Ancient voices

di Ceci Princessofbooks
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Orazio - Aere Perennius ***
Capitolo 2: *** Cesare - Il Giovane Falco ***
Capitolo 3: *** Cicerone - Il suo silenzio ***



Capitolo 1
*** Orazio - Aere Perennius ***


 

Aere Perennius- Più duraturo del bronzo

 

 

Era cresciuto sulla riva del fiume, sotto l'oro scarno del loro sole.
Aveva mosso i suoi primi passi sulle spiagge brune e roventi delle conche, e giocato in giardini odorosi cinti di marmo; aveva cacciato lucertole tra le rocce bruciate, nel torpore denso dei pomeriggi d'estate, e rubato i frutti dai rami di fichi, gonfi di umori dorati. Aveva conosciuto le sfumature di quella terra, nel modo inconscio e inestricabile con cui riconosceva la propria mano:il blu solenne delle onde, che nella canicola era duro come il lapislazzulo; il verde prezioso e rado degli arbusti, impregnato di profumi quanto cento fiori del Nord; il rosso saggio di tramonti, della polvere, dei volti dei vecchi. Suo figlio apparteneva alla Puglia, alle fiere asprezze di Dauno, Lucio lo sapeva, e quelle distanze gli crepitavano nel sangue, gli forgiavano il volto, come era accaduto a lui e a suo padre e al padre di suo padre. Per questo, i campi obbedivano ai loro tocchi, e i loro orti traboccavano come bacili d'offerte. Certo, Lucio e la sua famiglia recavano sempre incensi all'altare dei Penati, nelle ombre fresche dell'atrio, e d'inverno, tra le luci nude del mattino, seguivano la processione di fiaccole al tempio di Giove; ma nel profondo sapeva che era stato grazie a quello, ai patti di carne e viscere stretti con gli dei oscuri che dormivano sotto i colli, che era stato tanto fortunato da diventare così ricco, ed essere ormai un signore di uomini. Al mattino, quando usciva dal cortile nel brivido azzurro dell'alba e slanciava lo sguardo sulle sue bionde distese di grano, era loro che ringraziava per la sua sorte. E per suo figlio.
In quel bambino c'erano i suoi avi, ma non solo: c'era anche una raffinatezza sottile, la grazia svelta che l'aveva incantato in sua madre, una complessità sensibile che era già impregnata di Roma, e non più del suo popolo di fango e di bronzo. Lo aveva visto nel sorriso meravigliato con cui nelle sere d'autunno ascoltava le rime dei cantori, e nella scioltezza lucente con cui intrecciava i versi nella sua mente e sulle tavolette incerate. Suo figlio era gentile e assorto, ma non si sarebbe spezzato: era giunco e spina, fringuello e falco, duplice come uno scudo, cangiante come il cielo dei marinai. E un giorno, glielo promettevano le ossa, avrebbe salvato quella terra.
Lucio avanzò lungo il sentiero, nella cadenza stordente delle cicale; tra i cespugli, la primavera esplodeva di dolci fuochi. Suo figlio era in fondo al giardino, accanto alla grande vasca di marmo che raccoglieva le piogge. L'uomo sorrise, e il nastro di denti bianchi ingentilì, come sempre, la creta austera del suo volto: stava giocando sull'orlo di pietra, con il cavallino di legno che gli aveva intagliato lui stesso, anni prima. -Buongiorno, Quinto.-.
Il bimbo ricambiò il suo sorriso, alzando il mento. I suoi occhi erano dell'azzurro luminoso e invincibile del mare e del ferro. -Buongiorno, papà.-.
-Posso sedermi un momento qui con te?- chiese Lucio.
Suo figlio si scostò, in un fruscio di piedi nudi. -Certo.-.
-Grazie.-. Si accomodò contro il bianco ventre della fontana, sollevando il mento; per un poco, nessuno parlò, ma si accontentarono di dedicarsi ognuno ai propri pensieri, godendo della reciproca compagnia. Infine Lucio aprì le palpebre, chinandosi verso Quinto. -Che cosa stai facendo?-.
Il bambino sollevò il giocattolo, scorrendo le dita sulle lucide ruote di cedro. -Gli ho fatto fare una corsa, perché lui è il cavallo più veloce di tutti. I cavalli sono belli, e sono magici: le loro criniere sono lucide come una cascata di stelle, e quando corrono somigliano alle nuvole quando rotolano e urlano nelle tempeste.-.
Suo padre si irrigidì d'improvviso, come trafitto da un lampo: era un'immagine così semplice, una combinazione così naturale di suoni e di impressioni; eppure riecheggiava con l'esattezza rotonda di una meridiana, colmandosi di tutta l'essenza di quella visione, e lui sapeva che non sarebbe mai stato in grado di immaginarla.“Così è proprio vero” pensò “Dei, su che strane strade ci guidate. Mio padre amava con le armi e con gli sguardi. Io so amare con le mani. Lui sa amare con le parole.”
Lucio congiunse le dita, guardando il cielo sgombro oltre il muro, il volo di un uccello, i rami aggrovigliati e amari dei melograni, e la sua convinzione, l'intuizione che l'aveva percosso quella mattina, avvampò come una fiamma. Era una pazzia, affidarsi tanto ad un germe di certezza, ad un riflesso di ispirazione; un azzardo, credere ad un futuro scorto in un barbaglio. Ma era così che i suoi avi avevano scelto la loro casa, e sepolto i semi da cui erano sorti gli ori fecondi dei suoi campi. Aveva preso una decisione, e non si sarebbe voltato indietro.-Ascoltami, Quinto: un giorno tu lascerai questa terra, e andrai a Roma, nella città che è ricca come un tempio e immensa come il mare. Andrai là, tra le statue vive e i portici mai deserti, e qualunque uomo diventerai, so che non me ne dovrò mai vergognare.-.
Il viso sotto di lui balzò verso l'alto, un tremito d'allarme nello sguardo. -Ma io non voglio andare via, papà. Io voglio stare qui, con te e la mamma e i campi e l'estate.-.
-Credevo che ti piacesse l'idea di studiare con i maestri e imparare la filosofia, e i segreti degli uomini che parlano nei fori. E poi, in ogni caso non accadrà fino a quando non sarai cresciuto.-. Il tono era asciutto, ma le dita callose di Lucio accarezzarono per un momento i boccoli cupi del figlio.
Il bimbo si agitò, combattuto. -Sì, ma...- si raggomitolò sul selciato, arricciando stizzosamente le labbra -Non voglio che il tempo passi.
-Ma il tempo deve trascorrere, figlio mio: altrimenti nulla potrebbe nascere, nessuno potrebbe diventare grande e forte. Tutte le cose passano, e mutano, e si trasformano, come gli alberi e i germogli muoiono e ritornano ogni anno.-.
-Ma mi fa paura- mormorò Orazio- perché significa che non potrò più stare con voi, o sentire l'odore della terra dopo la brina, o giocare nella corrente mentre le balie lavano i panni. Come faccio a non pensare che sia una cosa cattiva? Perché non devo volerlo fermare?-.
Lucio si voltò verso il giardino, spingendo lo sguardo fino alle aiuole, dove le api ronzavano di fronte alle carni ramate degli affreschi. Il bimbo continuò a fissarlo, stringendo il suo cavallo di legno, il viso tondo e attento. -Tutto scorre, Quinto, e non lo puoi, anzi non lo devi fermare. Il tempo è come il fiume: se tenti di arginarlo, di impedirgli di scorrere, le sue acque diventeranno fredde e rancide, e le tue mani saranno ruvide di graffi e di freddo. Puoi solo lasciare che ti scivoli tra le dita, bevendo fino in fondo della sua dolcezza, e sperando che non debba affrontare cascate troppo ripide.-
Orazio chinò il capo, riflettendo; poi sollevò d'improvviso il volto, come se avesse raggiunto una decisione, e fissò il padre con il coraggio tenace dei suoi antenati:-E non c'è un modo per proteggere le cose che amiamo? Per impedirgli di trascinare via tutto?-.
-Sì, un modo c'è. E penso che tu lo conosca già.-.Lucio cominciò a raccontare: -Alcuni uomini, in altri tempi, in altre terre, sono riusciti a creare versi talmente belli e talmente preziosi da vivere ancora nei nostri ricordi, e con loro imperi dimenticati dalle sabbie, profumi perduti da secoli, volti ingoiati dalla nebbia. Con le loro parole, quegli uomini hanno salvato i loro mondi.-. La sua mano scura si posò di nuovo sulla testa del figlio, solenne e salda come il fregio di un sacerdote antico. -E credo che tu sia uno di loro.-.
Un sorriso si schiuse sul volto di Quinto, impastato di stupore e di orgoglio. -Davvero lo pensi? Davvero pensi che possa riuscirci?-
-Sai che non ti dico mai nulla di cui non sia davvero convinto.-.
-Allora lo farò, papà.- annuì con forza, le guance rosse di timore, di piacere, di trionfo.-Inventerò dei versi su di te e sull'inverno e sul fiume, e saranno talmente belli che nessuno potrà dimenticarvi.-.
Lucio annuì a sua volta, senza distogliere lo sguardo. -Non ne dubito.-
Si appoggiò nuovamente alla vasca, in silenzio; sentiva, lontano, il ruggito benevolo del fiume, nell'aria bruciata. Una sensazione di pienezza, di quiete smisurata, gli dilagò sotto la pelle, dilatandosi dalla radice del suo essere come un lago d'acque bianche, come se avesse obbedito a un compito inscritto nelle sue vene nel buio prima del tempo, come se avesse inciso un solco, ancora impalpabile, sul grande volto sacro del mondo.
Ora doveva solo confidare. Confidare in quella speranza appena intravista, nelle parole che aveva pronunciato, confidare nell'azzurro degli occhi di suo figlio. Perché in quello sguardo c'erano armonie che non si erano ancora tessute in nessun mosaico, scintille che non avevano ancora acceso il buio di alcun cielo. E forse, finché avesse potuto intrecciare il mondo nelle sue parole, l'Ofanto non avrebbe mai smesso di scorrere.

 

Dicar, qua violens obstrepit Aufidus

et qua pauper aquae Daunus agrestium

regnavit populorum, ex humili potens

princeps Aeolium carmen ad Italos

deduxisse modos. 

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Capitolo 2
*** Cesare - Il Giovane Falco ***


Il Giovane Falco


Il vecchio sedeva sotto la quercia, al limitare del bosco.
Fiaccole ardevano intorno alla radura, sussultando come spiriti d'ambra; accanto a lui, i tratti chiari e pesanti del guerriero balenavano tra le ombre, nello scintillio opaco delle armi. Come il vecchio, la sua tunica era grezza e scura, ma il girocollo di bronzo rifulgeva,un serpente di luce. Accanto a lui aspettava il suo allievo, e i suoi occhi grigi, l'impronta degli dei che il vecchio aveva riconosciuto tanti anni prima, bruciavano di eccitazione.
Il vecchio sapeva che le loro tre figure erano quanto di più diverso, di più vario e casuale potesse combinarsi: eppure non era così, non per le leggi tramate nella terra e negli alberi, non per il cuore segreto del bosco, non per quei poteri che aveva trascorso una vita ad ascoltare. Il vecchio sapeva che i loro volti, le linee stesse dei loro profili appartenevano a quel luogo, come le intricate spirali che i fabbri sbalzavano sugli scudi, intrecciando dei e uomini, eroi e fiere. Ma questa volta, un'altra figura invadeva l'incastro, una quarta figura di marmo e di lucido oro che nasceva da orli troppo diritti, sagome troppo pure per la foresta. Perché quell'uomo veniva da un mondo di orizzonti netti e bianche città, di soli nudi e drappeggi precisi. Il mondo che aveva guidato fin lì, sbaragliando le genti degli alberi e delle nebbie.
La quarta creatura avanzò verso il vecchio, il pettorale istoriato che catturava le luci dei fuochi, il naso aquilino sotto lo sguardo di limpido azzurro. Più indietro, due guardie tremavano di freddo e di disagio.
Quando si fermò di fronte a lui, il vecchio non si alzò: restò immobile, la barba nodosa e striata come corteccia, le mani magre poggiate sulle ginocchia. Molti avrebbero corso il rischio di essere fustigati, per un affronto simile; ma non lui, che conosceva i nomi nascosti degli uomini e delle rocce; non lui, che era ormai l'unico portale tra l'invasore e l'anima del suo popolo.
-Salve a te, Caomh, druido della tribù dei Dorotrigi. Ti reco i miei omaggi, e insieme quelli del popolo della grande Roma. Il mio nome è...-.
-So già qual è il tuo nome, Giovane Falco- lo interruppe il vecchio -l'ho sentito gridare da molti guerrieri atterriti, invocare da molti prigionieri disperati, sussurrare nei racconti intorno ai fuochi: il nome di un condottiero invincibile, del capo dei romani che ci hanno sconfitto.-.
A quelle parole il suo allievo sussultò, ma serrò le labbra: un druido deve essere in grado di sostenere lo sguardo della verità, anche quando è torbida e buia. L'uomo davanti a lui non sorrise, continuando a cercare il suo volto nei suoi occhi non c'era superbia, né vergogna. -Esatto, è così. Immagino dunque che tu sappia anche perché abbiamo combinato questo incontro, e perché abbia chiesto di parlarti.-
Il vecchio socchiuse le palpebre, come se tentasse di discernere un punto lontano; per un attimo, nelle sue iridi brillarono i riflessi di altri fuochi. -Sì, lo so. I tuoi messi sono arrivati stamani, e i miei esploratori ieri notte. Mi hanno detto che il giovane falco aveva vinto, ma aveva impedito il saccheggio del villaggio; mi hanno detto che il capo era stato catturato, ma che se avessimo accettato due condizioni i nostri dei e le nostre case sarebbero state risparmiate. La prima condizione era che cedessimo gli ostaggi e accettassimo il dominio della tua Roma- il druido sollevò lentamente il viso -la seconda, che io ti rivelassi i segreti della nostra saggezza.-
Il giovane uomo si infiammò improvvisamente; il volto di sale e argento, imperscrutabile come una maschera dei loro teatri, si animò, rivelando i piani nervosi e pallidi di un giovane predatore. -Esatto, vecchio. Ho piegato la testa dei vostri signori, ho svelato gli inganni dei vostri strateghi, ho riempito i carri dei vostri tesori; ma nessuno, né soldato né donna né guerriero, ha saputo portarmi la vostra conoscenza.-
Il vecchio si chinò, i lunghi capelli che biancheggiavano nel buio:-E sai che noi non abbiamo pergamene con cui sigillare le nostre parole, né templi in cui imprigionare i nostri riti; né inchiostri con cui incatenare i nostri spiriti.-
Il comandante rise, una risata acuminata e lucente come i suoi occhi:-Allora i miei generali sbagliavano: non siete i bifolchi illetterati che mi avevano descritto.-
-Conosco i rotoli sottili e le bianche arcate della vostra Alessandria- rispose il druido -ho visto i corridoi straripanti del vostro museo, e salito i gradini assolati del vostro Campidoglio; ho conosciuto i canti dei vostri sacerdoti, e i passi silenziosi delle vostre vestali.-
Il comandante sorrise, sedendosi di fronte al vecchio, le gambe incrociate: -Quando hai ammirato i tesori del nostro popolo? Credevo che nessuno della tua gente si fosse mai spinto tanto a Sud.-
Il vecchio sollevò il mento, e il suo volto fu per istante un intrico di linee antiche, solenne e vivo come l'albero che lo sosteneva:-Vi sono altri modi di vedere che con gli occhi, Giovane Falco.-
-è per questo che sono venuto da te- proseguì l'altro – proprio per questi enigmi con cui il tuo popolo tormenta il mio- si tese in avanti, lo sguardo limpido ricolmo delle torce -ho sentito storie oscure, storie incredibili: voci di feste di fiamma e di vento, in cui mandrie bianche saltano muggendo tra i fuochi, di danze segrete con creature dalle ali dorate, di raduni di saggi all'ombra di pietre immani. Voci di una saggezza che non somiglia alla nostra, né alla magia volgare dei caldei, ma che viene sussurrata agli eletti dalle querce e dagli ontani.-
Il vecchio rimase per un momento in silenzio. -Sei attento, Giovane Falco- cominciò -e sai osservare con più umiltà dei tuoi compagni, con più superbia dei nostri capi. Ma se hai già scoperto tanto, perché hai voluto incontrare me?-
Il comandante non esitò:-Perché le voci degli uomini deformano gli eventi, e la paura intorbida quanto la dimenticanza. Ho appreso molto, ma molto, lo so, è fasullo.-
Il vecchio lo guardò:-E allora cosa vuoi da me?-.
Il romano sorrise di nuovo, e il suo volto fu il muso di un lupo, di un'aquila, di un re. -La verità. Insegnami i segreti della tua gente, la sapienza di questa terra e di questo cielo, i nomi delle forze che fremono sotto i miei piedi e sussurrano nelle mie orecchie.-
Il vecchio sospirò, senza abbandonare lo sguardo del soldato; inaspettatamente, scoppiò in una risata. -Così è vero- mormorò, più a se stesso che agli altri – così è questo il modo in cui si compie. Oh, Cerridwen dalla triplice luna, l'avevi predetto...-
-Chi?- intervenne il comandante.
Il vecchi scosse la testa, cambiando i bagliori, confondendo le ombre:-Uno spirito, un respiro, una dea. Mi aveva predetto che un giovane falco sarebbe giunto dal Sud e avrebbe incatenato le nostre mani, ma salvato la nostra sapienza.-
Il comandante si tese in avanti, le dita che si contraevano sulle ginocchia:-Allora lasciami avere ciò che voglio. Fallo, e ne sarai ricompensato.
-Come?- ribatté il vecchio.
Lo sguardo di fronte a lui non vacillò:-Con la fama, druido. Se affiderai a me il tuo sapere, non morirà mai. Le tue parole saranno eterne, come il marmo e il bronzo della mia gente, e continueranno a vivere anche quando il tuo corpo non sarà che terra e radici e i tuoi boschi si saranno consumati in cenere. Con me, il mondo non dimenticherà mai il vostro passaggio.-
Per qualche attimo, il vecchio non parlò; poi scoppiò in una nuova risata, un breve riso di foglie e torrenti -Giovane Falco, ti pongo una domanda: sei davvero convinto che il mio popolo non conosca il modo di dare l'eternità ai nostri pensieri, i segni con cui si imprigionano le parole sulle pelli e le rocce?-.
Il romano si irrigidì, e un fremito, il fantasma del ragazzo orgoglioso e acuto che doveva essere stato, gli illividì il viso; poi comprese, e i suoi occhi tornarono semplicemente curiosi. -Dunque è così. Sapete scrivere.-.
-Non tutti- rispose il vecchio – non nel modo che immagini. Soprattutto, per nel modo in cui le usate voi. Per noi le parole sono anche alberi, e forze arcane e frammenti di dei, incisi nella nostra anima come la linfa segreta di una quercia.-
-Ma allora perché non ne avete approfittato?- chiese il comandante -perché non avete raccolto in qualche modo il vostro sapere?-.
-Il vecchio scrollò ancora il capo:-Tenterò di spiegartelo, Giovane Falco, perché le voci del bosco mi hanno detto che saranno le tue ali ad adombrare e sorvegliare il mondo: non abbiamo mai scritto, perché per noi quei segni sono fessure su mondi dimenticati, preghiere a spiriti intrecciati alla terra, armi che racchiudono il potere del fuoco e del mare. Strumenti meravigliosi e terribili, tanto da non avere il coraggio di usarli.-
-Ma perché non usarle per salvare la vostra conoscenza?- replicò il romano -Perché non usarle per vincerci, se racchiudono tanta forza?-
-Perché significherebbe stravolgere la grande danza del mondo- rispose il vecchio- mutare lo scorrere delle spire del serpente: non dobbiamo alterare la spirale del tempo, ma custodirla, anche se non ci è più benevola; anche se ci inghiottirà tra le sue nebbie.-
-E il vostro sapere? Non vi tormenta il fatto che morirà con voi?-
-Il mondo e le sue leggi non sono davvero nascosti; altri popoli, altri uomini ne comprenderanno la trama, anche se le daranno nomi diversi.-
Il comandante rimase silenzioso, fissando il vecchio con il suo implacabile sguardo di rapace:-Sembra quasi che non ti importi sapere che la tua gente è stata sconfitta, che il tuo mondo è ormai in rovina, che presto qui giungeranno uomini e donne simili a me: e invaderanno i vostri sentieri, abbatteranno i vostri boschi, li riempiranno di campi e terre e templi.- Le sue parole erano dure, ma non crudeli; non c'era spazio per il compiacimento in quella curiosità, il vecchio lo sentì. Per questo rispose la verità.
-Il tempo è come l'oceano- cominciò – le sue onde smuovono creature e sabbia e conchiglie, e le sollevano fino alla schiuma, fino al bianco disco del sole; e lì brillano per un istante, splendenti come oro, e di nuovo ripiombano nelle ombre profonde del mare. Noi mortali siamo questo: schegge di luce che bruciano un momento e svaniscono in un respiro, per ritornare al prossimo ciclo, in un'altra forma, sotto un altro cielo. Ora voi correte in alto, lungo un arco di scintille, e volate sull'orlo della grandezza. Approfittatene, questo è il vostro turno nella ruota d'argento; ma non dimenticate che ciò che sale deve discendere, e ciò che è sepolto germina di nuovo.-
Improvvisamente, il vento scosse la piccola radura, portando una bruna fragranza di muschio e di bosco, infrangendosi in cento sussurri di fate.
Il comandante represse un brivido e si raccolse un poco nel mantello, contro la notte, contro gli sguardi silenti degli alberi.
-Ma se non ti importa che la tua sapienza si perda- replicò infine, quando poté fidarsi nuovamente della sua voce-Se vuoi rifiutare la mia offerta, perché hai accettato di vedermi?-.
-Io non ho mai detto di voler rifiutare il tuo accordo- replicò il vecchio; per qualche motivo, come per lo schiudersi di una crisalide, mentre parlavano la sua figura era diventata più levigata, più antica, più simile alla grande quercia alle sue spalle. E ora irradiava forza, e potere.
Il comandante serrò le labbra. -Allora cosa stai proponendo, Caomh, druido dei Durotrigi?-.
-Un altro patto, Giovane Falco- replicò il vecchio -un altro scambio. Io ti darò la conoscenza che desideri: ti rivelerò le voci dei boschi e delle fonti, la lingua nascosta delle pietre, le danze vertiginose delle stelle e degli astri; ti donerò tutti i frammenti di sapienza che in tanti anni, più di quanti siano di solito concessi agli uomini, ho raccolto lungo il mio cammino. Ma in cambio, tu non dovrai farne parola con nessuno, né riportarlo sui rotoli, né inciderlo sulla roccia- si tese in avanti, la voce profonda e netta come un sole d'autunno -dovrai serbarli nella tua memoria: lasciare che le mie parole ti affondino nel sangue e ti cambino lo spirito, perché tra noi ciò che si impara deve imprimersi nella carne, e mutare anche l'anima; è troppo facile altrimenti giudicare e scegliere ciò che si scopre, se sfiora solo i nostri occhi scivolando su una pergamena.-
Il comandante socchiuse le palpebre: -Perché mi offri tutto questo? Perché concedere solo a me questo dono? Se non parlerò, i miei compagni e la mia gente continueranno a considerarvi dei rozzi cialtroni, poco più che bestie selvatiche.-
Il vecchio scosse di nuovo la testa candida, e un'espressione indefinibile, sospesa tra il sorriso e il pianto, tremò sul suo viso:-Ciò che sappiamo è troppo pericoloso per un intero popolo, e non tutti saprebbero mescolare la propria mente con visioni tanto differenti e tanto lontane. Ma tu sei abbastanza forte e abbastanza fiero da riuscirvi; e sebbene tu stesso non lo sappia, ormai cammini da tempo sull'arco d'oro della grandezza. In te vedo molte cose, Giovane Falco: molte vite, molte morti, molti destini; tante tenebre gelide, tanti giorni fulgidi. I miei dei mi hanno dischiuso il futuro perché io potessi riconoscerti; e forse darti un sentiero con cui affrontare la tua trama difficile-.
Il comandante si protese a sua volta, cercando lo sguardo del vecchio; per un attimo, vi scorse riflessi di altre esistenze, di altri futuri: un uomo grande e biondo incatenato ad un carro d'oro gli occhi di una donna dalla pelle d'ambra e la bocca ambiziosa; il porpora di un mantello e di cento pugnali insanguinati. Il soldato si ritrasse, batté per un momento le palpebre; bastò perché quelle visioni svanissero, e non rimanesse che il chiaro argento degli occhi del vecchio. -Che cosa sai davvero, druido?- sussurrò a quel volto di corteccia, ai suoi compagni immobili, alla notte barbara racchiusa su di loro.
-Solo schegge gettate dagli dei- rispose – ma diverse da quelle che hanno raccolto i tuoi antenati-.
-E saresti disposto a rivelarmele- chiese il romano.
Il vecchio non abbassò il volto:-Se giuri su ciò che per te è davvero sacro che non ne parlerai con altri, allora sì. Non sono io a poter negare le briglie a chi ora cavalca la ruota d'argento.-
Il comandante restò in silenzio, con l'espressione di guardinga eccitazione con cui attendeva l'inizio di una battaglia, o di una partita d'azzardo; poi sorrise, e lanciò i suoi dadi. -D'accordo, druido. Accetto la tua proposta.-
Il vecchio chinò il capo; senza rumore, col passo agile degli animali della foresta, il guerriero e il suo apprendista scomparvero fra le ombre degli alberi. Con un gesto, il romano congedò anche la sua scorta.
Nessuno conobbe le parole che si scambiarono, alla luce inquieta delle fiaccole, il vecchio del popolo antico e il giovane falco dei conquistatori; si sa solo che molti segreti vennero svelati, molte forze risvegliate, molti spiriti invocati dalla terra e dalle stelle del cielo; fino a quando la luce del Nord tinse di rosso e pallido oro la radura, e il comandante si alzò per tornare al suo campo, perfettamente identico alla sera trascorsa, incommensurabilmente diverso. Di lì a pochi mesi, avrebbe sottomesso alla propria patria tutta la Gallia, e ne avrebbe abbattuto il campione; di lì a pochi anni, avrebbe annientato i suoi nemici, e sarebbe divenuto il signore di Roma. Mentre lo osservava allontanarsi, il vecchio ripensò al suo nome.
Giulio Cesare.
Lentamente, il serpente del tempo si mosse.

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Capitolo 3
*** Cicerone - Il suo silenzio ***


 

Il suo silenzio

 

Erano pochi coloro che conoscevano il silenzio di Cicerone.

Tutta Roma riecheggiava dei suoi discorsi, ogni foro rigurgitava dei suoi periodi, qualunque schiavo o fantesca o liberto era stato almeno una volta avvinto dall'incanto di marmo e sole delle sue parole: nessun senatore, nessun servitore non conosceva il timbro coraggioso e fermo della sua voce. Ma non a tutti era concesso il privilegio del suo silenzio: non a sua moglie, dai cui sguardi doveva proteggersi con scudi di sillabe e arringhe; non a Ottaviano, e al sorriso di quegli occhi troppo giovani e troppo imbrattati di tempo. il silenzio era un piacere, un segreto sollievo che si permetteva solo con Attico, il suo segretario, il suo migliore amico, l'uomo che lo aveva visto godere nel fremito di cento applausi, e straziarsi di lacrime e di rimorsi: perché di fronte a lui, lo sapeva, le sue vesti opulente di metafore non avrebbero nascosto il corpo nudo che le aveva intessute, né l'anima profonda e vulnerabile che vi si celava. Ma non era, in verità, davvero l'unico che condividesse quel raro dono: un'altra creatura sapeva debellare le sue armate di similitudini e chiasmi, e scioglierle con accortezza, con pazienza, fino a rivelare i graffi e i dolori che proteggevano, come bende attorno a una ferita. E questa era sua figlia Tullia.

Marco Tullio si era a lungo interrogato sul perché quella bimba dai grandi occhi castani e pensosi lo dispensasse dal accendere l'aria con le sue arringhe, e sembrasse riempirla con la sola luce dei suoi sorrisi;sul perché i pomeriggi trascorsi nel verde quieto e frusciante del portico, seduto nella sua sedia preferita, mentre Tullia filava in silenzio, fossero tra i ricordi più cari e più vividi che potesse riportare alla memoria; o sul perché bastasse la risata rara e sincera di sua figlia, o le sue mani accorte nel preparare l'altare dei Penati, per smussare gli orli della sua vita, e sbiadire anche il sorriso senza pace e senza pietà di Catilina. E la risposta che aveva trovato era al tempo stesso la più scontata e la più stupefacente. Semplicemente, con lei Cicerone non doveva essere un severo censore, un fiammeggiante accusatore, un sottile difensore o un giudice implacabile, ma solo un padre, e cioè un uomo che ama al di là di ogni cesellata orazione. Il legame che lo allacciava a sua figlia, quell'intesa frammischiata di sguardi segreti e carezze discrete, somigliava al grande ulivo che sorgeva al centro del suo giardino: muto e saldo, non sfavillava di gemme e ori, ma le sue radici erano più profonde e più complesse di qualsiasi gioiello, e più forti della terra stessa. Sua moglie osservava sempre ridendo che gli dei avevano dipinto lui e sua figlia con le stesse sfumature: il bruno vivo e mobile degli occhi, i tratti incisi in una pallida argilla, i riccioli scomposti e liberi color del castagno; e simili erano anche, segretamente, le tinte dei loro spiriti. Tullia era una fanciulla gentile e pudica: la sua dolcezza era però il frutto di una saggezza preziosa, non di un animo sprovveduto, e nei suoi sguardi balenavano distanze vertiginose, vaste almeno quanto quelle che ogni giorno fissavano Cicerone dal suo specchio di bronzo. In lei, in quel giovane corpo di donna, rivivevano il suo acume e la sua malinconia, la sua speranza e il suo coraggio, come se Giove avesse intagliato il loro essere dalla stessa pietra difficile e cangiante. Lo vedeva nei gesti più quotidiani, nei dettagli più impercettibili: nel modo in cui splendeva il suo viso quando le riusciva una tessitura difficile, non diversamente da come riluceva il suo dopo un'orazione trionfante; nella passione impetuosa con cui difendeva gli schiavi ingiustamente accusati da sua madre; nella voce chiara e limpida con cui mormorava i canti antichi nei pigri pomeriggi d'estate. E, soprattutto, nel modo in cui era capace di scivolare dentro i suoi occhi, senza prepotenza, senza dolore, e vedere il cuore fiero e fragile da cui scaturivano i sortilegi di parole con cui stregava tutto il foro. Perché Tullia era la sua più grande gioia, e il suo più imprudente segreto.

E il pensiero di perderla, di perdere i suoi toni e i suoi agili passi di cerva, era una spina incuneata nel sangue.

Cicerone abbassò il volto, fingendo di concentrarsi sul rotolo aperto sulle sue gambe, screziato dalle ombre del giardino; ma non fu abbastanza rapido per sfuggire ad un altro sguardo.

-Padre, che cos'hai?- chiese sua figlia, con il sorriso lieve e sincero che concedeva a lui solo, le mani che danzavano sull'arcolaio. -Stai fissando quel passo da almeno mezz'ora.-.

-Oh!- borbottò Marco Tullio, aggrottando le sopracciglia -Non è niente, niente.-.

-Non sei mai stato in grado di mentirmi molto bene, padre.-.

Cicerone sollevò gli occhi, e per un attimo vide la bambina che era stata, la sua Tulliola, mentre giocava ridendo con le colombe della gabbia nel giardino, mentre si stringeva a lui di fronte ai volti severi e antichi delle statue dei fori. Quei ricordi erano tra i tasselli più splendenti e preziosi della sua esistenza, incisi nella sua mente anche a distanza di tanti anni, come le delicate volute intagliate in un capitello. -Hai ragione, non ne sono mai stato capace.- rispose con un sorriso stanco.

-Allora, cosa ti turba?- domandò Tullia, con l'espressione di impertinente trionfo che acquisiva sempre quando anticipava il suo pensiero -Non sarà forse qualcosa riguardo al mio matrimonio?-.

Marco Tullio sussultò, come quando suo padre lo coglieva a rubare le ciliegie nel loro campo: inchiodato dall'evidenza, e totalmente incapace di discolparsi. Socchiudendo un attimo le palpebre, si concesse un profondo sospiro. -Bè, penso che sarebbe piuttosto stolto negarlo, a questo punto. Stavo solo pensando a quanto sia vicino il tuo matrimonio, e a quante cose cambierà, per te, per tua madre...-la sua voce, che aveva tuonato decine di volte contro folli e assassini, si rifiutò d'improvviso di continuare senza incrinarsi.

-...E per te- completò sua figlia con pacata sicurezza; ma la stretta delle sue dita, scivolata in silenzio intorno a quella di Cicerone, era tiepida e confortante come sempre. Ricambiò quel tocco, guardando quella snella mano di fanciulla, immaginando l'istante in cui l'avrebbe guidata fino all'altare dei Penati e l'avrebbe porta ad un'altra stretta.

Scosse la testa, rivolgendo il volto al sole pomeridiano, alle scaglie di luce che piovevano tra i rami:-Oh, Tulliola, come fai a rubare le parole all'uomo che secondo tutta Roma ne è il mago?-.

-Posso farlo perché le donne osservano, padre, oltre che ascoltare; e sanno che, come nel tessere una trama, anche nella vita i gesti possono rendere una tela meravigliosa, o orribile. Semplicemente, dopo tanto tempo mi basta vederti serrare le labbra e tormentarti le mani in quel modo per sapere che qualcosa ti ha scosso: e visto che non c'è nessuna orazione da preparare a breve e non abbiamo altre preoccupazioni, ho dedotto che il problema dovesse essere il mio matrimonio.-

Questa volta la risata di Cicerone fu sincera:-Figlia mia, te lo giuro, tremerei ad averti contro in un tribunale!-.

Tullia sorrise a sua volta, senza lasciare la sua mano; un vento leggero, impregnato di primavera e di terra, le agitò le pieghe dell'ampio peplo bianco:-Sai bene che sarei sempre dalla tua parte, padre. E che lo sarò anche dopo essermi sposata.-

Si scambiarono uno sguardo, uno sguardo di memorie profumate e giornate di sole, e per Cicerone quello divenne uno dei momenti che riponeva sul cuore, come un gioiello.

-Lo so, bambina mia- sospirò -è solo che la nostra casa sarà terribilmente vuota quando te ne andrai, e temo di diventare ancor più...ecco, diciamo puntiglioso, di prima-.

Sua figlia rise, una bassa risata dorata che risuonò sotto le volte affrescate del portico:-Diciamo piuttosto che i tuoi borbottii si sentiranno da qui a Pompei. Attico sarà disperato-.

-Va bene, ti concedo questa impertinenza, signorinella- replicò Cicerone, tentando vanamente di acquisire un' espressione severa -che tempi stiamo vivendo, se anche le caste fanciulle si permettono simili libertà con il proprio padre!-

Tullia levò gli occhi chiari al cielo: -Ah, ecco che comincia l'arringa...-.

L'avvocato rise a sua volta: amava quegli scherzi, quei duelli di parole più veri e più innocenti di molti affrontati nel foro; ne traeva il piacere fresco e ingenuo di un atleta dopo una prova difficile. Si adagiò più comodamente sulla sedia, osservando tra le palpebre le danze dei passeri sul vecchio olmo, scivolando nel tempo lento e scandito dell'arcolaio di Tullia; e ancora una volta, il silenzio con lei non fu un peso, ma una ricompensa segreta. E in quello stesso istante, Cicerone ne capì il motivo.

La ragione non era la confidenza, né l'affetto, né la tranquillità della casa: era sua figlia stessa. Era lei a colmare quei silenzi di ricordi e di speranze, di tutti i sogni e le mete che si sprigionavano dalla sua bellezza di donna discreta e dai suoi occhi di giovane uomo ambizioso; perché se lui possedeva il dono di intarsiare il silenzio di parole, lei aveva ricevuto quello di intesserlo di luci e di vita, con la pazienza con cui intrecciava la lana dei mantelli, con la facilità con cui mormorava tra sé i ritmi di qualche carme. Lui innalzava torri lucenti e palazzi lastricati di marmo, plasmando con la sua voce il vuoto dell'aria; lei lo irradiava della sua dolcezza, e lo trasformava in gioia. E il pensiero di aver generato una creatura con un simile potere, era al contempo splendido e spaventoso.

Fu allora che sentì il brivido.

D'improvviso si tese in avanti, catturando di nuovo la mano della figlia, sorpreso lui stesso dal proprio gesto: ma per un attimo, sua figlia era divenuta un'ombra argentea, un soffio pallido sul punto di svanire di fronte a lui; e sebbene la carne sotto le sue dita fosse calda, un gelo che non voleva riconoscerò sussurrò ancora un momento nel suo sangue, come un monito, come un presagio.

Tullia, la sua gentile, acuta Tullia, lo vide.

-Padre, non devi preoccuparti così, davvero: sto per sposarmi, non per andare nei Campi Elisi. Vivrò appena a qualche isolato di distanza, e tanto verrò qui ad aiutare la mamma.- ricambiò ancora la stretta, posando un lieve bacio sulle mani contratte di Cicerone -non ti lascerò davvero.-.

-Lo spero, bambina mia- sussurrò -lo spero davvero.-.

Poi Tullia cominciò a mormorare un canto, un motivo lento e leggero, mite come il cielo di primavera; e nel silenzio fiorirono le visioni del suo futuro, dei suoi desideri, della sua forza.

E Cicerone pensò che l'avrebbe preferito a qualsiasi orazione. 

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