di reprimerlo. "Perché non stai più venendo a scuola?"
Non risposi. "Figlio di puttana perché non stai venendo a scuola?" Aveva un groppo in gola.
"Non serve a niente"
"Non pensi a tua madre?"
"Ti ho detto che non me ne frega un cazzo"
Sembrò per dire qualcosa ma si fermò e mi lasciò la testa. Silenzio.
"Billie quante pillole hai preso?"
"Solo una" Mentii.
Prima che io potessi scappare mi afferrò per i pantaloni mentre cercavo di divincolarmi e frugò nelle tasche in cerca della boccetta. La fissò e mi guardo con ostilità.
"Oltre ad essere un gran figlio di puttana sei anche un fottuto bugiardo. Ieri ce ne erano quattro, ora sono due". Non lo avevo mai visto cosi incazzato.
Deglutii.
"Billie non capisci che cosi ti rovinerai? Non capisci che ti autodistruggerai?"
"Tanto anche senza quella roba morirei presto"
"Fermati prima di entrare nel tunnel!"
"Mike sei un fottuto ipocrita, anche tu fai uso di anfetamina, coglione." Non c'eravamo mai insultati cosi tanto, se non per gioco. Ma quello non era un gioco.
Ancora silenzio.
Forse eravamo già entrati nel tunnel e non avevamo la capacità di uscirne. Tutti e due, non solo io.
Rimanemmo protetti dal silenzio per più di due minuti, fissando la strada.
"Guardare l'asfalto è cosi divertente?" Riconobbi subito quella vocina fastidiosa.
Mike si girò salutando Tré Cool con un cenno.
"Seriamente, perché siete cosi silenziosi? Di solito schiamazzate allegramente quando siete insieme!"
Provai a distogliere lo sguardo da un'altra parte, ma avevo paura di incontrare quello del mio migliore amico. Si, lui era il mio migliore amico. Voleva solo aiutarmi in qualche modo, ma anche lui era vittima della droga.
Istintivamente volevo abbracciarlo. E lo feci, quasi senza accorgermene. Non era stata l'anfetamina a muovermi, ma qualcosa di più potente: l'amicizia.
Sentii il suo calore penetrarmi dentro e le sue braccia cingermi .
"Cosa non si fa pur di trombare." Fece Tré Cool alla vista di tutto ciò.
 
“ ‘Cause no one knows.. I dooon’t!”
 Lasciai che l’ultima nota della canzone fuoriuscisse da noi stessi.  Eravamo nel giardino della casa di Tré mentre provavamo i nuovi arrangiamenti. Mike aveva fatto un ottimo lavoro con l’intro di basso. Tutto era passato con un semplice abbraccio, che a volte fanno di più delle parole. Cominciai ad essere seriamente compiaciuto della band. Eravamo abbastanza conosciuti a Berkeley e dintorni.
E se nessuno ci avrebbe mai notato? E se avremmo suonato per il resto della nostra vita in quei vicoletti e poi dimenticati per sempre? Forse nessuno ci avrebbe ricordato, o forse si, una band fallita dopo appena due album. Che merda. Ero sicuro che sarei fallito. Perché ogni giorno mi risvegliavo con l’inquietudine di non saper all’improvviso scrivere canzoni. Avrei deluso i fans, se ne avevo. E io non volevo deludere. Avevo già deluso troppa gente, anche me stesso.
“Vado a fumarmi una sigaretta” Feci.
“Ora ti raggiungo anche io ho bisogno di impugnare qualcosa che non sia un basso, sono veramente stanco” Disse Mike.
“Tipo il tuo cazzo per masturbarti?” Parlò la voce fastidiosa.
Mentre quei due si lanciavano freccette, sgattaiolai velocemente dalla porta. Ora volevo stare da solo, con i miei pensieri. A pensare. In un certo senso mi preoccupavo del mio futuro. Ma nessuno poteva saperlo con certezza cosa sarebbe accaduto,e allora perché preoccuparsi? Mi accesi una sigaretta nella speranza di placare non so cosa.
Da quella nuvola di fumo scorsi il viso di Adrienne. Non potei fare a meno di sudare freddo. Mi sorrise quasi nervosamente e feci altrettanto. Le porsi la sigaretta ma la rifiutò. Era silenziosa, e ciò non mi piaceva. Quando ci incontravamo subito mi raccontava di ciò che aveva fatto per tutto il giorno, senza tralasciare il minimo particolare. Ma questa volta sentii che doveva dirmi una sola cosa, ma non voleva farlo, o non poteva.
“Oggi non mi dici niente delle fantomatiche storie di Zio Alfred?” Feci in tono scherzoso ma lei sembrò quasi assorta nei suoi pensieri.
“E’ fuori città. Facciamo una passeggiata?”
“Certo.”
Camminammo per quasi una mezzora scambiandoci poche parole. Io non sapevo iniziare un discorso e mi sentivo abbastanza a disagio. Era come se all’improvviso il nostro legame d’amicizia si fosse rotto  da chissà quale mano invisibile. Forse quella del destino.
Adrienne si sedette sulla panchina e io feci uguale. Finalmente trovai il coraggio di parlare.
“Cosa c’è che non va?”
“Fa un po’ freddino”
“Non cambiare discorso.”
Sospirò.
“Devi dirmi qualcosa?”
“Volevo solo dirti che fa un po’ freddino, tutto qui.”
“Adrienne…”
Sospirò di nuovo.
Non riusciva a guardarmi negli occhi.
E forse quando una persona non riusciva a guardare negli occhi l’altra c’era un motivo.
Un brivido cominciò a impossessarsi del mio corpo.
Una strana sensazione tiepida.
Adrienne era  innamorata di me.
Lo pensai cosi istintivamente.
Sapevo che era innamorata di me, ma non sapeva come dirmelo.
Appena si sarà dichiarata e si sarà tolta il peso di dosso, certa che  l’avrei derisa, avrei trovato invece anche io il coraggio di confessare ciò che provavo.
Era perfetto.
Qualcuno lassù allora ci teneva veramente a me.
Sorrisi quasi istintivamente.
Finalmente Adrienne apri bocca.
 
 
 
 
 
 
“Devo lasciare la città Billie. Io e mio padre ci trasferiamo in Minnesota.”
O forse no.

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Capitolo 11
*** Never let go. ***


Berkeley, 1992
Adrienne si era trasferita in Minnesota da circa otto mesi.
Stavo soffrendo da circa otto fottutissimi mesi.
Non vivevo più da circa otto fottutissimi mesi.
Eravamo a una distanza di 2,000 anni luce, eppure io riuscivo a vederla.
Sentivo la sua risata, ridevamo insieme, piangevamo insieme. Lei era con me, sentivo la sua presenza, la sentivo dentro di me. Forse in realtà non se ne era andata, forse ha lasciato qualcosa.
Rimanevamo svegli tutta la notte fino allo sfinimento, sentendoci per telefono.
Ma un filo e un apparecchio non mi potevano bastare.
Avevo bisogno del suo calore.
Da tempo ormai non sentivo più il calore di nessuno.
Troppe persone nella mia vita se ne erano andate. Forse me ne ero andato anche io, ero insieme a lei.
Fissavo le pareti nella speranza di vederla spuntare all’improvviso da quel cemento bianco, il mio polso accelerava, il mio amore smaniava.
Cosi trattenevo il respiro e chiudevo  gli occhi, sognandola.
Ma neanche quello mi rendeva soddisfatto.
 
“Direi che cosi va bene cazzo! Kerplunk sarà un fottuto successo.” Fece Earl Williams, il nostro produttore mentre spegneva i microfoni nella sala di incisioni.
“Ci beviamo una birra per festeggiare? Qualsiasi sia la vostra risposta io di certo lo farò.” Disse Tré.
“Come sei trasgressivo.” Lo scherni.
“Non hai detto cosi ieri sera.”
“Ma perché non volete mai fare una cosa a tre?”  Si intromise Mike.
“Tu lo ficchi troppo forte”
“Ma almeno sono più bravo di voi due messi insieme.”
“Fai silenzio, nessuno può competere con il mio.”
“Uhm, Tré cosa intendi per mio?”
“Intendo il mio giubbino, non siate cosi sconci ragazzuoli.”
“Tré voglio scoparti!” Gridò Mike mentre ingoiò una pillola di anfetamina.
Lo guardai con preoccupazione, stava cominciando davvero ad esagerare con quella roba.. Ma alla fine caddi anche io in tentazione.
“Potete scambiarvi queste dolci effusioni altrove?” Fece Earl quasi infastidito.
Noi tre per tutta risposta ridemmo all’unisono, ormai mezzi drogati. Il produttore ci fissò con uno sguardo ostile ed uscimmo subito dalla sala di incisione. Finalmente potevamo avere un po’ di tempo libero,senza aver fretta di comporre altre canzoni.
Guardai il cielo, era scuro. Mi cadde una goccia sulla faccia.
E un’altra.
E un’altra.
E un’altra.
Merda.
Merda.
Merda.
Il cielo cominciò a piangere improvvisamente e ci ritrovammo completamente bagnati in pochi secondi.
Perfetto, i nostri piani di cazzeggio assoluto in giro per Berkeley erano rovinati da una fottuta pioggia.
Arrivammo a casa sconsolati come non mai.
Accesi la tv, ma non c’era un cazzo in onda. Gli occhi stavano cominciando a farmi male, schiavo di quella scatoletta.
Mi girai i pollici.
Riaccesi la tv.
La spensi.
Mi rigirai i pollici.
Mi stavo fottutamente annoiando.
Mi sentivo come un cane in calore tenuto prigioniero da una cella. E avevo perso la chiave per uscire.
Cominciavo ad impazzire.
Dove erano le mie motivazioni?
Io non avevo motivazioni.
Stavo fumando la mia ispirazione e puzzavo di merda.
Puzzavo seriamente di merda.
Patetico.
Guardai la stanza con apatia, tutto poteva interessarmi pur di sconfiggere la noia, ma niente sembrava veramente attirare la mia attenzione.
La solitudine doveva, poteva bastare.
Nessuno chiamava al telefono.
Riaccesi la tv.
Sei un fottuto pigro, ripeteva sempre mia madre. Può darsi.
Mi rigirai i pollici.
Non ce la facevo più.
Mi morsi il labbro quasi come se volessi farmi male e immaginai un paradiso, un paradiso qualsiasi, magari Christie Road.
Ora sentivo la puzza di pipi ed alcool penetrarmi nelle narici.
Ma tutto fu interrotto da un rumore.
Mike stava suonando il basso. Era una linea piatta, tranquilla, ma nello stesso momento apatica, pronta a scoppiare.
Entrai in camera sua.
“Hey cazzo Billie senti qua!”
Era mezzo drogato, probabilmente si sarebbe scordato tutto ciò che stava componendo tra qualche ora.
Eppure la adoravo.
“E’ perfetta.” Mormorai.
 Mi rispecchiava perfettamente, rispecchiava perfettamente ciò che facevo quasi tutti i pomeriggi, annoiarmi.
Ma poi all’improvviso, scoppiavo, ucciso dalla monotonia.
E ne feci subito una canzone.
Quella linea era incredibile.
 
Sentii che i Green Day stavano diventando qualcosa di fottutamente grande, oltre il Gilman Street.
Ne percepivo l’odore, l’odore del successo.

 
 
Mi rigirai nel letto per chissà quante volte, cercando a tentoni il corpo di Adrienne, per stringerla nelle braccia.
Basta, questo strazio doveva finire. Dovevo assolutamente scordarmi di  lei. Dovevo cancellarla nella mente. Ogni volta però che me lo ripromettevo, ecco che ricominciavo a pensarla, quasi senza accorgermene. Non potevo farne a meno. Era quasi come una dipendenza, non era anfetamina ma qualcosa che fa molto più male, l’amore.
Dovevo, ma non potevo incontrarla.
Era tutto cosi patetico, sul serio.
La distanza mi stava uccidendo.
Mi drizzai all’improvviso e corsi verso la camera di Mike imperterrito.
Un’idea mi baleno nella mente in pochi secondi. Era un’idea un po’ folle, assurda, ma d’altronde tutte le mie idee erano cosi.
“Mike sei sveglio?” Sussurai. Erano le 4.00 di mattina.
Il mio amico farfugliò qualche bestemmia.
“Mike?”
Tolse la faccia dal cuscino.
“Che cazzo vuoi?” Fece con la voce impastata dal sonno.
“Bhè, avrei da dirti alcune città dove potremmo fare concerti per promuovere Kerplunk, è già uscito da una settimana ma le vendite non sembrano essere molto buone.”
Mike sembrò non dare segno di vita.
Si stropicciò gli occhi.
“Cioè, tu mi hai svegliato alle 4 di mattina per dirmi che hai delle idee per il tour?”
Annuii come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Ed esattamente perché lo hai fatto a quest’ora? Esiste una cosa chiamata MATTINA porca puttana!”
Feci un sorrisetto malizioso.
“Oh no Billie, ti prego dimmi che non vorresti fare quella cosa che sto pensando…”
“Invece si.”
“Sei un fottuto pazzo.”
“Ma è l’unico modo per vederla!”
“Non possiamo arrivare fino al Minnesota coglione, magari li non troviamo nessun fan del cazzo!”
“C’è Adrienne.”
“Allora suonerete senza un bassista, perché io fin li dopo chissà quante giornate estenuanti in macchina non ci vado, chiaro?”
Mi avvicinai al suo letto.
 “Lasciami in pace, conta le tue fottute pecorelle e lasciami dormire. Se le finisci puoi prendere le mie… ma per favore togliti dai piedi!”
“Perché sei cosi irascibile Mr. Pritchard?”
“Perché a quest’ora si dorme.”
“Mike, ascolta… è l’unica occasione per vederla, io non ce la faccio più, DEVO vederla!”
“Puoi andarci da solo.”
“E’ anche una buona occasione per farci conoscere fin li e fare concerti, andiamo!”
“Fottiti.”
“Sono due occasioni irripetibili!”
“Fottiti.”
“Ti prego!”
“Fottiti!”
“Fallo almeno per la band, fallo per me!”
Mike fece un lunghissimo sospiro.
“Se dico di si mi lascerai dormire, brutto stronzo?”
“Certo.”
“Domani partiamo.”
Lo abbracciai.
“Toglimi le mani di dosso, segaiolo.”
Mentre stavo per uscire dalla stanza mi richiamò.
“Mi hai parlato di tutto ciò a quest’ora solo perché fossi rincoglionito e non ci capissi niente vero?”
Sorrisi di nuovo maliziosamente.
 

Arrivammo a casa di Tré verso le 11:00 di mattina, mentre trascinavo Mike che, chissà perché, non era riuscito a chiudere occhio tutta la notte. Tré ci aveva detto di avere un trasporto ideale che avremmo usato per gli spostamenti dei concerti. Ero proprio curioso di vedere codesta macchina o quello che era, descritta come la “meraviglia dei motori odierni” da lui stesso. Quando entrammo in garage le mie aspettative crollarono.
“Che cazzo è questa cosa?” Tré fece una risata soffocata.
“E’ il trasporto di cui ti parlavo!”
Lo osservai bene. Era un mini pullman fatiscente, che puzzava di candeggina ed ammoniaca. Si riusciva a leggere a malapena “BOOK MOBILE”, una scritta posta a caratteri cubitali sul retro.
“Non ci prenderanno come dei librai ambulanti girando con questo coso? Non abbiamo mai letto un fottuto libro nella nostra vita!” Fece Mike.
“E’ l’unico mezzo che ho trovato, accontentatevi. Era di mio padre, ma ora non lo usa più.”
“Quando arriveremo a Minnesota?”
“Non lo so, il pullman arriva a massimo 100 km orari.”
Cercai di non incontrare lo sguardo del mio migliore amico, ma sapevo che mi stava mandando imprecazioni in cinese.
Salimmo nella “meravigliosa” Book Mobile. C’erano solo tre sedili, uno di loro era occupato da un omaccione grosso al volante che mangiava un hamburger. Ci salutò distrattamente con la mano mentre consultava una cartina.
“Duncan loro sono il resto della band, il segaiolo e il puttaniere.”
“Mh..”
“Cosa c’è?”
“Non so come arrivare in Minnesota, ci sono un sacco di strade … ma niente paura troverò, o almeno spero, quella giusta.”
“Lo speri?!” Mormorai io quasi in preda al panico.
“Hey scialla amico!” Detto ciò accese il motore, ma prima di uscire dal garage sbatté 3-4 volte sul muro.
“Tré sei sicuro che questo tipo sappia guidare?”
In realtà non ha neanche la patente.




Spazio autrice.
Diciamo che ho unito due capitoli, visto che entrambi non mi soddisfacevano per niente. Neanche questo sembra un granché per me, ma l'importante è che lo sia per voi c: Ringrazio Brain_Stew_ per avere sempre la pazienza di recensirmi!

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Capitolo 12
*** No time to search the world around. ***


Guardai l’orologio per la cinquantesima volta. Le lancette ticchettavano ossessivamente e il loro rumore rimbombava nella mia testa. Il tempo trascorreva lentamente, quasi come se lo facesse apposta.
Saranno state sette ore che eravamo in viaggio e non avevo ancora visto nessun cartello che segnalava la fine della California e l’inizio di un altro fottutissimo Stato. Cominciavo a credere che Duncan si fosse perso in quelle strade non asfaltate e lerce.
Mi alzai a fatica,tutto intorpidito, ormai avevo preso la forma del sedile stesso a furia di stare seduto e il culo era tutto appiccicoso. Ero riuscito a barattare con Tré il posto in cambio di due cioccolatini e 5 dollari, ma me li sarei ripresi appena sarebbe caduto tra le braccia del sonno. Ora giocava con un game boy, sconfiggendo i ragni al plasma con i laser e il materiale radioattivo. Io ho sempre odiato la tecnologia se non la televisione, eppure perfino quella scatoletta in quel momento mi sembrava divertente. Tutto pur di sconfiggere la noia che mi stava assalendo e mi aveva stretto in una morsa. Mike suonava il basso distrattamente, componendo linee senza senso. 
Girai in tondo tre/quattro volte per sgranchire il corpo o le idee e mi avvicinai a Duncan. Sembrava tranquillissimo, ma non lo era affatto.
“Duncan, abbiamo almeno oltrepassato la California?”
Non rispose, continuando a fissare la strada imperterrito.
Finalmente si girò verso di me con noncuranza.
“Non saprei”. Fece in tono freddo che non lasciava trasparire nessuna espressione.
“Attento cazzo svolta a destra!”
Si girò appena in tempo per sterzare con una manovra assai pericolosa.
Mi sorrise.
“E tu che non ti fidavi di me!”
“Io non mi fido ancora.”
“Chi è che ora ti ha salvato il culo?”
“Io me lo sono salvato, dicendoti di fare attenzione.”
“Si ma io sto guidando!” Disse molto infastidito.
Feci un lungo sospiro, era come parlare ad un bambino.
Accessi la radio, nella speranza di placare la noia.
Dopo tanta ricerca finalmente si riuscii a sentire la voce di un giornalista.
“Il presidente Clinton afferma di avere la situazione sotto controllo, il suo partito democratico non si scioglierà. Tuttavia, molti sostengono sia..”
La spensi improvvisamente.
Un improvvisa apatia stava piovendo su di me.
Gente che dichiarava un futuro migliore per l’America, gente che dichiarava cose e non le metteva in atto. Eravamo pupazzi nelle loro mani.
Io dichiaravo che non me ne fregava assolutamente niente.
Perché tanto saremmo andati in rovina.
Perché tanto la vita è un illusione.
Ora mi sentivo come un sogno fradicio, pronto ad annegare.
Decisi di fumarmi una canna, inondandomi di quel fumo inebriante e non pensare più a niente. Non stavo crescendo, stavo bruciando.
Gli occhi cominciarono a diventarmi rossi, le labbra secche e la vista mi si annebbiò.
Mi ero messo in fila per camminare con i morti. Forse tutti erano morti, forse stavo solo sognando.
Non capivo più niente e per un attimo sentii un vuoto dentro di me. Un piacere.
 
Quando finii la canna e cominciai a ricontrollare tutti e cinque i sensi e ritornai all’autobus di sempre.
Guardai fuori dal finestrino mentre sempre di più ci allontanavamo da Berkeley ( o almeno speravo, non sapevo dove Duncan fosse diretto veramente). Era come se stessimo scappando dai ricordi, da Christie Road, dai nostri amici, da tutto ciò che avevamo fatto e incontrato. Era una strana sensazione lasciare la propria città.
Fissai quel paesaggio sfuggente quasi in trans che scappava subito dai miei occhi, ancora un po’ rossi.  E mi chiesi se Adrienne stesse pensando a me, o magari se ne era già scordata. Forse in questo momento era davanti al caminetto, con una tazza di cioccolata calda. Mentre io ero in un autobus da nove ore che puzzava, insieme ad un idiota con una patente disegnata da suo cugino di 10 anni, un altro idiota salvatore dell’umanità attraverso i laser che lanciava, un altro idiota che scriveva linee senza senso e ancora un altro idiota, che poi ero io.
Forse stavo sprecando il mio tempo e io odiavo sprecare l’illusione, chiamata erroneamente vita.
O forse ero soltanto innamorato.
 
Passammo tre, forse quattro giorni rinchiusi in quella gabbia. Ormai avevo perso la concezione del tempo. Ci fermavamo solo per mangiare e cagare. La sera Duncan diceva di non avere sonno e che noi avremmo fatto sogni tranquilli mentre lui continuava a guidare. Ma ogni volta le palpebre cominciavano a diventare di piombo e cosi dopo venti minuti si fermava appena poteva e ronfava sul sedile. La mattina seguente si vantava di avere fatto tanta strada. Noi non lo abbiamo mai creduto, ma lo abbiamo sempre lasciato nella sua soddisfazione, se era quello che voleva.
 
Più chilometri facevamo, più avevo l’impressione di sentirla vicino a me ma la mia ansia accresceva. 
Le mie speranze cominciavano a spezzarsi uno ad uno. Un mattone cadeva ogni volta che procedevamo verso Minneapolis.
Era impossibile che dopo quasi otto mesi lei si ricordava ancora di me.
Ma le persone che ami non si dimenticano.
Forse lei non si è mai innamorata di me.
Non dovevo pensare, pensavo troppo, pensare fa male. Mi convinsi che Adrienne mi avrebbe accolto a braccia aperte, quello sarebbe stato il momento migliore per dichiararmi.
Un rumore brusco mi risvegliò dalla trans. “Cosa succede?” Feci ancora trasognato.
Duncan aveva fermato volutamente l’autobus. 
“Perché cazzo lo hai fermato porca puttana!”
“Siamo arrivati, coglione.”
“Ah.”
Eravamo arrivati. Eravamo arrivati a Minneapolis. Ero arrivato da lei.
Scesi dall’autobus senza preavviso e corsi finché potei. Corsi, corsi tantissimo finché il fiato non si fece pesante. Stavo arrivando. Finalmente dopo otto mesi l’avrei rivista. Mi fermai un secondo e ricominciai a correre verso il suo appartamento. Le mie notti insonne sarebbero finite. Mi accasciai su una panchina stanco morto, ma mi rialzai subito, non potevo più aspettare.
Qual’era esattamente il numero della sua stanza? 26 o 29? Ma cosa importava?
L’ascensore era occupato, cosi presi le scale.
Saltai tre, forse quattro gradini, caddi improvvisamente sbucciandomi il ginocchio e mi rialzai subito ancora dolorante. Una vecchietta dalla sua porta mi scrutava con fastidio. Ma in quel momento non sentivo i suoi occhi puntati sul di me o il sangue al ginocchio. Sentivo solo i battiti del mio cuore che rimbombavano nella mia mente.
Camera 26, terzo piano. Bussai con veemenza. Era arrivato il momento. Per cosa esattamente? Per tutto. Per dirle che la amo, per dirle che doveva tornare in California con me, per dirle ciò che non avevo mai detto a nessuno. 
Sentii un cigolio. La porta si aprii.
Il fumo di sigaretta mi investi. Quando cominciò a diradarsi scorsi una figura. 
Era robusta, alta e tutt’altro che gentile. Mi fissava in fare minaccioso. Portò la sigaretta sulle sue labbra. Non  erano labbra soffici e rossastre, ma ruvide e fredde. Quella figura davanti a me era un uomo.
“Chi cazzo sei?” Mugugnò acidamente.
Io ero rimasto pietrificato. Ora, solo ora non sapevo cosa pensare.
Volevo letteralmente scappare, ancora più veloce di quando avevo salito le scale. 
Il tipo muscoloso, non ottenendo risposta fece una smorfia di disgusto e sbuffò.
“Adrienne, qui c’è uno che ha perso la lingua, è un tuo amico?”
Sentii dei passi. Un viso tondo sbucò dalla porta. Adrienne.
Mi guardò sorpresa. Solo la tv di sottofondo rompeva il silenzio. Cominciammo a fissarci tutti e tre. La situazione ero imbarazzante. Sentivo che avevo fatto qualcosa di sbagliato.
“Sei.. Billie?”
Deglutii. Mi aspettavo che quel punto di domanda si trasformasse in un’affermazione (“Si sei proprio tu! O mio Dio mi sei mancato da pazzi!”) e invece no. Annuii quasi controvoglia. Ma Adrienne era ancora confusa.
“Berkeley, Green Day…”
“Ah si, ora mi ricordo!” 
Calò di nuovo il silenzio. 
“Cosa ci fai qui?” Mi parve di avere una fitta al cuore.
“Non ci vediamo da un sacco di tempo e cosi, visto che io e i ragazzi dobbiamo fare un concerto qui, nei dintorni, ho deciso di venire a trovarti.” Lo dissi nel tono più freddo e distaccato possibile, trattenendo le lacrime. Si ricordava a malapena di me.
“Wow siete famosi anche in Minnesota!” Fece Adrienne, ma senza eccitazione. Dall’ultima volta che la avevo vista sprigionava molta, molta più allegria. Ma ora sembrava stanca e pallida, consumata da non so cosa.
“Chi  è lui?” Feci, riferendomi al tetro individuo.
“Oh ehm..” Balbettò Adrienne. “E’ solo un mio amic..”
“Sono il suo fidanzato.” Annunciò solennemente lui. 
Adrienne sospirò. 
Qualcosa dentro di me stava morendo lentamente. La candela della speranza, si stava spegnendo mentre la sua cera si diradava nelle mie ossa. La cera, ovvero la delusione. Sentii un vuoto. Non era un sogno. Era la vita. Era l’illusione.
“Billie …”
“Adrienne vai a fanculo.”
"Cazzo lo sapevo che sei coglione!”
“Io? Io sono coglione? Non tu che mi hai illuso per tutto questo tempo?”
“Illuso di cosa?”
“Sai benissimo che io sono innamorato di te, fin dal momento in cui ti ho visto!”
“No, non ho mai saputo niente di tutto ciò, non mi hai mai detto niente!” La sua voce era rotta, cominciò a piangere.
“Non mentirmi Adrienne, LO HAI GIA’ FATTO ABBASTANZA!” Gridai in preda all’ira senza neanche sapere se ero io.
“Un ragazzo che non rileva i propri sentimenti è un emerito coglione!”
“Una ragazza che non si accorge di niente o fa finta di non accorgersene è una merda!”
“Fottuto stronzo vai a fumarti altre canne come fai di solito e vattene dalla mia vista!”
“Io sono arrivato fin qui dalla California e tu vuoi cacciarmi?”
“Lasciami in pace cazzo! Cosa speravi che ti avrei riabbracciato dopo circa dieci mesi che non ci vediamo?”
“Almeno riconoscermi!”
“Vai via!”
“Non posso!”
“Vai via ho detto! Ne ho abbastanza di tutto!” Mi chiuse la porta in faccia. Sentivo i suoi singhiozzi oltre il muro.
Scesi le scale lentamente.
Che cosa avevo appena fatto?
Uscii dal palazzo e mi inoltrai in quei vicoletti bui della città. In quel momento dovevo solo camminare. Ho scritto un sacco di canzoni camminando.
Avevo appena rotto un’amicizia che per me era qualcosa di più.
E me ne stavo vergognando.
Una volta lessi in un libro che le persone ricordano solo ciò che vogliono realmente ricordare. Io non volevo ricordare quella litigata, eppure era nella mia mente, ancora.
Ero un perdente.
Non avevo bisogno che qualcuno mi accusasse, perché lei aveva ragione.
Qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento, doveva asciugare le sue lacrime.
E io dovevo asciugare le mie.
Era stato un fottuto sbaglio.
Non sapevo perché le avevo gridato contro.
Non sapevo chi ero io.
Ero stato io realmente a litigare? O la rabbia?
Dopo dieci mesi, sentendosi per telefono alcune notti e niente di più, era ovvio che era difficile ricordarmi.
Ed ero patetico.
Dovevo chiederle scusa. In quel momento.
Sentivo gli echi delle sue grida che stavano chiamando me.
Svoltai l’angolo e mi diressi verso il suo palazzo nuovamente. Che cosa le avrei detto?
Salii le scale. Che cosa avrei fatto?
Bussai la porta lentamente. Come avrebbe reagito?
Dopo un paio di minuti la porta si aprii e si richiuse subito appena Adrienne mi scorse.
“Adrienne, per favore apri.”
“Vai via!” La sua voce era ancora rotta.
“Ti prego.”
Passarono altri minuti. Finalmente riapri. Mi fissò con gli occhi pieni di lacrime.
“Posso entrare?”
Esitò, ma alla fine si scansò.
Era un appartamento buio, piccolo e c’era puzza di aria consumata. Solo un letto e qualche altre cianfrusaglia occupavano lo spazio.
“Che cosa vuoi?” Mormorò.
Mi resi conto che quel tipo di prima non c’era.
“Dov’è lui?”
“Sono affari miei.”
Gli lessi nello sguardo che c’era qualcosa che non andava.
“Adrienne, cosa succede?”
“Niente.” Rispose seccamente, sedendosi sul letto, proprio di fronte a me.
Sentii che qualcosa stava per scoppiare. Una rabbia silenziosa. Una sua rabbia silenziosa. Aspettai che rompesse il silenzio. Ma lei non cedeva. La fissai e lei abbassò gli occhi. 
“Tanto a te non importerebbe comunque niente.”
“A me importa invece.”
“No.”
“Invece si. Sfogati. Sfogati finché non mi sanguinano le orecchie. “
Lei... Lei stava urlando in silenzio.
“Sono qui per te.”
Ad un certo punto scoppiò in lacrime e con lei scoppiarono le parole che aveva mantenuto nascoste nella bocca.
“Odio la mia vita. Ross se ne andato chiamandomi puttana, solo perché ti avevo mantenuto nascosto. Vivo in questo buco completamente da sola, il mio lavoro mi permette di vivere qui e non di procurarmi cibo sano. La mia famiglia mi rinnega. Mia madre dice che non sono sua figlia perché a differenza di mia sorella non ho mai terminato l’università, sono la pecora nera. Mio padre è divorato dal cancro che lo ha perseguitato fin da piccolo, ma in questo periodo la situazione è più grave del solito. E poi ho litigato con te. Ho litigato con l’unica persona a cui ancora tenevo.” Parlò tutto d’un fiato tra qualche singhiozzò e mi abbraccio quasi senza accorgermene. Io la strinsi più forte che potevo, fino a sentire le sue lacrime che mi bagnavano i vestiti e l’anima.
Le presi la faccia e la avvicinai alla mia. E la baciai. Lei non si ritrasse.
La baciai come non avevo mai baciato nessuno.
Non riesco a spiegare le mie emozioni in quel momento: quando queste sono troppo forti, nessuna parola puo' descriverle.

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Capitolo 13
*** And so it begins. ***


Berkeley, 1993
Avevo provato in tutti i modi a convincere Adrienne di tornare in California, ma nonostante ci fossimo fidanzati, lei insisteva di voler rimanere insieme a suo padre fino a ché la morte non lo avesse risucchiato e condotto nel posto dei dimenticati. Cosi organizzavamo ogni tipo di concerto in Minnesota pur di vederla almeno una volta alla settimana e assaporare le sue labbra, ma ciò in realtà non giovava molto per la band.
Nessuno li ci conosceva e di conseguenza vendevamo poco. Era uno spreco di tempo.
Mike e Tré facevano finta di niente e non si incazzavano perché sapevano l’importanza per me di doverla vedere. Stavo sfruttando i miei amici e ogni fottuta notte i rimorsi mi mangiavano le interiora. Ma quello che più mi faceva innervosire erano coloro che ci schernivano. Erano convinti che non avremmo mai avuto successo e convincevano anche a me.
Ero stanco della gente.
Stavo scoppiando.
Volevo portarli tutti giù con me, con dell’esplosivo legato alla mia spina dorsale, anche se tanto fortunatamente sarebbero morti e nessuno ne sarebbe uscito vivo.
E mentre chiudevano gli occhi e pensavano ai loro ricordi, un mucchio di immagini alla rinfusa che non valgono un cazzo, dicevano addio a tutto.
Stavo diventando più cupo del solito, più pazzo del solito.
L’anfetamina mi stava consumando.
Adrienne mi stava consumando.
Stavo perdendo la mia felicità che mi avevano cucito addosso.
Ma quella gente si sbagliava.
E io non potevo saperlo, fino a quel giorno.
Si sbagliava molto.
 
Camminavamo stanchi nella periferia di Berkeley.
Ultimamente nessuno più ci conosceva, le vendite di Kerplunk erano calate.
Stavamo andando in fallimento.
Entrammo di malavoglia in un locale qualsiasi e prendemmo tre birre.
Un tipo ci scrutava curiosamente e si avvicinò al nostro tavolo.
Ci tese la mano.
“Chi cazzo sei?” Mugugnò Mike.
Il tipo rise.
“Sono Rob Cavallo.”
“Galoppa da un’altra parte.” Fece Tré un po’ più stizzito del solito.
Non fece caso alla battuta squallida e prosegui.
“Voi siete i Green Day giusto?”
Annuimmo all’unisono.
“Bhé allora vi farà piacere sapere che sono un produttore discografico della Reprise Records! Si cazzo avrete la possibilità di diventare famosi!”
Lo guardammo increduli.
La Reprise Records.
La Reprise Records.
Non la Lookout Records.
Ma quella Reprise Records di Jimi Hendrix,Frank Zappa, Depeche Mode,The Beach Boys, Neil Young… e tra quegli artisti ci sarebbe stato anche il nome Green Day. Non era possibile.
Come ci aveva conosciuti?
Stavo sognando?
O era tutto fottutamente vero?
Presto avremmo potuto farci conoscere, non dai nostri zii e dai nostri nonni. Ma dal mondo intero. Tutto quello che avevo programmato si stava DAVVERO avverando.
La mano di Rob era ancora tesa. La strinsi con foga.
“Vedo che farei meglio a non galoppare da un’altra parte.”
“Assolutamente no signor Cavallo!” Esordi improvvisamente Tré, rinato.
Tutti e tre lo fissavamo entusiasmati, confusi e sorpresi come se avessimo visto un lecca lecca gigante.
“Dovete fare solo una firma qui.”
Mike e Tré firmarono per primi e anche io presi la penna mentre mia accingevo a scrivere il mio nome. Ma prima di ciò pensai un attimo. Vidi che lo Gilman Street, Christie Road e tutti i vicoletti di Berkeley si allontanavano come spettri da me e io in una barca di soldi.
Rimasi impalato.
“Porca puttana Billie, sbrigati!” Fece Mike.
Firmai lentamente, mentre le parole scivolavano sul foglio. Appena fini Mike e Tré fecero un urlo esaltato.
“D’accordo ragazzi. Domani mattina ci vediamo in sala di registrazione, chiaro? Voglio vedere quanta merda riuscite a comporre!”
Rob se ne andò, esaltato, mentre Mike mi scuoteva da una parte all’altra.
“Oddio te lo saresti immaginato cazzo? Te lo saresti mai immaginato?” Gridava continuamente.
“Devo prendere un po’ d’aria, ci vediamo dopo”. Dissi.
 
Ero cosi confuso.
Firmare con una major, andava contro i principi del punk.
Andava contro i miei principi.
Eppure mi avrebbe dato la via del successo.
Non volevo diventare come quelle luride pop star.
La tentazione però era troppo forte.
No, Billie Joe, non devi svenderti.
Ma non si tratta di svendersi, si tratta di continuare per la propria strada e non marcire nei locali di Berkeley, per sempre.
Suona e canta perché ti piace, non per i soldi.
Si, ma nessuno sembra ascoltarci ormai.
Allora ascolta te stesso, Billie Joe, ascolta te stesso. Che cosa vorresti veramente?
Il mio colloquio personale fu bruscamente interrotto da una spinta.
Sentii una risata amara.
“Non meriti di camminare vicino al Gilman Street figlio di puttana.” Alzai gli occhi e riconobbi Frank, il proprietario del locale. Solo in quel momento mi resi conto che ero effettivamente vicino al Gilman Street.
“Le notizie girano in fretta?”
“Rob vi cercava già da tempo ed è venuto anche qui per sapere vostre notizie. E scommetto che da bravo gruppo di merda avete accettato.”
“E quindi?”
“E quindi voi non ci rimettete più piede nel mio locale.”
“E per quale motivo?”
“Perché la merda da noi non suona.”
“Frank ho solo firmato con una major.”
“Hai firmato con una major e hai tradito tutti noi. Hai tradito me, hai tradito Christie Road, hai tradito Gilman Street, hai tradito il punk. Hai girato le spalle alla tua unica casa che ti aveva accolto. Divertiti con i tuoi soldi e diventa una spocchiosa star con il cesso d’oro. E vai a fanculo.”
“Io voglio semplicemente continuare a suonare musica.”
“E quella la chiamerai musica? Ma andiamo diventerete ai limiti della commercializzazione, sfornerete ballate pop da radio, vestirete con abiti rigorosamente firmati, diventerete gli idoli delle bimbo minchia viziate. E’ questo quello che vuoi?”
“Ora voglio che tu ti levi dalle palle.”
“Sei punk trasgressivo no?”
“Frank..”
“Ribelle.”
Mi trattenni nel tirargli un pugno in faccia e me ne andai.
 
Il giorno dopo tutti sapevano di quello che era accaduto e ci guardavano male. Non ci facevano entrare neanche più a Christie Road, ci avevano rigato la Book Mobile, avevamo ricevuto addirittura minacce di morte.
Ed essere rifiutato dalla propria famiglia non era piacevole.
“Mike ..” Feci una sera, ormai stanco di quello che stava accadendo.
“Cosa c’è?”
“Forse abbiamo fatto male a firmare con la Reprise.”
“Cosa?”
“Nessuno gruppo Punk farebbe una cosa del genere.”
“Billie..”
“Ci stiamo svendendo, sarebbe meglio finirla con Rob.”
“Billie..”
“Non possiamo più esibirci al Gilman Street…”
“Chiudi quella cazzo di bocca un attimo.”
Ammutoli.
“Credi che quello che abbiamo fatto non sia giusto, vero?”
Annuii.
“Ma sei sicuro che non sia giusto per noi o per loro?”
Non seppi rispondere.
“Loro sono solo invidiosi.”
“Ma..”
“E tu farai quello che vuoi, non quello che vogliono gli altri. Ok? Tu cosa vuoi?”
“Io non so mai cosa voglio.”
“Vuoi marcire a Berkeley per il resto della tua vita?”
“No.”
“Vuoi continuare a suonare musica?”
“Si.”
“La risposta perciò te la sei data da sola.”
“…”
“Billie nella nostra carriera ci saranno un sacco di persone che sicuramente ci criticheranno, ci insulteranno, ci sputeranno sopra mentre corrodono dall’invidia. Ma noi non baderemo a queste persone, noi seguiremo quello che ci piace fare: suonare. Dobbiamo fregarcene dei pregiudizi. Sai di cosa devi fregartene? Devi fregartene di te stesso e di cosa è meglio per te. Vuoi continuare a vivere, vuoi continuare a fare musica che è la tua vita. Non puoi morire. Non puoi morire collassato dagli altri. Non puoi morire qui, per sempre, dimenticato da tutti. Perché noi diventeremo qualcuno. Qualcuno che darà emozioni vere, che farà piangere, che farà divertire, che farà riflettere. Noi saremo i Green Day. Una band Californiana che si fuma cinque spinelli al giorno e che vuole vivere. Semplicemente vivere e che vuole al dire al mondo ciò che vuole dire.”
Sette mesi dopo sarebbe uscito Dookie.
Sette mesi dopo cominciò il nostro sogno.

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Capitolo 14
*** She's a little pilot in my mind. ***


Minneapolis, 1994.

Fissai la mia immagine riflessa allo specchio.
Ma che cosa vedevo esattamente?
Un giovane con una sigaretta in mano, i vestiti strappati e luridi, un sorrisetto maligno. La mia illusione. Tutto ciò che mostravo alla gente era custodito in quello specchio e non riusciva a impossessarsi di me, perché quel senso di solitudine, dolore prevaleva sempre.
Uscii, senza avvisare nessuno.
Pioveva.
Pioveva impetuosamente, ma non mi importava.
Pioveva proprio come quel lontano giorno, ma poi tanto vicino, a Berkeley.
Pioveva proprio come quel giorno in cui imparai a costruire una nuova ombra, la musica.
Proprio come un’ombra, mi seguiva dappertutto, ossessivamente.
Eravamo sempre a suonare nei concerti e a fare interviste. Non è che non mi piacesse. La gente pagava per vederci. Era stranissimo. Pagare per vedere tre fattoni che compongono canzoni tramite pochi accordi. Non sapevo ancora come spiegarmelo. Però era divertente, fottutamente meraviglioso. Insomma, qualcuno si ispirava a te, magari aveva comprato una chitarra per imitarmi, perché avevo rincorso i miei sogni e li avevo presi per il bavero della giacca.
Ma quasi ogni giorno ci spostavamo.
Troppa pressione.
Non ero ancora abituato a tutto ciò.

Qualche volta volevo semplicemente fermarmi al centro della strada, fumando una canna e dimenticando tutto in quella coltre di fumo.
Stava diventando qualcosa di ansioso.
I paparazzi erano dappertutto e ad ogni minimo gesto te lo facevano passare per un atto vergognoso. Non potevo neanche scaccolarmi, per cosi dire.
Mi sentivo in apnea, affogato dal troppo … successo?
Avevo bisogno di una pausa e questo desiderio non faceva che spingermi a fare sempre più uso di droga.
Non volevo che la droga diventasse la mia ombra.
Quella sera era stata diversa dalle altre, non perché era l’unica praticamente libera in tutto il mese, per qualcos’altro.
Decisi di andare a trovare Adrienne visto che mi trovavo in città e sfogarmi un po’.
Bussai alla sua porta, ma non ottenni risposta.
Presi una copia delle chiavi che lei stessa mi aveva affidato (“Cosi puoi anche aspettarmi dentro mentre io sono a lavoro senza che la signora delle pulizie ti cacci dal corridoio”) e aprii. La radio era accesa.
L’appartamento in disordine.
Pile di libri e fazzoletti sparsi dappertutto.
Trovai Adrienne stesa sul letto, con la faccia nel cuscino.
Deglutii.
Mi avvicinai a lei e mi sedetti sul letto.
Le tolsi i capelli bagnati e appiccicaticci dal viso umido. Gli occhi la tradivano ancora di più, lucidi.
Capii subito.
“Quando è successo?” Sussurrai come per non farmi sentire da nessuno.
“Non importa quando è successo, ma perché è successo.”
“Ti rifarei la stessa domanda.”
Si accovacciò sulle mie gambe.
“Billie, perché il mondo è cosi?”
“Cosi come?”
“Lurido, sporco, malvagio, ipocrita..”
Fece una pausa.
“Doloroso.”
“Non lo so.”
“Lui lo sapeva. Ma ora si è portato via tutte le risposte sai?”
“Tutte quante?”
“Si. E sai perché?”
“No, perché?”
“Perché ora non c’è più Billie. E non ci sono più neanche le risposte. E senza risposte non vale la pena vivere Billie, non ne vale la pena capisci?”
“Ma hai una certezza.”
“Quale certezza?”
 “Adrienne, vuoi sposarmi?”
I suoi occhi verdi accerchiati dal mascara colato si spalancarono improvvisamente di fronte alla mia affermazione.
“E’ la certezza più meravigliosa che io abbia mai sentito.”
 
Fissai la mia immagine riflessa allo specchio, come qualche mese fa, con la differenza che ora vedevo un uomo con lo smoking.
Non ce la posso fare.
No.
Potevo sempre strappare quello smoking.
Potevo sempre scappar mene da quella stanza soffocante che puzzava di aria consumata.
Ma qualcosa mi tratteneva.
Fottuto amore, lasciami in pace.
Bussarono alla porta.
“Sei pronto? Stiamo per cominciare.”
“Si, arrivo.”
Non ero pronto.
Non ero pronto per niente.
Non sono mai stato pronto per niente.

Ed eccola li, che avanza lentamente.
Fanculo il matrimonio.
Noi siamo uniti da qualcosa di più potente che quattro parole messe in croce.
Destino.
Cuciti nello stesso vestito, sangue che pompa nelle stesse vene, o come volete voi.
Semplice destino.
Il destino che ci manipola e ci imbroglia.
Il destino che fa brutti scherzi.
Il destino che fa render un uomo felice.
Non ero degno di lei, nessuno era degno di lei.
Il destino non era degno di lei.
Ed io appartenevo solo a quel corpo pallido.
Tutto il resto non era niente.
Solo paroloni a casaccio, canti spirituali e applausi.
L’amore non è quello. L’amore è qualcosa di più potente che non si può spiegare.
Arrivò all’altare, più emozionata di me. Non riusciva a guardarmi negli occhi.
Avrei fatto qualsiasi cosa per renderla felice. Perché lei non è mia moglie, è la mia anima.
Il prete parlava a vanvera. Il mio cuore batteva, il suo tremava.
E il tempo si fermò.
Si fermò per un secondo.

E tante immagini confuse mi attraversarono la mente.
La vidi mentre mi strinse la mano per la prima volta, ubriaco fradicio.
Vidi il suo sorriso mentre mi aggrovigliavo tra i cavi delle chitarre ed eravamo soli, io ero cosi impacciato.
Mi vidi che impazzivo e che credevo di amarla.
La vidi mentre passeggiavamo nel parco torturando gli scoiattoli.
La vidi mentre la prendevo in giro e lei faceva il broncio.
Vidi il suo sguardo spento mentre mi diceva che doveva partire per Minneapolis.
Vidi il suo sguardo ancora più marcio immerso nelle lacrime.
Vidi che gridava in silenzio.
Vidi che l’abbracciai.
Vidi che le chiesi di sposarmi.
Ed ora era davanti a me, sorridente e impacciata.
Infondo io sono nato soltanto per amarla, nient’altro.
“Ora potete baciarvi.”
Il tempo riprese, il mi cuore ricominciò a battere forte e il suo ricominciò a tremare.
Ringraziammo velocemente gli ospiti. La cena per festeggiare non si tenne. Ritornammo subito a casa.
“Forse ho trovato le risposte.” Fece, mentre la spogliavo.
“Buono a sapersi.”
“Ma non ne ho bisogno.”
“Davvero?”
“La vita la si può vivere con qualche dubbio.”
“Queste perle di saggezza da chi le hai rubate?”
“Stai zitto e baciami, stronzo.”

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Capitolo 15
*** Self loathing freak and introverted deviot. ***


Da qualche parte nel mondo, 1995.
Incasinato.
Perso dentro me stesso.
Il mio peggior nemico.
Il mio più intimo nemico.
Nessuna cura.
Autoripugnante, drogato e introverso.
Coglione deviante.
La droga mi si era appiccicata addosso. Ne percepivo l’odore della morte e dell’autolesionismo.
Mi aveva buttato giù e non riuscivo a rialzarmi, mi bloccava in una morsa di ferro. Mi aveva letteralmente distrutto e io stavo rinunciando a lottare. Non sapevo lottare. Non ho mai saputo lottare.
Sapevo che mi stavo autodistruggendo.
Ignoravo le conseguenze.
Ogni giorno sentivo notizie dei miei amici morti per overdose. “Poverini..” mormoravo, mentre mi infilavo un ago nelle vene.
Avevo trovato la felicità in una bianca e sottile striscia. Non in un abbraccio o in un bacio.
In un certo senso il bacio si. Il bacio di quel piacere malato, il bacio maledetto.
Intanto i miei denti marcivano, il mio battito accelerava,il sangue si faceva rancido e attraversavo una meta che mi avrebbe condotto alla morte.
Ero solo un fottuto cane bastardo, non avevo orgoglio, la droga me l’aveva lacerata.
Nessuno aveva bisogno dell’orgoglio. E’ meglio che qualcuno ingoi il suo orgoglio prima che lo soffochi.
Mi sembrava di avere sempre spettri affianco a me, che non vedevano l’ora di trascinarmi all’interno. La miccia è corta.
Panico.
Attacchi di panico.
Ansia.
Respiro affannoso.

Avevo ucciso io stesso la mia tranquillità che non sarebbe mai più tornata.
Presunzione sulle spalle e una sanguisuga sulla schiena.
Vetri rotti nella mia testa.
Confusione.
Angoscia.
Il successo. Che cazzo era il successo? Il successo mi opprimeva. La casa discografica voleva un cd pronto tra qualche mese, per cavalcare ancora quello di Dookie. Ogni giorno ci spostavamo per fare un altro fottutissimo tour. Io non capivo niente. Suonavo, cantavo, dicevo le mie quattro cazzate e vomitavo nel cesso fino all’alba. E poi tutto ricominciava, in una routine che mi soffocava. Nessuna pausa. Perché avevo firmato quel contratto?
Il mio posto non era li.
Il mio posto era Christie Road, era il Gilman Street.
Ma non c’è ritorno dall’eliminazione.
Tutti mi avevano rifiutato, io rifiutavo me stesso.
Il mondo è una macchina malata che produce una massa di merda.
E io ne facevo parte.
 
Tornai in hotel  stanco morto, dopo un ennesima esibizione.
Adrienne dormiva. Aveva detto che mi avrebbe seguito in questo estenuante tour,che riusciva a reggere i continui spostamenti, ma mentiva spudoratamente. Non faceva mai in tempo ad assistere ai miei concerti, sprofondando nel sonno poco dopo le dieci.( Ormai se ne era fatta l’abitudine dei pianti notturni di Joseph).
La mattina era stanca ma comunque si sforzava di prepararmi la colazione e di sembrare il più dolce possibile.  Spesso però non la facevamo insieme. Io ero a provar con la band o a fare interviste, lei badava al nostro nuovo figlio. E mi sentivo completamente inutile.
Non riuscivo mai ad assaporare la sua pelle, ad accarezzarle il ventre.
Idiota.
Mi ero ripromesso di accontentarla, perché lei era mia moglie, la mia anima ma non ci riuscivo. Non riuscivo mai a fare niente. Riuscivo solo a drogarmi.
Nelle rare volte in cui riuscivamo a parlare, mi guardava quasi con furia, per dirmi con lo sguardo: “Perché mi fai questo Billie Joe?” Ma poi si addolciva, non era capace di essere arrabbiata con me, perché mi amava.
La domanda me la porgevo anche io stesso: “Perché ti fai questo Billie Joe?”. Non lo so.
Mi infilai sotto le coperte ma fin da quel istante sapevo che non sarei riuscito a dormire.
Joseph, che fino in quel momento era stato cullato dal sonno infantile si svegliò improvvisamente e pianse in modo frenetico.
Adrienne dormiva in un sonno profondo che la proteggeva dagli schiamazzi, io come ogni notte invece, non riuscivo mai a riposarmi.
Mi rigirai nel letto. Il tempo non passava mai, l’orologio mi rideva in faccia. Ed era tutto cosi fottutamente snervante. Volevo dargli un calcio, un calcio profondo che gli avrebbe lacerato le corde vocali.
Certe volte pensavo perché non avevo messo il preservativo, o quelle cose cosi. Ora un preservativo doveva finire in quella gola che non la smetteva di tremare.
Gli occhi mi stavano per sanguinare, la mia bocca era secca, la mia faccia inebetita e piena di croste.
Insomnia?
Nervoso?
Rabbia?
Disperazione?

Quattro parole che mi descrivevano profondamente.
Cercai di tappare le orecchie con il cuscino nella speranza di sentire di meno gli schiamazzi.
Niente.
Come ogni fottutissima notte, Joseph piangeva.
Costantemente.
Sempre.
Ogni ora.
Ogni minuto.
Ogni secondo.
Ogni volta che contavo una pecora.
Lo presi tra le braccia e lo cullai, ma lui non demordeva. Lo fissai negli occhi, ma non mi riconoscevo, non lo sentivo mio. Era soltanto un bambolotto per me che mi procurava tanto fastidio, non era mio figlio. Era mio figlio? NO, non era mio figlio.
Un rompicoglioni.
Ecco che cos’era. Forse avevamo solo quello in comune: entrambi rompicoglioni.
TIC.
TAC.

L’orologio sembrava non muoversi mai, apposta. Godeva a farmi impazzire.
I sonniferi erano finiti.
Io ero finito e fra poco lo sarebbe stato anche Joseph se non la smetteva.
NIENTE.
Non la finiva. No, non la finiva per niente cazzo, NON LA FINIVA PER NIENTE.
“Stai zitto figlio di puttana, stai zitto!”Gli gridai contro.
Ma lui continuava a piangere.
“STAI ZITTO CAZZO!”
Imperterrito.
La mia pazienza non ha mai avuto un limite.
Stavo per buttarlo dalla finestra.
“Ascolta, ora ti do il ciuccio…”
Ancora niente.
Forse avrei dovuto controllare meglio i miei nervi.
Lo sbattei sulla sua culla quasi violentemente e ciò non fece che accrescere i suoi isterici pianti che rimbombavano nelle mie mente e si amplificavano ancora di più.
Diventai paonazzo dalla rabbia.
Ero sull’orlo della disperazione. Buttai a terra le pile di carte sulla scrivania. Le raccolsi, li strappai a morsi e li lanciai nuovamente mentre l’eco sordo delle grida del bambino erano alzati di volume.
Gridai.
Sfinito.
Non c’è progresso.
Non c’è sviluppo.
EVVIVA! Moriremo tutti! Benedetti ed estinti, nati e uccisi dagli ipocriti.

Anche Joseph morirà, morirà mentre piangerà ancora di più e suo padre gli avrà strappato il cuore dal petto.
Mi sedetti sul divano e respirai a fondo. Dovevo smetterla, perché progettavo di far morire mio figlio, se lo era? Stavo progettando l’autodistruzione questo si, ma non lui, che non aveva fatto niente di male, era solo un bambino. Anche io ero stato un bambino e lo sono tuttora. E’ tutto ok Billie. Mi calmai e chiusi gli occhi. Anche Joseph si calmò. Passarono dieci minuti buoni e per la prima volta dopo tante settimane, stavo per prendere sonno.
Un altro schiamazzo.
Altri pianti e altrettante imprecazioni.
Certe persone vivevano per i loro figli o per le loro mogli. Io non vivevo per niente, e vivere quando non si ha uno scopo preciso.. non ha senso. Non ha davvero senso.
La vita?
Io vivo la mia vita? La sto vivendo?
Forse la mia vita è la droga.
E allora benvenuta droga, sei la mia nuova ombra, l’unica cosa che continuerà a seguirmi per il resto della mia penosa vita.

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Capitolo 16
*** The Trial. ***






Tutto chiuso.
Qualsiasi strada prendevo, mi ritrovavo inevitabilmente a sbattere contro il muro. Doveva essere un fottutissimo labirinto della mia testa.
Corsi a perdifiato percorrendo le più strade possibile, ma ogni volta mi sembrava di aver già visto quel punto. Forse era tutto uguale?
Il pavimento cominciò a tremare e si inclinò lentamente in giù mentre provavo ad arrampicarmi a qualsiasi cosa, ma ogni volta che afferravo un mattone questo si scioglieva nelle mie mani. Guardai sotto: un buco nero si divincolava e cresceva sempre più di intensità man mano che il pavimento scivolava nelle sue fauci scure.
Era tutto inutile, anche io sarei finito li dentro. Mi abbandonai alla sorte e mi feci trasportare. Meritavo quella sorte. Non sapevo più cosa meritare, forse non meritavo niente. Forse dovevo solo morire, avrei fatto contenti tutti, incluso me stesso.
Buio.
Non sentivo assolutamente niente.
Il tepore della morte?
Mi alzai dal pavimento gelato dolorante. Non c’era niente.
Camminai lentamente come a voler cercare qualcosa che non avrei mai trovato, e ne ero consapevole.
Dopo giri inutili mi sedetti stanco. Stanco di cosa? Sono stanco di me.
Aspettavo che un essere con una falce in mano mi prelevasse per portarmi nel mio unico posto dove potevo sentirmi felice, tra i demoni che mi avrebbero succhiato il sangue e l’anima.
Una luce.
Aguzzai la vista.
Cos’era?
Era una cosa bianca, che si muoveva verso di me. Deglutii.
Man mano che si avvicinava riuscivo ad osservare sempre più particolari. Ora mi sfiorava il naso. Sorrideva, beffardo.
Era una maschera gigante. Una maschera totalmente bianca, con due fori al centro e l’iride bianca. Era inquietante. Continuava a sorridere. Istintivamente feci un passo indietro per scappare, ma non lo feci.
La maschera annui soddisfatta. Dietro di lei ne apparve un’altra. Era uguale, ma era seria, muta, rigida, fredda. Sentivo che mi fissava costantemente anche se i suoi occhi erano completamente bianchi, lo sentivo.  Era come se volesse dirmi qualcosa, e ciò mi faceva salire l’angoscia ancora di più.
Stavo rischiando di impazzire. Sentivo il suo fetore vicino al mio collo, l’iride che continuava ad osservarmi imperturbabile.
Era ancora imperturbabile, seria, vuota. Era come se rispecchiasse me.
Volevo dirle di finirla di fissarmi, ma non ci riuscivo.
Basta.
Spuntò ancora un’altra maschera che apri la bocca in tono minaccioso.
Cominciò a gridare, a gridare in modo silenzioso perché non sentivo niente. Le grida deformarono il nero del posto in cui ci trovavamo, deformava i loro corpi inerti e il mio. Tutto era raccapricciante, in un atmosfera che si contorceva sempre di più, come le onde del mare.
Ma ciò che mi faceva paura era ancora quella maschera che sentivo in qualche modo come se mi stesse fissando. E non la finiva. Doveva dirmi qualcosa.
Le maschere si avvicinarono sempre di più a me, mentre il mio corpo sembrava ottenere una forma sinuosa, deformato dalle grida.
Pazzo.
Pazzo.
Pazzo.

Qualcuno continuava a ripetere questa parola.
Si, sono pazzo.
Pazzo.
Sei pazzo.
Tu sei pazzo.
Ora mi toccavano la pelle e me la scorticavano con i denti.
Sei pazzo.
Pazzo.
Sei pazzo.
Tu sei pazz.. sei pazzo.
 
Mi svegliai di soprassalto. Sudavo freddo, respiravo faticosamente.
I sonniferi erano sul comodino.
Era un sogno.
Era solo un sogno.
Ma io ero realmente pazzo.
Non riuscivo a togliermi dalla testa il viso della maschera seria.
Scossi la testa quasi per fare uscire il pensiero, ma era ancora li.
Mi misi le mani tra i capelli. Cosa cazzo.. cosa cazzo stava succedendo?
Stavo ancora sognando?
Forse la vita era un sogno.
Mi alzai lentamente. Le gambe erano molli, non mi sentivo più le gambe, non sentivo più me stesso. La faccia scavata dalla stanchezza.
Adrienne era seduta vicina al tavolo e fumava una sigaretta. Il suo sguardo era perso nel vuoto.
“Buongiorno.” Mormorai.
Non mi rispose, mi ignorò completamente.
Mi sedetti a fianco a lei anche se non avevo assolutamente fame. Era da tanto che non facevamo colazione insieme, eppure lei non sembrava fregarsene più di tanto.
Non aveva toccato niente, il bicchiere pulito cosi come lo era il piatto.
Non stava funzionando.
Non stava funzionando niente.
Avevo sfasciato tutto.
Avevo sfasciato l’armonia che c’era fra di noi.

Ora tutto mi stava crollando addosso.
Ogni sera tornavo drogato o mezzo ubriaco.
Lei forse faceva finta di dormire, ma in realtà rigava il cuscino dalle lacrime.
Pezzo di merda.
“Non è successo niente, se è questo che vuoi sapere.” Fece sarcasticamente.
Il suo sguardo era ancora perso nel vuoto.
“Adrienne guardami.”
“Prima guarda te stesso, come ti sei ridotto, coglione.” Sentii un tuffo al cuore.
Rimanemmo in silenzio per quasi due minuti.
Finalmente mi fissò, cosi aspramente, cosi freddamente che mi fece rabbrividire più della stessa maschera. Leggevo odio,furia,collera. Sostenne il mio sguardo.
Non l’avevo mai vista cosi. Cercava di comunicarmi qualcosa con gli occhi, non voleva parlare.
Quegli occhi dicevano di lasciare il tour un attimo, di dedicarsi alla famiglia, di smetterla con la droga.
Ma i miei occhi dicevano il contrario.
Continuammo a fissarci,lei non demordeva.
Solo la radio accesa e i risolini di Joseph che giocava nel gabbiotto facevano da sottofondo. Si aspettava che da un momento all’altro io le avessi detto “Hai ragione.”
All’improvviso lo sguardo aspro si fece disperato, gli occhi si fecero lucidi. Gli abbassò per non farmi vedere. La rabbia si era trasformata in impotenza.
“Tu non capisci mai un cazzo.” Feci sbattendo le mani sul tavolo violentemente. Presi la giacca e uscii fuori mentre i singhiozzi e i pianti di Adrienne mi rimbombavano nella mente.
Presi una birra, fra poco ci sarebbe stato un altro fottutissimo concerto del tour di Insomniac.
 Ero solo, completamente solo.
Nessuno mi aveva mai preso per mano e condotto dall’altra parte della strada. Nessuno mi aveva mai capito, io non capivo me stesso, io ero nessuno.
Ero nessuno.
Ero solo una marionetta tra le mani della droga. Ero consapevole che presto i fili si sarebbero rotti per sempre e mi avrebbero lasciato inerte su un marciapiede, mentre sentivo il rumore dell’ambulanza. Ma sarà troppo tardi.
Eppure non riuscivo a farne a meno. Non sapevo quello che volevo, ma era tutto ciò che avevo. E nessuno capiva la mia situazione.
Credevano che con una semplice riabilitazione tutto sarebbe finito. La verità è che non finisce mai niente in questa merda. Ricadi continuamente. Non puoi voltare le spalle al tuo burattinaio.
Ricadi, sempre. Ricadi in quel buco nero che ti scortica l’anima.
Feci per ingoiare una pillola ma non ci riuscivo.
Tu sarai pure una merda, ma non hai bisogno di altrettanta merda.
Altra merda in più, che differenza fa?
Hey, ritorna da Adrienne e scusati ok?
Di cosa dovrei scusarmi?
Allora scusati con te stesso e metti giù quella roba.
Non riuscivo a farlo.
Mi senti?
Lanciai la boccetta di anfetamina con tutta la mia forza tra lo sguardo curioso dei passanti.
Era ancora li, a pochi metri da me.
Lasciala, non raccoglierla.
Lasciala Billie.
Lasciala marcire li.
Camminai per tre quattro metri oltrepassando la boccetta.
Ok, cosi, ci siamo.
 
Ma ritornai indietro.
La raccolsi subito tra le mie mani che tremavano. E cominciai a piangere di me stesso.
Non puoi farne a meno, coglione. Sei entrato nel tunnel della droga e ora non ne uscirai più. Si richiuderà alle tue spalle. Ma il tuo non è un tunnel, è un pozzo molto profondo che ti sei scavato da solo.
Anzi ti sei scavato una tomba.
“No.. io non voglio …” Ero ancora inginocchiato.
La gente mi guardava, rideva e faceva commenti ironici.
“Fatemi ridere di me stesso! Fatemi ridere anche di me stesso!” Gridai. “Sono una battuta piacevole? Perfetto, sono questo, non sono altro! Sono una barzelletta!”
Le mamme allontanarono i figli da me, altri mormoravano: “ Quello li è un pazzo..”
“Si è un pazzo..”
“Hai visto com’è combinato?”
“Ma non è il cantante dei Green Day?”
“Mi sembra di si, stasera hanno un concerto, chissà che cosa accadrà.”
“Il concerto di un pazzo? Io non lo manderò mai mio figlio!”
“Che pazzo!”
“Allontanatevi!”
Per non capire più niente,presi due pillole e le ingoiai.
Solo poco dopo mi resi conto che avevo fatto un mix letale: medicinali,alcool e droga.
Ma ormai era troppo tardi.
 
Arrivai al concerto con quasi mezzora di ritardo, stava ormai per cominciare.
Ciò che riuscivo a vedere erano solo puntini che si dilatavano nella mia mente, macchie rosse e blu, hot dog volanti, unicorni che sputavano arcobaleni.
Mike fu visibilmente sorpreso quando mi vide.
“Oh cazzo sei fatto?”
Negai con la testa.
“Sei troppo fatto porca puttana, non puoi suonare in queste condizioni!”
“Suoneranno gli unicorni al posto mio.”
“Ok, ora ascoltami bene. Forse dovremmo fermare il tour. Ci sta asfissiando troppo. E la finiamo qui oggi stesso, non suoneremo, non puoi farlo.”
Fleishmann, il nostro manager, sentendo quelle parole corse subito verso di noi.
“Non potete fermarlo, tutto andrebbe in rovina!”
“Preferisci che vada in rovina il mercato o Billie?”
“Non è la prima volta che si droga prima dei concerti, ce la farà.”
“Appunto non è la prima volta, siamo troppo stressati cazzo.”
“Stai piagnucolando come un coglione.”
Mike lo scaraventò sulla parete e fece per dargli un pugno, ma Fleishmann lo fermò in tempo.
“Non ti agitare o ti sbatto la porta in faccia e su per il culo e a quel punto nessun manager vi raccatterà dalla strada. Ora vediamo cosa dice Billie, se è consapevole di suonare, suonerà. Allora Bill, come ti senti?”
“Benone.” Strascicai.
“E’ fottutamente fatto, non sa neanche dove si trovi. Finiamo questa pagliacciata.”
“Billie ha parlato e la sua volontà deve essere rispettata.”
“Volontà? Non può ragionare con queste condizioni idiota!”
“Vi do cinque minuti per salire sul palco.”
“Non..”
“Cinque minuti.”
“…”
“Ok?”
Mike annuii infastidito e posò lo sguardo su di me. Io sorrisi ma lui non ricambiò, scosse la testa.
Poi non ricordo più granché.
Mi aiutarono ad infilare la chitarra e ad andare sul palco. Deliravo, la testa sembrava girarmi ad ogni minimo passo, le voci le sentivo lontanissime da me. Sbagliavo accordi, la voce era rauca. Ora la testa mi stava girando troppo.
Troppo.
Non capivo un cazzo.
Perdita di sensi.
Vuoto.
 
 
Un rumore assordante mi perforava i miei timpani.
Aprii gli occhi. Un giudice con i genitali di un uomo visto da dietro, con l'ano al posto della bocca e uno scroto al posto del mento sbatteva in continuazione un martello sul tavolo. “Tutti i membri del processo, qui!” Gridava.
Quando mi vide sorrise amabilmente. “Bene, ci sei anche tu, accomodati.” Lo guardai stranito. “Accomodati, non vorrai rimanere steso li sul pavimento spero. Tutti i tuoi cari sono riuniti qui, non sei contento?” Mi sedetti su una sedia qualsiasi.
“Ora possiamo iniziare. Chi vuole cominciare?”
“Io.” Mormorò una voce familiare. Adrienne. Le sorrisi, ma parve non accorgersene.
“Ok, mi dica tutto ciò che vuole su suo marito.”
“Si, sulla carta siamo sposati. Ma nella realtà no. Non è mai presente. E’ un emerito coglione ecco signor Giudice. Delira per qualsiasi cosa, credo non abbia mai preso in braccio nostro figlio. Lo odia profondamente. Anche io lo odio profondamente. Che coincidenza no? Sa solo ubriacarsi e drogarsi. Sono il suo pane quotidiano. Io dovrei essere il suo pane quotidiano e invece non lo sono. Mi aveva detto che ero la sua anima, che mi avrebbe protetto. Bhé alla tua anima stai sul cazzo.” Pronunciò le parole meccanicamente, senza pudore e senza minimo cenni di pianto. Le sue parole mi rimbombavano in testa.
“ E’ un emerito coglione ecco signor Giudice.”
“ E’ un emerito coglione ecco signor Giudice.”
“ E’ un emerito coglione ecco signor Giudice.”
 
Non potevo contrabbattere, le parole mi morivano in bocca.
“Grazie signora Armstrong..”
“Nesser, signora Nesser.”
“Signora Nesser. Ora passiamo alla madre. Cosa ha da dirci di suo figlio?”
“La più grande delusione della mia vita signor Giudice, davvero. Fin da piccolo ci ha creato sempre problemi e sinceramente se vedessi un barattolo di marmellata e lui che cadono in un burrone salverei solo la marmellata. Tanto se io lo avessi salvato, lui sarebbe morto lo stesso, presto. Con quella droga che si fotte. Non mi ha mai ascoltato. Mai. Mi ha sempre mentito su qualsiasi cosa. Mi sono rotta i coglioni di lui.” Il Giudice annuiva al discorso.
“La più grande delusione della mia vita signor Giudice, davvero.”
“La più grande delusione della mia vita signor Giudice, davvero.”
“La più grande delusione della mia vita signor Giudice, davvero.”
“Amo il mio lavoro. Chi è il prossimo a parlare?”
“Ora tocca a me, non vedo l’ora.” Parlò mio padre. Deglutii.
“Billie Joe, un grande. Non lo disprezzo. Perché lo odio. Ci sputerei sopra. E’ un grande si, nel drogarsi. Un grande buffone, un grande coglione o quello che volete voi. Meno male che sono morto, non riuscirei a sorbirmi ancora e ancora questo tizio. Fa finta di piangere quando mi pensa,diciamo cosi. Ipocrita, cane, bastardo.”
“E’ un grande si, nel drogarsi.”
"E’ un grande si, nel drogarsi.”
“E’ un grande si, nel drogarsi.”
 
“Ci andiamo giù pesante eh Signor Armstrong?” Rise il Giudice.
“Manca l’ultimo membro che deve parlare, forse il tuo più grande amico caro Billie. Quello che c’è sempre stato per te. Droga, fatti avanti!”
“Eccomi signor Giudice!” La Droga era tale e quale a me, solo con una voce più profonda.
La Droga era me.
La Droga era il mio peggior nemico.
Io ero il mio peggior nemico.
“Non capisco tutto questo accanimento nei confronti del mio caro amico. E’ cosi gentile con me. Usciamo tutti i giorni, mi porta a spasso, mi fa divertire insieme alla nostra cara amica Alcool. Quando è preoccupato o solo triste viene da me e io lo consolo, gli faccio dimenticare tutto, gli do il bacio della buonanotte e puff. Tutto è finito. Stiamo bene insieme. Siamo una bella coppia. Lo adoro. Sapete, credo di non essermi mai affezionata ad una persona cosi tanto.”
“Stiamo bene insieme. Siamo una bella coppia.”
“Stiamo bene insieme. Siamo una bella coppia.”
“Stiamo bene insieme. Siamo una bella coppia.”
 
“Interessante..”
“Signor Giudice sta dicendo tutte stronzate!” Fece mia madre.
“Già, Billie Joe è un gran pezzo di merda!”
“Bruciamolo!”
“Tutti ne saranno contenti!”
“Scortichiamoli le ossa!”
“Impicchiamolo!”
“Silenzio in aula per favore!”
“Mangiamogli gli organi!”
“Facciamolo marcire al sole!”
“Silenzio ho detto!”
Ora le frasi si accavallavano una ad una.
“Diamolo in pasto ai vermi!”
“BASTA! FINITELA VI PREGO! Mi dispiace! Mi dispiace tantissimo!” Gridai.
“E’ troppo tardi!”
“E’ sempre stato troppo tardi!”
“Tardi!”
“E’ tardi Billie Joe!”
“Basta!”
“Sei pazzo!”
“Finitela!”
“Uccidiamolo!”
“Finitela ho detto!”
“Tardi!”
 

 
Aprii gli occhi debolmente. Le voci si erano affievolite.
Era tutto finito.
“Fermiamo, fermiamo il tour..” Respiravo affanossamente.
Tré, Mike e Adrienne mi si erano appiccicati addosso.
 “Oh grazie al cielo si è svegliato!”  
 “S-sapevo.. sapevo che ti saresti svegliato. Non credevo saresti morto eh.” Farfugliò Mike.
“Invece si, lo ha sempre detto. Ed ha anche pianto.” Rise Tré.
“Va bene basta con i convenevoli. Domani sera avete un altro concerto e guai a te cazzo se ti droghi di nuovo prima di andare sul palco.” Mormorò Fleishmann come se non fosse successo niente.
“Ha detto di fermare il tour idiota.” Mike provò a dirlo con il tono più pagato possibile, ma le parole risultarono velenose.
“Devo ancora rispiegarti cosa succede se lo fermate? Devo farti un disegnino?”
“Billie vuoi fermare il tour giusto?”
“Si..” Dissi, anche se ancora capivo poco.
“Bene, lo fermeremo. Qualche ora fa qualche individuo aveva detto che non potevamo andare contro la volontà di Billie.” Mike sorrise furbescamente.
Fleishmann sospirò.
“Va bene.” Pronunciò a denti stretti.
Adrienne mi abbracciò improvvisamente e mi strinse a sé. La sentii singhiozzare. Le presi la faccia e la portai sul mio petto dolcemente.
Rise nervosamente.
“Mi manchi tanto sai.” Sussurrò.
“Anche a me manca quella parte di me stesso.”
Pausa.
“Adrienne …?”
“Mh?”
“Tu mi odi?”
Altra pausa.
Ho provato ad odiarti. Ho provato ad odiarti quando tornavi a casa ubriaco, quando mi gridavi contro, quando stavi quasi per uccidere accidentalmente il bambino, quando mi avevi detto che si, la droga l’avresti lasciata in quel cassetto ma poi te la sei ripresa appena mi sono distratta un attimo, quando mi hai mandata a fanculo almeno un centinaio di volte, quando volevi avere ragione sempre tu, quando non c’eri mai e io vivevo solo del tuo profumo impregnato nel cuscino. Ho provato. Ma non ci sono riuscita. Perché? Perché ti amo. Ti amo. E io certe volte non lo vorrei, ma non possono farci niente. Io ti amo. Ti seguirò dovunque tu vada è chiaro? Ti aiuterò ad uscire dal tunnel, chiamerò i soccorsi, oppure mi addentrerò io stessa ad aiutarti. Nel buio di quel tunnel però, tu saprai sempre dove trovarmi. Basta che tu senta il battito del mio cuore fuori tempo, che batte per te. E io sentirò il tuo. Non abbiamo bisogno di luce per trovarci. La luce è dentro di noi, è custodita dentro di noi. Devi solo farla uscire. La luce è oscurata dalla droga. Sposta quella boccetta dal sole. Ora cosa vedi? Ora vedi la luce. Ora butta quella boccetta nella spazzatura. Cosa vedi? La vita. La vita, il dono più bello che Dio ci ha donato. Tu non sei l’uomo ubriaco e scorbutico che ho sposato. Anche tu sei luce. Io vedo oltre l’apparenza, quella carne, quelle ossa marce. Vedo dentro te stesso e so che non tu non sei questa merda. Tu non sei merda. Sei la luce che mi fa andare avanti. Ce la possiamo fare. Ce la puoi fare. Puoi uscire dalla dipendenza. So che non è per niente semplice, nulla è semplice qui. Non farlo per tua madre, per tuo padre, per Tré, Mike, me o te stesso. Farlo per la tua luce che continua a brillare. Brilla intensamente. E io ci sarò sempre. Anche quando tornerai a casa ubriaco,quando mi manderai ancora una volta a fanculo, quando vorrai avere ragione sempre tu, quando continuerai ad avere attacchi omicidi nei confronti del bambino, anche quando mi dirai che sono la tua anima, che mi proteggerai, anche quando mi bacerai sul collo, anche quando mi dirai che mi ami, anche quando, in una giornata uggiosa, mi siederò davanti alla tua tomba a fissarla e a piangere come il cielo, anche quando sarai l’uomo più stronzo del pianeta. Io ci sarò. E dopo tanti anni la tua luce, nonostante tutto, continuerà a brillare, alimentato dal nostro amore. No, io non ti odio. Io forse neanche ti amo. Perché ciò che provo per te va oltre l’amore.
Sorrisi.
Sorrisi come mai non avevo fatto negli ultimi mesi.
Sorrisi come non avevo mai fatto in vita mia.
So, Tear down The Wall.

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Capitolo 17
*** A cigarettes and a peculiar name. ***


Berkeley,1996.

Arrancai faticosamente verso il ciglio della strada, trascinandomi con le ultime forze rimanenti.
Provai ad ottenere un passaggio, ma nessuno sembrava fottutamente degnarmi di uno sguardo. Sospirai esausto e mi lasciai cadere sul muro unto e contornato di scritte.
Non ero in grado di camminare da solo verso casa.
 Perché avevo bevuto.
Ancora.
Il pozzo che inebria il senso di colpa.
Proprio quello.
E succedeva ogni volta. Era un ciclo che si ripeteva continuamente, ossessivamente, senza lasciarmi gridare.
Monotonia.
La monotonia è la nostra vita.
Ognuno si lamenta del proprio paese, ma non fa assolutamente un cazzo per cambiarlo. Il ciclo cosi si ripete.
Sempre.
Soddisfatti sempre della solita vecchia MERDA.
Tutto il tempo.
Tutto il tempo, tutto il tempo avevo bisogno di quel caldo piacere che mi inebriava la bocca e i sensi: l’alcool.
La droga era dimenticata.
L’alcool no.
E sarebbe stata ancora un’altra litigata con Adrienne. Nuovamente fottuto senza un bacio e trascinato nel fango.
Non ero riuscito a riprendermi completamente. Sballottato da una parte all’altra, confuso, stanco.
La pietra della preoccupazione è diventata polvere, ma non è sparita.
Provavo ad urlare, ma nessuno sembrava sentirmi.
E’ strano.
E’ cosi fottutamente strano.
Ero un giovane con tanti progetti ad ambizioni che ora sono finiti dritti nel cesso insieme a me.
Ora ero diventato soltanto uno dei tanti scorbutici vecchi di merda.
Non avevo voglia di fare sesso.
Ero sempre maleducato.
I bambini rompevano i coglioni.
Apatia.
Indifferenza.
Rassegnazione.
Gioventù bruciata
.
Il mondo mi doveva delle scuse, quindi fanculo.
Non c’era niente di giusto in me, il mondo mi aveva modellato in questo modo.
Odiavo tutto.
Odiavo me stesso.
La mia pancia ingrassava e io mi decomponevo.
Sbagliato, era tutto sbagliato. Ma non potevo farci niente.
Non ho mai saputo fare niente.
Ero un completo disastro.
Billie Joe Wrong, suona bene cazzo.
Mi rialzai e buttai la bottiglia di birra ormai vuota, dirigendomi verso casa, per quando le mie condizioni potessero permettermelo.
Camminavo da solo. Non in senso letterale.
Completamente da solo.
Da solo, sul ciglio della strada. Senza che nessuno mi proteggesse, mi prendesse per mano e mi condusse dall’altra parte.
Ed era colpa mia. Io li avevo allontanati da me.
Incontravo Mike e Tré soltanto una volta alla settimana per discutere del nuovo materiale.
Credevano che tutto era apposto.
Ma non lo è mai stato.
A volte avrei dovuto chiedere scusa, prima di tutto a me stesso, perché loro non erano nella mia testa e non potevano conoscere cosa cazzo provavo.
Ma io ne ero a conoscenza?
A volte dovevo ammettere che non ero a posto, ma non ci riuscivo.
A volte avrei fatto meglio a chiudere la mia merda di bocca.
E a volte avevo l’impressione sempre di camminare da solo.
Non socializzavo mai con nessuno. Avevo un groppo in gola quando sentivo che Mike usciva con un altro tipo.
E io non c’ero.
Vivevo solo nei miei pensieri.
Vivevo solo in una bottiglia di birra.
Provavo a stringere gli occhi per vedere, chi, cosa ci fosse oltre quel cortile.
Era una faccia familiare?
Troppo ubriaco per capirlo.
Troppo ubriaco per capire che a mano a mano i miei amici svanivano dalla mia vita.
 
Ritornai a casa.
Adrienne non c’era.
Si era portata con sé Joseph e Jacob.
Sospirai contento. Per fortuna non mi avrebbe visto in quello stato.
Mi stesi sul divano cercando di dormire, ma la testa mi pulsava di troppi pensieri.
Avevo bisogno soltanto di un’altra birra.
Solo una.
Ma non devi.
Ma ne ho bisogno.
Per risparmiare i miei monologhi interiori, mi alzai rapidamente dirigendomi verso lo scantinato, era li che Adrienne custodiva l’alcool. Non sapeva che io fossi a conoscenza del nascondiglio.
Feci per stappare la bottiglia ma inciampai su uno scatolone rovinosamente, imprecando.
Lo scatolone era pieno di foto alla rinfusa, testi di canzoni e tante altre cose ingarbugliate.
Tanti ricordi, tanti momenti impercettibili erano custoditi li.
Presi una foto rovinata a caso e sorrisi istintivamente. Raffigurava me e Mike da bambini al mare, probabilmente l’unica volta in cui fossi mai andato. Eravamo abbracciati in modo impacciato tutti e due, con sorrisi beffardi e il viso per metà coperto dal sole.
Decisi che quel pomeriggio l’avrei passato a cercare altre foto e a divincolarmi nei miei polverosi ricordi.
Cercai sul fondo della scatola altre cianfrusaglie e mi ritrovai in mano quello che sembrava un testo di una canzone.
Mi brillarono gli occhi alla vista di quel nome.
Di quel nome magico e misterioso.
Cominciai a ricordare.
Improvvisamente.
Come un sogno quasi dolce.

 
Berkeley,1992.
Merda.
Una merda totale.
Ecco cosa stava succedendo.
La vigilia del mio compleanno. Dovrei essere felice. Ma non so di cosa sia fatta la felicità.
E’ un piacere intenso? Meraviglioso?
Ma cosa importa.
Non può importarmene più di tanto, la felicità va sempre a farsi fottere.
Adrienne, l’unica che poteva lenire il mio inconsueto dolore, non c’era.
Non c’era.
Ogni giorno della mia vita lei non c’era.
Erano passati chissà quanti mesi.
E lei ancora non c’era.
La felicità non c’era.
Entrai distrattamente in un bar, sedendomi su uno sgabello rovinato e ordinando una birra qualunque.
Solo quando la bottiglia raggiunse la metà, mi accorsi che una figura distinta era sull’altro sgabello a fianco a me.
Si girò.
Aveva la carnagione chiara, gli occhi grigi a mandorla e la bocca sottile. Fumava una sigaretta, nonostante nel locale fosse proibito, nessuno tuttavia sembrava accorgersene.
Mi salutò con un cenno e io ricambiai con noncuranza, accennando un sorriso.
“Come va?” Mormorò improvvisamente.
“Va come va la vita.” Risposi rassegnato.
“Già.”
Silenzio.
“E come va la vita a te?”Continuò.
Alzai le spalle, un po’ sorpreso da quell’affermazione. Raccontare i miei problemi ad una perfetta sconosciuta era effettivamente una cosa strana, ma a pensarci non avevo nient’altro da fare.
“E’ la vigilia del mio compleanno e la ragazza che amo è lontana mille miglia da qui. E lei non sa cosa provo nei suoi confronti. Tutto bene insomma.”
“Sei molto fortunato quindi.”
“Sei sarcastica spero.”
“Trovo che il sarcasmo sia una cosa da stupidi.”
Le rivolsi uno sguardo d’incertezza.
“Si, secondo me sei fortunato. Tu sai amare.”
“Credo sia più che altro un difetto, non un pregio.”
“Chiamalo come vuoi, ma io non so amare.”
Stavo cominciando ad diventare sempre più confuso seguendo la conversazione.
“E … per quale motivo non sai amare?”
“Non so. Credo sia dovuta a quella cosa li. Com’è che si chiama? Apatia. Ma sinceramente non m’interessa.”
Sospirò.
“Qual è il tuo nome?” Fece, cercando di cambiare discorso.
“Billie Joe.”
“Carino.”
“Sembra un nome di femmina.”
“Lo è.”
“Sei divertente come un cactus nel culo.”
“Non sono divertente.”
“Il tuo nome invece?”
Sorrise.
Spense la sigaretta.
Haushinka”. Sussurrò.
In quell’istante sapevo che quel nome me lo sarei ricordato per il resto della mia vita.
Quel nome particolare, meraviglioso,affascinante. Era tutto, era intriso di mistero.
Era meraviglioso.
“Billie Joe, sei qui?”
Mi risvegliai dal torpore che si era impossessato di me.
Annuii.
Sorrise di nuovo.
I suoi sorrisi caldi mi ricordavano quelli di Adrienne.
“Bello il tuo nome, dico sul serio.”
Sembrò ignorarmi.
“Sei triste?”
Rimasi interdetto.
“Sei triste Billie Joe?” Ripeté.
Nessuno mi aveva mai posto una domanda del genere.
“Si..”
“Non puoi esserlo. Non puoi essere triste della tua vita. Ama ciò che ti rende felice, ma non la tua felicità. Mettiamola cosi: la felicità è un modo di vedere la vita. Se non sei felice sei cieco. E rialzati. Rialzati da quel mucchio di merda che hai addosso è chiaro? E prova a guardare cioè che ti circonda. Non è un bello spettacolo, lo so. Allora prova a vedere ciò che hai dentro. E’ li la risposta.”
Silenzio.
“Non so da dove mi sia uscita questa cosa, l’avrò rubato a qualche poeta probabilmente. Non è da me, sul serio. Sono solo la solita ragazza apatica odiata da tutti se questo che vuoi sapere.” Rise.
Non riuscivo a formulare niente.
Guardò l’orologio con la coda dell’occhio. Si alzò dallo sgabello.
“Bhè addio.”
“Addio?”
“Non credo che ci rivedremo.”
“Sarai sempre nei miei ricordi.” Mormorai senza saperlo.
Sorrise ancora una volta.
“Devo andare.”
“Dove?”
“Devo prendere la mia strada.”
“Quale strada?”
“Chi lo sa.”
“Secondo te la tua strada potrà mai ricondurti a me?”
“Le strade cambiano continuamente nome e direzione non credi?”
Detto ciò prese la sua borsa e si avviò verso l’uscita.
“Ti aspetterò sempre Haushinka, sappilo.”
Si girò verso di me.
“Riguardati. E non essere triste.”
Uscii.
E di lei mi rimasero solo i ricordi e una sigaretta spenta.

 
Haushinka.
Il suo nome continuava a rimbombarmi in testa.
Le sue parole continuavano a rimbombarmi in testa.
Portai il foglio in soggiorno e ci feci rapidamente una base per la canzone.
Quel flash back mi aveva reso incredibilmente felice senza un particolare motivo.
A distanza di anni la stavo ancora aspettando.
E l’avrei aspettata, per il resto della mia vita.
La sto aspettando.
La sto aspettando ancora.





Allora ciao (?). Ho aggiornato in ritardo si, a causa dei vari stramalefottutissimi impegni.(Saggi di chitarra, esami di inglese e ovviamente compiti che aumentano alla fine dell'anno per scassare le ovaie le scatole).Forse anche per il prossimo capitolo sarà la stessa cosa, non so.
Anyway, questo qui non credo sia uscito un granché, o almeno non come lo volevo io. Il dialogo tra Haushinka e Biggei mi sembra un pò stupido (D:).
Come forse avrete notato (o non l'ha notato nessuno lel) non sto più aggiornando la mia altra storia (Little Boy Named Train) perché voglio concentrarmi principalmente su questa. Ma tranquilli (probabilmente parlo da sola :'D) non la lascerò cosi e la continuerò in seguito.
Nient'altro da aggiungere, spero come al solito in una piccola recensione delirante.
Rage, lelly kelly, posaceneri,porte e love a tutti.

No one Knows.
































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